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Paesaggio, suoni

Un giorno una donna, una normalissima vecchina gentile, mi disse che un tempo le era capitato un incidente in un ascensore e si era rotta una gamba. Era rimasta bloccata lì per mezz’ora prima che qualcuno riuscisse a raggiungerla, e nel frattempo si era resa conto che in tutto l’universo non esiste neppure un singolo granello di sabbia che sia fuori posto. È un pensiero curioso, e talvolta ci viene in mente all’improvviso quando ci rendiamo conto che fino a quel momento abbiamo guardato le cose in modo del tutto sbagliato. Ed è strano, ma di solito le persone a cui succede non osano parlarne ad altri, perché temono di essere fraintese. Ma, come vedete, a volte le cose più spaventose che possono capitarci portano alla sensazione che tutto sia al posto giusto. All’inizio sembra un’idea strana e bizzarra, ma quando ci liberiamo dal sistema di governatori e governati, capi e sottoposti, re e sudditi, scopriamo che non esistono vittime. In questo mondo ogni creatura che soffre è – magari senza nemmeno saperlo – la causa della propria sofferenza, e nessun altro ne è responsabile. Non esistono vittime, perché l’universo è una cosa unica. È così di per sé stesso. Ogni cosa è così di per sé stessa, e non esistono colpevoli.

Quando un bambino diventa un giovane delinquente, gli assistenti sociali e la polizia gli dicono: «Ti stai comportando in modo orribile» e il giovane, se ha imparato un minimo di psicoanalisi, risponderà: «È tutta colpa dei miei genitori. Mi hanno cresciuto in modo traumatico. Sono divorziati, mio padre è un alcolizzato e mia madre è una prostituta. Cosa vi aspettavate da me?». E i giudici diranno: «Forse dovremmo perseguire i genitori». Ma i genitori, che a loro volta conoscono almeno un po’ Freud, diranno: «Non è stata colpa nostra. È colpa dei nostri genitori. Anche loro erano nevrotici».

E così, come vedete, si può andare sempre più indietro nel tempo, proprio come fece Adamo nel giardino dell’Eden, quando diede la colpa a Eva. Il Signore Dio vide che aveva mangiato il frutto, e Adamo disse: «La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato». E Dio guardò la donna e disse: «Perché hai fatto questo?». E lei rispose: «Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato». Allora Dio guardò il serpente e il serpente non disse nulla. No, il serpente non diede la colpa a nessuno, non cercò scuse, perché lui sapeva.

In questo modo, si può passare la colpa fino a risalire all’inizio dei tempi e non assumersi alcuna responsabilità per la propria vita. Potremmo dire: «Io sono vivo soltanto perché tu, padre, hai fatto certe cose con mia madre, e non vi siete fermati in tempo e lei è rimasta incinta. Non è colpa mia». Questo atteggiamento è terribilmente irresponsabile. Dobbiamo riconoscere che noi eravamo il desiderio di nostro padre, eravamo proprio noi quella scintilla nei suoi occhi, e noi stessi risaliamo all’origine dei tempi.

Immaginiamo di aver fatto una macchia di inchiostro su un foglio. Dal centro, dove è caduto, l’inchiostro si espande come un’esplosione. Allo stesso modo, al principio dei tempi, durante il big bang, ci fu un’esplosione colossale. E a mano a mano che l’esplosione si espande, l’inchiostro si fa sempre più sottile. Ma possiamo ancora riconoscere che fa parte della stessa identica cosa, che si dirama come una mano che allarga le dita. Tutti noi siamo piccole estensioni che si diramano e sono connesse all’inizio dei tempi. Il nostro corpo è una delle cose più antiche del mondo, perché siamo presenti fin dal principio. E anche se ci abbiamo messo milioni di anni ad arrivare qui, c’eravamo fin dall’inizio, come l’impulso originario che ha fatto esplodere tutto.

Tutto accade da sé, e un esperimento molto interessante può essere anche solo lasciare che i suoni arrivino alle nostre orecchie. Provateci: chiudete gli occhi e concedetevi di diventare a poco a poco consapevoli del mondo di suoni che vi circonda e che è dentro di voi. Non cercate di identificare i suoni o di trovargli un nome. Lasciate semplicemente che accadano. Non pensate di non dover emettere alcun suono, come quelli dello stomaco o il singhiozzo, la tosse e così via. Fanno tutti parte dell’insieme. Per il momento lasciate solo che tutti questi suoni succedano. Anche quando la gente vi parla, non cercate di capire il senso di ciò che vi dicono. È solo un suono. Sarebbe bene fare questo esercizio di ascolto la sera prima di andare a dormire, per renderci conto che viviamo ogni istante in un continuum musicale e magico.

