Una volta tanto non sono alla finestra a spiare. Come vedete, malgrado le apparenze non passo le mie giornate a sorvegliare i dintorni. Almeno, non solo.
Stamattina, comunque, il rumore delle motoseghe che veniva da fuori era infernale. L’ho saputo poco fa: a quanto pare hanno deciso di segare quattordici ettari di pioppi. Sì, abbattere dei pioppi, qui a Giverny! Se ho ben capito erano stati piantati all’inizio degli anni Ottanta, teneri arboscelli, probabilmente per rendere il paesaggio ancora più impressionista. Sennonché altri specialisti hanno spiegato che quei pioppi non esistevano all’epoca di Monet, che il paesaggio ammirato dal pittore dalla finestra di casa sua era prateria aperta, e che più i pioppi crescono, più la loro ombra ricopre il giardino, lo stagno, le ninfee, e meno lo sfondo dei quadri di Monet diventa riconoscibile per i turisti. Così, dopo averli piantati, ora hanno deciso di abbatterli! Perché no, se la cosa li diverte. Tra la gente di Giverny c’è chi applaude e chi protesta. Io, dico la verità, a questo punto me ne frego.
Ho ben altre cose da fare. Stamattina metto a posto vecchi ricordi, cose d’anteguerra, fotografie in bianco e nero, reliquie che ormai interessano solo le vecchie come me. Come avrete capito, alla fine ho deciso di svuotare il garage per ritrovare quella vecchia scatola mummificata legata con una cordicella di lino. Era nascosta sotto tre strati di videocassette, uno strato di dischi in vinile e dieci centimetri di estratti conto del Crédit Agricole. Ho piegato in quattro il centrino del tavolo e allineato le foto.
Dopo le motoseghe di un’ora fa, adesso è una sirena a riportarmi bruscamente alla realtà, non diversamente da come la mattina il suono della sveglia disperde i sogni.
È la sirena della polizia che ulula su chemin du Roy.
Un attimo prima stavo bagnando di lacrime l’unica fotografia importante, una foto di classe: Giverny, anno scolastico 1936-1937. Ve ne do atto, non è proprio di ieri! Stavo scrutando il ritratto di una ventina di alunni tutti disciplinatamente seduti su tre gradini di legno. I nomi dei bambini sono scritti sul retro, ma non ho avuto bisogno di girare la fotografia.
Sulla panca Albert Rosalba era seduto accanto a me. Ovviamente.
Ho guardato a lungo il suo viso. La foto era stata scattata un po’ dopo il ritorno dalle vacanze di Ognissanti, o comunque in quei giorni.
Prima del dramma...
È stato in quel momento che la sirena della polizia mi ha trapanato le orecchie.
Mi sono alzata subito, com’è normale, come se un guardiano di prigione, anche distratto, non si precipitasse alla sua torretta d’osservazione quando suona l’allarme! Così sono andata di corsa alla finestra. Di corsa per modo di dire. Ho preso il bastone e mi sono faticosamente diretta al vetro scostando leggermente la tenda.
Non ho perso niente della scena. Impossibile non vederli. C’era fuori tutta la cavalleria: tre macchine con sirene e lampeggianti.
Non c’è che dire, va forte l’ispettore Sérénac!
Sylvio Bénavides solleva lo sguardo verso la torre del mulino che sfila a tutta velocità sulla sua destra.
«A proposito» dice tra uno sbadiglio e l’altro. «Sono passato al mulino. Lei mi aveva detto di non trascurare nessun testimone, soprattutto i vicini...».
«E?».
«È strano. Il mulino sembra deserto. Come abbandonato».
«Sei sicuro? Il giardino sembra curato, anche la facciata. E più volte, quando eravamo sulla scena del crimine, al ruscello, ho creduto di vedere movimento, in particolare all’ultimo piano della torre... Una tenda che viene scostata dietro la finestra, cose così».
«Anch’io ho avuto la stessa impressione, capo. Anch’io. Eppure nessuno ha risposto, e i vicini dicono che è disabitato da mesi».
«Curioso... Non saremo di nuovo alle prese con l’omertà di paese, con una bugia condivisa da tutti, come per la storia del bambino di undici anni?».
«No...».
Sylvio esita un attimo.
«Lo sa che la gente del luogo l’ha soprannominato il mulino della strega?».
Sérénac sorride guardando il riflesso della torre sparire nello specchietto retrovisore.
«Più che altro il mulino del fantasma, no? Dài, lascia perdere, Sylvio, al momento abbiamo altre urgenze».
Sérénac accelera ancora. I giardini di Monet sfilano sulla sinistra in un nanosecondo. Mai passeggero ne avrà avuto una veduta altrettanto impressionista.
«A proposito dell’omertà paesana» aggiunge Laurenç, «sai cosa mi ha raccontato ieri Stéphanie Dupain riguardo alla casa di Monet e ai suoi atelier?».
«No...».
«Che basterebbe cercare un po’ per trovare, a stento nascoste, decine di tele di maestri. Renoir, Sisley, Pissarro... E naturalmente Ninfee inedite di Monet».
«Lei le ha viste?».
«Un pastello di Renoir. Forse».
«Si è fatto prendere in giro, capo!».
«Lo so... Ma che motivo aveva di dirmi una cosa del genere? Ha anche aggiunto che a Giverny è una specie di segreto di Pulcinella...».
Sylvio ripensa di sfuggita a quanto gli ha detto Achille Guillotin sulle tele perdute di Monet. Una tela perduta e poi ritrovata da uno sconosciuto ci può stare, tipo il famoso Ninfee in nero. Ma decine!
«Si sta prendendo gioco di lei, capo. È dall’inizio che glielo dico. La sta prendendo in giro... E ho la sensazione che non sia l’unica, in questo paese».
Sérénac non risponde. Si concentra di nuovo sulla guida senza diminuire la velocità. Sylvio avvicina il viso pallidissimo al finestrino aperto. Le sue narici cercano di aspirare brandelli d’aria fresca.
«Stai bene, Sylvio?» si preoccupa Sérénac.
«Più o meno... Stanotte ho dovuto bere una decina di caffè per reggere. E stamattina i medici hanno deciso di tenere Béatrice fino alla fine».
«Credevo che bevessi solo tè senza zucchero».
«Anch’io lo credevo...».
«Ma scusa, che ci fai qui se tua moglie è ricoverata?».
«Mi chiamano se ci sono novità. Deve passare il ginecologo... Il bambino è ancora tranquillo al calduccio nel suo bozzolo. Dicono che potrebbe starci ancora qualche giorno...».
«Non dirmi che hai di nuovo passato la notte a lavorare!».
«E certo... Dovevo pure far qualcosa, no? Béatrice dormiva come un ghiro in camera sua...».
Sérénac sterza a novanta gradi per imboccare rue Blanche-Hoschedé-Monet verso Giverny alta. Sylvio dà un’occhiata nel retrovisore. Le altre due macchine seguono. Maury e Louvel stanno incollati. Sylvio trattiene in extremis un conato di vomito.
«Non ti preoccupare» fa Sérénac, «nel giro di mezz’ora il caso Morval sarà chiuso. Potrai farti montare un letto da campo in ospedale! Giorno e notte. I grafologi sono stati chiari, il messaggio inciso nella scatola dei colori, È mia qui, ora e per sempre, corrisponde alla scrittura di Jacques Dupain... Devi riconoscere che avevo ragione. Ci ha messo la firma!».
Sylvio aspira ad ampie boccate l’aria esterna. La via Hoschedé-Monet serpeggia arrampicandosi sul fianco della collina e Sérénac guida sempre come un pazzo. Bénavides si domanda se ce la farà a resistere per tutta la salita. Si impone una lunga apnea, poi torna con la testa nell’abitacolo.
«Solo due grafologi su tre, capo... E le loro conclusioni sono molto dubitative... Dicono che ci sono varie somiglianze tra le parole incise nel legno e la scrittura di Dupain, ma anche parecchie divergenze. La mia sensazione è che i periti non ci capiscano niente...».
Le dita di Sérénac tamburellano nervosamente sul volante.
«Guarda, Sylvio, che anch’io so leggere i rapporti. La perizia dice che ci sono somiglianze con la scrittura di Dupain. Quanto alle divergenze, credo che incidere il legno con una lama sia ben diverso dal mettere la firma su un assegno. Tutto combacia, Sylvio, non complicarti la vita. Dupain è un geloso marcio. Prima ha minacciato Morval col messaggio della cartolina, il verso di Aragon preso dalla poesia Nymphée: Acconsento che venga instaurato il delitto di sognare, poi ha reiterato la minaccia con la scritta nella cassetta portacolori, e infine ha fatto fuori il rivale...».
La via Hoschedé-Monet si è ridotta ormai a un nastro d’asfalto di due metri che continua a girare prima di raggiungere l’altopiano del Vexin. Sylvio si trattiene dal contraddire di nuovo Sérénac ricordandogli che, a fronte delle incoerenze dello studio grafologico Pellissier, lo specialista del palazzo di giustizia di Rouen ha menzionato la possibilità di un maldestro tentativo di imitazione...
Curva stretta a sinistra.
Sérénac, che stava guidando in mezzo alla carreggiata, evita di poco un trattore che scende in senso inverso. Il contadino, terrorizzato, si affretta a sterzare verso il fosso a bordo strada e fa bene. Poi sgrana gli occhi incredulo sugli altri due bolidi che gli rubano la precedenza.
«Cavolo!» urla Sylvio dando un’occhiata allo specchietto.
Fa un lungo respiro e si gira verso Laurenç Sérénac.
«Scusi, capo, ma che c’entra la cassetta portacolori in tutta questa storia? Stando alle analisi è un esemplare di almeno ottant’anni fa. Un pezzo da collezione, una Winsor Newton, la marca più conosciuta del mondo, forniscono i pittori da più di centocinquanta anni... Di chi diavolo era?».
Sérénac continua a stringere i tornanti. Le pecore sui prati della collina, disincantate, degnano appena di uno sguardo il passaggio dei veicoli ululanti.
«Morval era un collezionista» replica Sérénac. «Gli piacevano i begli oggetti...».
