Durante il percorso, considerai la possibilità di finire un’altra volta nello sventurato ristorante italiano. In questo modo, almeno, ci sarebbe stata una sorta di lugubre simmetria. Mio padre, invece, era nella sua camera d’albergo, con diversi altri uomini. Potevamo vagamente sentirli ridere mentre camminavamo lungo la passatoia consunta del corridoio freddo e scolorito dell’albergo. Le guance mi pizzicavano per la corsa e per l’inquietudine. E a quel punto Cleveland fece una cosa che mi sbalordì. Quando mi fermai davanti alla porta con il numero che ci avevano indicato e gli rivolsi un ultimo sguardo d’incoraggiamento, lui tirò fuori una cravatta dalla tasca del giubbotto di pelle e cominciò ad annodarsela al collo della camicia. La cravatta era color grigio bruno, con un intricato motivo di quadri e ovali.
«Serpente a sonagli» disse Cleveland.
Un altro giro di risate dall’altra parte della porta. Aspettai, per non provocare un’improvvisa, malaugurata interruzione, poi, quando sentii il raschio conclusivo di mio padre che si schiariva la voce, bussai. Dopo alcuni secondi di mormorii, un uomo venne ad aprire, uno di Loro. Cercai di guardare dentro la stanza, ma c’era un vestibolo bianco – una panca, uno specchio e un gladiolo in un vaso – e nient’altro. L’uomo, in maniche di camicia e senza giacca, aveva la faccia pallida e un pessimo taglio di capelli. Mi riconobbe, e io mi domandai quante volte lo avevo visto prima di quel giorno. Sorrise e venne fuori sul corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.
«Ehi» disse. «Questa sì che è una sorpresa. Il ragazzo di Joe Bechstein.» Mi strinse la mano. «Jimmy. Jim Breezy. L’ultima volta che ti ho visto eri ancora un bambino. Senti Art, ascolta.» Mi mise una mano sulla spalla e mi tirò un poco verso di lui, e un poco lontano dalla porta, poi guardò oltre la mia spalla e solo allora parve notare Cleveland. «È un tuo amico?»
«Sì, esatto. Mi fa piacere vederti, Jimmy.»
«Ascolta, Art. Tuo padre ha da fare in questo momento, sai, sta parlando con della gente. Ecco. È occupato.»
«Oh, no.»
«Eh, sì, vedi. Penso che forse sarà meglio che torni fra un’ora, magari anche un’ora e mezzo.»
«Oh. D’accordo, Jimmy, certo. Alle cinque, diciamo?»
Sicuro, disse, senza guardare l’orologio, e tornò dentro. La porta si richiuse.
«Oh, be’» dissi, «faremo alle cinque. Mio padre è occupato.» Cleveland alzò gli occhi al cielo.
«Sei una gelatina, Bechstein, una vera gelatina di pesce» disse, e bussò alla porta.
«Sì?» disse questa volta Jimmy Breezy, ancora sorridendo.
«Non potremmo vedere il signor Bechstein adesso, e non alle cinque?» domandò Cleveland.
«Tu chi sei?» volle sapere Jim. Non sorrideva più.
«Sono un amico. Cleveland Arning.»
«Falli entrare» sentii che diceva mio padre.
Jimmy Breezy si fece da parte per lasciarci passare, come il battente di un cancello.
Nella stanza c’erano sette uomini, senza contare Loro, seduti in varie poltrone intorno a un tavolino lungo e basso, su cui erano posati giornali letti e ripiegati, una chiave, e il biglietto d’aereo di mio padre. C’erano: mio padre, in tenuta da golf, con un’aria severa ma rilassata; lo zio Lenny, anche lui con scarpe bianche e pantaloni color pastello; e altri cinque uomini, di cui uno, pallido come Jimmy, saltò in piedi non appena vide Cleveland. Doveva essere Frankie Breezy, sorpreso di vedere il motociclista ai suoi ordini nella stessa camera d’albergo in cui si trovava lui. Frankie era un tipo dall’aspetto fragile che voleva farti capire al primo sguardo quanti soldi aveva da investire nel proprio abbigliamento. Era la cosa più vistosa nella stanza che, come tutto l’albergo, era vecchia, sciupata, elegante e spaziosa. Gli uomini stavano gustando lunghi sigari e bevendo bibite: mio padre e Lenny i soliti bicchieri di caffè freddo con ghiaccio, tutti gli altri bevande chiare tipo ginger. E tutti erano sorridenti, fatta eccezione per Frankie Breezy.