Ma come scoprirete presto, di solito tendiamo a cercare di correggere ciò che sentiamo. Vi prestiamo attenzione; ci diciamo: «Ignoralo». Diciamo ai bambini: «Zitto, non riesco a sentirmi pensare». Ma se sapete davvero come pensare, riuscirete a concentrarvi su qualunque cosa vogliate anche nel bel mezzo di un pandemonio.

Allo stesso modo in cui possiamo condurre esperimenti sull’ascolto, possiamo anche condurne sugli occhi, sul gusto e sul tatto. Per esempio, possiamo raccogliere dei sassi e sentirli, senza cercare di mettere in parola quella sensazione. E tutto ciò significa soltanto lasciarci funzionare, è un atto di fede nel nostro essere. Lasciare che il nostro cervello ci dia le risposte, e allo stesso tempo lasciare che il corpo provi delle sensazioni, significa essere una democrazia anziché una dittatura, o comunque, per così dire, almeno una repubblica.

Dunque, quando permettiamo al nostro corpo di agire a suo piacimento, ci stiamo dicendo: «Sto lasciando che faccia quello che voglio». Ma aspettate un momento. Chi siamo noi? Siamo separati dalla repubblica del nostro corpo? Così come il Tao non è differente dall’universo e non lo comanda, neppure noi siamo diversi dalle nostre decisioni – che non comprendono solo il corpo, ma anche ogni sorta di rapporti con l’universo. Non siamo separati dal nostro corpo; non lo abbiamo, lo siamo. Siamo ognuno di questi rapporti, e non un semplice ispettore che controlla tutto ciò che accade. Forse pensate di esserlo, e in effetti, tutti abbiamo la sensazione di essere un ispettore che osserva le cose che succedono. In parte è per via della memoria, la quale sembra darci l’impressione di essere uno specchio che riflette ogni cosa. Da un lato la memoria ci dà questa impressione, ma dall’altro abbiamo questa impressione perché continuiamo a cercare di combattere e di resistere al cambiamento. Lo contrastiamo in ogni momento.

Se fossimo davvero consapevoli di tutte le reazioni dei nostri muscoli, scopriremmo che per la maggior parte del tempo stiamo combattendo contro qualcosa. Se facciamo sdraiare a terra una persona e poi le diciamo: «Ora il pavimento ti sostiene completamente. Non cadrai. Quindi rilassati», è molto difficile che quella persona ci riesca, perché ha paura che se non si tiene insieme si trasformerà in una massa informe che si spargerà sul pavimento penetrando nelle fessure. Tutti cerchiamo dunque di usare la pelle e i muscoli per tenerci insieme, ma questo succede già senza il nostro contributo. Non andiamo in pezzi. Eppure la gente non ci crede davvero. Di conseguenza dentro ogni persona vi è una resistenza costante. Potete avvertirla sotto forma di una tensione in mezzo agli occhi. Quello è il suo centro, ed è questa sensazione di costante resistenza alla vita ciò che sentiamo davvero quando pensiamo a noi stessi. «Io» è quella sensazione di resistenza.

Ma se ci lasciamo andare scopriremo che non vi è alcuna necessità di un ispettore che osservi tutto ciò che accade. Noi siamo ciò che sperimentiamo. Noi e le nostre esperienze siamo la stessa cosa. I nostri pensieri sono noi, le nostre sensazioni siamo noi. Quindi non c’è alcun bisogno di cercare di allontanarcene e di mandarle via. In altre parole, se riusciamo ad affidarci al flusso di ciò che accade, non avremo bisogno di resistergli. E scopriremo che lasciarci andare alla corrente funziona benissimo, proprio come funzionano bene i nostri occhi quando non cerchiamo di sforzarli, e allo stesso modo in cui sono comodi i nostri vestiti quando non siamo consapevoli di averli addosso.