«Ma nessuno l’ha mai visto con quella scatola da pittura! Patricia Morval, la vedova, è categorica. Senza contare che non c’è collegamento certo con il delitto. La cassetta potrebbe essere stata buttata nel fiume da chiunque, magari vari giorni dopo l’omicidio di Morval...».
«Abbiamo trovato tracce di sangue nella cassetta...».
«È troppo presto, capo! Non abbiamo ancora le analisi, nessuna certezza che si tratti del sangue di Morval. Mi scusi, ma credo che lei stia correndo troppo...».
Come per rispondergli l’ispettore Sérénac spegne la sirena e si ferma con il freno a mano su un piccolo parcheggio di terra battuta.
«Ascolta, Sylvio, ho un movente e ho una minaccia alla vittima scritta da Dupain di suo pugno, il quale Dupain invece di fornirci un alibi ci racconta una storia inverosimile di stivali rubati... Certo che corro! Quando i pezzi del puzzle si incastreranno diversamente nelle tue tre colonnine fammi un fischio. E poi... lo so che non sei d’accordo, ma a carico di Dupain c’è pure... la mia personale convinzione!».
Sérénac scende dalla macchina senza aspettare risposta. Quando anche Sylvio mette i piedi fuori sente il mondo ruotargli intorno. Pensa che il caffè non fa per lui, come tutti gli eccessi, e anche che farebbe bene ad andare a svuotarsi lo stomaco dietro gli abeti in fondo al parcheggio.
Solo che lo vedrebbero tutti... A ogni estremità del suddetto parcheggio ci sono tre camionette della gendarmeria, da cui escono una decina di agenti stiracchiandosi. L’istante successivo anche Louvel e Maury si sentono in dovere di bloccarsi col freno a mano facendo slittare la macchina sulla ghiaia.
Che coglioni!
Il capo ha fatto le cose in grande. C’è almeno una quindicina di uomini, buona parte del commissariato di Vernon, più le gendarmerie di Pacy-sur-Eure ed écos. Vuole fare colpo, pensa Sylvio masticando la gomma americana alla clorofilla che gli ha offerto Louvel, ma dimostra un gusto per la messinscena forse un po’ superfluo.
Il tutto per un uomo solo.
Certo, probabilmente armato.
Ma della cui colpevolezza non sono neanche sicuri.
Il coniglio rossiccio scappa in disperati zigzag sul prato, come se qualcuno gli avesse spiegato che i lunghi tubi d’acciaio portati dalle tre ombre davanti a sé sono in grado di togliergli la vita con un lampo bianco.
«Tutto tuo, Jacques».
Jacques Dupain non solleva neanche il fucile. Titou lo osserva stupito, poi imbraccia il suo. Troppo tardi. Il coniglio è sparito tra due ginepri.
A ognuno la propria magia.
Davanti a loro c’è solo l’erba spoglia brucata dalle greggi di pecore recentemente reintrodotte. Continuano a scendere verso Giverny dal sentiero dell’Astragale.
«Accidenti, Jacques, sei proprio giù di forma, oggi» sbuffa Patrick. «Mancheresti pure una pecora».
Titou, il terzo cacciatore, annuisce in segno di conferma. Titou è un bravo tiratore. Il coniglio, se non l’avesse lasciato a Jacques, con lui non avrebbe fatto due metri... Grilletto fine, come dicono spesso gli amici. Anche perché per il resto, quanto a finezza...
«È colpa delle indagini sull’assassinio di Morval, vero?» commenta girandosi verso Jacques Dupain. «Hai paura che quel poliziotto ti sbatta dentro solo per fotterti Stéphanie, eh?».
Titou scoppia a ridere da solo. Jacques Dupain lo guarda con nervosismo contenuto. Patrick sospira. Titou insiste.
«Bisogna dire che non hai proprio fortuna con Stéphanie. Subito dopo Morval, ecco che arriva un poliziotto a correrle dietro...».
La ghiaia del sentiero dell’Astragale scivola sotto le loro suole. Dietro, sul prato della collina, spuntano due orecchie bianche e nere.
Titou, quando attacca...
«C’è da dire che, se non fossi mio amico, io Stéphanie...».
La voce di Patrick lacera il silenzio.
«Chiudi il becco, Titou!».
Titou lascia morire la frase tra i baffi. Continuano a scendere per il sentiero. Più che camminare, scivolano. Titou sembra rimuginare qualcosa in testa, poi scoppia a ridere prima ancora di parlare.
«A proposito, Jacques, vedo che i miei stivali non ti fanno male ai piedi...».
Titou non riesce a smettere di ridere. Si sganascia, ha le lacrime agli occhi. Jacques Dupain non ha la minima reazione. Titou si asciuga le palpebre con la manica.
«Sto scherzando, ragazzi. Davvero, Jacques, sto scherzando. Lo so che Morval non l’hai ammazzato tu!».
«Cazzo, Titou, la vuoi smettere di...».
Stavolta è la frase di Patrick a perdersi in fondo alla sua gola.
Di fronte a loro, il parcheggio in cui hanno lasciato il furgoncino si è trasformato in una specie di Fort Alamo. Contano sei macchine con i lampeggianti e quasi una ventina di guardie... Poliziotti e gendarmi sono disposti a semicerchio con la mano sul fianco e il dito sul fodero di pelle bianca della pistola.
L’ispettore Sérénac è un metro davanti ai tutori dell’ordine. Istintivamente Patrick fa un passo di lato e la sua mano si stringe sulla canna del fucile di Jacques Dupain.
«Calma, Jacques, calma».
L’ispettore Sérénac viene avanti.
«Jacques Dupain, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Jérôme Morval. Ci segua senza fare resistenza...».
Titou si morde le labbra, lascia cadere a terra il fucile e alza le mani tremando... come ha visto fare al cinema.
«Calma, Jacques» dice ancora Patrick. «Non fare cazzate...».
Patrick conosce bene il suo amico, sono anni che escono insieme, camminano, cacciano. Non gli piace, non gli piace affatto quel viso di marmo, quell’assenza di espressione, come se non respirasse più.
Sérénac si avvicina ancora. Solo. Disarmato.
Fa due metri...
«No!» grida Sylvio Bénavides rompendo il semicerchio delle guardie e andandosi a mettere quasi accanto a Sérénac.
Forse è simbolico, ma Bénavides ha la sensazione, così facendo, di aver rotto una specie di simmetria, come se puntasse ad alterare la meccanica implacabile di un duello western attraversando la strada al momento sbagliato. Jacques Dupain mette la mano sul pugno di Patrick senza una parola. Patrick ha capito, non ha altra scelta che lasciare la canna d’acciaio.
Spera solo di non rimpiangerlo per tutta la vita.
Vede con timore la mano di Jacques contrarsi sul grilletto, il fucile sollevarsi piano.
A cose normali Jacques ha una mira ancora migliore di Titou.
«Si fermi, Laurenç» mormora Sylvio, pallidissimo.
«Jacques, non fare il cretino» sussurra Patrick.
Sérénac fa un altro passo. Meno di dieci metri lo separano da Jacques Dupain. L’ispettore alza lentamente la mano e fissa il sospettato negli occhi. Sylvio Bénavides guarda con terrore un sorriso di sfida fare la sua comparsa sulle labbra del capo.
«Jacques Dupain, lei...».
Jacques Dupain punta il fucile su Sérénac. Sul sentiero dell’Astragale scende un silenzio impressionante.
Titou, Patrick, gli agenti Louvel e Maury, l’ispettore Sylvio Bénavides, le quindici guardie, anche i meno svegli, anche i meno abili a intuire cosa può nascondersi in un cervello, tutti leggono la stessa cosa nello sguardo freddo di Jacques Dupain.
Odio.
La ragazza allo sportello degli archivi del polo amministrativo di Évreux comincia sempre le sue frasi con quattro parole: “Ha controllato bene se...”. Recita con applicazione la parte dell’impiegata oberata di cose da fare dietro il doppio schermo di computer e occhiali dorati, poi si decide a guardare l’anziano signore che le sta chiedendo alcune copie del rimpianto Républicain de Vernon, il settimanale locale che dopo la Seconda guerra mondiale è diventato Le Démocrate. Tutti i numeri tra gennaio e settembre del 1937.
«Ha controllato bene se a Vernon, alla sede del Démocrate, non hanno un archivio?».
Il commissario Laurentin mantiene la calma. Sono due ore che gira per gli archivi del dipartimento cercando di avere l’aria umile del caro vecchietto premuroso con le donne più giovani di lui. Di solito funziona.
Non in quel caso.
La ragazza allo sportello se ne infischia delle sue moine. C’è da dire che le dieci persone sedute ai tavoli di legno della sala di consultazione sono uomini di più di sessant’anni, storici dilettanti settuagenari o archeologi genealogisti alla ricerca delle proprie radici, e tutti hanno adottato la stessa strategia di Laurentin: una galanteria un po’ fuori moda. Il commissario sospira. Era tutto più semplice quando poteva sbattere il tesserino sotto gli occhi di un impiegato poco collaborativo. Naturalmente la ragazza allo sportello non immagina neanche di avere a che fare con un commissario di polizia.
«Ho controllato, signorina» risponde Laurentin sforzandosi di sorridere. «Alla sede del Démocrate non hanno niente di precedente al 1960...».
La ragazza recita la consueta litania.
«Ha controllato bene all’archivio comunale di Vernon? Ha controllato bene la sezione riviste dell’archivio nazionale a Versailles? Ha controllato se...».
Che sia pagata dalla concorrenza?
Il commissario Laurentin si rifugia nella rassegnazione paziente del pensionato che ha tutto il tempo del mondo.
«Sì, ho controllato! Sì!».
Al momento le sue ricerche su Henriette Bonaventure, la misteriosa potenziale ultima erede di Claude Monet, sono state infruttuose. Ma non è la cosa più importante. La pista che vuole seguire è un’altra, una pista che a priori non c’entra niente. Per arrivarci sa che deve reggere fino a quando la signorina allo sportello capirà che sta perdendo più tempo a cercare di liberarsi del vecchietto cocciuto che non ad accogliere le sue richieste.
La sua tenacia paga. Più di mezz’ora dopo il commissario ha davanti a sé il settimanale.