«Ciao, papà. Ciao, zio Lenny» dissi, decidendo di non baciare mio padre sulla guancia. Feci un cenno a tutti gli altri, che risposero con un cenno. «Scusate il disturbo. Questo è il mio amico Cleveland.»
Mio padre si alzò verso di me, e mi diede un bacio. Strinse la mano a Cleveland.
«Joe, io lo conosco, Cleveland» disse Frankie, con un tono di voce deliberatamente molto strano. Mio padre mi guardò.
«Molto piacere di conoscerla, signor Bechstein» disse Cleveland. «In realtà è tutta colpa mia se vi abbiamo interrotti in questo modo. Volevo conoscerla.»
«Piacere» disse mio padre in tono pacato.
«È uno dei miei» disse Frankie.
«Perché tu e Cleveland non ve ne andate in centro per un paio d’ore, Art. Poi vi porterò a cena tutti e due.» Non batté ciglio.
«Già, alcuni di noi non sono in vacanza, Art» disse ridacchiando il vecchio Lenny. «Alcuni di noi devono lavorare anche nei giorni più caldi dell’estate.»
«Va bene, ragazzi. Ho da fare. Arrivederci.»
«Ehi, Joe, lascia che si fermino un minuto» disse uno anziano, un tipo che era stato biondo e che adesso stava diventando calvo, con occhi azzurro acqua dall’espressione amichevole e il naso distrutto dalla boxe. Prese un giornale e lo aprì accanto a sé. Quello, anche se allora non lo sapevo, era Carl «Poon» Punicki. Altre tre cose che allora non sapevo erano: primo, che era un importante ricettatore di gioielli; secondo, che lui e Frankie Breezy si erano contesi, per un anno intero, una piccola porzione della Monongahela Valley; terzo, che aveva un figlio, un motociclista, a cui era molto affezionato e con cui mangiava ogni domenica. «Non ho mai conosciuto il tuo ragazzo, Joe.»
A mio padre era stato chiesto di combinare degli affari con quell’uomo; mi mise un braccio intorno alle spalle.
«Arthur, questo è il signor Punicki.»
Lui attraversò tutta la stanza e strinse la mano a me e a Cleveland. Lo vidi guardare con paterno divertimento la cravatta a pelle di serpente di Cleveland.
«E allora?» domandò infine mio padre. «Volevate semplicemente passare di qui?»
«Sì» rispose Cleveland. «Proprio così.»
«No» dissi io. «C’è una ragione precisa, in realtà.»
L’occhiata che Cleveland e io ci scambiammo doveva essere uno sguardo da adesso-che-cosa-facciamo, perché si misero tutti a ridere.
«Questo ragazzo non può stare qua dentro» disse Frankie. «È un dipendente.»
«Papà, Cleveland vorrebbe un lavoro.»
Frankie Breezy si alzò e strinse i pugni, non del tutto ma probabilmente in modo automatico. «Cleveland ha bisogno di un lavoro» disse.
«Questa è una vera sciocchezza» disse mio padre.
«Glielo darò io un lavoro a Cleveland» disse il signor Punicki. Prese di tasca una penna e scrisse qualcosa sulla busta di carta colorata del biglietto aereo di mio padre. Poi ne strappò via l’angolo e lo porse a Cleveland.
«Ci vediamo alle cinque» mi disse mio padre, quasi in un bisbiglio. Aveva la fronte talmente corrugata per la collera che sembrava avesse un unico sopracciglio. Era rossissimo. «Da solo.»
Provai la sensazione, breve ma intensa, di essermi spinto davvero troppo in là, questa volta, perché valesse ancora la pena di subire un’altra maledetta cena.
«Non posso, papà» dissi. «Ho da fare. Mi spiace.» Fui sul punto di piangere ma mi bloccai: fu come una specie di sbadiglio. «Andiamo, Cleveland.»
«E scommetto che sarà anche un lavoro molto più divertente» disse Cleveland sottovoce, mentre uscivamo dal grazioso vestibolo. «Più adatto ai miei gusti e alle mie idiosincrasie.»
