SECONDO GIORNO
14 maggio 2010
(Mulino delle Chennevières)

Darsi del tu

4.

 

Che scocciatori, quelli dell’ospedale, con le loro scartoffie. Ammucchio come posso i moduli di diversi colori sul tavolo del salotto. Ricette, certificati di assicurazione sanitaria, di matrimonio, di residenza, risultati di analisi. Infilo il tutto in buste di carta gialla. Alcune sono per l’ospedale, ma non tutte. Andrò a pesare e spedire le buste alla posta di Vernon. Ripongo i documenti inutili in una cartellina bianca. Non ho compilato proprio tutto, ci sono cose che non ho capito, chiederò alle infermiere. Ormai mi conoscono. Ho passato lì tutto il pomeriggio di ieri e buona parte della serata.

Ero nella camera 126 a recitare la parte della quasi vedova preoccupata per il marito che sta per andarsene e ad ascoltare le parole rassicuranti di medici e infermiere, le loro bugie.

Mio marito è spacciato, lo so benissimo. Non immaginano quanto poco me ne freghi!

Basta che si sbrighi! È l’unica cosa che chiedo.

Prima di uscire vado allo specchio dorato un po’ scrostato che sta a sinistra della porta d’ingresso e mi guardo. Ho un viso grinzoso, rugoso, freddo. Morto. Mi metto una grossa sciarpa nera sui capelli raccolti. Quasi un chador. Qui le vecchie sono condannate al velo, nessuno vuole vederle. È così. Persino a Giverny. Soprattutto a Giverny, il paese della luce e dei colori. Le anziane sono condannate all’ombra, al nero, alla notte. Inutili. Invisibili. Passano. Le si dimentica.

Mi va benissimo così!

 

Mi giro un’ultima volta prima di scendere le scale del torrione. A Giverny è soprattutto così che viene chiamata la torre del mulino delle Chennevières: il torrione. Automaticamente controllo che tutto sia in ordine, e nello stesso istante maledico la mia stupidità. Nessuno viene mai qui, nessuno verrà mai più, eppure ogni minimo oggetto fuori posto mi indispettisce. Una specie di turba ossessiva del comportamento, come dicono sui giornali. Una piccola fissazione, che per giunta non dà fastidio a nessuno, a parte me.

Nell’angolo più buio c’è un particolare che mi disturba. Ho l’impressione che il quadro sia un po’ storto rispetto alla trave. Attraverso lentamente la stanza e sposto appena l’angolo in basso a destra della cornice per raddrizzarlo.

Le mie Ninfee.

In nero.

L’ho appeso in un punto in cui è invisibile da qualunque finestra, sempre che qualcuno sia in grado di sbirciare attraverso una finestra al quarto piano di una torretta normanna costruita sopra un mulino.

Il mio antro...

È appeso nell’angolo meno illuminato, un vero e proprio angolo morto. L’oscurità rende ancora più sinistre le macchie scure che scivolano sull’acqua grigia.

I fiori del lutto.

I più tristi che siano mai stati dipinti...

 

Scendo le scale a fatica. Esco. Neptune è in attesa nel cortile del mulino. Lo tengo a distanza col bastone prima che mi salti addosso: quel cane non riesce a capire che controllo sempre meno il mio equilibrio. Sto vari minuti a chiudere le tre grosse serrature, poi infilo il mazzo di chiavi nella borsa e controllo ancora una volta che ogni chiavistello sia ben bloccato.

Alla fine mi volto. Il grande ciliegio del cortile sta perdendo gli ultimi fiori. Pare che sia un ciliegio centenario. Quindi che abbia conosciuto Monet! A Giverny i ciliegi piacciono molto. Lungo il parcheggio del museo d’Arte americana, che da un anno è diventato museo dell’Impressionismo, ne hanno piantata tutta una serie. Ciliegi giapponesi, a quanto ho sentito. Sono un po’ più piccoli, tipo alberi nani. Piante esotiche che trovo un po’ fuori posto, come se non ce ne fossero già abbastanza in paese. Che ci volete fare, è così. Pare che i turisti americani adorino il rosa dei fiori di ciliegio in primavera. Se mi chiedessero come la penso direi che parcheggio e macchine ricoperte di petali rosa fa un po’ troppo, come dire, Barbie. Ma nessuno mi chiede come la penso.

Mi stringo le buste al petto perché Neptune non me le sciupi e risalgo a fatica rue du Colombier. Me la prendo comoda. Nell’ombra dell’atrio coperto d’edera di un bed & breakfast riprendo fiato. La corriera per Vernon è fra due ore, ho tutto il tempo che voglio per giocare al topolino nero.

Imbocco rue Claude-Monet. Lungo le facciate di pietra, fiori di malvarosa e iris arancioni sbucano dall’asfalto come gramigna. A Giverny è un classico. Continuo alla mia andatura da ottuagenaria. Come al solito Neptune è già parecchio avanti. Alla fine raggiungo l’hotel Baudy. I vetri dell’edificio più famoso di Giverny sono coperti da locandine di mostre, gallerie o festival. Del resto, i vetri sono esattamente della dimensione delle locandine. È strano, a pensarci. Mi sono sempre chiesta se sia una coincidenza, se adattano le dimensioni di tutte le locandine a quelle dei vetri dell’albergo o se, al contrario, l’architetto dell’hotel Baudy fosse un chiaroveggente che già nell’Ottocento, disegnandone le finestre, aveva previsto la grandezza standard dei futuri manifestini pubblicitari.

Immagino che l’enigma vi lasci indifferenti... Alcune decine di visitatori sono sulle sedie di ferro verde dei tavolini esterni, sotto ombrelloni arancioni, alla ricerca della stessa emozione provata dalla colonia di pittori americani sbarcati all’hotel Baudy più di un secolo fa. Anche questo è strano, a pensarci. Quei pittori americani del secolo scorso venivano qui, in un minuscolo paesino della Normandia, alla ricerca di calma e concentrazione. Tutto il contrario della Giverny di oggi. Mi sa che non capisco niente della Giverny di oggi.

Mi siedo a un tavolo libero e ordino un caffè. Me lo porta una cameriera nuova, una stagionale. Ha la minigonna e un piccolo gilet a motivo impressionista, con delle ninfee malva sulla schiena.

Anche portare ninfee malva sulla schiena è strano, no?

Dopo averne visto la trasformazione nel tempo, certe volte ho l’impressione che Giverny sia diventata un grande parco di divertimenti. O meglio, un parco di impressioni. Hanno inventato il concept, credo! Rimango lì a sospirare come una vecchia bisbetica che mugugna da sola e non capisce più niente di niente. Scruto la mescolanza di gente intorno a me. Una coppia di innamorati legge a quattro mani la stessa guida Michelin. Tre bambini di nemmeno cinque anni bisticciano nella ghiaia, e probabilmente i genitori stanno pensando che starebbero molto meglio sul bordo di una piscina che non in riva a uno stagno da ranocchie. Un’americana appassita cerca di ordinare un café liégeois, il gelato al caffè con panna, in un francese hollywoodiano.

Eccoli là.

Seduti a tre tavolini da me. Quindici metri. Naturalmente li riconosco. Li ho visti dalla finestra del mulino, da dietro le tende. Sono l’ispettore che si faceva il bagnetto nel ruscello davanti al cadavere di Jérôme Morval e il suo timido vice.

Ovviamente loro tendono a guardare dall’altra parte, in direzione della giovane cameriera. Certo non nella direzione di una vecchia topolina nera.

 

 

5.