Le Républicain de Vernon...
Prende un vecchio numero ingiallito datato sabato 5 giugno 1937, che probabilmente è il primo a riesumare. Si sofferma un attimo sulla prima pagina in cui avvenimenti nazionali sono mischiati a cronaca locale. Sorvola su un ardente editoriale sull’Europa in fiamme: Mussolini celebra l’alleanza con Hitler, in Germania vengono confiscati i beni degli ebrei, in Catalogna i franchisti sconfiggono i repubblicani... Sotto il drammatico articolo spiccano, in una foto sfocata, i capelli biondo platino e le labbra nere di Jean Harlow, la star americana che morirà qualche giorno dopo a ventisei anni. La parte inferiore della prima pagina è dedicata a questioni più regionali: l’imminente inaugurazione dell’aerostazione di Le Bourget, a meno di cento chilometri da Vernon, la morte di un bracciante spagnolo trovato la mattina con il collo spezzato su una chiatta ormeggiata a Port-Villez, quasi di fronte a Giverny...
Finalmente si decide a voltare pagina. L’articolo che sta cercando si sviluppa su metà della pagina due: “Incidente mortale a Giverny”.
In una decina di righe su due colonne l’anonimo giornalista descrive le tragiche circostanze dell’annegamento nel canale di derivazione proveniente dall’Epte di un ragazzino di undici anni, Albert Rosalba, nel luogo denominato La Prairie, in prossimità del lavatoio donato da Claude Monet e del mulino delle Chennevières. Il ragazzino era solo. La gendarmeria ha stabilito essersi trattato di un incidente: il ragazzo sarebbe scivolato battendo la testa su una pietra dell’argine. Privo di sensi, Albert Rosalba, peraltro eccellente nuotatore, è affogato in venti centimetri d’acqua. L’articolo cita poi il dolore della famiglia Rosalba e dei compagni di classe del piccolo Albert. Spende anche qualche parola sulla polemica in corso: Claude Monet è morto da più di dieci anni, non sarebbe il caso di troncare il braccio artificiale di fiume e lasciar seccare quell’insalubre stagno di ninfee ormai in uno stato di semiabbandono?
Il trafiletto è corredato da una fotografia sfocata di Albert Rosalba, in posa con il grembiule nero abbottonato fino al collo e i capelli corti, sorridente al suo banco di scuola. Una commovente fotografia di un bravo bambino.
È proprio lui, pensa il commissario Laurentin.
Dalla borsa posata ai suoi piedi tira fuori una fotografia di classe. Data e luogo sono indicati su una lavagnetta attaccata a un albero del cortile della scuola: “Scuola comunale di Giverny, 1936-1937”.
È stata Liliane Lelièvre a trovargli in tre clic quell’immagine d’archivio sul sito Copains d’Avant, proprio come Patricia Morval gli aveva detto al telefono. Stando a Liliane si tratta di un sito in cui si può navigare tra le classi frequentate dall’asilo in poi, in cui si possono ritrovare volti di gente conosciuta durante la vita, e non solo sui banchi di scuola, anche tutti quelli con cui si è condiviso una fabbrica, un reggimento, una colonia estiva, un club sportivo, una scuola di musica... o di pittura...
È al limite del surreale, pensa il commissario Laurentin. È come se non ci fosse più bisogno di far lavorare la propria memoria... Ciao, Alzheimer. È come se tutta una vita fosse archiviata, classificata, svelata e addirittura aperta alla condivisione... O quasi. La maggior parte delle fotografie sul sito risalgono a dieci anni prima, al massimo venti o trenta. Curiosamente, quella foto di classe dell’anno scolastico 1936-1937 è di gran lunga la più antica.
Strano...
Come se Patricia Morval l’avesse messa apposta online perché lui la scoprisse. Il commissario Laurentin si concentra di nuovo sulle foto.
Sì, è proprio lui...
L’immagine sul Républicain de Vernon corrisponde perfettamente al bambino della foto di classe seduto al centro della seconda fila.
Albert Rosalba.
Viceversa sulla foto presa dal sito Copains d’Avant non ci sono nomi. Probabilmente nelle copie originali erano scritti sul retro... Pazienza. Laurentin chiude Le Républicain de Vernon del 5 giugno 1937 e sfoglia i numeri successivi. Si concede il tempo di leggere le pagine locali, di esaminare i particolari. Nel numero del 12 giugno 1937 viene citato il funerale di Albert Rosalba nella chiesa di Sainte-Radegonde di Giverny nonché il dolore di parenti e amici.
Tre righe.
Laurentin continua, apre e chiude i giornali che si accumulano sotto lo sguardo preoccupato della ragazza allo sportello.
15 agosto 1937...
Finalmente ha trovato quello che cercava. È un piccolo articolo di poche righe e senza fotografie, ma il titolo è esplicito.
LA FAMIGLIA ROSALBA LASCIA GIVERNY.
NON HA MAI CREDUTO ALLA TESI DELL’INCIDENTE.
Hugues e Louise Rosalba, operai da più di quindici anni nelle fonderie di Vernon, hanno deciso di lasciare il paese di Giverny. Ricordiamo la tragedia che li ha colpiti due mesi fa: il loro unico figlio Albert, dopo una caduta inspiegabile, è accidentalmente affogato nel ruscello dell’Epte che costeggia chemin du Roy. Quell’annegamento aveva scatenato una breve polemica in consiglio comunale sull’opportunità di prosciugare il braccio dell’Epte e i giardini di Monet. I coniugi Rosalba spiegano la partenza con l’impossibilità per loro di continuare a vivere nel posto in cui il figlio ha trovato la morte. Particolare imbarazzante, Louise Rosalba sostiene che a spingerla ad andare via è soprattutto lo sconcertante silenzio degli abitanti di Giverny. Secondo lei Albert non andava mai in giro da solo per il paese. L’ha detto più volte ai gendarmi e l’ha ribadito al sottoscritto: «Albert non era solo in riva al ruscello. Ci sono sicuramente testimoni. C’è sicuramente gente che sa». Sempre secondo Louise Rosalba «la tesi dell’incidente soddisfa tutti. Nessuno vuole uno scandalo a Giverny. Nessuno vuole affrontare la verità».
Toccante convinzione di una madre addolorata... Auguriamo buona fortuna ai coniugi Rosalba perché riescano a ricostruirsi una vita lontano da questi macabri ricordi.
Il commissario Laurentin rilegge più volte l’articolo, chiude il giornale e sfoglia a lungo le restanti copie del Républicain de Vernon dell’anno 1937, ma non trova nessun altro articolo dedicato al caso Rosalba. Rimane a lungo immobile. Per un attimo si chiede cosa stia facendo lì. La sua esistenza è diventata talmente vuota da portarlo a passare le giornate dietro alla prima chimera che si presenta? Percorre con lo sguardo la sala e la decina di altri appassionati di archivi concentratissimi su pile di documenti ingialliti. A ognuno la propria ricerca... La penna del commissario scarabocchia sul taccuino: 2010-1937=73...
Fa un rapido calcolo. Nel 1937 il piccolo Albert aveva undici anni, quindi è nato nel 1925 o 1926... Nel 2010 i coniugi Rosalba potrebbero avere un po’ più di cent’anni. Un bagliore illumina gli occhi del commissario Laurentin.
Forse sono ancora vivi...
La ragazza allo sportello guarda avvicinarsi il commissario con l’aria dell’impiegata che vede spuntare un cliente all’ora di chiusura. Solo che sono circa le undici di mattina e l’archivio rimane aperto tutto il giorno... Il commissario Laurentin si produce in un numero di charme stile vecchio attore dell’età d’oro di Hollywood, di quelli che non si sa se sono ancora vivi o no, un misto di Tony Curtis e Henry Fonda.
«Signorina, ha un elenco telefonico elettronico su internet? Sto cercando un indirizzo, è piuttosto urgente...».
La ragazza impiega un’eternità a sollevare la testa per dire:
«Ha controllato bene se...».
Il commissario esplode letteralmente e le sbatte la carta d’identità sotto il naso.
«Commissario Laurentin! Del commissariato di Vernon! In pensione, d’accordo, ma questo non mi impedisce di continuare a fare il mio lavoro. Quindi, dolcezza, cerchi di darsi un po’ una mossa...».
La ragazza sospira senza manifestare collera né panico, come se fosse abituata alle eccentricità degli anziani che razzolano negli archivi e che di quando in quando, chissà perché, si fanno prendere da una crisi. Peraltro accelera visibilmente la velocità delle dita sulla tastiera.
«Che nome sta cercando?».
«Hugues e Louise Rosalba».
La ragazza strimpella un allegro ma non troppo.
«Vuole un indirizzo?» chiede Laurentin.
«Per Hugues Rosalba non c’è bisogno» risponde sobriamente lei. «Controllo sempre prima di mettere in subbuglio l’Interpol. Questione d’abitudine! Hugues Rosalba è morto nel 1981 a Vascœuil...».
Laurentin incassa. Niente da dire. La ragazza è organizzata...
«E la moglie Louise?».
La ragazza strimpella un altro po’.
«Non c’è traccia di decesso... E nessun indirizzo conosciuto».
Vicolo cieco!
Laurentin si guarda intorno nella stanza bianca alla ricerca di un’idea. Per non saper che fare rivolge alla ragazza uno sguardo da spaniel alla Sean Connery. Dall’altra parte dello sportello gli risponde un sospiro esasperato.
«Generalmente» fa la ragazza con voce annoiata, «per ritrovare le persone di una certa età conviene cercare nelle case di riposo, più che sull’elenco... Nell’Eure ce ne sono un bel po’, ma se questa Louise abitava a Vascœuil potremmo cominciare da quella zona...».
Sean Connery ritrova il sorriso. Ancora un po’ e l’altra si sarebbe sentita Ursula Andress. La ragazza digita a raffica sulla tastiera. I minuti passano.
«Ho cercato le case di riposo su Google Maps» dice alla fine. «La più vicina a Vascœuil è sicuramente il pensionato Les Jardins, a Lyons-la-Forêt. Dovremmo poter trovare qualche informazione sui residenti... Come ha detto che si chiama?».
«Louise Rosalba».