Aspettammo a lungo l’ascensore. Il corridoio era freddo e silenzioso. Finalmente la porta di ottone si aprì. Mentre scendevamo, Cleveland si accese una sigaretta, esattamente sotto il cartello con la scritta NON FUMARE. MULTA DI 500 DOLLARI AI TRA SGRESSORI, cosa che mi colpì per la prima volta come un gesto inutilmente teatrale.
Scolai mezza birra senza accorgermene. Sia io sia Cleveland eravamo intontiti, anche se il suo intontimento era una specie di fantasticheria nervosa, mentre il mio era più una sorta di torpore. Quando finalmente notai il vago sapore di pane della birra che avevo in bocca, mi guardai intorno nel bar senza ricordare di esservi entrato. Ero sull’ultimo sgabello, vicino a una finestra, e potevo vedere i rossi mattoni di Market Square accesi dal sole. Mi concessi un momento di distensione sotto l’aria tiepida che soffiava dal pigro ventilatore e nelle placide esalazioni salate di crostaceo morto che riempivano il luogo. Carl Punicki passò davanti al bar, senza guardare dentro. Mentre spariva dalla mia vista, si passò una mano fra i radi capelli giallastri e scrollò le spalle. Dalla mia sigaretta cadde un centimetro di cenere.
«Oh» disse Cleveland. «Art. Ci sono proprio rimasto male. Mi spiace.»
«Ah» feci io. «Grazie.»
«Davvero. Pensi che questa faccenda rovinerà le cose con il tuo vecchio?»
«Sì. Non lo so. No. Le cose erano già rovinate.»
«Ce l’hai con me, Bechstein? Non prendertela, dài.» Gli occhiali bianchi gli davano un’aria sbarazzina, e disse in tono piatto: «Ho una sensazione meravigliosa». Finì la birra. «Tutto sta andando per il verso giusto.»
Mi venne da ridere, e finalmente lo guardai. A un certo punto in quel giorno rovente di fine luglio – quando vennero superate le punte record di caldo toccate nel 1926 o qualcosa del genere – la mia amicizia con Cleveland cominciò a essere connotata da una comune volontà di distensione, quel molesto desiderio di dimenticare le cose, ridendoci sopra.
«Devo telefonare a Phlox» dissi, pensando: devo telefonare ad Arthur. Scivolai giù dallo sgabello e mi infilai fra vecchie fotografie e uomini in fila per raggiungere il retro del bar, giocherellando, la mano in tasca, con le monete.
«Pronto?» rispose – mio Dio – Phlox.
«Oh, ciao!»
Centralino, centralino, c’è stato qualche errore!
«Oh. Sei tu.»
«Ciao, Phlox, mi sento davvero in colpa e preferisco non parlarne. Come stai?»
«Sono arrabbiata.» Tamburellò. «Dove sei?»
«Sono in centro. Con Cleveland.»
«Bene. Restaci.»
«E se adesso venissi lì da te?»
«No» rispose, più calma. «Direi di no.» Il suo tono di voce era freddo. «Perché non chiami Arthur?»
«Phlox! E va bene. Farò così.»
«No, Art, vieni qui!»
«No, chiamerò Arthur, come hai detto tu.» Ci fu una pausa di silenzio. Il computer del flipper alla mia sinistra simulò il suono di una donna in orgasmo. Mi resi conto di quanto era stupido quel che le avevo appena detto.
«Va bene.»
«Oh, Phlox, lascia che venga lì, subito.»
«No» disse lei. «Sono troppo arrabbiata per vederti in questo momento. Potrei dire cose che non vorrei. Vieni più tardi.»
Le cose stavano succedendo troppo in fretta perché ci potesse essere un più tardi.
«Parto immediatamente.»
«No» ripeté lei e riattaccò. Provai a richiamare, ma trovai occupato. Così telefonai ad Arthur, e lo svegliai da un sonnellino. Mi disse di andare da lui. Tornai a dirlo a Cleveland, ma se n’era andato, lasciando un messaggio e un paio di banconote spiegazzate. Lessi il messaggio, lo ficcai in tasca e andai a prendere un autobus per Shadyside.