Questa non-resistenza non è simile a uno stato di torpore. È molto diversa. Sperimentiamo il nostro corpo in termini di ciò che solitamente consideriamo «tutto il resto». Ci insegnano a pensare che quello che vediamo è «là fuori». Ma che colore ha la nostra testa dal punto di vista dei nostri stessi occhi? Non ne abbiamo alcuna sensazione. È come se dal nostro punto di vista non avessimo una testa. E in realtà il modo in cui la vediamo è come tutto ciò che vediamo «là fuori». Ogni cosa che vediamo in realtà è dentro di noi, perché i nostri nervi ottici si trovano dietro gli occhi. Tutte le forme e i colori attorno a noi sono stati mentali. Di conseguenza, quando guardiamo «là fuori», ciò che stiamo guardando è l’interno della nostra testa. Questo significa che, poiché l’interno della nostra testa siamo noi, non si può dire che la stiamo guardando dall’esterno, perché siamo noi. Questo è il modo in cui sentiamo le cose, ed è vero per chiunque. Non è più vero per me che per voi. È reciproco, e noi siamo come le gocce di rugiada sulla tela di un ragno, che si riflettono a vicenda.

Lasciare che la mente lavori da sola, che gli occhi vedano da soli, è il movimento preliminare verso la naturalezza per come la intendono i taoisti. Partiamo da qui per capire come esprimono tale naturalezza.

Tradizionalmente i taoisti hanno usato due immagini. Una è quella del blocco grezzo, e l’altra quella della seta non sbiancata. Queste due immagini stanno alla base di tutte le grandi forme d’arte dell’Estremo Oriente associate con il taoismo e con il buddhismo zen. Più avanti esplorerò la cerimonia giapponese del tè, perché è la migliore dimostrazione possibile di questo particolare atteggiamento. Dimostra infatti ciò che potremmo chiamare arte dell’incidente controllato, perché combina disciplina e spontaneità. L’immagine del blocco grezzo si esprime anche nell’arte giapponese chiamata bonseki, ossia «coltivazione di pietre». Potremmo chiamarla l’arte di far crescere i sassi. L’inno nazionale giapponese dice: «Possa il nostro Imperatore regnare mille anni, diecimila migliaia di anni, finché i ciottoli non diventeranno rocce possenti, ricoperte di muschio antico».

L’idea alla base del bonseki è prima di tutto che le pietre sono vive. Poi viene l’idea che la bellezza delle rocce risiede nella loro forma naturale. I giapponesi amano i loro giardini di rocce, e mostrano un’abilità particolare nel selezionarne di splendide. Apprezzano il tipo di pietre che si trovano in un ruscello di montagna, quelle lavorate dall’acqua fino ad assomigliare quasi a delle nuvole. Le raccolgono e le mettono in un carretto trainato da un mulo per portarle giù dalla montagna. Ma anziché buttarle semplicemente in giardino e metterci sopra un po’ di muschio, le portano in un angolo umido, dove il muschio vi crescerà sopra naturalmente. In Giappone il muschio cresce piuttosto in fretta, e quando avrà ricoperto la pietra la sposteranno nel punto del giardino in cui volevano metterla. E poi vi sistemeranno intorno sabbia e ciottoli in modo da dare l’impressione che sia sempre stata lì.

E anche se le pietre vengono posizionate da un giardiniere, ricordate che non c’è proprio nulla di innaturale. L’idea stessa che ci sia qualcosa di artificiale è di per sé completamente artificiale. In un certo senso, un grattacielo è naturale quanto il nido di un uccello, ma il problema è: come si dimostra la naturalezza di una cosa? La sfida è quella di avvicinarsi abilmente a ciò che è naturale. Ma se fosse semplicemente naturale, non richiamerebbe l’attenzione su quello che fa. Non lo evidenzierebbe. E quindi l’idea dell’artista, quando crea una ciotola o seleziona un sasso, è che la ciotola deve arrivare alla ciotola, e il sasso deve arrivare al sasso. Il sasso deve diventare esattamente uguale al sasso che avete sempre desiderato.

L’altra immagine, quella della seta non sbiancata, significa apprezzare la ruvidità di qualcosa di morbido. Sapete quanto è bello indossare la seta non sbiancata. I colori sono tenui e la trama diseguale, con una consistenza che regala una sensazione meravigliosa. È primitiva ma stupenda. Quando i grandi maestri dell’arte taoista e buddhista zen liberarono la propria mente e cominciarono a farla funzionare a dovere, scoprirono che alcune delle cose più semplici della vita di tutti i giorni – gli utensili che abbiamo in cucina, le ciotole più economiche che potrebbero utilizzare i contadini – sono incredibilmente belle. Queste cose semplici e non sofisticate sono naturali nello stesso modo in cui è naturale un bambino di tre anni che si mette a ballare. Non ha autocoscienza, né alcuna voglia di piacere a qualcuno, niente: il bambino balla e basta. Questa è la naturalezza.

