XVIII

PERSPICACIA

«Ogni donna ha il cuore di un poliziotto.» Tempo dopo, molto tempo dopo che l’estate era sfiorita e caduta a terra, in piccoli frammenti neri di cenere e carta giapponese, sedevo nel caffè di una deserta cittadina di villeggiatura bretone e parlavo con un ragazzo di Parigi, che mi recitò questo aforisma. Il ragazzo beveva Pernod, dolce e torbido, amaro e tranquillo, e per illustrarmi la sua massima mi raccontò la storia dei poteri da detective di una sua vecchia fidanzata. All’epoca della loro storia, lui viveva al terzo piano di un vecchio palazzo nel Quinto Arrondissement, e al sesto piano abitava una giovane donna che lo attraeva. Lo aspettava davanti alla porta quando lui tornava a casa dal lavoro, con indosso soltanto una leggera camicia da notte, gli metteva fiori e nastri colorati nella cassetta delle lettere, lo chiamava la sera tardi senza avere nulla da dirgli. Ma questa tipa era povera, e pazza, mi disse, mentre lui si sarebbe dovuto sposare con una brillante ragazza di una illustre famiglia ebrea, che faceva parte dell’élite socialista.

Anche se la sua vicina era carina, per oltre un anno lui era riuscito a evitarne le avances, e mai, naturalmente, ne aveva parlato con la ricca fidanzata. Fino a quando, una domenica pomeriggio, senza alcuna particolare ragione aveva ceduto. Alla fine, la vicina si era alzata dal letto e si era messa indosso il vestito e i sandali per andare fino all’angolo a comperare una bottiglia di vino. Sulle scale aveva incrociato la fidanzata, che intendeva sorprendere il suo ragazzo con un regalo costoso. Le due donne si erano scambiate un brevissimo sguardo. La ragazza ricca era arrivata davanti alla porta dell’appartamento, aveva bussato e, quando lui aveva aperto, gli aveva dato uno schiaffo. Aveva lanciato il suo regalo – un completo da toilette per uomo platinato d’oro – contro lo schermo del televisore, poi se n’era andata e lui non l’aveva mai più rivista.

L’aforisma potrebbe anche essere falso (ma suona bene, e questo è sufficiente per un aforisma), sta di fatto che non ero entrato a casa di Phlox da più di quarantacinque secondi, che lei aveva già raccolto tutti gli indizi possibili dal mio volto, dalla mia voce e dalle mie carezze – forse anche dal mio odore – e mi accusava di aver fatto quello che avevo fatto, ancora una volta, alle due di quel mattino, dopodiché Arthur si era addormentato, mentre io non c’ero riuscito e così avevo attraversato la Quinta Avenue deserta ed ero andato a casa, camminando per le strade senza traffico.

«Chi è?» mi domandò, respingendomi e stringendo lo schienale di una seggiola.

«Una persona che non conosci.» Non avevo la forza di mentire in modo convincente. Ero stato colto di sorpresa. Tutto quello che potevo fare era sprofondare nel suo vecchio divano e temere le prossime divinazioni. Quella mattina mi aveva svegliato con una telefonata e già allora, mi resi conto, la sua voce conteneva quella consapevolezza, quell’urgenza che mi avevano spinto ad andare a casa sua ancora mezzo svestito, dopo solo tre ore di sonno e un’unica tazza di caffè. Lei stava al centro del piccolo e semplice soggiorno, con una felpa grigia strappata e pantaloncini da ginnastica, le braccia rabbiosamente incrociate, ma non disse nulla. Si mise a piangere.

«Scusami» dissi. Parlai rivolto alla mia camicia. «Non è stato niente. Uno sbaglio. Mi sentivo in colpa e solo, e ho incontrato... una tipa che conoscevo tanto tempo fa.»

«Claire?» disse Phlox fra le lacrime.

Alzai gli occhi. Non potei trattenere un sorriso a quella domanda, o quantomeno un mezzo sorriso. «No, mio Dio, no. Che idee. Senti, Phlox.»

Lei si avvicinò. Me la tirai sulle ginocchia e strofinai la guancia contro la sua felpa morbida e lisa. Il conforto è nel tessuto delle tute da ginnastica. «Ti prego, Phlox, devi perdonarmi, devi. Non provo niente per quella ragazza. Non significa niente per me.»