Crepitio di tasti.
«Avranno pure un sito... Ah, eccolo».
Laurentin storce il collo nel tentativo di vedere un frammento di monitor. I minuti continuano a passare. A un certo punto la ragazza solleva la testa trionfante.
«Alè! Ho trovato la lista completa dei residenti, inclusa la persona che cerca. Come vede non era poi così complicato. Louise Rosalba è entrata nella casa di riposo di Lyons-la-Forêt quindici anni fa e a quanto pare è ancora lì... Centodue anni! La avverto che non garantisco l’assistenza clienti, commissario...».
Laurentin sente il cuore accelerargli pericolosamente. Riposo, riposo, non fa che dirgli il cardiologo... Dio, ma è possibile? Ci sarebbe ancora un testimone?
Un ultimo testimone?
Vivo!
Le tre camionette della gendarmeria scendono rue Blanche-Hoschedé-Monet a sirene spiegate. Non si danno neanche la pena di aggirare il paese, tagliano per la via più breve, rue Blanche-Hoschedé-Monet, rue Claude-Monet, chemin du Roy...
Giverny sfila.
Il municipio...
La scuola...
Appena sentono le sirene tutti i bambini della classe vorrebbero precipitarsi alla finestra. Stéphanie Dupain li trattiene con un gesto posato. Nessun alunno ha notato il suo turbamento. Per mantenere l’equilibrio, la maestra posa la mano sulla cattedra.
«Bambini... Calma!... Torniamo al nostro programma...».
Si schiarisce la voce. Le sirene della polizia le risuonano ancora nella testa.
«Allora, bambini, stavamo parlando del concorso “Pittori in erba” organizzato dalla Fondazione Robinson. Vi ricordo che mancano solo due giorni alla consegna dei quadri... Spero che quest’anno sarete in molti a partecipare...».
Stéphanie è incapace di scacciare dalla mente l’immagine del marito sorridente quella mattina stessa, lei ancora a letto e lui che l’ha baciata posandole una mano sulla spalla: «Buona giornata, amore».
Continua a recitare una lezione più volte ripetuta.
«So bene che nessun bambino di Giverny ha mai vinto il concorso, ma sono anche sicura che quando la giuria internazionale vede che un candidato proviene dalla scuola di Giverny ha un occhio di riguardo!».
Stéphanie rivede Jacques che si infila la cartucciera, che stacca dal muro il fucile da caccia...
«Capite, bambini, Giverny è un nome che fa sognare i pittori di tutto il mondo...».
Altri due bolidi blu attraversano il paese. Stéphanie sobbalza suo malgrado, nel panico. Impotente. Le macchine non hanno minimamente rallentato in centro.
Laurenç?
Stéphanie cerca di nuovo di concentrarsi. Guarda la classe, passa in rassegna una per una le facce davanti a sé. Sa che tra i suoi alunni alcuni sono particolarmente dotati.
«Ho notato che tra voi c’è qualcuno con molto talento».
Fanette abbassa gli occhi. Non le piace quando la maestra la guarda così. Si sente a disagio.
Mi sa che ce l’ha con me...
«Sto pensando soprattutto a te, Fanette. Conto su di te!».
Che avevo detto?...
La bambina arrossisce fino alle orecchie. L’attimo dopo la maestra si gira verso la lavagna. Dal fondo dell’aula Paul strizza l’occhio a Fanette, si allunga sul banco sotto gli occhi di Vincent, seduto accanto a lui, e tende il collo per avvicinarsi più che può all’amica.
«Ha ragione la maestra, Fanette! Lo vincerai tu, il concorso. Tu e nessun altro!».
Mary, seduta al banco davanti accanto a Camille, si gira verso di loro.
«Zitti...».
Poi tutte le teste si bloccano.
Qualcuno ha bussato alla porta.
Stéphanie va ad aprire preoccupata e si trova davanti il viso disfatto di Patricia Morval.
«Stéphanie... Ho bisogno di parlarti... È... è importante».
«A... aspettatemi, bambini».
Ancora una volta cerca di fare in modo che i suoi gesti non tradiscano il terribile panico di cui è preda.
«Ci metto un secondo...».
Stéphanie esce, si chiude la porta alle spalle e cammina fino al cortile del municipio, sotto i tigli. Patricia Morval non nasconde il suo stato di eccitazione. Ha indosso una giacca sgualcita che fa a pugni con la gonna verde bottiglia. Stéphanie nota che il suo chignon, di solito impeccabile, è stato fatto di fretta. Mancava solo che si precipitasse per la strada in accappatoio...
«Sono stati Patrick e Titou ad avvertirmi» dice d’un fiato. «Hanno arrestato Jacques al ritorno dalla caccia, alla fine del sentiero dell’Astragale».
Stéphanie appoggia la mano al tronco del tiglio più vicino. Non capisce.
«Cosa? Che stai dicendo?...».
«L’ispettore Sérénac... Ha arrestato Jacques con l’accusa di aver ucciso Jérôme!».
«Lau... Laurenç...».
Patricia Morval la guarda in modo strano.
«Sì, Laurenç Sérénac... Quel poliziotto...».
«Dio mio... E Jacques non ha...».
«No no, tranquillizzati, tuo marito non ha fatto niente. Per fortuna che c’era Patrick, dicono. E anche il vice di Sérénac, l’ispettore Bénavides. Sono stati loro a evitare per un pelo che finisse in carneficina. Ti rendi conto, Stéphanie, quel cretino di Sérénac crede che sia stato Jacques a uccidere Jérôme...».
Stéphanie sente che le gambe non la reggono più, si lascia scivolare contro il tronco chiaro dell’albero. Ha bisogno di respirare. Ha bisogno di riflettere con calma. Deve tornare in classe, i bambini la aspettano. Deve correre al commissariato. Deve...
Le mani di Patricia Morval torturano il colletto della giacca sgualcita.
«È stato un incidente, Stéphanie. Fin dall’inizio ho voluto credere che sia stato un incidente. Ma se mi fossi sbagliata? Se qualcuno avesse davvero ucciso Jérôme? Non può essere stato Jacques, vero? Dimmi che non può essere stato Jacques...».
Stéphanie posa su Patricia Morval il suo sguardo ninfea. Occhi del genere non possono mentire.
«No, Patricia, certo che no...».
Sto spiando le due donne. Insomma, spiando è una parola grossa... Sto semplicemente seduta di fronte, dall’altra parte della strada, a pochi metri dall’Art Gallery Academy, comunque non troppo vicina alla scuola. Non totalmente invisibile, solo discreta. Al posto giusto per non perdere niente della scena. Sono abbastanza brava in questo, penso che ve ne siate resi conto. Non che sia così difficile, Patricia e Stéphanie parlano forte. Neptune è accucciato ai miei piedi. Come ogni giorno aspetta l’uscita dei bambini. Ha certe manie, quel cane... E io, come una scema, gliele do tutte vinte, vengo qui quasi ogni giorno ad aspettare con lui che finisca la scuola.
Nell’attesa Neptune deve accontentarsi di un’uscita di classe che gli dà molta meno voglia di scodinzolare: si tratta dei pittori dell’Art Gallery Academy che se ne vanno, una quindicina di artisti promettenti come uno scranno senatoriale. Naturalmente si tirano dietro i carrelli da pittura ed esibiscono badge rossi, casomai si perdessero. L’uscita da scuola della terza età, sezione internazionale: canadesi, americani e giapponesi.
Cerco di concentrarmi sulla conversazione tra Stéphanie Dupain e Patricia Morval. L’epilogo è prossimo, si avvicina l’ultimo atto della tragedia antica, il sacrificio sublime...
Non hai più scelta, povera Stéphanie.
Dovrai...
Non ci credo!
Un pittore mi si è piantato davanti, un ottantenne americano con tanto di berretto di Yale sulla testa e sandali di cuoio con i calzini.
Che diavolo vuole da me?
«Tutte le mie scuse, miss...».
Pronuncia ogni parola con l’accento texano. Tra una sillaba e l’altra passano tre secondi, ossia meno di una frase al minuto...
«Lei è sicuramente di qui, miss. Deve sicuramente conoscere un posto originale per dipingere...».
A stento riesco a essere educata!
«Cinquanta metri più su c’è un pannello con la mappa di tutti i sentieri e i panorami».
Tutta la frase in dieci secondi, record battuto! L’ho praticamente mandato al diavolo, ma l’americano continua a sorridere.
«Molte grazie, miss... E molto buona giornata a lei».
Se ne va. Maledico dentro di me quell’infausta invasione! Il texano mi ha fatto perdere il filo della scena. Ora Patricia Morval è sola sulla piazza del municipio. Stéphanie è rientrata in classe. Chiaramente sconvolta, dilaniata dal dilemma supremo.
Il marito devoto messo in gabbia dal bell’ispettore.
Povera cara, se sapessi... Se sapessi che in realtà stai scivolando su una tavola che è stata insaponata apposta per te. Inesorabilmente.
Ancora una volta esito. Non vi nascondo che anch’io sono dilaniata dal dilemma: tacere o prendere la corriera e andare a raccontare tutto al commissariato di Vernon? Se non mi decido adesso, è molto probabile che dopo non ne avrò più il coraggio. Me ne rendo conto. I poliziotti annaspano... Non hanno interrogato i testimoni giusti e non hanno riesumato i cadaveri giusti. Lasciati a se stessi non scopriranno mai la verità, non potranno nemmeno sospettarla. Non fatevi illusioni, ormai nessun poliziotto, per quanto geniale, riuscirà più a fermare quest’ingranaggio maledetto.
Gli americani si disperdono per il paese come commessi viaggiatori in un quartiere residenziale. Il berretto Yale, senza il minimo rancore, mi rivolge persino un saluto con la mano. Patricia Morval rimane ancora un po’ pensierosa sulla piazza del municipio, poi torna verso casa sua.
Necessariamente, passa davanti a me.
Che muso!
Ha il viso chiuso della donna rassegnata a non conoscere altro amore diverso da quello che le è appena stato tolto. Non può non ripensare alla nostra conversazione di qualche giorno fa, le mie confidenze, il nome dell’assassino di suo marito... Che ne ha fatto? Mi avrà creduta, almeno? Una cosa è certa, con la polizia non ha parlato. Lo saprei!