Ora la domanda è: come fa un adulto, che ormai è compromesso, a riacquistare quella spontaneità naturale? I grandi artisti sudano sangue nel tentativo di riuscirci. Cercano di far sì che le loro opere appaiano come se si fossero create da sole, come se fossero semplicemente cresciute lì.

Ovviamente ci sono alcune eccezioni a questo principio estetico. Beethoven, in alcune delle sue sonate, scrisse le diteggiature affinché fossero il più innaturali e complicate possibile, ma per ragioni artistiche, in modo da ottenere la sensazione che suonare quella musica richiedesse un immenso sforzo. Ma quella è l’eccezione che conferma la regola. Normalmente, il musicista esperto sembra non fare alcuno sforzo. Semplicemente la musica accade attraverso le sue dita. Il trucco di Beethoven entra in gioco solo se per qualche particolare ragione artistica si vuole rappresentare uno sforzo.

Nella maggior parte dei casi, l’artista lavora tutta la vita per poter tornare bambino, per ritrovare l’innocenza e la naturalezza originarie. Ma poi accade che, lavorando in quel modo, l’artista diventa maestro di una tecnica incredibilmente sofisticata. Impara esattamente come controllare la mano, il pennello, i colori, gli scalpelli, qualunque cosa utilizzi. Ovviamente, la sola tecnica non è sufficiente. Per quanto possiamo sapere benissimo come dire qualcosa, non è scontato che abbiamo davvero qualcosa da dire. Si può essere maestri del linguaggio ma avere soltanto idee noiose. Quindi, in qualche modo bisognerà mettere la nostra tecnica a disposizione di quella che chiamiamo ispirazione, e ciò significa metterla a disposizione del sacro spirito, del flusso della vita.

L’artista che si esercita per anni e anni con il pennello, secondo il metodo cinese, alla fine scopre di non riuscire a creare un dipinto valido con nessuno stratagemma e con nessuna tecnica o astuzia. Deve dunque arrendersi. Tale «arrendersi» è proprio ciò che sta dietro a tutta quella che chiamiamo arte naturalistica dell’Estremo Oriente.

Ovviamente, esistono molti tipi diversi di arte dell’Estremo Oriente. Per esempio, la splendida ceramica della dinastia Sung – che risale all’anno 1000 – è completamente diversa dalle porcellane cinesi che tutti conosciamo. Di solito si pensa a vasi bianchi simili a gusci d’uovo, dai delicati motivi di uccelli, farfalle e figure femminili. Ma la ceramica del periodo Sung è pesante, color giada, dalle linee morbide, in un certo senso molto umile, e possiede una certa ruvidezza. Oppure pensate alla ceramica raku giapponese. Sembra davvero fatta a mano. Non sembra che sia mai stata posta su un tornio. Lo smalto è colato liberamente, e la creta sul fondo della ciotola rimane esposta. Ma, vedete, all’artista quella colorazione ricorda l’autunno, e intende mostrarci che la ciotola è fatta di creta, perché un bravo vasaio non obbliga la creta a seguire i suoi preconcetti. Evoca lo spirito presente nella creta in modo che compia una magia. E poiché la creta ha scelto di disporsi in quel modo, l’artista la ama. Non vuole farla assomigliare a qualcos’altro, per esempio all’avorio; vuole che assomigli alla creta.

Lo stesso vale per il legno. Questi artisti amano il legno. Amano le sue venature, e quindi rifiutano le vernici. La lacca va bene, purché sia usata con moderazione. Ma in linea di massima, poiché il legno è bellissimo, le venature sono lasciate in vista. Nella villa imperiale di Katsura, a Kyoto, ci sono verande di legno con le venature più meravigliose che abbiate mai visto. Sono semplicemente incantevoli, come una sorta di visione, e chi le guarda perde quasi la testa. Sono uno spettacolo.

Allo stesso modo, in una tipica casa giapponese, al di sopra della rientranza chiamata tokonoma c’è quasi sempre una colonna di legno fatta con un tronco o un ramo non lavorato, con ancora i nodi e le curve originali. Talvolta i giapponesi usano tronchi a mio parere davvero esagerati, fin troppo intricati. Ma come noi abbiamo imparato ad apprezzare i legni levigati dal mare, loro amano questi tronchi e rami non lavorati. E secondo lo spirito taoista, bisognerebbe apprezzare il legno per quello che è, senza cercare di farlo assomigliare alla plastica, al marmo, al metallo o a qualsiasi altra cosa.