 

Attraverso gli occhiali da sole dell’ispettore Sérénac la facciata dell’hotel Baudy assume una tinta quasi seppia, stile Belle Époque, e le gambe della graziosa cameriera che attraversa la strada si fanno ramate come un cornetto croccante.

«Okay, Sylvio. Ora ti rifai daccapo le ricerche lungo il ruscello. Ovviamente tutto è già in laboratorio, i calchi delle orme, la pietra, il corpo di Morval... Ma può essere che abbiamo dimenticato qualcosa. Non lo so, il lavatoio, gli alberi, il ponte. Vedrai sul posto. Ti fai il giro e cerchi di trovare dei testimoni. Io, per quanto mi riguarda, non ho scelta, devo andare a trovare la vedova, Patricia Morval... Hai qualche informazione su questo Jérôme Morval?».

«Sì, Lau... Ehm, sì, capo».

Sylvio Bénavides tira fuori un fascicolo da sotto il tavolo. Sérénac segue la cameriera con gli occhi.

«Prendi qualcosa? Un pastis, un bicchiere di bianco?».

«Ehm, no, no. Niente».

«Neanche un caffè?».

«No no, non si preoccupi...».

Bénavides tergiversa.

«Va bene, un tè...».

Laurenç Sérénac solleva una mano con fare autoritario.

«Signorina? Un tè e un bicchiere di bianco. Un gaillac, se ce l’avete».

Si rivolge al suo vice.

«Ti è così difficile darmi del tu, Sylvio? Cos’avrò, sette, dieci anni più di te? Abbiamo lo stesso grado. Non è che siccome da quattro mesi dirigo il commissariato di Vernon devi sentirti in dovere di darmi del lei. Al sud anche le reclute danno del tu ai commissari...».

«Al nord bisogna saper aspettare... Succederà, capo, vedrà...».

«Probabilmente hai ragione. Diciamo che ho bisogno di acclimatarmi... Anche se, porca miseria, mi fa strano che il mio vice mi chiami capo».

Sylvio scrocchia le dita, come se esitasse a contraddire il superiore.

«Se permette, non credo che sia una questione di rapporti nord-sud. Per esempio, le spiego, mio padre adesso è in pensione, ma per tutta la vita ha costruito case tra il Portogallo e la Francia con principali più giovani di lui che gli davano del tu e a cui lui dava del lei. Secondo me è più una questione, non lo so, di cravatta e tuta da lavoro, di mani curate e mani piene di morchia, capisce quello che voglio dire?».

Laurenç Sérénac allarga le braccia aprendo i lembi del giubbotto di pelle che indossa sulla maglietta grigia.

«Vedi cravatte, qui? Siamo ispettori tutti e due, cavolo...».

Ride di cuore.

«Probabilmente hai ragione, col tempo ci daremo del tu... Ciò detto, per il resto non cambia niente, mi piace questo tuo aspetto da portoghese di seconda generazione che mantiene un basso profilo. Bene. Allora, questo Morval?».

Sylvio abbassa lo sguardo e legge accuratamente gli appunti.

«Jérôme Morval è un ragazzo del luogo che ha fatto strada. La famiglia viveva a Giverny, ma si sono trasferiti a Parigi quando lui era ancora piccolo. Anche il padre era medico, medico generico, ma senza grande fortuna. Jérôme Morval si è sposato piuttosto giovane con tale Patricia Chéron, non avevano neanche venticinque anni. Il resto è una storia di successi. Il giovane Jérôme studia medicina, si specializza in oftalmologia e da principio apre uno studio ad Asnières con altri cinque colleghi, poi, quando il padre muore, investe il suo gruzzolo nell’acquisto di un locale nel XVI arrondissement dove apre, da solo, uno studio di chirurgia oculistica. A quanto pare le cose gli vanno piuttosto bene. A quel che ho capito sarebbe un famoso specialista della cataratta, e di conseguenza avrebbe una clientela piuttosto anziana. Dieci anni fa è tornato all’ovile e ha comprato una delle case più belle di Giverny, tra l’hotel Baudy e la chiesa».

«Niente figli?».

La cameriera posa l’ordinazione sul tavolo e se ne va. Sérénac interviene prima che il collega faccia in tempo a rispondere.

«Non male la ragazza, eh? Grazioso compasso abbronzato sotto la gonna, no?».

L’ispettore Bénavides oscilla tra il sospiro stanco e il sorriso imbarazzato.

«Sì... No... Intendo i Morval. Non hanno avuto figli».

«Bene... Nemici?».

«Morval conduceva una vita da notabile piuttosto riservata. Niente politica. Nessuna responsabilità in associazioni o roba del genere... Non aveva un vero e proprio giro di amici... In compenso aveva...».

Sérénac si gira di scatto.

«Toh, chi si vede! Buongiorno...».

Bénavides sente la forma pelosa infilarsi sotto il tavolo. Stavolta caccia un sospiro ben udibile. Sérénac tende la mano al cane, che ci si strofina contro.

«Il mio unico testimone, per il momento» sussurra Laurenç Sérénac. «Ciao, Neptune!».

L’animale riconosce il proprio nome. Si incolla alla gamba dell’ispettore puntando con occhi vogliosi lo zucchero nel piattino della tazza di Sylvio. Sérénac lo ammonisce col dito alzato.

«Stai buono, eh? Ora ascoltiamo l’ispettore Bénavides, che poverino non riesce a piazzare due frasi di seguito. Allora, Sylvio, mi dicevi?».

L’altro si concentra sugli appunti e continua in tono monocorde.

«Jérôme Morval aveva due passioni. Divoranti, come si suol dire. Alle quali dedicava tutto il suo tempo».

Sérénac accarezza Neptune.

«Facciamo progressi...».

«Due passioni, quindi... Gliela faccio breve: la pittura e le donne. Per quanto riguarda la pittura sembra che abbiamo a che fare con un vero e proprio collezionista, un autodidatta di talento, ovviamente con una forte preferenza per l’impressionismo. E un capriccio, a quanto mi hanno detto: Jérôme Morval sognava di possedere un Monet! E possibilmente non uno qualunque. Voleva le Ninfee: ecco cos’aveva in testa l’oftalmologo...».

«Nientemeno...» sibila Sérénac all’orecchio del cane. «Un Monet! Per quanto facesse recuperare la vista a tutte le dame del XVI arrondissement, un Ninfee mi sembra molto al disopra dei mezzi del dottor Morval... Due passioni, hai detto... Una sono i quadri impressionisti. E delle donne che mi dici?».

«Nient’altro che voci... Anche se Morval si nascondeva solo a metà. I vicini e i colleghi mi hanno parlato soprattutto della situazione della moglie, Patricia. Sposata giovane. Dipendente economicamente dal marito. Divorzio impossibile. Condannata a chiudere gli occhi, non so se mi spiego...».

Laurenç Sérénac svuota il bicchiere di bianco.

«Se questo è un gaillac...» mormora facendo una smorfia. «Sì, capisco cosa intendi, caro Sylvio, e alla fine il nostro medico comincia a starmi simpatico. Sei riuscito a recuperare i nomi di qualche amante o di cornuti potenzialmente criminali?».

Sylvio posa la tazza sul piattino. Neptune lo guarda con occhi umidi.

«Non ancora... Ma a quanto pare, anche riguardo alle amanti Jérôme Morval aveva una sua ossessione, un chiodo fisso...».

«Ah sì? Una cittadella inespugnabile?».

«Qualcosa del genere... Si tenga forte, capo, è la maestra del paese. La più bella ragazza della zona, dicono, e lui si era messo in testa di aggiungerla ai suoi trofei di caccia».