Mi sforzo di dirle qualcosa. Non parlo più molto, come avete notato, neanche con gli americani che cercano di rimorchiarmi.
«Come va, Patricia?».
«Oh, bene... Grazie...».
Neppure la vedova Morval è molto loquace.
«Dov’è mio marito?».
«In carcere a Évreux» risponde Sylvio Bénavides. «Non si preoccupi, signora Dupain, è solo un’imputazione. Il giudice istruttore riprenderà in mano tutto...».
Stéphanie Dupain fissa uno dopo l’altro i due uomini che le stanno di fronte, gli ispettori Sylvio Bénavides e Laurenç Sérénac. Più che parlare, urla.
«Non potete farlo!».
Sérénac alza gli occhi sulle pareti dell’ufficio e si sofferma sui quadri. Il suo sguardo si perde nei meandri dei giochi di luce della schiena nuda della donna dai capelli rossi dipinta da Toulouse-Lautrec. Lascia che sia Sylvio a rispondere, lo farà tanto meglio in quanto cercherà di convincere se stesso.
«Signora Dupain, guardiamo in faccia la realtà. Tutti gli indizi convergono su suo marito. Tanto per cominciare gli stivali spariti...».
«Glieli hanno rubati!».
«Poi la cassetta portacolori ritrovata sul luogo del delitto» continua Bénavides impassibile. «Con minacce incise all’interno dalla mano di suo marito, come conferma la maggior parte dei periti...».
La notizia fa vacillare Stéphanie Dupain. A quanto pare sta venendo a sapere in quel momento della cassetta portacolori e sembra attingere nelle ombre della sua memoria. Anche lei si gira a guardare i poster attaccati al muro. Rimane lunghi secondi sulla riproduzione dell’Arlecchino di Cézanne col suo cappello di luna, come per cercare in quel viso senza labbra la forza di rifiutarsi di cedere.
«Sarò andata a passeggio con Jérôme Morval due volte, forse tre. Abbiamo solo chiacchierato. Il gesto più audace che abbia tentato è stato prendermi la mano. Ho messo subito le cose in chiaro e non l’ho più rivisto da solo. Ve lo può confermare Patricia Morval, siamo amiche fin da bambine. Signori, tutto ciò è ridicolo, non avete un movente...».
«E suo marito non ha un alibi!».
È stato Laurenç Sérénac a rispondere a caldo, saltando le lunghe spiegazioni di Sylvio.
Stéphanie esita a lungo. Dall’inizio dell’incontro Laurenç evita di incrociarne lo sguardo. La donna tossisce, contrae le mani sulla gonna, poi dice con voce atona:
«Mio marito non ha potuto uccidere Jérôme Morval. Quella mattina era a letto con me».
Gli ispettori Bénavides e Sérénac si paralizzano con la stessa espressione inebetita. Bénavides resta con una mano a mezz’aria, quella che tiene la penna. Sérénac rimane con il gomito sul tavolo e il palmo aperto che regge il peso di un mento non rasato e di una testa diventata improvvisamente troppo pesante. Nella stanza 33 cala un silenzio da museo. Stéphanie decide di sfruttare il vantaggio.
«Se desiderate ulteriori particolari» aggiunge, «io e Jacques abbiamo fatto l’amore, quella mattina. Ho preso io l’iniziativa. Voglio un figlio. Eravamo a letto insieme quando Jérôme Morval è stato assassinato, è materialmente impossibile che il colpevole sia mio marito».
Sérénac si alza. La risposta schiocca come una frusta.
«Stéphanie, lei mi ha detto il contrario qualche giorno fa. Ha affermato che suo marito era andato a caccia come tutti i martedì».
«Ci ho ripensato in seguito. Ero... turbata. Mi sono sbagliata di giorno...».
Sylvio Bénavides si alza a sua volta con l’intenzione di appoggiare il capo.
«Il suo ripensamento non cambia niente, signora Dupain. La testimonianza di una moglie in favore del marito non vale...».
Stéphanie Dupain alza la voce.
«Sciocchezze! Qualsiasi avvocato...».
È il tono di Sérénac, invece, a farsi più calmo.
«Sylvio, lasciaci soli».
Bénavides non nasconde la delusione, ma sa di non avere scelta. Raduna una serie di documenti, se li mette sottobraccio ed esce dalla stanza 33 chiudendosi la porta alle spalle.
«Lei... lei sta sciupando tutto!» esplode subito Stéphanie Dupain.
Laurenç Sérénac mantiene la calma. È seduto sulla poltroncina a ruote e la fa lentamente scivolare con i piedi tesi.
«Perché lo fa?».
«Cosa?».
«La falsa testimonianza».
Stéphanie non risponde, il suo sguardo passa da Cézanne alla schiena nuda della donna dai capelli rossi.
«Odio Toulouse-Lautrec... Detesto questa specie di voyeurismo ipocrita...».
Abbassa gli occhi. Per la prima volta in quell’ufficio il suo sguardo incontra quello di Laurenç Sérénac».
«E lei perché lo fa?».
«Cosa?».
«Concentrarsi su quest’unica pista... Braccare mio marito come un assassino. Non è colpevole, io lo so. Lo liberi!».
«E le prove?».
«Jacques non aveva alcun movente. È ridicolo! Quante volte devo dirglielo, non sono mai stata a letto con Morval. Non ha un movente e comunque ha un alibi... Io...».
«Non le credo, Stéphanie...».
Nella stanza 33 il tempo si è fermato.
«Allora che facciamo?».
Stéphanie cammina per la stanza a passettini nervosi. Laurenç la osserva adottando di nuovo la sua posizione falsamente rilassata, con la testa obliqua e il mento sostenuto dalla mano aperta. Stéphanie inspira profondamente, come se si perdesse nella spirale dello chignon rosso sulla schiena nuda della modella dipinta da Toulouse-Lautrec, poi si gira di scatto.
«Ispettore, quante scelte ha una donna disperata? Fino a dove può spingersi per salvare suo marito? Quanto tempo le serve per capire il messaggio? Sa quei romanzi noir americani dove c’è il poliziotto che mette sotto accusa un poveraccio solo per fregargli la moglie?...».
«No, Stéphanie...».
Stéphanie Dupain si avvicina alla scrivania. Lentamente si slaccia i due nastri d’argento che le trattengono i lunghi capelli castani. Se li scioglie con delicatezza sedendosi sul piano del tavolo. È meno di un metro più in alto del poliziotto, ma se lui rimane seduto deve alzare gli occhi su di lei.
«È quello che voleva, no, ispettore? Vede, non sono così tonta. Se mi concedo a lei tutto sarà finito, giusto?».
«La smetta, Stéphanie».
«Cos’è, ha paura di salire l’ultimo gradino? Non si faccia troppe domande... Ha preso nella sua rete la donna che le piace. Ce l’ha in pugno, il marito è dietro le sbarre, è intrappolata, è sua...».
Stéphanie fa risalire lentamente le gambe in modo che la gonna le scenda lungo la pelle nuda. Un bottone della camicetta le sparisce fra le dita. Lentiggini le esplodono all’attaccatura del seno fino al bordo superiore di un reggipetto svelato.
«Stéphan...».
«A meno che non sia lei, la donna che le piace, a tirare i fili fin dall’inizio. Dopo tutto perché no?».
Gli occhi di Stéphanie si fanno a mandorla. Laurenç Sérénac si sorprende a vederci dentro il mistero orientale di un’alba indaco. Deve ripigliarsi, ma non ha il tempo di ragionare, la maestra continua.
«Oppure tutti e due. Marito e moglie complici diabolici. La coppia infernale. E lei, ispettore, nient’altro che un giocattolo nelle loro mani...».
Stéphanie, sempre seduta, ha posato entrambi i piedi sul tavolo. La gonna di tela beige si riduce a uno straccio intorno alla vita. Un secondo bottone della camicetta salta. Sotto il fine merletto della sottoveste si intuiscono i capezzoli della maestra. Gocce di sudore le colano nella piega tra i seni.
Gocce di paura? Di eccitazione?
«La pianti, Stéphanie. Smetta questo gioco ridicolo. Metto a verbale la sua deposizione».
Si alza e afferra un foglio di carta. Piano, Stéphanie Dupain si riabbottona la camicia, si liscia la gonna tornata al proprio posto e accavalla le gambe.
«La avverto, ispettore, non cambierò idea. Non modificherò una virgola di quello che ho detto prima. La mattina in cui Jérôme Morval è stato assassinato Jacques era a letto con me...».
L’ispettore scrive lentamente.
«Ne prendo nota, Stéphanie. Anche se non le credo...».
«Vuole altri particolari, ispettore? Vuole mettere alla prova la credibilità delle mie affermazioni? Vuole sapere in che posizione l’abbiamo fatto? Se ho goduto?».
«Il giudice istruttore glielo chiederà certamente...».
«Lo scriva, allora. Lo scriva, Laurenç. No, non ho goduto. L’abbiamo fatto in fretta. Io sopra di lui. Voglio un figlio... Pare che mettersi a cavalcioni sull’uomo sia la posizione migliore per avere un figlio...».
L’ispettore, sempre con gli occhi bassi, scrive in silenzio.
«Vuole ancora dettagli? Mi dispiace, non ho fotografie né prove, ma posso farle una descrizione...».
Laurenç Sérénac si alza lentamente.
«Lei sta imbrogliando, Stéphanie».
L’ispettore gira intorno alla scrivania, apre il primo cassetto e tira fuori un libro con la copertina di cartone. Aurélien.
«Sono convinto che stia imbrogliando».
Apre il libro a una pagina con l’orecchietta.
«Non dimentichi che è stata lei a dirmi di leggere questo libro di Aragon, per via della strana frase trovata in tasca a Jérôme Morval. “Il delitto di sognare” e via di seguito... Vuole che le rinfreschi la memoria, Stéphanie? Capitolo 64. Aurélien incontra Bérénice nei giardini di Monet, lei fugge per un sentiero infossato di Giverny, come se volesse sfuggire al suo destino. Aurélien la insegue e la ritrova ansimante addossata al terrapieno... Deve scusarmi, temo di non ricordare esattamente il testo, le leggo la scena...».