Lo stesso vale per la carta. Ai cinesi non piace la nostra carta. Dicono che non ha carattere. Loro amano la carta con una trama e dei fili sottili all’interno; credono sia questo a rendere la carta quello che è. La carta ha la carta, e una carta come quella cattura la propria essenza. Secondo i cinesi la nostra carta somiglia più alla plastica – una non-sostanza – e noi rischiamo di essere sommersi dalla plastica, perché non amiamo il blocco grezzo e la seta non sbiancata, che sono fondamentali, sostanziali e naturali.

C’erano una volta in Giappone due abilissimi costruttori di spade. Dovrei ricordarmi i loro nomi, ma temo di averli dimenticati, quindi chiamiamoli Matsushima e Yamaguchi. Gli amanti delle spade non riuscivano mai a decidersi su chi fosse il miglior costruttore, ma i due erano senza alcun dubbio i maestri di quell’arte. Un giorno un gruppo di samurai pensò di metterli alla prova. Pensarono che probabilmente Matsushima fosse il migliore, ma d’altra parte Yamaguchi lo seguiva a ruota. Quindi presero una spada fatta da ciascuno dei due e portarono entrambe a un ruscello. Presero prima la spada di Yamaguchi, e la immersero nell’acqua con la punta rivolta verso la sorgente. Misero un pezzo di carta nella corrente in modo che ci finisse contro, e quando questa arrivò alla punta della spada si divise a metà, e quando i due pezzi ebbero sorpassato la lama si riunirono e proseguirono nella corrente. Era difficile fare di meglio. Ma presero la spada di Matsushima e fecero lo stesso. E cosa pensate che accadde? Proprio mentre il pezzetto di carta si avvicinava alla punta della spada, si spostò da un lato, evitando la lama, e quando l’ebbe sorpassata si spostò di nuovo e continuò il suo percorso.

Ovviamente, Matsushima era il migliore dei due costruttori di spade. Perché? Per la stessa ragione per cui nella scherma il traguardo maggiore che si può raggiungere è essere talmente bravi da non avere nemmeno bisogno di usare la spada. Ed esistono moltissime meravigliose leggende di grandi guerrieri samurai zen così abili da non usare mai la spada.

Forse avrete visto un film intitolato Samurai, che si divide in tre parti. Ci vogliono tre sere per guardarlo tutto. È la storia della vita di Miyamoto Musashi, uno dei più grandi spadaccini della storia giapponese. Non racconta tutta la sua vita; ci porta direttamente al momento in cui duella con un altro campione, che per vanità aveva insistito a sfidarlo. All’inizio Musashi combatte usando solo un remo cui è stata tagliata via la pala. Su una spiaggia, spinge il suo avversario in una posizione in cui il sole lo abbaglia, e quando l’avversario gli sferra un colpo micidiale, lui salta evitando la spada, estrae la sua arma e lo uccide all’istante. Ma poi è triste per aver ucciso uno spadaccino così abile. A quel punto segue finalmente il consiglio del maestro zen Takuan, che fino ad allora aveva cercato di dissuaderlo dall’intraprendere la carriera militare. Tempo dopo, si sta recando a Kyoto e deve attraversare il lago Biwa su una piccola imbarcazione a remi. Mentre è a bordo sale un altro samurai, un individuo molto rozzo che ha bevuto troppo sake, e vede Musashi. «A che scuola appartieni?» chiede il samurai ubriaco. Musashi risponde: «A quella senza spada». A quel punto la barca aveva già lasciato la terraferma. «Una scuola senza spada, bah, voglio proprio vedere» ride l’altro samurai, e tira fuori la sua arma. Ma Musashi dice: «Aspetta. Siamo su una barca affollata. Se cominciamo a combattere, faremo male a qualcuno, e sono solo passeggeri innocenti. Andiamo su quell’isola laggiù, e poi potremmo duellare». Quindi lo spadaccino ubriaco dice al capitano della barca: «Portaci su quell’isola». E così accade. Lo spadaccino ubriaco è così ansioso di combattere che salta sulla sabbia, e a quel punto Musashi prende il remo del capitano e spinge nuovamente la barca in acqua, lasciando lì l’altro samurai. «Visto?» gli dice mentre si allontanano. «Ecco la mia scuola senza spada».