«E?».

«E non so altro. Questo è quanto ho saputo da conversazioni con i colleghi, la segretaria e tre galleristi con cui lavorava spesso... È la versione di Morval...».

«È sposata, la maestra?».

«Sì. Con un marito particolarmente geloso, pare...».

Sérénac si gira verso Neptune.

«Facciamo progressi, amico mio. Sylvio è forte, eh? Sembra un po’ chiuso, così, ma in realtà è una bomba, ha un cervello da computer».

Si alza. Neptune si allontana sulla strada.

«Sylvio, spero che tu non abbia dimenticato stivali e retino per andare a rovistare nel ruscello dell’Epte. Io vado a fare le condoglianze alla vedova di Morval... 71 rue Claude-Monet, giusto?».

«Sì, non può sbagliare. Giverny è un paesino addossato alla collina. Si riduce a due lunghe strade parallele, rue Claude-Monet, che attraversa tutto il paese, e chemin du Roy, cioè la strada dipartimentale in fondovalle che costeggia il ruscello. Poi c’è una serie di stradine ripide che si arrampicano tra le due arterie principali, e nient’altro».

Le gambe della cameriera attraversano rue Claude-Monet e si dirigono verso il bancone del bar. I fiori di malvarosa lambiscono i muri in mattoni e terracotta dell’hotel Baudy come fiamme pastello in un caminetto colpito dal sole. Sérénac trova bella la scena.

 

 

6.

 

Sylvio non aveva torto, il 71 di rue Claude-Monet è senza dubbio la più bella casa della via. Persiane gialle, vite americana che si mangia metà della facciata, accostamento sapiente di pietra in blocchi e graticcio, gerani che traboccano da vasi immensi e vengono giù dalle finestre: insomma, una facciata impressionista per eccellenza. Patricia Morval deve avere il pollice verde, o almeno saper dirigere un piccolo esercito di bravi giardinieri. Non dovrebbero mancare, a Giverny.

Accanto al cancello di legno è appesa una campanella di rame. Sérénac la scuote. Pochi secondi dopo appare Patricia Morval dietro il portone di quercia. È evidente che lo aspettava. Il poliziotto spinge il cancello mentre la donna si fa di lato per lasciarlo entrare.

L’ispettore Sérénac apprezza particolarmente quel preciso momento delle indagini. La prima impressione. Pochi istanti di pura psicologia da cogliere a pelle. Con chi ha a che fare? Innamorata disperata o borghese arida e indifferente? Amante duramente colpita dal destino o vedova allegra? Ormai ricca. Finalmente libera. Vendicata delle scappatelle del marito. Finge dolore per il lutto o no? Per il momento non è facile farsene un’idea, gli occhi di Patricia Morval sono nascosti dietro spesse lenti che sfocano pupille arrossate...

Sérénac passa in corridoio, che in realtà è un’immensa anticamera stretta e lunga. Subito si ferma stupefatto. La quasi totalità di entrambe le pareti, per una lunghezza di oltre cinque metri, è ricoperta da due riproduzioni di giganteschi quadri di ninfee in una variazione piuttosto rara di toni rossi e oro, senza cielo né rami di salice. Per quanto ne sa dovrebbe essere la riproduzione di un quadro di Monet eseguito negli ultimi anni di vita, dopo il 1920, l’ultima serie di Ninfee. È una deduzione facile, perché Monet ha seguito una logica creatrice lineare: restringere progressivamente lo sguardo, eliminare la scena circostante, centrarlo su un solo punto dello stagno, pochi metri quadrati, come per poterlo attraversare. Sérénac procede in quella strana scenografia. Probabilmente il corridoio vorrebbe evocare i muri dell’Orangerie, anche se siamo ben lontani dai cento metri lineari di Ninfee esposti nel museo parigino.

Sérénac entra in un salotto dall’arredamento classico, un po’ troppo pieno di soprammobili eterogenei. L’attenzione del visitatore è attratta soprattutto dai quadri appesi. Una decina. Originali. Per quel poco che ne sa ci sono nomi che cominciano ad avere un valore reale, sia artistico che finanziario. Un Grebonval, un Van Muylder, un Gabar... A quanto pare Morval aveva buon gusto e senso dell’investimento. L’ispettore pensa fra sé che se la vedova è in grado di tenere a bada gli avvoltoi che fiuteranno l’odore di vernice sarà al riparo dal bisogno per un bel po’.

Si siede. Patricia non riesce a stare ferma. Sposta nervosa oggetti perfettamente in ordine. Il tailleur porpora contrasta con una pelle lattiginosa piuttosto smorta. Sérénac le dà una quarantina d’anni, forse meno. Non è particolarmente carina, ma ha una specie di rigidità, di contegno che le conferisce un certo fascino. Più classica che di classe, direbbe il poliziotto. Seduzione minimale ma costante.

«Ispettore, è assolutamente sicuro che si tratti di omicidio?».

Parla con voce pungente, un po’ sgradevole.

«Mi hanno già descritto la scena» continua. «Non è pensabile un incidente, che Jérôme sia inciampato, caduto su una pietra acuminata e affogato?».

«Tutto è possibile, signora, bisogna aspettare il rapporto del medico legale. Ma le confesso che allo stato attuale privilegiamo di gran lunga la pista dell’omicidio...».

Patricia Morval tortura fra le dita una piccola statua di Diana cacciatrice posata sulla credenza. Un bronzetto. Sérénac riprende il controllo del colloquio. Fa le domande. Patricia Morval risponde quasi per onomatopee, raramente più di tre parole, spesso le stesse variando appena il tono. Alto negli acuti.

«Nessun nemico?».

«No, no, no».

«Ha notato niente di particolare in questi ultimi giorni?».

«No, no».

«Questa casa sembra enorme. Suo marito abitava qui?».

«Sì... sì. Sì e no».

Sérénac non coglie la sfumatura, stavolta non le lascia scelta.

«Deve dirmi qualcosa di più, signora».

Patricia Morval scandisce lentamente le sillabe, come se le contasse.

«Jérôme veniva raramente durante la settimana. Aveva un appartamento accanto allo studio, in boulevard Suchet, nel XVI arrondissement».

L’ispettore si appunta l’indirizzo pensando che si trova a due passi dal museo Marmottan. Di sicuro non è una coincidenza.

«Suo marito dormiva spesso altrove?».

Attimo di silenzio.

«Sì».

Le dita nervose di Patricia Morval ricompongono un mazzo di fiori appena colti in un lungo vaso dai motivi giapponesi. A Laurenç Sérénac viene in mente un’immagine forte: quei fiori marciranno sui loro gambi. La morte cristallizzerà quel salotto. La polvere del tempo ricoprirà quell’armonia di colori.

«Non avevate figli?».

«No».

Pausa.

«Suo marito nemmeno? Figli soltanto suoi, intendo».

Patricia Morval compensa l’esitazione con un timbro di voce che scende di un’ottava.

«No».

Sérénac se la prende comoda. Tira fuori un duplicato della cartolina con le ninfee di Monet trovata nella tasca di Jérôme Morval, la gira e la porge alla vedova. Patricia Morval è costretta a leggere le quattro parole dattilografate: UNDICI ANNI. BUON COMPLEANNO.

«Abbiamo trovato questa cartolina in tasca a suo marito» spiega l’ispettore. C’è forse un cugino, o figli di amici, o un qualsiasi bambino a cui suo marito avrebbe potuto fare gli auguri?».

«No, non direi. No».

