2

Filosofia del Tao II

Ho già parlato dei tre principi fondamentali della filosofia taoista: il Tao stesso, ossia il corso della natura; il wu wei, non forzare, ossia il corso della natura visto come un corso d’acqua; e il te, il potere apparentemente magico che deriva dal seguire la via del corso d’acqua e la strada della minore resistenza.

Seguire la via del corso d’acqua richiede un’intelligenza superiore, perché è più intelligente navigare a vela che remare, anche se usare le vele è un metodo più pigro. Tecnologicamente è più facile usare il vento che lottare contro di esso, ma in Occidente non ci siamo ancora resi conto del fatto che sarebbe molto più furbo utilizzare il sole, il vento e le onde come fonti di energia, al posto dei combustibili fossili. E così viviamo in uno stato di stolta ignoranza.

Per comprendere qualcosa della filosofia del Tao, bisogna invece essere in uno stato di saggia ignoranza. Mi ritrovo spesso in mezzo a persone che tentano freneticamente di concettualizzare e di difendere la struttura delle loro concezioni, che hanno teorie molto rigide ed elaborate sulla natura dell’universo e del destino dell’uomo all’interno di esso, e sul modo giusto di realizzarsi. Tali concetti sono molto ambiziosi, ma una volta che le persone iniziano a concettualizzare, si astraggono sempre più dal mondo naturale e cominciano a vivere nei libri anziché nella realtà, o nei film anziché con le altre persone.

Quando si entra nel mondo della concettualizzazione, si inizia a cadere nell’errore fondamentale della civilizzazione, ossia quello di considerare il mondo dei simboli superiore al mondo che quei simboli rappresentano. Nella nostra cultura abbiamo portato questo errore all’estremo, al punto che legalmente non esistiamo se non possediamo un certificato di nascita o un passaporto, i quali ovviamente non sono altro che pezzi di carta. Per noi, registrare ciò che succede è molto più importante di ciò che succede in sé, e di conseguenza sprechiamo incalcolabili energie a registrare dati banali e a compilare dichiarazioni dei redditi. Nelle università ci preoccupiamo che i registri siano adeguatamente protetti, ma i libri delle biblioteche sono esposti a danneggiamenti e furti.

Nello stesso modo, molte persone non credono di essere reali finché non possono leggere di sé stesse sul giornale, e molti si sentono persi se accade qualcosa di fantastico e nei paraggi non c’è nessuno con una fotocamera per immortalare l’evento. E così certi ragazzi commettono crimini pur di vedere il proprio nome sul giornale e sapere che esistono davvero, perché i loro genitori utilizzano la comparsa sui giornali come criterio per stabilire l’importanza di qualcosa. Ovviamente, il messaggio che passa è che nemmeno tu sei importante finché non appari sul giornale, pronto per passare alla storia.

Registriamo con foto e video ciò che chiamiamo civiltà, culture, arti e specie in via di estinzione. E a quanto pare pensiamo che in questo modo sia tutto a posto, se li abbiamo registrati possono pure sparire. Non importa se non esistono più balene o condor, tanto possiamo leggere tutto ciò che li riguarda sull’Enciclopedia Britannica!