Se io vi dicessi: «Ciao», voi mi rispondereste: «Ciao». Se vi chiedessi come state, mi rispondereste: «Bene». Ecco il nostro io originale. Ma se nel bel mezzo di una normale conversazione vi dicessi: «Perché la mia mano è come quella del Buddha?», voi cosa rispondereste? Una volta, quando in una situazione simile un maestro pose questa domanda e il suo discepolo non riuscì a rispondere, il maestro disse: «Finora hai risposto in modo piuttosto semplice e naturale. Perché ti senti in difficoltà quando ti chiedo perché la mia mano è come quella del Buddha?».

Il discepolo era troppo abituato a un pensiero lineare per rispondere in modo spontaneo. Era abituato a seguire un solo percorso. E tutti facciamo così. Siamo a disagio se qualcuno cambia argomento senza prima avvisarci con una transazione rituale. Siamo a disagio anche quando accanto a noi c’è un pazzo, che potrebbe cambiare argomento troppo rapidamente, o un ubriaco, che potrebbe non seguire il normale protocollo di una conversazione. Ognuno di noi si attacca a questi percorsi lineari, o per meglio dire abbiamo tutti una mente a una sola via.

Il maestro che all’improvviso ha posto una domanda sulla sua mano voleva una risposta naturale e spontanea. Quando battiamo le mani, il suono si propaga senza esitazioni. Quando una pietra focaia sfrega contro il metallo, subito si accende una scintilla. È questo il tipo di risposta che voleva il maestro.

Bisogna essere spontanei. Allo stesso tempo, non dobbiamo avere fretta di dare una risposta, perché la fretta è di per sé un blocco nel flusso di energia. E un blocco, in questo senso, è esattamente ciò a cui si riferiscono i buddhisti quando parlano di attaccamento. Quando dicono «liberati dall’attaccamento alle cose terrene», non intendono che bisogna rinunciare a godersi una bella cena. Intendono che bisogna liberarsi dei blocchi, superare lo stato in cui il nostro flusso di energia è interrotto e quindi procede a scatti, come una ruota troppo stretta per l’asse. Potremmo dire che un equivalente di attaccamento è intoppo. È quindi un intoppo cercare di arrivare alla soluzione di un problema che richiede un’azione immediata utilizzando ragionamenti e calcoli, cioè seguendo un percorso lineare, quando in realtà il problema stesso ha una dimensione non lineare. Non potrà mai essere risolto in modo lineare, perché la soluzione non può essere forzata. E non possiamo nemmeno forzare quella strana proprietà che chiamiamo bellezza, o, per quel che vale, quella che chiamiamo virtù di comportamento. Sappiamo riconoscere benissimo una virtù forzata.

Una volta il grande maestro del tè Rikyu andò a una cerimonia del tè. Il padrone di casa era molto orgoglioso di un suo nuovo barattolo di porcellana. Ma Rikyu non lo notò, o così pensò il padrone, cosa che dimostra che desiderava troppo che venisse notato, e questo non era in linea con la filosofia del tè. Avevo un amico, un artista giapponese di nome Sabro Hasegawa, che un giorno mi fece una calligrafia. Prese un pennello normalissimo, occidentale, da imbianchino, largo circa due centimetri e mezzo, e scrisse i caratteri cinesi che corrispondono a uno, due e tre. Ossia una linea orizzontale, due linee, tre linee. E c’era qualcosa di meraviglioso in quel gesto. In alcuni punti il pennello era parzialmente asciutto, quindi produsse delle strisce irregolari di inchiostro anziché dei blocchi uniformi. Accadde poi che qualche giorno dopo dovevamo ricevere la visita di D. T. Suzuki, il grande maestro zen. Io dissi: «Voglio appendere quella calligrafia nel mio ufficio». E poiché una bella opera d’arte deve adattarsi a ciò che la circonda in modo da non risultare un pugno in un occhio, Sabro disse: «Spero che non la veda».

Allo stesso modo Rikyu non aveva notato il barattolo per il tè, e ciò irritò il padrone di casa a tal punto che finita la cerimonia lo distrusse. Ma uno dei suoi studenti, che sapeva quanto valeva, raccolse i pezzi e lo fece aggiustare usando un’antica tecnica in cui l’oro fuso viene utilizzato come collante. Quando fu pronto, si poteva vedere il pezzo originario ma anche le linee d’oro usate per aggiustarlo, simili a una ragnatela. Tempo dopo, un figlio del padrone di casa tirò fuori il barattolo in presenza di Rikyu. E Rikyu disse: «Accidenti, è incredibile. La prima volta che l’ho visto era bello, ma adesso è perfetto». La rottura e riparazione del barattolo è ciò che potremmo chiamare incidente controllato, e tutta l’arte migliore è un incidente controllato. In altre parole, possiede una componente controllabile, ma anche qualcosa di fortuito e naturale. Ed è proprio l’insieme di queste due componenti a rendere l’arte una cosa meravigliosa.