Sérénac lascia comunque a Patricia Morval il tempo di riflettere, poi rilancia.

«E questa citazione?».

Gli occhi di entrambi scorrono sulla carta per leggere le seguenti strane parole: Acconsento a che si instauri il delitto di sognare.

«Mi dispiace, ispettore, non ne ho proprio idea...».

Sembra sinceramente indifferente. Sérénac posa il foglio sul tavolo.

«È un duplicato, può tenerlo, noi abbiamo l’originale. Ci pensi su... Se le torna in mente qualcosa...».

Patricia Morval si aggira sempre meno per la stanza, come una mosca che ha capito di non poter fuggire dal barattolo di vetro. Sérénac continua.

«Suo marito ha mai avuto delle noie, intendo dal punto di vista professionale? Non so, un’operazione andata male, un cliente insoddisfatto, una denuncia...».

La mosca torna di colpo aggressiva.

«No, mai! Cosa vuole insinuare?».

«Niente, niente, glielo assicuro».

Lo sguardo dell’ispettore abbraccia i quadri appesi alle pareti.

«Suo marito aveva un ottimo gusto per la pittura. Pensa che avrebbe potuto essere implicato in qualche traffico, come dire, storie di ricettazione, magari a sua insaputa?».

«Che intende dire?».

La voce della vedova, impennandosi negli acuti, diventa ancora più sgradevole. È un classico, pensa l’ispettore. Patricia Morval si chiude nella negazione dell’assassinio. Ammettere l’omicidio del marito significa ammettere che qualcuno potesse odiarlo così tanto da farlo fuori... In un certo senso significa ammettere la colpevolezza del marito. Sono tutte cose che Sérénac ha imparato, deve mettere in luce il lato oscuro della vittima senza per questo aggredire la vedova.

«Non intendo niente, niente di preciso, glielo assicuro, signora Morval. Sto solo cercando una pista. Mi hanno parlato della... diciamo, del chiodo fisso di suo marito... Possedere una tela di Monet... Era...».

«Esatto, ispettore. Era un sogno. Jérôme è considerato un grande conoscitore di Claude Monet. Sì, un sogno. Possedere un Monet. Ha lavorato duro per riuscirci. Era un chirurgo eccellente. Se lo sarebbe meritato. Era un appassionato. E non voleva un quadro qualsiasi. Voleva un Ninfee. Non so se può capire, ma questo è ciò che cercava. Una tela dipinta qui, a Giverny, il suo paese».

Mentre la vedova fa la sua tirata il cervello di Sérénac si agita. La prima impressione! Dopo un po’ di minuti che parla con Patricia Morval comincia a farsi un’idea della natura del suo lutto. E contrariamente a ogni aspettativa l’impressione pende sempre di più dalla parte della passione ardente, dell’amore stroncato, piuttosto che da quella dell’amore appassito, in ombra, dell’indifferenza della donna trascurata.

«Mi dispiace darle tutto questo disturbo, signora, ma abbiamo lo stesso obiettivo, scoprire chi ha ucciso suo marito. Dovrò farle alcune domande... più personali».

Patricia Morval sembra bloccarsi nella posa del nudo dipinto da Gabar, sul muro di fronte.

«Suo marito non le è stato sempre, come dire... fedele. Pensa che...».

Sérénac percepisce l’emozione della donna, come se intime lacrime interne cercassero di spegnere l’incendio che ha nell’animo.

«Io e mio marito ci siamo conosciuti molto giovani» lo interrompe Patricia. «Mi ha corteggiata a lungo, molto a lungo, me e altre donne. Ci ho messo parecchi anni prima di cedergli. Da giovane non era certo il tipo che fa sognare le ragazze. Non so se capisce quel che sto cercando di spiegarle. Probabilmente era troppo serio, un po’ noioso. Era... insicuro con l’altro sesso. Certe cose si sentono. Poi, col tempo, è diventato più sicuro di sé e anche molto più seducente, più interessante. Credo, ispettore, che parecchio sia merito mio. Inoltre è diventato più ricco. Una volta adulto, Jérôme aveva qualche rivincita da prendersi sulle donne... Sulle donne, ispettore, non su di me. Non so se riesce a capirmi».

Lo spero, pensa Sérénac dicendosi che gli servirebbero nomi, fatti, date.

Più tardi...

«Da lei mi aspetto tatto, ispettore» insiste Patricia Morval. «Giverny è un paesino di poche centinaia di abitanti. Non uccida Jérôme un’altra volta. Non lo insudici. Non se lo meritava. Affatto».

Laurenç Sérénac scuote la testa con fare rassicurante.

Le prime impressioni... Ormai si è convinto di una cosa: Patricia Morval amava il suo Jérôme. No, non l’avrebbe ucciso per soldi.

Ma per amore chissà...

È colpito da un ultimo dettaglio, sono stati i fiori nel vaso giapponese a mettergli quell’idea in testa: in casa Morval il tempo si è fermato. Dal giorno prima la pendola si è bloccata! Ogni centimetro quadrato di quel salotto trasuda ancora delle passioni di Jérôme Morval. Solo di lui. E tutto resterà così per l’eternità. I quadri non verranno mai staccati. I libri sugli scaffali della biblioteca non saranno più aperti. Ogni cosa rimarrà inerte, come un museo deserto in onore di un tipo che tutti hanno già dimenticato. Un appassionato d’arte che non tramanderà niente. Un appassionato di donne che probabilmente nessuna di loro piangerà. A parte la sua, quella che trascurava.

Una vita passata ad accumulare riproduzioni. Senza discendenza.

 

La luce di rue Claude-Monet colpisce il viso dell’ispettore. Dopo neanche tre minuti di attesa spunta Sylvio in fondo alla strada, senza stivali ai piedi ma con la parte bassa dei pantaloni sporca di terra. La cosa diverte Sérénac. Sylvio Bénavides è un tipo in gamba, probabilmente molto più scaltro di quanto il suo lato meticoloso vorrebbe far credere. Da dietro gli occhiali da sole Laurenç Sérénac si concede il tempo di scrutare la figura del suo vice, la cui ombra si staglia sul muro delle case. Non si può dire che Sylvio sia magro. Sarebbe più esatto definirlo stretto, visto che paradossalmente sotto la camicia a quadri abbottonata fino al collo e infilata nei pantaloni di tela beige si intuisce una pinguedine nascente. Sylvio sarebbe più largo di profilo che di fronte, pensa Laurenç divertito. Un cilindro! Il che non lo rende affatto brutto, al contrario, gli conferisce una sorta di fragilità, una figura da giovane tronco d’albero, liscia e morbida, come capace di piegarsi senza rompersi.

Bénavides si avvicina con il sorriso sulle labbra. Alla fine la cosa che a Laurenç piace meno di lui, almeno fisicamente, è la sua mania di portare i capelli corti e lisci all’indietro o di lato, con una riga da seminarista. Basterebbe un colpo di spazzola a trasformarlo. Sylvio si ferma davanti a lui con le mani sui fianchi.

«Allora, capo, com’è la vedova?».

«Molto vedova! Molto molto vedova. E le tue ricerche?».

«Niente di nuovo... Ho parlato con qualche vicino: la mattina dell’omicidio dormivano e non sanno niente. Per gli altri indizi vedremo. Tutto è sotto vetro o plastica... Torniamo all’ovile?».

Sérénac guarda l’orologio. Le quattro e mezzo del pomeriggio.

«Sì... Cioè, soltanto tu. Io ho un appuntamento a cui non posso mancare...».

E di fronte all’aria stupita del collega specifica:

«Non voglio perdermi l’uscita da scuola».