E, quasi per la prima volta, Laurenç Sérénac sostiene lo sguardo porpora di Stéphanie.
«Aurélien avanzava verso di lei, ne vedeva il petto sollevato, la testa rovesciata con i capelli biondi che cadevano tutti da un lato. Palpebre provate, occhiaie che rendevano più conturbante lo sguardo, e quella bocca tremante, e i denti stretti erano felini, così bianchi...».
L’ispettore viene avanti. È in piedi davanti a Stéphanie. Lei, bloccata sulla scrivania, non può indietreggiare. Laurenç avanza ancora, la tela dei suoi jeans tocca il ginocchio della maestra, che sente il bacino dell’ispettore esattamente all’altezza del basso ventre. Basterebbe che Stéphanie smettesse di tenere le gambe accavallate...
Sérénac continua a leggere.
«Aurélien si fermò. Era davanti a lei, vicinissimo, la sovrastava. Non l’aveva mai vista così...».
Lascia per un attimo il libro.
«È lei che sta sciupando tutto, Stéphanie».
Le posa una mano sul ginocchio nudo. La carne ha un brivido, Stéphanie non può farci niente, né riesce a frenare il tremito delle sue gambe attorcigliate come un glicine a un sostegno. Anche la sua voce è insicura.
«Lei è una strana persona, ispettore. Un poliziotto che ama la pittura... la poesia...».
Sérénac non risponde. Volta qualche pagina.
«Ancora il capitolo 64, un po’ più avanti, se lo ricorda? La condurrò da qualche parte in cui nessuno la conosca, neanche i motociclisti... In cui sarà libera di scegliere... In cui decideremo insieme della nostra vita...».
Il braccio gli cade lungo il corpo, come se il libro pesasse una tonnellata. Lascia a lungo l’altra mano sulla pelle liscia della coscia che ancora trema, come per calmare il cuore agitato di un neonato...
Rimangono così, in silenzio.
Sérénac è il primo a rompere l’incanto. Fa un passo indietro. La sua mano si chiude sul foglio in cui ha trascritto la deposizione della maestra.
«Mi dispiace, Stéphanie. È stata lei a dirmi di leggere quel libro...».
Stéphanie Dupain si passa la mano sugli occhi tra lacrime, emozione e stanchezza.
«Non faccia confusione... Anch’io ho letto Aragon. Ho capito, sono libera di scegliere. Si rassicuri, deciderò della mia vita... Se ci tiene a saperlo, Laurenç, gliel’ho già detto, non amo mio marito. Le do anche un’anteprima: credo che lo lascerò. È una cosa che si è fatta strada in me come un lungo fiume, come se i mulinelli di questi ultimi giorni non potessero che annunciare la cascata, capisce quello che voglio dire? Tutto ciò non cambia il fatto che lui sia innocente... Una donna non lascia un uomo che è in galera. Una donna può lasciare solo un uomo libero, mi segue, Laurenç? La mia deposizione rimane tale e quale. Quella mattina facevo l’amore con mio marito. Mio marito non ha ucciso Jérôme Morval...».
Senza una parola, Laurenç Sérénac porge alla maestra il foglio e una penna. Stéphanie firma senza rileggere e lascia l’ufficio. Sérénac posa lo sguardo sulle ultime righe del capitolo 64 di Aurélien.
La guardò fuggire. Curvava le spalle, faceva quella che cammina piano... Lui era immobilizzato da quell’incredibile confessione. Quindi lei mentiva! No, non mentiva.
Quanto tempo passa prima che Sylvio Bénavides bussi alla porta? Lunghi minuti? Un’ora?
«Vieni, Sylvio».
«Allora?».
«Mantiene la sua versione. Copre il marito».
Sylvio Bénavides si morde le labbra.
«Forse è meglio, dopo tutto».
Posa alcuni fogli sul tavolo.
«È appena arrivato. Pellissier, il grafologo di Rouen, ha modificato la sua relazione. Dopo aver fatto analisi più approfondite ha concluso che il messaggio inciso sulla cassetta portacolori trovata nel ruscello non può essere stato scritto da Dupain».
E dopo una pausa esasperante aggiunge:
«Si regga forte, capo. Secondo lui il messaggio è stato inciso da un bambino di una decina d’anni! È categorico...».
«Cavolo» mormora Sérénac. «Sempre più ingarbugliata...».
Il suo cervello sembra rifiutarsi di riflettere, ma Bénavides non ha ancora finito.
«E non è tutto, capo. Abbiamo ricevuto le prime analisi del sangue trovato sulla scatola da pittura. Una cosa è sicura: non si tratta né del sangue di Jérôme Morval né di quello di Jacques Dupain. Stanno continuando a cercare...».
Sérénac si alza semibarcollante.
«Un altro omicidio, è questo che stai cercando di dirmi?».
«Non lo so, capo. A dire il vero non si capisce più niente di niente».
Laurenç Sérénac gira in tondo per la stanza.
«Okay, okay, ricevuto il messaggio. Sono costretto a rilasciare Dupain. Il giudice istruttore si incazzerà, neanche cinque ore di detenzione...».
«Sempre meglio di un errore giudiziario...».
«No, Sylvio. No. Lo so che stai pensando, che mi sono sbagliato di grosso, che ho messo su una precipitosa messinscena in fondo al sentiero dell’Astragale per arrestare un tipo e solo poche ore dopo tutte le prove ci sfuggono dalle mani... Dobbiamo rilasciarlo, ma la mia convinzione non cambia. Affatto! Jacques Dupain è colpevole!».
Sylvio Bénavides non risponde. Ormai ha capito che sul terreno minato delle intuizioni del capo non è possibile avere discussioni ragionevoli. Ripensa alla somma degli elementi contraddittori che si accumulano sul foglio piegato in quattro che ha sempre in tasca. Non ci può essere una risposta semplice a quegli indizi deliranti e contraddittori, non è possibile. Più l’indagine va avanti e più Sylvio ha la sensazione che qualcuno si stia prendendo gioco di loro, tiri i fili, si diverta a indirizzarli su false piste per proseguire in tutta impunità il suo piano perfettamente orchestrato.
«Avanti».
Laurenç Sérénac solleva lo sguardo, stupito che qualcuno bussi al suo ufficio a quell’ora tarda. Credeva di essere rimasto solo o quasi nel commissariato. La porta non è chiusa. Sylvio è sulla soglia con una luce strana negli occhi. Non è soltanto fatica, c’è qualcos’altro.
«Oh, Sylvio, sei ancora qui?».
Guarda l’orologio sulla scrivania.
«Sono le sei di sera passate! Dovresti essere al reparto maternità a tenere la mano di Béatrice. E anche a dormire un po’...».
«Ho trovato, capo!».
«Cosa?».
Sérénac ha quasi l’impressione che anche i personaggi dei quadri sulle pareti si siano girati, l’Arlecchino di Cézanne, la donna dai capelli rossi di Toulouse-Lautrec...
«Ho trovato, capo. Stavolta ci sono».
Il sole si è appena nascosto dietro l’ultima cortina di pioppi. Per qualsiasi pittore l’imbrunire significherebbe che è ora di ripiegare il cavalletto, prenderlo sottobraccio e tornare a casa. Paul viene avanti sul ponte guardando Fanette dipingere freneticamente, come se la sua vita dipendesse da quegli ultimi minuti di luminosità.
«Sapevo che ti avrei trovata qui...».
Fanette lo saluta con un cenno della mano senza smettere di dipingere.
«Posso guardare?».
«Fai pure. Sto cercando di sbrigarmi. Tra l’uscita da scuola, mia madre che rompe le scatole e la sera che cala troppo presto non ce la farò mai a finire il quadro. Devo consegnarlo dopodomani...».
Paul cerca di farsi il più discreto possibile, come se l’aria stessa che respira potesse turbare l’equilibrio della composizione. Eppure avrebbe una marea di domande da fare a Fanette.
Senza girarsi, Fanette anticipa i suoi interrogativi.
«Lo so, Paul, che non ci sono ninfee nel ruscello... Ma me ne frego della realtà, ho dipinto le ninfee l’altro giorno, nei giardini di Monet. Il resto era impossibile, non riuscivo a fare niente con quell’acqua piatta. Avevo bisogno di collocare i miei fiori in un fiume, nell’acqua viva, in qualcosa che danzi. Una vera linea di fuga. Qualcosa che si muove».
Paul è affascinato.
«Come ci riesci, Fanette? Come fai a dare l’impressione che il quadro sia vivo, che l’acqua scorra, addirittura che il vento muova le foglie? Così, solo dipingendo su una tela...».
Adoro quando Paul mi fa i complimenti...
«Non è merito mio. Come diceva Monet, non sono io, è il mio occhio. Io mi limito a riprodurre sulla tela quello che l’occhio vede...».
«Sei fantas...».
«Zitto, scemo! Sai che alla mia età Claude Monet era già un pittore noto a Le Havre? Faceva le caricature ai passanti... E poi io non sono abbastanza... Ecco, prendi quell’albero lì di fronte, il pioppo. Sai cosa ha chiesto Monet a un contadino, un giorno?».
«No...».
«In inverno aveva cominciato a dipingere un albero, una vecchia quercia, ma tre mesi dopo, quando è tornato, l’albero era coperto di foglie. Allora ha pagato il proprietario, un contadino, perché togliesse le foglie una a una...».
«Non ci credo...».
«È così! Ci sono voluti due uomini e un’intera giornata per denudare il modello! E Monet ha scritto alla moglie che era fierissimo di poter dipingere un paesaggio invernale in pieno maggio!».
Paul si limita a fissare le foglie che danzano nel vento.
«Io lo farò per te, Fanette. Cambiare il colore degli alberi. Se me lo chiedi lo farò».
Lo so, Paul, lo so.
Fanette dipinge ancora un po’ con Paul alle sue spalle, silenzioso. La luce continua a calare. Alla fine la bambina rinuncia.
«Non ci si vede più... Finirò domani. Spero...».
Paul va verso l’argine e osserva il ruscello che scorre ai suoi piedi.
«Ancora nessuna notizia di James?».