Lei si girò di scatto, infuriata e curiosa, gli occhi rossi.

«Com’è?»

«Bionda. Bionda e fredda.»

«Bionda e fredda come Arthur?»

«Che cosa vorresti dire?» le domandai.

Lei mi cinse il collo con le braccia e disse che non lo sapeva. Disse che potevo raccontarle qualsiasi cosa, avrebbe creduto qualsiasi cosa io le avessi raccontato. Continuò a piangere, a più riprese, per il resto della giornata. Fu una domenica ferita, lenta e delicata. I nostri sentimenti e le cose che ci dicemmo erano pieni di cauta tenerezza. Nel tardo pomeriggio si mise a piovere. Ci svestimmo in parte, salimmo sul tetto e rimanemmo a piedi nudi nelle pozzanghere, sotto l’acqua fredda il catrame del tetto era ancora tiepido contro i nostri piedi. In tutto il vicinato i tubi delle grondaie gorgogliavano e risuonavano, e dalla strada arrivava il rumore delle automobili che alzavano cortine d’acqua sul selciato. Fumai una sigaretta sotto la pioggia, il modo migliore per fumare una sigaretta. Guardai il viso bello, triste e lunare di Phlox, le sue ciglia umide. Quando rientrammo in casa, ci asciugammo i capelli a vicenda e mangiammo direttamente dai contenitori per il frigorifero, con forchette di plastica. Il giorno prima Phlox aveva comprato una bottiglietta di bolle di sapone e una pipetta di plastica, e così riempimmo la camera da letto di bolle e di piccoli schiocchi umidi; la sera la fotografai. Decisi che per un’intera settimana non avrei visto Arthur.

 

Quando arrivai al lavoro, il mattino dopo, Ed Lavella era alla cassa e stava battendo un acquisto di cinquantasette dollari – una ventina di centimetri di libri e riviste impilati – fatto da mio padre, che teneva in mano un biglietto da cento dollari. Mio padre era vestito come un uomo d’affari, in abito blu e cravatta dal disegno sobrio, e aveva quell’espressione chiusa indecifrabile che adottava sempre alle dieci del mattino di quella che, sperava, sarebbe stata un’intensa giornata di lavoro. Sapevo che non gli piaceva Boardwalk Books, quindi ovviamente era venuto perché voleva parlarmi, anche se entrambi ci rendemmo subito conto che quello non era il momento giusto. Lui doveva lavorare, e non voleva che le insensate parole di suo figlio gli risuonassero nelle orecchie per tutto il giorno, e qualsiasi mio tentativo di ottenere perdono o attenzione sarebbe stato frustrato dal suo sguardo professionalmente inespressivo e dal fatto che eravamo sotto gli occhi di tutti. Perciò rimanemmo davanti all’esposizione dei bestseller, incapaci di dire una parola. Lui sapeva di dopobarba. Alla fine mi propose una cena e un cinema per mercoledì sera, mi allungò un biglietto da venti dollari, e uscì. A mezzogiorno notai che avevo ancora in mano la banconota, tutta appallottolata. Feci spedire una dozzina di rose a Phlox, alla biblioteca. Quando uscii dal fiorista, incontrai Arthur. Quella mattina si era fatto tagliare i capelli corti, ma una ciocca più lunga, secondo la moda del momento, gli ricadeva sul sopracciglio sinistro. Aveva un’aria insolita, infantile, e gay.

«Sei vivo» disse.

Ci passarono accanto diverse donne che parlavano a bocca piena, con in mano panini e coni gelato. Dopo la pioggia del giorno prima, l’aria era singolarmente asciutta e sottile, e così nella luce chiara di Forbes Avenue si erano riversate infermiere e segretarie, sfuggendo all’aria condizionata e alla luce al neon. Risi perché sentivo nell’aria tutto quel chiacchiericcio di donne.

«Hai già mangiato?» mi domandò. «Andiamo a sederci da qualche parte vicino alla facoltà di Legge.»

Sì, ricordai la mia decisione. Con una stretta allo stomaco.

«D’accordo, va bene» dissi. Gli soffiai sul viso, sollevando la ciocca di capelli più lunga e scoprendo per un attimo la familiare curva bionda del sopracciglio.