Sylvio Bénavides pensa di aver capito.

«In cerca di un bambino di undici anni che presto festeggerà il compleanno?».

Sérénac gli fa un occhiolino complice.

«Diciamo di sì... E anche un po’ per scoprire com’è questo gioiello dell’impressionismo, la maestrina che Jérôme Morval desiderava quanto un quadro di Monet».

 

 

7.

 

Aspetto la corriera sotto i tigli della piazzetta in cui ci sono municipio e scuola. È il punto più ombreggiato del paese, pochi metri a monte di rue Claude-Monet. Sono praticamente sola. Questo paese è diventato proprio strano: bastano pochi metri, un pezzetto di strada, per passare dalla ressa delle file d’attesa di musei o gallerie prese d’assalto alle viuzze deserte di un villaggio di campagna.

La fermata è davanti alla scuola o quasi. I bambini giocano in cortile, dietro i cancelli. Neptune si tiene in disparte sotto un tiglio, aspetta con impazienza che liberino gli scolari dalla gabbia. A Neptune piace un sacco correre dietro ai ragazzini.

Proprio di fronte alla scuola comunale hanno messo l’atelier dell’Art Gallery Academy. Il motto, dipinto sul muro a caratteri enormi, è tutto un programma: OSSERVAZIONE CON IMMAGINAZIONE. Durante tutta la giornata un reggimento di pensionati zoppicanti con in testa la paglietta o il panama esce dalla galleria e si disperde per il paese. Alla ricerca dell’ispirazione divina! Impossibile non notarli, hanno tutti il distintivo rosso e il carrello da spesa della nonna in cui trasportano il cavalletto.

Non vi sembra ridicolo? Un giorno qualcuno dovrà spiegarmi come mai il fieno di qui, gli uccelli sugli alberi o l’acqua del fiume non hanno lo stesso colore che in qualunque altro posto del mondo.

Va oltre il mio comprendonio. Devo essere troppo stupida per capire, o forse è troppo tempo che vivo qui. Sì, dev’essere così, come quando si vive troppo a lungo accanto a un uomo bellissimo. Comunque questi invasori non se ne vanno come gli altri alle sei del pomeriggio. Ciondolano finché non scende la sera, dormono in zona e all’alba sono di nuovo in giro. Americani, per la maggior parte. Forse sono solo una vecchia che osserva tutto questo circo attraverso la cataratta, ma nessuno può impedirmi di pensare che una tale sfilata di anziani pittori davanti alla scuola finirà per influenzare i bambini del paese, mettergli idee nella testa. Non trovate?

 

L’ispettore ha individuato Neptune sotto il tiglio. Non si lasciano proprio più, quei due! L’uomo lo stuzzica con un misto di finta lotta e carezze. Io rimango in disparte sulla mia panchina, come una statua d’ebano. Forse vi sembrerà strano che un’anziana come me se ne vada in giro così in piena Giverny e nessuno o quasi la noti. Meno che mai i poliziotti. Ve lo dico io, fate l’esperimento, mettetevi a un angolo di strada, una qualsiasi, un boulevard di Parigi o la piazza della chiesa di un villaggio, quello che volete voi, un posto qualunque dove ci sia gente. Fermatevi una decina di minuti e contate i passanti, sarete sbigottiti dal numero di anziani. Ogni volta saranno più numerosi degli altri. Innanzi tutto perché è così, ci sono sempre più anziani al mondo, non fanno che ripetercelo. Poi, perché gli anziani non hanno altro da fare che gironzolare per strada. Infine, e soprattutto, perché non si notano, è così. La gente si volta per l’ombelico al vento di una ragazza, si fa di lato per far passare il manager che accelera il passo o la banda di giovani che occupa tutto il marciapiede, indugia con lo sguardo sulla carrozzina col bebè dentro e la mamma dietro, ma un vecchio o una vecchia sono... invisibili, proprio perché passano così lentamente che sembra facciano parte della scena, come un albero o un lampione. Se non mi credete fate la prova. Fermatevi. Bastano dieci minuti. Vedrete.

 

Bene, torniamo alla nostra faccenda. Dato che ho il privilegio di vedere senza essere vista vi comunico che quel giovane poliziotto ha un fascino dirompente con il suo giubbotto di pelle corto, i jeans attillati, la barba non fatta, i capelli scompigliati e biondi come un campo di grano dopo il temporale. Logico che si interessi più alle maestre malinconiche che alle vecchie pazze del paese.

 

 

8.

 

Dopo un’ultima, lunga carezza Laurenç Sérénac lascia Neptune e cammina verso la scuola. Giunto a dieci metri dal portone una ventina di bambini di tutte le età gli passa davanti gridando, come se fosse lui a farli scappare.

Le belve sono libere.

Davanti a tutti, con i codini al vento, corre una bambina di una decina d’anni. Neptune le va dietro come mosso da una molla. Seguono gli altri. Scendono per rue Blanche-Hoschedé-Monet e si disperdono in rue Claude-Monet. Con la stessa rapidità con cui si era animata, la piazza del municipio torna a essere silenziosa. L’ispettore fa ancora qualche metro.

 

Molto tempo dopo Laurenç Sérénac ripenserà a quel miracolo. Per tutta la vita soppeserà ogni suono, le grida dei bambini che si dissolvono, il rumore del vento fra i tigli, ogni odore, ogni riflesso, il bianco delle pietre del municipio, il convolvolo abbarbicato lungo la rampa di sette scalini davanti alla soglia...

Non se lo aspettava. Non si aspettava niente.

Molto tempo dopo capirà che a folgorarlo è stato un contrasto, un contrasto infinitesimale durato appena qualche secondo. Stéphanie Dupain era davanti al portone della scuola e non l’aveva visto. Per un attimo Laurenç ne aveva colto lo sguardo rivolto ai bambini che correvano via ridendo, come se nella cartella si portassero via i sogni della loro maestra.

Una malinconia leggera come una fragile farfalla.

Un attimo dopo Stéphanie si accorge del visitatore. Immediatamente inalbera un sorriso che le fa brillare gli occhi color malva.

«Posso aiutarla?».

Stéphanie Dupain offre allo sconosciuto la propria freschezza. Un’immensa boccata di freschezza lanciata ai quattro venti, ai paesaggi degli artisti, alla contemplazione dei turisti, alle risate dei bambini sulle rive dell’Epte. È un dono assoluto, non tiene niente per sé.

Sì, è stato quel contrasto a turbare così tanto Laurenç Sérénac, quella malinconia educata, mascherata. Come se per un attimo avesse intravisto la caverna di un tesoro e non avesse altra ossessione che ritrovarne l’entrata.

«Sono l’ispettore Laurenç Sérénac» balbetta, sorridendo a sua volta. «Del commissariato di Vernon».

Lei gli tende la mano sottile.

«Stéphanie Dupain. Unica maestra dell’unica classe del paese...».

Ha gli occhi che ridono.

È carina. Anzi, molto di più. Le pupille pastello dai colori di ninfea abbracciano tutte le sfumature dall’azzurro al malva, a seconda del sole. Le labbra rosa pallido sembrano truccate a gessetto. Il vestitino leggero rivela spalle nude quasi bianche. Pelle di porcellana. Lunghi capelli castano chiaro imprigionati in uno chignon un po’ sbilenco.

Una fantasia trattenuta.

Jérôme Morval aveva decisamente gusto, e non solo per la pittura.

«Si accomodi».