Arthur rise di commiserazione quando mi vide, e mi tese generosamente la mano. Io gli misi le braccia al collo e lo strinsi contro di me. Ci dividemmo. Aveva la faccia bruciata dal sole e l’espressione di chi si è appena svegliato, con un piccolo granello di sonno nell’occhio sinistro. Si era comperato una bottiglia di Christian Dior al cedro. Ero così contento di vederlo.
«Povero ragazzo» disse. «Hai un’aria infelice.»
«Lo sono» dissi io. «Abbracciami ancora.»
«Dev’essere stata una giornata particolarmente stressante.»
«Sono stressato. Arthur, posso...?»
«Ti prego.»
Non era poi così diverso. Ha appena mangiato una susina, pensai.
Lui mi respinse un poco, poi mi tenne fermo.
«Sei nel pieno possesso delle tue facoltà?»
«Non ne sono sicuro. No.»
«Be’, era ora» disse. Mi pizzicò il lobo dell’orecchio. «Andiamo a sviscerare tutte le possibilità.»
«Potremmo farlo lentamente?»
«No» rispose, e fu come disse. Lo facemmo molto in fretta, nel letto della meteorologa, incominciando da piccoli morsi e poi attraverso tutte le soste – aliene, estranee e allo stesso tempo familiari – del solito percorso che conduce al rapporto completo, quel rapporto che per tutto il tempo incombeva su di me, nero, brutale e sorridente, più alieno, estraneo e familiare di qualsiasi altra cosa. Poi, dopo forse dieci o quindici minuti da quando ero arrivato, con la mano destra intorno al suo membro duro e soffice e la sinistra stesa contro il suo stomaco, fui pervaso da una nuova sensazione. La nostra nera destinazione cessò di apparirmi come qualcosa di minaccioso. Il mio cuore si spezzò e allo stesso tempo si riempì di desiderio, mi sentii esausto, e da allora assaporai ogni singolo minuto. Era strano ed eccitante sentirmi per una volta il più debole.
«Ecco» dissi. «Adesso.»
«Sei sicuro?»
«Sì. Ti prego. Va tutto bene. Adesso o non lo farò mai più.»
«Ci serve qualcosa di lubrificante.»
«Sbrigati.»
Strisciò fuori dal letto e corse in giro per la stanza, buttando fogli di giornale dappertutto, frugando nei cassetti, poi scomparve in bagno. Lo sentii aprire l’armadietto dei medicinali e quindi richiuderlo sbattendo lo sportello. Lo vidi sfrecciare nudo davanti alla porta della camera da letto e poi scendere frettolosamente le scale. Io stavo disteso sul groviglio di lenzuola e coperte del letto, e fissavo le lancette della sveglia senza interesse per l’ora. Mi dolevano i fianchi, contratti dal respiro affannoso e da quella sensazione di noncurante desiderio di essere scopato. La sveglia si mosse, la vecchia zanzariera alla finestra sbatté; sentii i passi di Arthur che ritornava su per le scale. Rientrò in camera, con il fiato corto, ma sorridendo e con in mano una bottiglia di olio di semi.
«Roba lubrificante» disse, e la mia risata fu come un ribollio iridescente sulla superficie di una pozza di catrame fuso.
«Avanti.»
«Calma, mi manca il respiro. Dammi un attimo di tempo, dammi un bacio» disse.
Mi fece un male cane, e l’olio era freddo e strano, ma quando Arthur disse che aveva finito, desiderai che non si fermasse; gli chiesi di non fermarsi, e lui fece del suo meglio, ma poi cominciai a piangere. Lui mi strinse, io smisi di piangere, e ci mettemmo a ridere per un verso che avevo fatto; avevamo la faccia a pochi centimetri di distanza quando gli vidi spalancare gli occhi e tirarsi su di colpo, e poi riabbassarsi per guardarmi da vicino.
«Ti sanguina il naso» disse.
Si alzò e si diresse alla grande vetrata, aprì le tende e fece scorrere il pannello della finestra. Una leggera brezza e la luce del tardo pomeriggio riempirono la stanza attraverso la ringhiera di ferro battuto, e sul pavimento apparve una fila di ombre sottili. C’era del sangue sul mio cuscino. Quando mi alzai per andare a prendere dei Kleenex con cui tamponarmi il naso, Arthur tolse la federa macchiata dal cuscino e andò alla finestra. Quando ritornai lui era al davanzale, e sorrideva per la notizia che aveva appena comunicato al vicinato.