Tale confusione fra il mondo delle rappresentazioni e quello della natura è semplicemente disastrosa. È quindi davvero fondamentale tornare al mondo della natura. Forse penserete che il mondo fisico, quello della natura, non sia spirituale. Lo pensano in tanti, e molti si sentono anche a disagio con il proprio corpo. Ma ciò che crea il disagio in realtà non è il loro corpo, quanto l’idea che hanno di esso. Molte persone non sopportano il cambiamento. Rigettano l’idea del processo di dissoluzione che fa parte del cambiamento fisico, e l’idea che invecchiando, dal punto di vista concettuale, si diventa più brutti. Ma questo non è affatto vero. Se sono vitali e lucidi, gli anziani non sono affatto brutti solo per il fatto di essere anziani. Ma sfortunatamente abbiamo un concetto molto, molto rigido di che cosa è bello e cosa non lo è. È importante abbandonare queste idee, almeno ogni tanto, per poter vedere più chiaramente. Si può sempre riprenderle in seguito se si vuole, ma è buona prassi smettere di pensarci per un po’ ogni tanto. Pensare tutto il tempo è quasi come parlare tutto il tempo. E sebbene io possa sembrare una persona molto loquace, vi assicuro che sono anche un buon ascoltatore. Non appena qualcuno dice qualcosa di interessante, divento molto silenzioso e ricettivo. Se parlo tutto il tempo, non sentirò le cose interessanti che gli altri potrebbero avere da dire, e allo stesso modo, se penso tutto il tempo non avrò nient’altro a cui pensare a parte i miei pensieri stessi. Questo non mi gioverebbe affatto, e diventerei come una biblioteca in cui gli unici libri che vengono aggiunti riguardano i libri che ci sono già. Sarebbe come se un pittore non vedesse mai altro che gallerie d’arte o come se un musicista ascoltasse soltanto i concerti. Attraverso queste limitazioni autoimposte, diventiamo irraggiungibili e incapaci di vivere insieme al mondo che è naturalmente con noi.

Lao-tzu disse: «I cinque colori accecano l’occhio. I cinque toni assordano l’orecchio». Ciò significa che se si pensa che esistano solo cinque colori, si è ciechi, e se si pensa che esistano solo cinque toni si è sordi. Come saprete, esiste un continuum infinito di suoni e colori, e lo spettro serve solo per comodità di classificazione.

Quando negli antichi testi sul misticismo si legge che è necessario spingersi oltre i sensi, è molto facile fraintendere tale necessità. I testi non dicono che sono i sensi – la vista, l’udito e così via – a falsificare la realtà, bensì la nostra concezione di ciò che gli occhi e le orecchie ci mostrano. In altre parole, non è nel precetto ma nel concetto che troviamo la radice dell’illusione (maya) e della magia. Ovviamente, possiamo usare la concettualizzazione in modo creativo, se sappiamo il fatto nostro, ma se non ne siamo in grado il nostro concetto di realtà potrebbe deluderci del tutto. Per sfuggire a tale delusione, bisogna ricominciare a essere consapevoli di sé e di ciò che ci circonda senza prendere troppo sul serio alcuna idea a riguardo, e senza usare parole specifiche. Capite?

Io sto usando le parole, ovvio, ma per un po’ cercate di seguirle come se non avessero alcun significato, come se stessi parlando a vanvera. Ora, in questo meraviglioso stato di ignoranza, non esiste nulla che si chiami tempo, nulla che si chiami spazio, nulla che si chiami sé, e nulla che si chiami «altro». Esiste solo ciò che sta accadendo, e non deve necessariamente accadere qualcosa di particolare. In qualunque stato vi troviate, quello è ciò che sta succedendo, e non avete alcun modello in base al quale giudicarlo, per approvarlo o disapprovarlo. È semplicemente ciò che è, e a volte è piacevolissimo semplicemente sedersi ed essere qui. Naturalmente, nel mondo esterno, sedersi ed essere qui si chiama meditazione.

È fondamentale che sappiamo di cosa stiamo parlando, e io posso non solo parlarvi del Tao ma anche mostrarvelo, e la meditazione è il modo giusto per farlo. È straordinariamente semplice, e solo i nostri preconcetti la rendono difficile da capire. La nostra mente è occupata da due domande: perché stiamo facendo tutto ciò, e a che cosa serve.

È incredibile come siamo condizionati a trasformare ogni cosa in un profitto, e a sentirci colpevoli se non lo facciamo: è un’idea molto pericolosa da trasmettere a un bambino. Ognuno di noi ha una sorta di coscienza che gli è stata instillata – io la chiamo coscienza commerciale – che ci fa chiedere: «In che modo questa cosa migliora la mia situazione?». Se non in senso finanziario, magari stiamo migliorando la nostra mente, o diventando più spirituali… qualunque cosa ciò significhi. Tuttavia, non comprendiamo appieno che non possiamo trovarci in uno stato di quella che chiamiamo vera meditazione, o contemplazione, come preferisco dire io, se ricerchiamo quello stato per qualche fine o vantaggio, o nella speranza che ne derivi un risultato o beneficio. Nel momento in cui abbiamo questi desideri o aspettative, non ci troviamo più in uno stato di meditazione, anzi, siamo disturbati dai concetti. La meditazione è l’unica attività, o l’unica scienza, per così dire, che non ha nessuno scopo nel senso di ricercare un obiettivo per il futuro.