 

La mitezza della scuola contrasta col calore della strada. Quando Laurenç entra nella piccola aula e vede la ventina di sedie dietro i banchi, di fronte a quell’improvvisa intimità prova una specie di gradevole turbamento. Fa scorrere lo sguardo sulle immense carte geografiche appese al muro, la Francia, l’Europa, il mondo, belle mappe deliziosamente vecchiotte. Poi i suoi occhi si fermano su un poster accanto alla cattedra.

 

CONCORSO PITTORI IN ERBA

INTERNATIONAL YOUNG PAINTERS CHALLENGE

Fondazione Robinson

Brooklyn Art School and Pennsylvania Academy

of the Fine Arts in Philadelphia

 

Gli sembra perfetto per entrare in argomento.

«I suoi alunni si candidano?».

A Stéphanie brillano gli occhi.

«Certo. Tutti gli anni! È quasi una tradizione, qui. Theodore Robinson è stato uno dei primi pittori americani a venire a Giverny per dipingere con Monet. Era il più assiduo ospite dell’hotel Baudy! Poi è diventato un famoso professore d’arte negli Stati Uniti... È il minimo che oggi i bambini di Giverny partecipino al concorso della sua fondazione, non trova?».

Sérénac annuisce.

«E i vincitori cosa vincono?».

«Intanto qualche migliaio di dollari... E soprattutto uno stage di varie settimane in una prestigiosa scuola d’arte... New York, Tokyo, San Pietroburgo... Cambiano ogni anno».

«Incredibile... È già capitato che un bambino di Giverny abbia vinto?».

Stéphanie Dupain ride di cuore dando una leggera pacca sulla spalla di Laurenç Sérénac.

Senza malizia. Ma lui ha un brivido.

«No, figuriamoci... Al concorso partecipano migliaia di scolari di tutto il mondo. Ma bisogna provarci, no? Sa, anche i figli di Claude Monet si sono seduti sui banchi di questa scuola. Michel e Jean».

«Mentre Theodore Robinson non è più tornato in Normandia, mi pare...».

Stéphanie Dupain guarda l’ispettore stupita, poi sgrana gli occhi, nei quali Sérénac crede di individuare un’ombra di ammirazione.

«Fanno corsi di storia dell’arte alla scuola di polizia?».

«No... Ma si può essere poliziotti e amare la pittura, no?».

Diventa rossa.

«Uno a zero per lei, ispettore...».

Gli zigomi di porcellana assumono una tinta rosata da fiori selvatici chiazzata da lentiggini. I suoi occhi lilla inondano la stanza.

«Comunque ha ragione» continua Stéphanie. «Theodore Robinson è morto a quarantatré anni di una crisi d’asma a New York, solo due mesi dopo aver scritto all’amico Claude Monet per organizzare il ritorno a Giverny... Non ha più rivisto la Francia. I suoi eredi hanno creato la fondazione e il concorso internazionale di pittura nel 1896, qualche anno dopo la sua morte. Ma la sto annoiando, ispettore. Immagino che non sia venuto qui perché io le faccia lezione...».

«No, ma mi piacerebbe».

Sérénac l’ha detto solo per farla arrossire di nuovo, e ci riesce al di là delle sue speranze.

«E lei, Stéphanie, dipinge?» insiste.

Ancora una volta le dita della donna si perdono nell’aria e vanno quasi a posarsi sul petto dell’ispettore. Il poliziotto si sforza di vedere in quel gesto solo il riflesso dell’insegnante abituata a chinarsi sui bambini, a parlare loro guardandoli negli occhi, a toccarli.

Innocente incendiaria?

Sérénac spera di non essere arrossito quanto lei.

«No no, non dipingo... Non ho il minimo talento».

Per un attimo un velo passa davanti alla luce delle sue pupille.

«E lei, ispettore? Non ha l’accento di Vernon! E neanche il nome, Laurenç. Non è molto frequente, da queste parti».

«È vero... Laurenç, in occitano, corrisponde a Laurent... Per la precisione, la mia parlata personale sarebbe l’albigese... Sono stato trasferito qui da poco».

«Benvenuto, allora! Albi? Quindi il suo gusto per la pittura viene da Toulouse-Lautrec! A ognuno il suo pittore».

Sorridono.

«In parte... Comunque ha ragione, Toulouse-Lautrec è per gli albigesi quello che Monet è per i normanni...».

«Sa cosa diceva Lautrec di Monet?».

«Non vorrei deluderla, ma le confesso che non sapevo nemmeno che si conoscessero».

«Come no! Ma Lautrec considerava gli impressionisti dei bruti. È arrivato addirittura a definire Monet un coglione, proprio così, ha usato il termine “coglione”, perché sprecava il suo immenso talento a dipingere paesaggi anziché esseri umani».

«E meno male che Lautrec è morto prima di vedere Monet trasformarsi in eremita e dipingere esclusivamente ninfee per trent’anni...».

Stéphanie ride di gusto.

«È un modo di vedere le cose. In realtà sono due pittori che hanno fatto scelte di vita opposte... Toulouse-Lautrec una vita effimera di dissolutezza tesa a scavare nella lussuria dell’animo umano, Monet una lunga vita contemplativa consacrata alla natura».

«Complementari più che opposti, non trova? È veramente necessario scegliere? Non si possono avere le due cose?».

Il sorriso di Stéphanie lo mette in imbarazzo.

«Sono incorreggibile, ispettore. Lei non è venuto qui per parlare di pittura con me, presumo. Sta indagando sull’assassinio di Jérôme Morval, vero?».

Si siede con agilità sulla cattedra, mettendosi quasi all’altezza del torace di Sérénac. Accavalla le gambe con naturalezza. Il tessuto di cotone le risale fino a mezza coscia. Laurenç Sérénac si sente soffocare.

«E io che c’entro?» sussurra la voce innocente della maestra.

 

 

9.

 

La corriera si è fermata davanti alla piazza del municipio. L’autista è una donna. Non ha neanche un aspetto da uomo mancato o da camionista, no, è una brava donnetta che potrebbe fare altrettanto bene l’infermiera o la segretaria. Non so se l’avete notato, ma ci sono sempre più donne al volante di questi mastodonti, soprattutto in campagna. Prima, chi l’aveva mai vista una ragazza alla guida di un autobus? Sono sicura che è così perché nei paesi sono rimasti solo vecchi e bambini a servirsi dei trasporti pubblici, sì, è sicuramente per questo che fare l’autista di pullman non è più un mestiere da uomo.

Sollevo a fatica la gamba fino al predellino. Pago la ragazza, che mi dà il resto con gesto sicuro da cassiera. Mi metto davanti. La corriera è mezza vuota, ma so per esperienza che parecchi turisti saliranno all’uscita da Giverny. La maggior parte scenderà alla stazione di Vernon. Dopo la stazione non c’è una fermata proprio davanti all’ospedale, ma in genere gli autisti hanno pietà delle mie povere gambe e mi fanno scendere prima. Capito, adesso? Le donne guidano i pullman perché accettano questo genere di cose.

Penso a Neptune. Ieri per tornare da Vernon ho preso un taxi. Mi è costato esattamente trentaquattro euro! Una bella cifra per meno di dieci chilometri, non vi pare? Tariffa notturna, mi ha detto il tipo al volante della Renault Espace. Se ne approfittano, è chiaro, sanno perfettamente che dopo le nove di sera non ci sono più corriere per Giverny. Tra l’altro, vi prego di notare che alla guida dei taxi ci sono sempre uomini, mai donne. Magari passano le notti a girare come avvoltoi intorno all’ospedale solo per aspettare l’uscita di anziane vedove che non hanno mai imparato a guidare, sicuri che in certi momenti nessuno si mette a mercanteggiare! Insomma... dico così ma probabilmente sarò ben contenta di trovarne uno, più tardi, perché a quanto mi hanno detto i medici questa potrebbe essere l’ultima sera. E la cosa potrebbe protrarsi per buona parte della notte.