 

Quel pomeriggio telefonai a Phlox in biblioteca e le raccontai delle balle. Le dissi che sarei andato a cena con mio padre, che quella era la sera in cui avrei ricevuto le sue impressioni. Naturalmente non le avevo nemmeno accennato dell’incontro più recente con mio padre. Mentre le mentivo mi rendevo conto che quella bugia avrebbe comportato un’altra serie di bugie, il giorno dopo, e queste a loro volta ne avrebbero forse generate altre mercoledì, dopo che mio padre mi avesse detto davvero quel che pensava di lei, poiché sicuramente lo avrebbe fatto se io avessi effettivamente deciso di vederlo. Ma la prima bugia della serie è quella che si racconta con la maggiore trepidazione e il cuore più gonfio. Lei non sembrava né delusa né gelosa.

«Sono arrivati i fiori meno di cinque minuti fa» disse. «Sei un ragazzo meraviglioso.»

 

Dopo il lavoro ci dirigemmo verso i gradini sui quali avevamo mangiato quel mezzogiorno di quasi due mesi prima, dietro l’istituto delle Belle Arti e, per quanto avessimo voglia di camminare, non avevamo ancora deciso dove avremmo passato la serata e che cosa avremmo fatto. Io avevo proposto il Quartiere Perduto. Ci appoggiammo alla balaustra e guardammo in basso. Arthur era apparentemente calmo, ma colsi in lui una sfumatura di nervosismo o eccitazione; tamburellò con le dita sulla ringhiera. Giù nel Quartiere Perduto stavano arrostendo qualcosa; il fumo saliva in scie sfilacciate, e i grilli chiacchieravano nella sterpaglia che circondava il nostro posto d’osservazione. Arthur rise. Le esalazioni chimiche rendevano il cielo arancione e di un rosso vicino al rosa.

«Cleveland e io siamo andati in moto fin laggiù, una volta» disse. «Dopo che mi aveva parlato di quel suo lavoro. Siamo andati giù lungo il deposito di rottami, oltre la statua dei due Marine, e abbiamo cercato di entrare nel quartiere. Ma non ci siamo riusciti; era buffo. Cioè, in realtà avremmo potuto entrare, ma Cleveland non voleva. C’erano tutti quei bambini, e le biciclette per terra, e i camioncini. Lui ha spento il motore e siamo rimasti lì seduti. Cleveland voleva guardare, penso. Ho fame. Dove andiamo a mangiare?»

«Tocca a me la scelta, questa volta.»

«No, credo che tocchi a me» disse lui. «Di fatto, scegli sempre tu.»

«Allora decidi.»

«Cinese.»

«Benissimo.»

Andammo. Il cibo era marrone, sfuggente e piccante come l’inferno. Maledicemmo la zuppa infuocata e la facemmo fuori. Gli anacardi nel piatto di pollo erano tranquille isolette insapori in un oceano di peperoncino. Mi bruciavano le labbra e me le sentivo gonfie. Bevemmo un bicchiere dopo l’altro di acqua ghiacciata e vuotammo tre teiere. Io pescavo dalla ciotola garbugli di riso asciutto con i bastoncini, mentre Arthur usava la forchetta e rigirava il riso nella pozza di sugo in fondo al piatto. Era un pasto che richiedeva una notevole attenzione. Arthur e io non parlavamo quasi.

Dopo una sigaretta e dopo aver letto un paio di volte i bigliettini della fortuna che concludevano la cena – LA CORDA MENO TESA È QUELLA CHE SUONA PIÙ A LUNGO diceva la massima stampata sul mio – uscimmo. Erano le sette. Andai a sinistra, sentii Arthur che diceva «No», mi girai a destra e vidi Phlox, ferma all’angolo di Atwood e Louise, con le mani sui fianchi. Si voltò e si allontanò, e io le corsi dietro, chiamandola per nome. La raggiunsi e la presi per un gomito.

«Ehi» dissi, e non riuscii a trovare qualcos’altro da dirle. Rimanemmo a guardarci a lungo, e lei non pianse.

«Sono una stupida» disse. «Sono una vera stupida. Un’idiota. Non dire niente. Sta’ zitto. Tornatene indietro. Sono una stupida.»

Ci voltammo verso Arthur, che ci stava raggiungendo. Aveva un’aria seria, ma potevo vedere la luce divertita nei suoi occhi.