Il ruscello parte dalle montagne e scende fino all’oceano. Possiamo dire che il ruscello ha l’oceano come obiettivo, ma quando arriva all’oceano, l’acqua evapora grazie al calore del sole e ritorna alle montagne. E poi scende nuovamente. Non ha alcun desiderio di raggiungere l’oceano. Anzi, il ruscello è contemporaneamente in cielo, sulle montagne, nel suo letto e nell’oceano. È in ogni luogo allo stesso tempo, e di conseguenza non sta andando da nessuna parte, sta semplicemente andando.

Quando a un maestro zen venne chiesto: «Che cos’è il Tao?», egli rispose: «Vai avanti». E niente potrebbe superare quel consiglio. Nessuno può evitare di andare avanti. Il flusso esiste, indipendentemente dal fatto che ci opponiamo. Quando lo facciamo è come se nuotassimo contro corrente, e questo è un ottimo modo per annegare. L’abilità, come nella navigazione, sta nel seguire la corrente in modo intelligente, assecondandola e sfruttandola. Eppure ci turba, soprattutto se siamo occidentali industrializzati, incontrare una filosofia senza scopi né obiettivi futuri. Quando diciamo che qualcosa «non ha futuro», lo intendiamo in senso negativo. Ma le parole scopo e significato possono essere usate in modi diversi. Spesso, quando parliamo di una vita senza scopo o senza significato, in senso negativo e dispregiativo, in realtà ci stiamo riferendo a una persona che vive la vita in base a obiettivi a brevissimo termine.

Gli obiettivi a breve termine producono lo stesso tipo di irrequietezza che proviamo sfogliando una rivista patinata. Ci rendiamo subito conto che una rivista di quel genere è stata pensata per tenerci lontani da ogni serenità. Nessun articolo è soddisfacente, nel senso che ci dà qualcosa su cui riflettere, e finiscono tutti troppo presto. Ci permettono solo di dare un’occhiata qua e là, ma non analizzano mai nulla in profondità. Una rivista ci fornisce una serie di impressioni e immagini entusiasmanti, sensazionali o inusuali, divertendoci momentaneamente. Possiamo sfogliare un numero intero e non ricordarne nulla, ma ci manterrà nello stato di pacifica agitazione che potremmo desiderare durante un volo in aereo, mentre attendiamo in un ufficio o prima di fare colazione. Questo tipo di agitazione è caratteristica di una persona che vive in base a scopi a breve termine. E questa è ciò che comunemente chiameremmo una vita senza significato. Al contrario, solitamente intendiamo una vita piena di significato come una vita dedicata a obiettivi a lungo termine, a ciò che chiamiamo questioni importanti. Ma il pensiero taoista non riguarda nessuna di queste due definizioni, perché un taoista probabilmente avrebbe già riflettuto attentamente sulla questione del significato e si sarebbe reso conto che nei nostri obiettivi, a breve o a lungo termine, c’è qualcosa di fasullo. Se consideriamo in modo realistico lo stato della civilizzazione umana, vedremo poco più di una massa di persone che si affannano in mezzo ai problemi. Ci si potrebbe benissimo chiedere: «Ma allora di cosa parliamo quando parliamo di una vita piena di significato?». Penso che per rispondere dovremo essere un po’ più precisi del solito. In senso molto stretto, le parole hanno un significato, ma la realtà è significato, e di conseguenza non ne ha. La parola o l’idea – ossia un insieme di parole o altri simboli – serve per indicare qualcos’altro rispetto a essa. E quell’«altro» è il suo significato. Quindi, se ci chiediamo «che cosa significano gli alberi e i fiumi?» la risposta è che non significano, perché non sono parole né segni, a meno che non diciamo qualcosa come «un fiume è il segno della pioggia». Ma questa frase è ridondante, perché un fiume è la pioggia che gocciola dalla terra. La meraviglia di un fiume deriva dal fatto che esso è il significato e non ha un significato, cioè possiede una qualità di mancanza di significato pur essendo significativo per la natura nel suo insieme.