Mi scoccia proprio lasciare fuori Neptune.

 

 

10.

 

Nell’aula della scuola di Giverny l’ispettore Laurenç Sérénac cerca di non farsi calamitare lo sguardo dalla pelle nuda delle gambe della maestra. Si fruga goffamente in tasca mentre Stéphanie lo guarda con candore, come se la posa adottata, seduta sulla cattedra con le gambe accavallate, fosse la più naturale del mondo. A cose normali i bambini non ci vedranno nessuna malizia, ragiona Laurenç Sérénac. A cose normali...

«Allora» chiede di nuovo la maestra. «Che c’entro io?».

Alla fine le dita dell’ispettore riescono a tirare fuori un duplicato della cartolina delle ninfee.

UNDICI ANNI. BUON COMPLEANNO.

Gliela porge.

«L’abbiamo trovata in tasca a Jérôme Morval».

Stéphanie Dupain esamina la frase con attenzione. Quando si piega e si gira un po’ di profilo il raggio di sole che entra dalla finestra si riflette sul foglio bianco e le illumina il viso, in una posa da lettrice accanita lambita da un alone di luce che fa pensare a Fragonard, Degas, Vermeer. Per un attimo Sérénac è sfiorato dalla strana impressione che nessun gesto della giovane sia spontaneo, la grazia di ogni movimento è troppo perfetta, dev’essere calcolata, studiata. La maestra si mette in posa per lui. Stéphanie Dupain si raddrizza con eleganza, le sue labbra di gesso si aprono dolcemente liberando un soffio invisibile che polverizza i ridicoli sospetti del poliziotto.

«I Morval non avevano figli... Così lei ha pensato alla scuola...».

«Esatto... È un mistero... Ci sono bambini di undici anni nella sua classe?».

«Sì, vari. Accolgo più o meno tutte le età, dai sei agli undici anni. Ma che io sappia nessuno festeggia il compleanno nei prossimi giorni o settimane».

«Può farci una lista precisa? Con l’indirizzo dei genitori, le date di nascita, tutto quello che potrebbe esserci utile...».

«Pensa che ci sia un legame con l’omicidio?».

«Potrebbe... o magari no... Per il momento procediamo a tentoni. Seguiamo varie piste. A proposito, le dice qualcosa questa frase?».

Sérénac porta lo sguardo di Stéphanie sulla parte bassa della cartolina. Lei aggrotta leggermente le sopracciglia in uno sforzo di concentrazione. Ogni suo gesto gli piace da morire.

La maestra continua a leggere. Sbatte le palpebre, piega la nuca, ha un leggero tremito alle labbra. Una donna che legge è sempre stato il sogno dell’ispettore. Non può prendersi gioco di lui, come farebbe a saperlo?

Acconsento a che si instauri il delitto di sognare.

«Le dice qualcosa?» balbetta Sérénac.

Stéphanie Dupain si alza di scatto, va verso la libreria, si china e si gira con un ampio sorriso porgendogli un libro bianco. Laurenç ha la sensazione che il petto della maestra batta fino a rompersi sotto la stoffa, come un passerotto tremante che non osi varcare la porta aperta della gabbia. L’attimo dopo si chiede come diavolo gli sia venuta quella stupida immagine. Cerca di concentrarsi sul libro.

«Louis Aragon» esclama la voce chiara di Stéphanie. «Mi dispiace, ispettore, temo di doverle fare un’altra lezione...».

Laurenç prende un taccuino e va a sedersi dietro un banco.

«Gliel’ho detto, mi piace...».

Lei ride di nuovo.

«In poesia è meno ferrato che in pittura, ispettore. La frase della cartolina è tratta da una poesia di Louis Aragon».

«Lei è incredibile...».

«No, non ho alcun merito. Tanto per cominciare Louis Aragon era un habitué di Giverny, uno dei pochissimi che ha continuato a venire qui dopo la morte di Monet, nel 1926. E poi questa frase viene da una sua famosa poesia, la prima a essere stata censurata dal governo di Vichy, nel 1942. Mi scuso ancora per la lezione, ispettore, ma quando le dirò il titolo capirà perché in paese è tradizione farla imparare ogni anno ai bambini della scuola...».

«Impressioni?» azzarda Sérénac.

«Sbagliato. Ci ha quasi preso, però. Aragon ha battezzato la sua poesia Nymphée».

Laurenç Sérénac cerca di vagliare le informazioni, di metterle in ordine.

«Se ho ben capito, quindi, è logico che anche Jérôme Morval conoscesse l’origine di questi strani versi...».

Rimane un attimo pensieroso, incerto sul comportamento da adottare.

«La ringrazio. Avremmo impiegato giorni per scoprirlo, anche se per il momento non vedo bene come possa aiutarci...».

L’ispettore si avvicina alla maestra. La donna è in piedi davanti a lui, le loro facce sono quasi alla stessa altezza, distanti una trentina di centimetri.

«Stéphanie... Permette che la chiami Stéphanie, vero? Lei conosceva Jérôme Morval?».

Gli occhi malva si posano su di lui, che dopo un attimo di esitazione ci si tuffa.

«Giverny è un paese piccolo» replica Stéphanie. «Poche centinaia di abitanti...».

Una frase che l’ispettore ha già sentito!

«Questa non è una risposta, Stéphanie...».

Pausa. Venti centimetri li separano.

«Sì... lo conoscevo».

La superficie malva della sua iride è inondata di luce. L’ispettore galleggia. Deve insistere. O affondare. Tutto il suo cinismo di facciata non gli serve a niente.

«Girano voci...».

«Non sia imbarazzato, ispettore. Ne sono evidentemente al corrente. Le voci... Dicono che Jérôme Morval fosse un dongiovanni, giusto? Non starò qui a negare che ci abbia provato con me... ma...».

La superficie degli occhi ninfea si increspa. Una leggera brezza.

«Sono una donna sposata, ispettore Sérénac. Sono la maestra del paese e Morval, in qualche modo, ne è il medico. Sarebbe assurdo se lei si orientasse verso piste folli come questa... Tra me e Jérôme Morval non c’è mai stato niente. In paesini come il nostro c’è sempre qualcuno che spia, mette in giro falsità, inventa segreti...».

«Mea culpa. Mi scusi se sono stato impertinente...».

Stéphanie si produce in un sorriso proprio davanti alla sua bocca, poi sparisce di nuovo verso la libreria.

«Tenga, ispettore. Visto che ha un animo d’artista...».

Laurenç vede stupito che gli sta porgendo un altro libro.

«Per sua cultura personale. È Aurélien, il più bel romanzo di Louis Aragon. Le scene più importanti si svolgono a Giverny. Dal capitolo 60 al 64. Sono sicura che le piacerà».

«Ehm... grazie...».

L’ispettore non trova altro da dire, e dentro di sé maledice il proprio mutismo. Stéphanie l’ha colto alla sprovvista. Che c’entra Aragon in tutta quella storia? Sente che qualcosa gli sfugge, come uno slittamento, una perdita di controllo. Prende il libro con sicurezza forzata, lo schiaccia contro la coscia, con il braccio steso lungo il corpo, poi dà la mano a Stéphanie. La maestra la stringe.

Un po’ troppo forte.