La voce di Fanette sembra incrinarsi. Paul ha l’impressione che dipingere le avesse permesso di dimenticare e che, una volta finito, la realtà la riacchiappi. Si dà dello stupido, pensa che non avrebbe dovuto farle quella domanda.
«No» mormora Fanette. «Nessuna notizia. Come se James non fosse mai esistito! Mi sembra di diventare pazza, Paul. Persino Vincent ha detto che non si ricorda di lui. Eppure l’ha visto, veniva a spiarci tutte le sere, non me lo sono sognato!».
«Vincent è strano...».
Paul cerca il sorriso più rassicurante che ha in repertorio.
«Tranquilla, se tra voi due ce n’è uno che non ha tutte le rotelle a posto non sei tu! Hai provato a dire di James alla maestra?».
Fanette si avvicina alla tela per controllare se è asciutta.
«Ancora no. Non è facile, sai... Domani ci provo...».
«Perché non chiedi ad altri pittori del paese?».
«Non lo so, non oso. James era sempre solo. Mi sa che a parte me non gli piaceva molto la gente...».
Sai, Paul, mi vergogno un po’. Anzi, mi vergogno molto. Certe volte mi dico che dovrei dimenticare James, fare come se non fosse mai esistito.
Fanette prende saldamente la tela, quasi più grande di lei, e la posa sull’ampio foglio di carta marrone che usa per proteggerla. I suoi occhi si girano verso il mulino delle Chennevières. La torre si staglia contro un cielo che tende al rosso aranciato. Visione bella e spaventosa. Fanette rimpiange di aver messo via il materiale.
«Sai cosa credo certe volte, Paul?».
La bambina si china sul foglio marrone e lo piega con cura.
«No, cosa?».
«Credo di aver inventato James. Che in realtà non esisteva. Che è, come dire, una specie di personaggio di un quadro. Che l’ho immaginato. Ecco, che James in verità è il papà Trognon del quadro di Theodore Robinson sceso da cavallo per conoscermi, parlarmi di Monet, farmi venire voglia di dipingere e dirmi che avevo talento. Poi è tornato da dove veniva, nel suo quadro, a cavallo nel ruscello ai piedi del mulino...».
Pensi che sia toccata, vero?
Anche Paul si china per aiutare Fanette a portare la tela.
«Non metterti strane idee in testa, Fanette. Non devi. Non devi proprio. Dove lo portiamo, il capolavoro?».
«Vieni, ti faccio vedere il mio nascondiglio segreto. Non lo porto a casa. Con questa storia di James mia madre è convinta che sia pazza e non vuole più sentir parlare di pittura, e ancora meno del concorso... Ogni volta è una scenata!».
Fanette si arrampica sul ponte e salta dietro il lavatoio.
«Devi solo stare attento a non scivolare sugli scalini sennò cadi in acqua... Dammi il quadro».
La tela passa da una mano all’altra.
«Ecco, questo è il mio nascondiglio, sotto il lavatoio. C’è un vuoto dello spazio giusto, come se l’avessero fatto apposta per nasconderci un quadro!».
Fanette si guarda intorno con aria da cospiratrice: la distesa della prateria e la sagoma del mulino nel cielo che si va spegnendo.
«Sei l’unico che lo sa, Paul. L’unico oltre me».
Paul sorride. Gli piace quella complicità, la fiducia che gli dà Fanette. Improvvisamente entrambi sobbalzano. Accanto a loro c’è qualcuno che cammina, che corre. Con un balzo Fanette torna sul ponte. Un’ombra indistinta viene verso di loro.
Per un attimo ho creduto che fosse James...
«Cretino, ci hai fatto prendere uno spavento!» grida Fanette.
Neptune va a strofinarsi contro le sue gambe. Il pastore tedesco fa le fusa come un grosso gatto.
«Mi correggo, Paul. A sapere del mio nascondiglio siete in due: tu e Neptune!».
Sérénac guarda stupito il suo vice. Sylvio ha gli occhi lucidi dalla stanchezza, sembra un cane che abbia attraversato l’intera nazione per ritrovare i suoi padroni.
«Che hai trovato? Parla!».
Sylvio trascina una sedia con le rotelle e ci si lascia crollare sopra, poi mette un foglio di carta sotto gli occhi di Sérénac.
«Guardi, sono i numeri sul retro delle foto delle amanti di Morval».
Laurenç abbassa lo sguardo e legge.
23-02 Fabienne Goncalves nello studio medico di Morval.
15-03 Aline Malétras al club Zed, in rue des Anglais.
21-02 Alysson Murer sulla spiaggia di Sark.
17-03 La sconosciuta in grembiule azzurro nel salotto di Morval.
03-01 Stéphanie Dupain sul sentiero dell’Astragale, sopra Giverny.
«L’idea mi è venuta di colpo, mentre riordinavo gli appunti. Si ricorda cos’ha detto poco fa Stéphanie Dupain a proposito di Morval?».
«Ha detto un sacco di cose».
Sérénac si morde la lingua. Bénavides prende un foglio sul quale ovviamente ha già riportato per filo e per segno le parole di Stéphanie.
«Glielo leggo: “Sarò andata a passeggio con Jérôme Morval due volte, forse tre. Abbiamo solo chiacchierato. Il gesto più audace che abbia tentato è stato prendermi la mano. Ho messo subito le cose in chiaro e non l’ho più rivisto da solo”».
«E allora?».
«Okay. Ora, capo, si ricorda di quello che le ho detto l’altro ieri sera, quando le ho telefonato dall’ospedale? Aline Malétras, la ragazza di Boston?».
«A proposito di che?».
«Ma di Morval!».
«Che era incinta».
«E prima?».
«Che era stata con Morval, aveva ventidue anni e buoni argomenti, Morval dieci anni di più e il portafoglio imbottito...».
Sylvio Bénavides punta su Sérénac occhi da sonnambulo svegliato di soprassalto.
«Esatto, ma ha anche specificato di essere stata con Morval una quindicina di volte!».
Sérénac fissa le righe che ballano sul tavolo.
15-03 Aline Malétras al club Zed, in rue des Anglais.
03-01 Stéphanie Dupain sul sentiero dell’Astragale, sopra Giverny.
Sylvio non gli lascia il tempo di riprendere fiato.
«Ha capito, adesso? Stéphanie Dupain 03, Aline Malétras 15. Era un codice stupidissimo: sul dorso della fotografia è annotato il numero di volte in cui la coppia adultera si è incontrata. Il detective, o paparazzo che sia, avrà scelto lo scatto più rappresentativo tra quelli di cui disponeva».
Laurenç Sérénac lo guarda con autentica ammirazione.
«Immagino che se sei venuto a dirmelo tu abbia già controllato le altre...».
«Ovvio» risponde Bénavides. «Sta cominciando a conoscermi, capo. Ho appena contattato Fabienne Goncalves, non sa dirmi quante volte è stata col suo principale, ma a forza di farla parlare mi ha dato una forbice che va dalle venti alle trenta volte».
Sérénac fischia.
«E Alysson Murer?».
«La nostra brava inglese annota tutto sull’agendina e conserva tutte le agendine degli anni precedenti in un cassetto. Non si era mai posta la domanda, così le ha contate con me al telefono».
«Risultato?».
«Bingo! Esattamente ventuno appuntamenti!».
«Fantastico! Adoro la gente meticolosa che annota tutto» fa Sérénac scoccando a Sylvio un occhiolino complice. L’altro non coglie l’allusione e continua.
«Quindi abbiamo a che fare con un detective privato anche lui particolarmente meticoloso. Per riuscire a contabilizzare così ogni appuntamento...».
«Più o meno. Con l’eccezione di Alysson Murer, niente ci garantisce che quei numeri siano esatti. È un ordine di grandezza. Immagino che sia quanto viene richiesto a un detective privato che indaga sulle infedeltà di un marito: un numero approssimativo delle scappatelle extraconiugali. Quindi la buona notizia è che la smettiamo di perdere tempo con quei numeri, la cattiva è che non facciamo il minimo passo avanti».
«Salvo il fatto che ci sono le seconde cifre: 01, 02 e 03».
Sérénac corruga la fronte.
«Hai qualche idea in merito?».
Bénavides fa il modesto.
«Sa com’è, tirando un filo viene anche il resto. Sappiamo che la prima cifra non è una data, ma riguarda la frequenza del rapporto tra Morval e le sue amanti. È un’informazione che il fotografo dà al cliente. Oltre al numero di incontri, quale altro dettaglio sarebbe utile fornire?».
«Cavolo, ma certo!» esplode Sérénac. «La natura del rapporto, cioè se Morval ci andava a letto o no! Sylvio, sei un...».
Bénavides lo interrompe per avere il privilegio di terminare la dimostrazione.
«Aline Malétras è rimasta incinta. Il fotografo ha scritto 15-03. Possiamo quindi ragionevolmente supporre che 03 indichi che la ragazza in questione andava a letto con Jérôme Morval».
La bocca di Laurenç Sérénac si allarga in un gran sorriso.
«E prima cosa ti hanno detto Fabienne Goncalves e Alysson Murer? Perché è ovvio che hai chiesto tutto, no? Entrambe sono classificate 02...».
Sylvio Bénavides arrossisce leggermente.
«Ho fatto quel che ho potuto, capo. Non sono bravo a indagare su queste cose con una ragazza. Insomma l’inglesina, Alysson Murer, mi ha giurato sulla testa della regina d’Inghilterra che non è mai andata a letto con l’amichetto oftalmologo. Probabilmente la poverina sperava in un matrimonio a Notre-Dame o a Canterbury... Quanto a Fabienne Goncalves, stava per sbattermi il telefono in faccia, tanto più che in sottofondo sentivo strillare i figli, ma pur di essere lasciata in pace mi ha confermato che anche lei si era sempre rifiutata di andarci a letto. Secondo lei, solo baci e carezze col principale» dice Sylvio sventolandosi il foglio sotto il naso come un ventaglio. «Riassumendo, la seconda cifra è una specie di scala Richter dei rapporti sessuali di Morval: 03 è il massimo, ci va a letto. 02 flirta. Possiamo dedurre che con lo 01 non sia successo niente... La corteggia, ma per quanto il detective privato spiani il suo zoom non succede niente! Non c’è adulterio».