Ludwig Wittgenstein ci fa notare come stranamente esistano persone che, dopo lunghe ricerche, credono di comprendere il senso della vita, e tuttavia non sanno dire in che cosa esso consista. Se io entro in contatto con qualcosa, che sia un altro essere umano, una certa qualità della luce, un albero, un fiore o un’opera d’arte che considero importante, posso dire che per me ha un significato fondamentale. Eppure, quando mi chiedono qual è questo significato, mi mancano le parole per esprimerlo, perché in realtà, in un senso molto elevato, la natura non ha un senso. E allo stesso modo la musica non ha un senso, soprattutto quella classica, che sia occidentale, indiana o cinese, perché la musica classica nel suo insieme non è rappresentativa. Non è neppure simbolica, e non rappresenta nulla a parte sé stessa. È uno schema di suoni. È come una felce, che è uno schema vegetale, o un cristallo, cioè uno schema chimico, o un animale, con tutte le sue meravigliose abitudini.

Quando osserviamo il comportamento degli animali e delle piante, la nostra mente, che cerca sempre un obiettivo, ci suggerisce che lo scopo di tutto quello che fanno sia la sopravvivenza. Ma la sopravvivenza di cosa? Se abbiamo già definito l’intero organismo in termini di sopravvivenza, allora si può ritenere che tutte le piante abbiano la sopravvivenza come obiettivo ultimo. In fondo, il processo di sopravvivenza non ha altro scopo fondamentale a parte la continuazione della sopravvivenza stessa. Quando diciamo che l’obiettivo di una pianta è sopravvivere, non stiamo dicendo nulla. È un’affermazione tautologica. Andiamo avanti per andare avanti.

Lo definirei un approccio ingegneristico alla natura. Si osserva la natura soltanto dal punto di vista dell’efficienza. All’ingegnere non interessano i processi non efficienti. Se io voglio andare da qui a lì, l’ingegnere mi dirà di prendere la strada più breve in modo da completare il viaggio nel minor tempo possibile. Sarebbe il metodo più efficiente: prendere una strada dritta anziché una piena di deviazioni. Tuttavia, noi scegliamo le deviazioni non solo per adeguare il nostro cammino al profilo del paesaggio, ma anche semplicemente per il piacere di viaggiare e di goderci le curve. Godersi le curve e il viaggio è davvero fondamentale nella vita. La vita è piena di deviazioni, e non perché sia la via più facile. È piena di deviazioni semplicemente perché girovagare è bello e piacevole.

Le camicie coperte di bei ghirigori floreali in qualche modo sono rilassanti e piacevoli alla vista, mentre le superfici geometriche e le linee rette spesso non sono affatto rilassanti, a meno che non siano disegnate con molta abilità. Ma in un disegno floreale l’occhio può vagare. Ovviamente si può esagerare, come avveniva nella carta da parati vittoriana, e risultare eccessivi per aver abusato di questo motivo.

I giapponesi però sono molto abili nell’utilizzare questi disegni, sfruttando il vuoto come sfondo sul quale si distinguono curve molto semplici, per esempio una composizione di fiori o una pittura calligrafica. In questo modo, lo spazio e la curva sono complementari.

Prendiamo ad esempio la corsa. Chi ha una mentalità ingegneristica va a fare jogging: arranca seguendo un percorso faticoso. Ma per quelli che la comprendono davvero, la corsa è come una danza. Deviano e corrono meravigliosamente in punta di piedi, e in realtà la loro corsa è molto più efficace di quella di chi fa jogging, perché seguono un percorso ritmico, sinuoso, e non hanno in mente «devo arrivare fino lì». Non fanno esercizio solo per senso del dovere. E mentre corrono non hanno nessun obiettivo specifico.