Un po’ troppo a lungo.

Un secondo o due, il tempo di far correre l’immaginazione dell’uomo. Quella mano sembra aggrapparsi alla sua, sembra gridare: “Non mi lasci. Non mi abbandoni. Lei è la mia unica speranza, Laurenç. Non mi lasci andare a fondo”.

Stéphanie gli sorride. Le brillano gli occhi.

Sérénac deve aver sognato. Sta diventando pazzo. È alla sua prima indagine in Normandia e già gli si sta ingarbugliando il cervello.

Quella donna non nasconde niente...

È semplicemente bella, tutto qui. E appartiene a un altro.

Tutto normale!

«Stéphanie...» balbetta indietreggiando, «mi prepara la lista dei bambini, allora?... Manderò domani un agente a prenderla».

 

Sanno tutti e due che non manderà nessun agente, che tornerà lui, che anche lei lo spera.

 

 

11.

 

La corriera per Vernon gira in rue Claude-Monet e si dirige verso la chiesa, nella parte di paese in cui il flusso di turisti è meno denso. Se così si può dire... Adoro attraversare il paese seduta nei posti davanti a vederlo sfilare su uno schermo panoramico. Oltrepasso le gallerie Demarez e Kandy, l’agenzia Immo-Prestige, il bed & breakfast Clos Fleuri, l’hotel Baudy, poi il pullman raggiunge un gruppo di bambini che stanno camminando per strada con lo zainetto sulla schiena. Ai colpi di clacson dell’autista i bambini si fanno di lato calpestando senza scrupoli iris e malva. Un po’ più in là ce ne sono altri due, stanno correndo sul campo di fronte all’hotel Baudy. Li riconosco, stanno sempre insieme, si chiamano Paul e Fanette. Vedo anche Neptune che corre accanto a loro nel fieno. Quel cane sta sempre appiccicato ai bambini, soprattutto a Fanette, la piccola coi codini.

Mi sa che sto diventando rincitrullita. Mi faccio il sangue amaro per il mio vecchio cane che se la cava benissimo senza di me, con i bambini del paese.

Vedo la prossima fermata in fondo alla strada. Non posso fare a meno di sospirare. È quella dell’esodo! Ad aspettare la corriera ci sono almeno una ventina di passeggeri armati di trolley, zaini, sacchi a pelo e, naturalmente, grandi tele avvolte in carta da pacchi.

 

 

12.

 

Nascosti dietro il pagliaio nel grande campo che separa chemin du Roy da rue Claude-Monet, all’altezza dell’hotel Baudy, Paul e Fanette si tengono per mano.

«Zitto, Neptune. Vattene! Ci farai scoprire...».

Il cane guarda i due undicenni e non capisce. Ha il pelo pieno di paglia.

«Vattene, stupido!».

Paul ride di cuore. Ha posato lo zaino accanto a sé e sta con la camicia aperta.

Mi piace quando Paul ride pensa Fanette.

«Eccoli!» esclama a un certo punto la bambina. «In fondo alla strada. Andiamo...».

Partono di corsa. Paul ha appena il tempo di riprendere lo zainetto. I loro passi risuonano in rue Claude-Monet.

«Più svelto, Paul!» grida Fanette afferrandogli la mano.

I suoi codini svolazzano nel vento.

«Qua!».

Gira di colpo all’altezza della chiesa di Sainte-Radegonde, sale senza rallentare il vialetto di ghiaia e si accovaccia dietro la fitta siepe verde. Neptune non li ha seguiti, sta annusando il fossato dall’altra parte della strada e urinando sui muri delle case basse. Dato il pendio, sembrano quasi interrate. Paul soffoca un attacco di ridarella.

«Zitto! Stanno per passare. Anche tu rischi di farci scoprire».

Paul indietreggia un po’ e va a sedersi sulla tomba bianca alle sue spalle, una chiappa sulla targa dedicata a Claude Monet e l’altra su quella dedicata alla seconda moglie, Alice.

«Attento, Paul! Non ti sedere sulla tomba di Monet...».

«Mi dispiace...».

«Non ti preoccupare!».

Mi piace troppo Paul quando lo sgrido e lui si scusa con aria timida.

Mentre anche Fanette scoppia a ridere, Paul viene avanti senza riuscire a evitare di appoggiarsi alle altre lapidi del sepolcro, quelle dei vari membri della famiglia Monet.

Fanette guarda attraverso i rami. Sente dei passi.

Sono loro!

Camille, Vincent e Mary.

Vincent arriva per primo. Scruta i dintorni con una concentrazione da pellerossa. Osserva Neptune con aria diffidente e grida:

«Faneeeette! Dove seiiiii?».

Paul scoppia di nuovo a ridere. Fanette gli mette la mano sulla bocca.

Anche Camille arriva all’altezza della chiesa. Senza fiato. È più basso di Vincent. Pancia e braccia grassottelle gli traboccano dalla camicia aperta. È il ciccione del gruppo, ce n’è sempre uno.

«Li hai visti?».

«No! Devono essere andati avanti...».

I due ragazzi si rimettono a camminare.

«Faneeeette! Dove seiiiii?» grida Vincent ancora più forte.

Un po’ più indietro risuona la voce stridente di Mary.

«Oooh, mi aspettate?».

Camille e Vincent se ne sono andati da quasi un minuto quando Mary si ferma di fronte alla chiesa. È una bambina piuttosto alta per avere dieci anni. Sotto gli occhiali è in lacrime.

«Ragazzi, aspettatemi! Chi se ne frega di Fanette! Aspettatemi!».

Gira la testa verso le tombe, e istintivamente Fanette si schiaccia su Paul. Mary non si accorge di niente, alla fine continua dritta su rue Claude-Monet trascinando rabbiosamente i sandali sull’asfalto.

Pericolo scampato...

Fanette si rialza sorridendo e si aggiusta i codini. Paul prende a schicchere i sassolini che gli sono rimasti sui pantaloni.

«Perché non vuoi stare con loro?» chiede il ragazzo.

«Mi fanno venire i nervi! A te no?».

«Boh. Sì, un po’...».

«Ah, vedi... Cioè, Camille non fa che tirare fuori quant’è bravo, “E io qui, io là, sono il primo della classe, sentite quello che dico io”... Vincent è ancora peggio, mi sta sempre appiccicato, non lo sopporto più! È pesante, pesante, pesante, mi toglie il respiro! E Mary, neanche te lo dico. A parte frignare, fare la leccapiedi con la maestra e parlare male di me...».

«È gelosa» fa Paul con dolcezza. «E io? Non ti sto troppo appiccicato, io?».

Fanette gli solletica una guancia con una foglia di bosso.

Con te, Paul, non è la stessa cosa. Non so perché, ma non è la stessa cosa.

«Scemo. Lo sai che sei quello che preferisco. Per sempre...».

Paul chiude gli occhi compiaciuto.

«Almeno, di solito» aggiunge Fanette. «Ma non oggi!».

Si alza e controlla se c’è via libera. Paul sgrana gli occhi.

«Be’? Te ne vai?».

«Sì. Ho un appuntamento. Segretissimo».

«Con chi?».

«È segretissimo, ti ho detto! E non mi seguire, eh? Solo Neptune può».

Paul si torce le dita, le mani, le braccia, come se cercasse di nascondere un’intensa paura.

È per via dell’omicidio. In paese non si parla d’altro da stamattina! Per strada ci sono i poliziotti. Come se anche noi corressimo pericolo...

«Me lo prometti?» insiste Fanette.

«Promesso!» risponde Paul di malavoglia.