«Vi odio tutti e due» bisbigliò lei.

«Che cosa ci fai qui?» le domandai.

Invece di rispondermi, alzò gli occhi verso Arthur, che ora ci stava accanto. Si fissarono, Phlox con un’aria furibonda, Arthur in modo sfuggente, con uno sguardo rivolto a qualcosa che gli stava ai piedi, e poi di nuovo su di lei.

«Stavo pensando di andare a prendere un sorbetto al limone» disse infine Arthur.

«Buona idea» dissi. «Andiamo tutti e tre a prenderci un sorbetto al limone.»

«No!» disse Phlox. «Non vado da nessuna parte con te, Arthur.» Si raddrizzò di scatto e buttò indietro le spalle, gli occhi le si velarono di un’espressione altezzosa alla Vivien Leigh. Sillabò: «Per favore, Art, vieni con me. Te lo chiedo una volta sola».

Guardai Arthur, che scrollò le spalle con aria fredda.

«Va bene, va bene» dissi. La gente sul marciapiede si voltava a guardarci. «Ora basta. Va bene? Non possiamo darci un taglio? Vogliamo smetterla? Okay? Bene, dobbiamo farla finita una volta per tutte.» Fui sorpreso di essere in grado di parlare. Mi girai verso Arthur e dissi: «Arthur, io amo Phlox». Mi girai verso Phlox. «Phlox» dissi, «io amo Arthur. Dobbiamo imparare a stare insieme. Possiamo riuscirci.»

«Stronzate» disse Phlox. I denti le lampeggiarono.

«Sono d’accordo» disse Arthur.

«Ti odio Arthur Lecomte.» Si voltò di colpo. Era bellissima e atavica nella sua collera, con le dita allargate e le guance accese. «Non te lo perdonerò mai.»

«Mi ringrazierai.»

«Che cosa stai dicendo?» domandai.

«Vieni con me, Art.»

«Va’ pure» disse Arthur.

«Ti telefono.»

«Non ti preoccupare» disse Arthur. «Sul serio. Lascia perdere.»

Phlox e io ci incamminammo, in silenzio e senza avere stabilito una destinazione. Era il tramonto, e la Cattedrale del Sapere, con la sua mole e le sue merlature, proiettava nel cielo grandi fasci luminosi, come il simbolo della 20th Century Fox. Presi la mano di Phlox, ma le sue dita si divincolarono dalle mie e così camminammo divisi dalla brezza.

«È stato lui a dirti che avremmo cenato insieme?»

«Perché mi hai mentito?»

Mi strinse la mano fra le dita, la sollevò, e poi la lanciò via come una bottiglia vuota.

«Perché?»

«Come facevi a saperlo?»

«Lo sapevo» rispose. «Tutto qui. Lo sapevo e basta.»

«Te lo ha detto Arthur.»

«Ma quanto pensi che io sia stupida?» Corse avanti per qualche metro e poi si girò verso di me. I capelli le ondeggiarono intorno alla testa. Eravamo arrivati al ponte di Schenley Park, che vibrava al passaggio delle automobili. Le due ciminiere della Fabbrica delle Nuvole erano inchiostro contro l’inchiostro del cielo. «Non avevo bisogno che me lo dicesse Arthur. L’ho capito quando ho ricevuto le rose.»

«Ti ho mandato le rose...»

«Lascia perdere» mi interruppe. «Non voglio sentire. Sarebbe un’altra balla. Non sei altro che un povero, stupido bugiardo.» Si voltò dall’altra parte.

«... prima di sapere che avrei cenato con Arthur stasera.» Ogni volta che pronunciavo il nome di Arthur mi sembrava di sentirlo ripetere «Non ti preoccupare», e mi sentivo stordito. Era come se fossi stato in cima a un precipizio e ora, dopo che Phlox se n’era andata, il terreno accanto a me si fosse aperto e avesse cominciato a cedere. Pensai che nel giro di un istante mi sarei trovato con il vuoto sotto i piedi, e per la prima volta nella mia vita provai la mancanza delle ali che nessuno di noi ha. Quando Phlox, che era scomparsa nell’oscurità del ponte, ne raggiunse l’altra estremità, riapparve brevemente nella luce della strada, gonna, sciarpa e due gambe bianche, poi il parco si richiuse intorno a lei.