Se viaggiamo con in mente una destinazione, l’intero viaggio si trasforma in un dovere. Ecco perché, quando viaggiamo in auto, o con un altro mezzo di trasporto, siamo consumati dalla fretta di arrivare da qualche parte. Arriviamo totalmente esausti, perché ci siamo affrettati per tutto il tempo, anche se non ce n’era alcun bisogno. Vi meravigliereste di vedere quanto sembra di arrivare presto quando si decide di viaggiare con tutta calma. Ma se si sceglie la fretta, ci si metterà un secolo ad arrivare.

Quando si comincia a capire quanto i cinesi e i giapponesi amino le forme naturali – cosa che deriva prima di tutto dal taoismo e poi dallo zen, ossia dal buddhismo influenzato dal taoismo – si scopre che ciò che caratterizza questa loro visione dell’arte è il fatto che la natura non abbia uno scopo. Nell’arte religiosa si trovano spesso dipinti e sculture con figure molto simboliche. Tali figure solitamente sono simmetriche, mentre nell’approccio taoista e zen alla natura, al centro della venerazione, del fascino, c’è l’asimmetricità. Il punto focale potrebbe essere una roccia di una forma particolare posizionata in un certo modo, ma la roccia in sé non avrà alcun significato simbolico.

Lo stesso accade nelle storie zen. In una storia, quando qualcuno chiede qual è il significato fondamentale del buddhismo, il maestro probabilmente risponderà: «Oggi non mi andava di mettermi le scarpe». So bene che un ignorante ricercherà un simbolismo dietro questa risposta, e la tratterà come una sorta di allegoria. Ma questo non è affatto il senso di tutto ciò, e non è il senso di un’affermazione zen.

Non si può comprendere il senso dell’affermazione zen senza essere ingenui. O, per meglio dire, prendendola semplicemente per quello che è. Nell’aneddoto che ho appena evocato, il maestro non parlava di non portare le scarpe. E neppure intendeva utilizzare dei simboli come una sorta di codice che solo gli iniziati conoscono. Che senso avrebbe? Il maestro parlava semplicemente e direttamente del Tao, e questo è anche il significato fondamentale del buddhismo. È ciò che accade, l’universo. Fatevene una ragione. Che altra scelta avete?

Quindi, le storie zen e le opere d’arte cinesi e giapponesi danno il senso del Tao. Una scena ricorrente è quella di un paesaggio di montagna con una minuscola figura umana in qualche punto, un poeta che vaga fra i pini accanto a un ruscello. Dove sta andando? E dove va il ruscello? E le nuvole? E gli uccelli? Non lo sappiamo. Semplicemente vanno. E così, all’interno di questa idea del vagare si può scoprire la qualità che i giapponesi chiamano yugen. La parola yugen è composta da due caratteri che significano «misterioso» e «profondo». Nella poesia giapponese yugen è ciò che provi quando guardi delle oche selvatiche in volo e queste vengono improvvisamente nascoste da una nuvola, o quando guardi le navi in mare aperto e lentamente scompaiono dietro un’isola lontana. Yugen significa vagare in una grande foresta senza pensare di dover tornare indietro.