Lo stesso avviene nei rapporti umani. Prendiamo per esempio l’amore. Io potrei essere innamorato e la mia ragazza potrebbe essere una persona davvero splendida e bellissima, ma se riuscissi a controllarla completamente o a immergermi nella sua perfezione, potrei anche essermi innamorato di un manichino. Invece, se lei avesse un piccolo neo sulla guancia, o una qualche imprevedibilità nel carattere, nel bel mezzo dell’ordine entrerebbe in gioco qualcosa di accidentale, e potrei godermi più facilmente la sua umanità.

Similarmente, quando entriamo in casa di qualcuno e tutto è perfettamente pulito, ci sembra impossibile potervi cucinare una zuppa, per non sporcare la cucina. È una cosa orribile. In una casa come quella manca una qualità che gli arabi chiamano baraka. All’incirca, baraka significa «grazia». Ma baraka è anche la qualità cui stiamo pensando quando diciamo di qualcuno: «Ti mette proprio a tuo agio». È la qualità della vostra padella preferita, che è vecchia e sporca ma anche meravigliosa. O di una vecchia pipa cui negli anni vi siete abituati. Questi oggetti possiedono baraka, grazia. Quindi per ogni artista la sfida è far emergere la grazia, e lasciare accadere qualcosa di accidentale.

Una volta all’istituto d’arte di Chicago c’era un concorso di scultura in cui a ogni partecipante veniva dato un cubo di gesso di 30 centimetri per lato su cui lavorare. Vinse una donna che aveva cominciato guardando il cubo di gesso e dicendo: «Questa cosa è talmente perfetta che non sa cosa vuole essere». E quindi lo afferrò con entrambe le mani e lo gettò a terra, così si crepò e saltarono via dei pezzi. Poi lo guardò di nuovo e disse: «Ora so che cosa vuole essere». In quel modo, seguendo le crepe che vi aveva inflitto, creò una scultura meravigliosa. Seguire le venature è ciò che si fa anche quando si effettua un test di Rorschach. Guardiamo la macchia d’inchiostro – che è il Tao, l’universo primordiale e sinuoso – e poi ci vediamo qualcosa. Vediamo un’immagine, ed è molto più bella di qualunque immagine potremmo mai disegnare con quella che chiamiamo visione eidetica. In questo modo aiutiamo la macchia d’inchiostro, o il pezzo di legno o di pietra, o qualunque cosa ci troviamo davanti e dobbiamo trasformare in immagine, a rivelare la sua vera natura.

Ora provateci voi. Non appena vi svegliate al mattino, osservate la trama della tappezzeria, o le ombre sul muro, e cercate di essere ricettivi alle immagini. Inizierete a vedere ogni sorta di volti, alberi e paesaggi. Lo faceva anche Leonardo da Vinci. Usciva e guardava un muro di mattoni segnato dalle intemperie e coperto da macchie di colore, graffi e così via. Lo osservava finché non vedeva un’intera scena; e scrisse di aver visto una battaglia che lo aveva ispirato nella creazione di un grande murale.

Similarmente, c’era un monaco cinese zen che aveva i capelli lunghi, cosa piuttosto insolita. Beveva moltissimo vino, e quando era completamente ubriaco inzuppava i capelli nell’inchiostro e li sbatteva su un pezzo di carta. Al mattino, quando l’inchiostro era asciutto, andava a vedere cos’era successo. Mentre guardava le macchie, entrava in uno stato mentale ricettivo, e cominciava a vedere un paesaggio che prendeva forma dettaglio dopo dettaglio. E poi tutto ciò che doveva fare era aggiungere qualche tocco di pennello per mostrarlo al pubblico. Quando andiamo alle grotte di Lascaux e negli altri luoghi antichi della Francia, e scendiamo a vedere i graffiti preistorici con gli animali, talvolta sembra che l’artista che ha dipinto sulle pareti della grotta seguisse le formazioni naturali della roccia, che evocavano un immaginario di bestie selvatiche che oggi ci appaiono disegnate in modo inconcepibilmente realistico per un popolo così primitivo. Dobbiamo sempre ricercare questo tipo di arte, in cui l’artista non ha cercato di costruire l’immagine da solo ma si è limitato ad aiutarla a emergere.