«Va bene, Sylvio, siamo d’accordo. Abbiamo a che fare con un tizio incaricato di spiare Morval e di relazionarne le avventure extraconiugali. Frequenza dei rapporti, natura dei rapporti e prove fotografiche. Del resto possiamo pensare che quei numeri sul retro delle foto non siano affatto un codice destinato a tenderci un tranello, ma solo una specie di abbreviazione utilizzata da un professionista. Ma ti ripeto la domanda: a che ci serve tutto ciò?».
Il foglio di carta si torce tra le dita di Sylvio.
«Ci ho riflettuto, capo. Secondo me questo codice, sempre che lo diamo per buono, ci fornisce due informazioni importanti. La prima è che Stéphanie Dupain dice la verità, non era l’amante di Jérôme Morval... E la persona che ha ordinato queste foto a un detective lo sapeva!».
«Patricia Morval?».
«Forse. O Jacques Dupain, perché no?».
«Ho capito, ho capito, conosco il ritornello: non c’è movente. E se Jacques Dupain non ha un movente non ha bisogno di un alibi...».
«Tranne il fatto che un alibi ce l’ha» osserva Sylvio.
Sérénac sospira.
«Andate tutti quanti al diavolo, ho capito. Due ore fa ho telefonato al giudice istruttore per farlo rilasciare. Stasera Jacques Dupain dormirà a casa sua a Giverny».
Sylvio Bénavides si affretta a continuare prima che Sérénac si avventuri sul terreno delle proprie convinzioni intime.
«I numeri ci danno un’altra informazione importante, capo. Stando a quel codice solo due su cinque sono andate a letto con Morval: Aline Malétras e la ragazza non identificata, quella col grembiule azzurro in salotto, 17-03».
«D’accordo» conferma Sérénac. «Diciassette incontri e Morval si faceva la ragazza in ginocchio davanti a lui. Dove vuoi arrivare?».
«Se partiamo dall’ipotesi che Jérôme Morval abbia avuto un figlio una decina d’anni fa, questa è l’unica delle sue amanti a poterne essere la madre».
In uno scrigno di valeriane, campanule e peonie, il giardino del ristorante l’Esquisse Normande offre una splendida vista su Giverny. Quando scende la notte, i lampioni armonicamente posizionati tra le piante fiorite accentuano ancora di più l’effetto oasi impressionista.
Jacques non ha toccato l’antipasto, carpaccio di foie gras al fior di sale. Stéphanie ha ordinato la stessa cosa e mangia con parsimonia, adeguando l’appetito a quello del marito. Jacques è tornato circa un’ora prima, intorno alle nove di sera, accompagnato da due gendarmi che l’hanno lasciato in rue Blanche-Hoschedé-Monet, tra la scuola e la casa.
Non ha detto niente, non ha aperto bocca. Ha firmato senza guardarlo il foglio che gli porgevano, poi ha preso la mano di Stéphanie e l’ha stretta forte. Non l’ha praticamente più lasciata fino al momento di cenare. Sola soletta, a tormentare le briciole sulla tovaglia, la sua mano sembra orfana.
«Passerà» l’ha tranquillizzato Stéphanie.
Aveva prenotato un tavolo all’Esquisse Normande, il marito non ha avuto scelta. Ora si domanda se sia stata una buona idea. Ma ci sono ancora idee buone e idee cattive? No, c’è solo la sensazione che in un certo momento le cose vadano fatte in un certo modo, la sensazione che all’Esquisse Normande sarebbero stati meglio che a casa, che la cornice li avrebbe aiutati, che c’era bisogno di una specie di protocollo, e la speranza che in pubblico, al tavolo di un ristorante, Jacques non avrebbe fatto scenate, non sarebbe crollato, avrebbe capito, conservato la dignità...
«Ha finito, signore?».
Il cameriere porta via il carpaccio. Jacques non ha detto una parola. Stéphanie fa conversazione per due, gli racconta dei bambini della scuola, della sua classe, del concorso Theodore Robinson, dei quadri che dovrebbero consegnare fra due giorni. Jacques la ascolta con lo sguardo dolce, come sempre. Stéphanie si sente capita. Si è sempre sentita capita da Jacques. Ha sempre avuto la sensazione che lui la conoscesse in profondità. E a lui è sempre piaciuto che lei gli raccontasse della scuola, come se fosse un’evasione che è disposto a tollerare... Probabilmente anche ai carcerieri piace che i prigionieri raccontino degli uccelli nel cielo.
Il cameriere posa davanti a loro due fettine di filetto d’anatra ai cinque pepi. Jacques sorride e assaggia. Fa qualche domanda generica sulla scuola, s’informa dei bambini, dei loro caratteri, dei loro gusti. A parte quel ridicolo arresto, Stéphanie è costretta a riconoscere che la vita è semplice con Jacques. Calma e rassicurante.
Ma questo non cambia niente.
Ha deciso.
Anche se Jacques la capisce meglio di chiunque altro, anche se Jacques la protegge, anche se Jacques è incapace di farle del male, anche se Jacques la ama più di ogni cosa al mondo e lei non ha mai dubitato di quell’amore...
La decisione è presa.
Deve andarsene.
Jacques versa il vino alla moglie e un mezzo bicchiere per sé. Un borgogna, nota Stéphanie. Ha letto il nome sull’etichetta, è un Meursault. Lei non sa molto di vini. Jacques neanche, non beve quasi mai. È praticamente l’unico tra i suoi amici cacciatori. Alla fine sta mangiando, e curiosamente questo tranquillizza Stéphanie. Le sembra di preoccuparsi per il marito come ci si preoccupa per la salute di un vecchio amico. Per affetto. Jacques si rilassa un po’, parla di una casa che ha individuato nei dintorni, dice che è un buon affare. Lei sa che Jacques lavora molto, addirittura troppo, manda avanti l’agenzia da solo, ancora non ha avuto fortuna, non ha realizzato nessuna grossa compravendita, ma la sorte può cambiare, prima o poi la fortuna girerà, Jacques è ostinato. Se lo merita. Sono cose così poco importanti, in fondo. Cambiare casa. Vivere con un uomo più ricco.
La mano di Jacques striscia sui ricami del cotone bianco alla ricerca delle dita di Stéphanie.
La maestra esita. Sarebbe tanto più semplice fargli capire tutto senza dire niente, solo attraverso una serie di piccoli gesti, una mano che non viene presa, una carezza che non viene restituita, una testa che guarda da un’altra parte... Jacques però non capirebbe. O meglio, capirebbe, ma questo non cambierebbe le cose. Continuerebbe ad amarla. Magari di più.
Le dita di Stéphanie fuggono, si perdono nei capelli, fanno scricchiolare un nastro d’argento. L’intero corpo è percorso da un brivido. Si sente ridicola.
Perché?
Perché prova quel bisogno intollerabile di mollare tutto?
Stéphanie vuota il suo bicchiere e sorride a se stessa. Jacques sta continuando a parlare della casa in riva all’Eure, dei rigattieri della valle da cui dovranno andare per ammobiliarla... Stéphanie ascolta distrattamente. Perché fuggire... La risposta alla sua domanda è banale e vecchia come il mondo, è la malattia delle ragazze che si sognano diverse, la sete d’amore della Bérénice di Aragon, la noia insopportabile della donna che peraltro non ha niente da rimproverare all’uomo con cui vive... Nessuna scusa, nessun alibi. Solo la noia e la certezza che la vita sia altrove, che da un’altra parte esista una complicità perfetta, che quei capricci non siano dettagli ma cose essenziali... E che nulla conti più di poter condividere la stessa emozione davanti a un quadro di Monet o a un verso di Aragon.
Il cameriere fa sparire i loro piatti con discrezione professionale.
«Non vogliamo altro vino, grazie» dice Jacques. «Solo il dessert».
Alla fine la mano di Stéphanie si posa sul tavolo, subito catturata da quella di Jacques. Le ragazze si rassegnano sempre, pensa la maestra, rimangono, continuano a vivere, forse felici e forse no, e piano piano diventano incapaci di vedere la differenza. Evidentemente alla fine è più facile così. Rinunciare.
Eppure... Eppure... Quella sensazione, insistente e tenace, ha piantato le tende dentro di lei. Ciò che Stéphanie prova è unico, inedito, diverso.
Due coppe, una di gelato e una di sorbetto, decorate da foglie di menta, atterrano davanti a loro. Jacques è tornato taciturno. Stéphanie ha deciso che glielo dirà dopo il dessert. A pensarci bene non è stata una buona idea cenare all’Esquisse Normande: quell’attesa sinistra sembra dilatarsi in una lunghezza infinita, come filmata al rallentatore. Jacques sta probabilmente pensando ad altro, all’arresto, alla prigione, all’ispettore Sérénac. Rimuginando sul suo scorno. Ne ha ben donde.
Sospetta qualcosa? Probabilmente sì, la conosce talmente bene...
Stéphanie divora il sorbetto di mela e rabarbaro. Ha bisogno di forze. Tante forze. Ma che razza di mostro è, che non può aspettare un’altra sera?
Jacques è appena uscito di prigione, provato e umiliato come non mai.
Perché dirglielo subito?
Per infilarsi nel varco, intrufolarsi vergognosa in mezzo ai cadaveri sul campo di battaglia, approfittare che la casa bruci per salvare la pelle. È la più sadica delle mogli o cosa?
Ha bisogno di forze.
Ovviamente si mette a pensare a Laurenç. La complicità perfetta tanto sperata. È un’illusione quella certezza quasi istantanea che fosse destinata a incontrarlo, che sarà felice solo con lui e nessun altro, che solo le sue braccia possano proteggerla, che solo la sua voce possa farla vibrare, che solo la sua risata potrà farle dimenticare tutto, che solo il suo sesso potrà farla godere?
O è un’ennesima trappola della vita?
No.
Sa che non è così.
Si butta.
Tuffo nel vuoto.
Nell’ignoto.
Caduta senza fine, come Alice di Lewis Carrol. Chiudere gli occhi e credere nel paese delle meraviglie.
«Jacques, ti lascio».