Da queste espressioni poetiche ricaviamo un certo tipo di sensazione. Come cantava Porgy in Porgy and Bess: «Ho troppo di nulla, e nulla è troppo per me». Vedete? È lo stesso concetto. Una poesia cinese comincia così: «I miei pensieri vagheranno nel grande vuoto». Questo è yugen. Yugen è quindi la sensazione della vita, della natura, dell’andare, ma senza andare da nessuna parte. Ma non si tratta del «non andare da nessuna parte» che immaginiamo quando vediamo un cartello che dice «strada senza uscita» o quando ci troviamo davanti un muro. Non andare da nessuna parte significa andare in uno spazio pregno. Non sappiamo che cosa vi troveremo. Significa usare lo spazio in modo che la nostra immaginazione vi si riversi senza assumere nessuna forma specifica. È come quando un certo tipo di musica sottintende qualcosa ma non ne rovina la finezza spiegandola. È come una barzelletta, che fa ridere solo finché non viene spiegata. Non bisogna neppure spiegare a sé stessi perché si sta ridendo: anche questo rovinerebbe tutto. Allo stesso modo yugen ha questa misteriosa qualità che non viene definita ma di cui capiamo e vediamo la bellezza, proprio come capiamo l’umorismo senza spiegarlo. A proposito, questo è anche il motivo per cui non esiste una vera e propria filosofia dell’umorismo, e sicuramente non una filosofia divertente dell’umorismo. Molti filosofi e psicologi hanno scritto a proposito della psicologia della risata in modo davvero noioso. Similarmente, è inutile discutere l’estetica in maniera filosofica o pratica con l’obiettivo di trovare una formula per creare un oggetto bellissimo.

I poeti cinesi e giapponesi evocano spesso immagini che rappresentano la meraviglia di non avere uno scopo. Lasciate che vi faccia un esempio. In Giappone e in Cina amano costruire templi sui fianchi delle montagne, soprattutto quelle coperte da foreste. In Giappone crescono alberi chiamati cryptomeria, molto simili alle sequoie, che danno vita a foreste enormi, simili a cattedrali, sui fianchi delle montagne. Ecco, alle pendici di tali montagne si vede spesso un grande cancello che porta a una foresta di cryptomeria. Il cancello ha tutta una serie di decorazioni intricate nello stile dell’antica dinastia cinese T’ang, che è lo stile dell’architettura dei templi giapponesi. Ci sono nuvole, dragoni, ragazze upsara e ogni sorta di meraviglie intagliate.

Quando lo si attraversa, si troverà un’imponente scalinata di pietra fiancheggiata da cani da guardia e lanterne di bronzo. È un ingresso meraviglioso, e in cima alle scale ci sarà un altro cancello simile, magari con gigantesche porte scorrevoli. Quando lo si oltrepassa, ecco un giardino con aceri e cryptomeria, e poi il tempio, un edificio splendido, imponente. Se vi si entra si troverà un meraviglioso altare dorato circondato da statue del Buddha, incenso, fiori di loto dorati e candele. Tutto sarà perfetto, e il Buddha sarà seduto sul suo trono di loto, sorridendo al visitatore.

Questi santuari sono sistemati in maniera che, in un modo o nell’altro, ci si ritrovi poi dietro il tempio. E lì ci sarà un’altra scalinata, magari non magnifica come quella precedente, ma che porta verso l’alto, nel fitto della foresta. E se si salgono i gradini, si arriverà infine a un tempio diverso. Potrebbe essere un santuario scintoista, costruito in maniera molto semplice. Oppure un eremo, l’abitazione personale del sommo sacerdote del tempio. Il buddhismo ha messo radici nel fertile suolo del taoismo cinese e dello scintoismo giapponese, e spesso i templi sono stati costruiti negli stessi posti. Il cancello che porta a questo tempio o eremo sarà quindi rustico, e potrebbe essere circondato da un piccolo giardino con un sentiero che porta a un’ulteriore scalinata. E se si sale anche questa, si troverà infine un cimitero in mezzo agli alberi.

Ma lì non troverete quelle brutte pietre tombali che si usano in Occidente. Ci saranno invece semplici pilastri di legno squadrati, con i nomi dei defunti scritti sopra. E questo cimitero non sarà deprimente come quelli cui siamo abituati, perché darà la sensazione che tutto semplicemente scorra. E proprio dietro il cimitero ci sarà un altro piccolo santuario. Vi avvicinerete e guarderete dentro. E cosa troverete al posto d’onore? Uno specchio.