È in questo modo che creiamo il mondo intero. Normalmente non ne siamo consapevoli, perché siamo troppo abituati a vederlo nel modo che consideriamo reale e normale. Ma possiamo anche allenarci a vedere le cose in modi in cui non sono mai state viste, ed è quello che fanno molti artisti. Per esempio, nell’arte occidentale di settecento anni fa, non esistevano pittori di paesaggi. Tutti dipingevano ritratti, oppure scene della vita degli esseri umani, degli angeli, degli dei e così via. Ogni volta che in un quadro si vedeva un paesaggio, era soltanto uno sfondo casuale. Nel corso del tempo gli artisti rimasero sempre più affascinati da questi paesaggi, ed eliminarono le figure per concentrarsi sullo sfondo. Ma i primi a vedere dipinti con soli paesaggi dissero: «Questa non è arte». Perché? Perché fino ad allora avevano considerato i paesaggi come uno sfondo insignificante. Gli artisti dovettero far capire alla gente la bellezza del paesaggio.

Ora, ciò che comincia a interessarci oggi, e cui stiamo soltanto cominciando a pensare, sono i suoni. Quando registriamo qualcosa, o andiamo a un concerto, abbiamo l’impressione che ciò che cattura la nostra attenzione sia l’unica cosa presente. Quindi negli studi di registrazione ricoprono i muri con pannelli insonorizzanti per tenere lontano il rumore del traffico. Secondo loro la cosa importante cui fare attenzione sono le parole, ma la cosa strana è che le ascoltiamo a casa nostra, con le finestre aperte e i suoni che provengono dall’esterno, quindi in realtà non esiste alcun motivo per cui quei rumori di fondo non dovrebbero venire registrati fin da subito.

Pensiamo ai rumori di fondo, a quel paesaggio fatto di suoni. Pensiamo al ronzio che fa da sfondo a qualunque cosa facciamo. Possiamo renderci conto che è meraviglioso e imparare a riconoscere la consistenza di quei rumori, proprio come abbiamo imparato ad apprezzare la bellezza del paesaggio.

C’era una scuola di compositori, il cui principale esponente è John Cage, che ha cercato di abituarci ai rumori di fondo e ai concerti silenziosi, che consistono nel suono delle pagine girate e nei rumori che provengono spontaneamente dal pubblico. Potreste dire che quella non è musica. Ma chi lo sa? Il mondo è composto da moltissime cose diverse. È un mondo di ronzii, di paesaggi, di cieli. Per migliaia di anni, le persone socialmente più influenti hanno deciso a quali parti del mondo dobbiamo fare attenzione. Hanno insegnato ai loro figli che cosa notare, e lo facciamo anche noi ancora oggi. Quando un bambino gioca con il fango o con il cibo creando delle figure, ci sembra che stia facendo qualcosa di poco importante, quindi lo scoraggiamo e gli diciamo di imparare a usare una matita. Quando un bambino indica qualcosa e dice «cos’è quello?», noi rispondiamo: «Un tavolo!», e se il bambino dice: «No, quello», noi gli diciamo: «È legno». Ma il bambino stava indicando una certa irregolarità sul tavolo, una minima variazione di colore per cui non abbiamo un nome, e quindi gli diciamo: «Oh, non fare lo sciocco; non ha importanza». In questo modo a tutti noi viene insegnata l’interpretazione ufficiale della macchia di Rorschach cosmica.

Questa interpretazione si basa su certi criteri, come l’idea che bisogna sopravvivere. Vivere è il nostro dovere, ma questo dovere ci pone un dilemma. Ci dice che dobbiamo per forza essere spontanei, e si tratta di un doppio legame, visto che ci viene detto che è nostro dovere essere spontanei perché tutta la vita è spontanea. Quindi ognuno di noi si trova di fronte a questo conflitto.

Il mondo che vediamo è una creazione dell’immaginario eidetico. Consideriamo i problemi umani come la cosa più importante. In un certo senso, è la nostra risposta al test di Rorschach cosmico. In questo modo mettiamo in scena il maya, l’illusione del mondo. Ma maya significa anche «arte» e «magia». Di conseguenza, la vera creazione è la magica evocazione del mondo delle cose a partire da un mondo senza forma – cioè dal mondo del puro Tao, che non fa altro che ondeggiare.