E poi, oh mio dio, ci sarà un’altra scalinata che sale verso l’alto. Sarà solo una pista molto stretta ed essenziale che sale tra gli alberi. E se la seguirete, noterete che ben presto scompare tra i cespugli. C’è un haiku che recita: «Questo è tutto ciò che c’è. Il sentiero finisce in mezzo al prezzemolo».

Vi ricordate di quando eravate bambini? Quando esploravate un giardino, guardavate tutto dal basso, vicino al terreno. Non potendo guardare le cose dall’alto come un adulto, esploravate un po’ in giro in mezzo ai cespugli. E c’era un piccolo sentiero che alla fine spariva in quello che poteva benissimo essere prezzemolo. Io me lo ricordo in maniera molto vivida, e ricordo quanto era magico. Mi sentivo come se in quel momento potessi scomparire e non essere mai più ritrovato. Sentivo anche che fra i cespugli erano nascosti infiniti segreti. Non pensavo mai a quali fossero, però. Avrei rovinato tutto.

Noi non possiamo soffermarci a riflettere sulla cosa che vogliamo; se lo facessimo rovineremmo tutto, perché la trasformeremmo in un mero concetto. Ciò che cerchiamo è la sorpresa suprema, e nella misura in cui abbiamo dei preconcetti su di essa, la guasteremo. Il principio di base dell’universo stesso è la sorpresa, e il principio del Tao, oltre alla sorpresa è la spontaneità. Significa compiere un miracolo senza far nulla, senza programmarlo. Noterete qui una coincidentia oppositorum (coincidenza degli opposti), come per esempio nel rapporto tra fare e succedere, o tra libertà e necessità. Capirete che, siccome non si può visualizzare una cosa senza l’altra, ogni processo può essere inteso come contemporaneamente libero e necessario. Questa è una contraddizione del senso comune, delle comuni forme dei concetti. Ma quando diciamo che qualcosa accade necessariamente, stiamo separando l’evento dalla sua causa, e questa è una separazione puramente concettuale. In senso stretto, tutto ciò che accade fa parte dello stesso evento di cui fa parte la sua causa. Come ho già dimostrato, per esempio, il fiume, l’oceano e la pioggia fanno parte dello stesso evento. Non si può dire che un fiume sia causato dalla sua sorgente. E se non scorresse, nell’oceano non ci sarebbe acqua che possa evaporare e tornare al fiume sotto forma di pioggia.

Guardiamo il Tao e da un certo punto di vista vediamo che è libero. In altre parole, emerge dal vuoto piuttosto liberamente, spontaneamente. Ma se lo guardiamo da un altro punto di vista, vedremo che tutto ciò che accade, accade necessariamente. In realtà la verità non sta né da una parte né dall’altra. Queste due visioni sono soltanto modi diversi di classificare, di guardare il Tao e di sezionarlo.

Se prendo una calamita e comincio a sezionarla partendo dal polo nord, tagliandone via dei pezzi e avvicinandomi al polo sud, ogni pezzo che taglierò avrà un polo nord. E anche la calamita originaria avrà ancora un polo nord, fino alla fine, quando arriverò al termine della calamita e l’avrò sezionata tutta fino a farla scomparire. E se comincio dal polo sud, ogni volta che la taglio, avvicinandomi al nord, la calamita originaria avrà ancora un polo sud.

Allo stesso modo, se prendiamo il mondo dal lato che chiamiamo necessità e cominciamo a sezionarlo per arrivare all’altra estremità, chiamata libertà, troveremo sempre la necessità, fino alla fine. Capiremo allora che tutto ciò che sta accadendo accade necessariamente. Ma se ci giriamo e cominciamo a tagliare dal lato del mondo chiamato libertà, troveremo sempre la libertà, finché non arriviamo alla necessità, e a quel punto il mondo sarà scomparso tutto. È dunque per questo motivo che il poeta – che insieme al musicista è colui che parla del Tao in modo più eloquente – non fa filosofia. Il poeta ci fornisce soltanto un’immagine: questo è tutto ciò che c’è, il sentiero finisce in mezzo al prezzemolo.

E si potrebbe dire che non c’è altro da aggiungere.