Il freddo vento di nord-ovest sospingeva grosse nubi cariche di pioggia e i passanti che sfilavano frettolosi tenevano il capo chino. Nonostante la fine di marzo fosse ormai vicina, di notte gelava e alberi e arbusti restavano spogli. Al pari della fortuna, il sole disertava la città e i suoi abitanti.
«Le eccezioni confermano la regola» dichiarò Emmerich quando vide la luccicante automobile nera in attesa di Rita Haidrich davanti alla sede della Omicidi. Nonostante tutto, la fortuna assisteva ancora alcune persone.
Che cosa avevano che lui non aveva?
Mentre Emmerich ancora rimuginava, Winter si presentò alla giovane donna, la aiutò a sistemarsi sul sedile posteriore imbottito, aggirò di corsa l’autovettura, si tolse il cappello in pelle di agnello e prese posto accanto a lei. A dispetto del freddo, gocce di sudore gli imperlavano la fronte.
«Donne…» commentò Emmerich, sistemandosi con grande fatica sul sedile del passeggero. Alcune di loro erano dotate di un potere inquietante, che poteva mandare in rovina interi imperi – per non parlare di giovani inesperti come Winter.
L’amore era l’unica, vera maledizione.
Di nuovo pensò a Luise e costrinse il suo cuore a tacere.
I primi minuti di viaggio trascorsero in silenzio. Winter era troppo nervoso per dire alcunché, Emmerich non aveva la minima voglia di parlare e Rita Haidrich ancora non aveva ben deciso cosa pensare dei due detective.
«È stata meravigliosa nel ruolo di Elettra». Winter interruppe finalmente quel silenzio imbarazzante. «Se solo ci ripenso mi viene la pelle d’oca». Per corroborare le sue parole spostò la fasciatura che gli sorreggeva il braccio, si arrotolò la manica e tese l’avambraccio.
Attraverso lo specchietto retrovisore Emmerich gli lanciò un’occhiata in cui si mischiavano preoccupazione e disappunto.
Alla Haidrich, invece, l’infatuazione di Winter sembrava piacere. Lo gratificò di un sorriso e si rilassò visibilmente. Ammirazione e complimenti. Finalmente era di nuovo su un terreno che conosceva bene.
Se avesse potuto, Emmerich avrebbe chiesto all’autista di svoltare e puntare verso un rifugio per senzatetto o le baracche degli operai a margine della città. Un bel bagno di realtà non aveva mai fatto male a nessuno. Però poi ripensò all’accordo tra lui e Gonska e si limitò a guardare fuori dal finestrino. Quando su Liechtensteinstraße oltrepassarono un’orda di uomini in marcia verso il centro mentre scandivano slogan coi pugni alzati Emmerich aggrottò la fronte e si rivolse allo chauffeur. «Che succede? È per il Putsch di Berlino?».
«No, i disordini in Germania non c’entrano. Stanno manifestando contro le pretese di Ungheria e Cecoslovacchia sul patrimonio artistico austriaco».
«Sprecano energie per un paio di vecchi quadri?» si meravigliò Emmerich. «Ma non hanno nient’altro a cui pensare?». La domanda non era ingiustificata. Molte persone morivano di fame e di freddo, si picchiavano a sangue per accaparrarsi carne di cavallo marcia o patate andate a male e condividevano il letto con ogni sorta di parassiti.
«L’arte è il cibo dello spirito» commentò Rita Haidrich, mentre Winter annuiva zelante. «La prego, vada più veloce» aggiunse poi rivolgendosi all’autista, «di sicuro mi staranno già aspettando».
Lo chauffeur non reagì, continuando a guidare con velocità immutata.
«L’evento inizia tra poco» tentò di nuovo la donna, tirando fuori un flacone dalla borsetta e spruzzandosi di acqua di rose il décolleté.
«Mi permetto di ricordarle che non siamo soli, con noi ci sono due funzionari di polizia».
«Siamo della Omicidi, non della Stradale. Non si faccia problemi». Emmerich si abbandonò sul sedile e osservò le lapidi del vecchio cimitero di Döbling che stavano costeggiando. Dalla Grande guerra il mondo era diventato un campo di cadaveri. Se i suoi compagni caduti e tutti gli altri soldati morti e sepolti lontano dalla patria fossero stati invece seppelliti qui, non sarebbero bastati giorni né settimane per costeggiare il cimitero. E invece la strada era già fiancheggiata dalle magnifiche ville del sobborgo di Sievering, come se nulla fosse mai accaduto.
«Siamo quasi arrivati» l’autista lo strappò alle sue riflessioni, rallentando e svoltando in un lungo e ripido vialetto. Superati vari edifici si fermarono poi davanti a un enorme struttura col soffitto a volta. «Prego».
E così quelli erano gli studi della Sascha-Filmindustrie AG, il cuore dell’industria cinematografica austriaca.
Emmerich non aveva una buona opinione del settore. Che razza di persone erano, quelle che ogni giorno sperperavano migliaia e migliaia di corone per creare mondi illusori, mentre nella stessa città la gente moriva miseramente di fame, freddo e pestilenze? A ripensarci, quella masnada si era meritata eccome la maledizione!
Imprecando tra i denti si cavò a fatica dall’automobile: il sedile molto basso e la sua gamba rigida non gli facilitarono l’impresa. In realtà avrebbe avuto bisogno già da tempo di un bastone, ma l’orgoglio glielo proibiva. Il più discretamente possibile si appoggiò alla macchina e si massaggiò la caviglia dolorante.
«So che non mi credete». Anche la Haidrich era scesa dalla macchina e si era piazzata di fronte a lui, a braccia conserte. «Pensa che io sia un po’ toccata, ma qui qualcosa non quadra. Lo sento».
«Anche io sento quando la giornata si fa troppo lunga…». I dolori rendevano Emmerich scontroso, e invece doveva fare attenzione. “E che non mi arrivi all’orecchio nessuna lamentela! Altrimenti può scordarsi all’istante il nostro accordo”: ricordò le parole di Gonska e ingoiò il resto della frase.
«Se la sua teoria fosse giusta, la donna avrebbe fatto già da tempo qualche richiesta. E invece no. Lei…».
«Forse non si tratta di soldi, ma di qualcos’altro» la interruppe Emmerich. «Qualcuno potrebbe avere motivo di voler sabotare le riprese?».
La Haidrich scosse la testa.
«E per quanto riguarda animosità personali? Ammiratori offesi, personale licenziato…?» Emmerich non riusciva a credere di doversi occupare di cazzate del genere…
«Per quanto ne so, nessuno. E del resto qualunque estraneo sarebbe stato immediatamente notato. Qui non si può certo andare e venire a proprio piacimento. Già solo per le attrezzature così costose questo posto viene sorvegliato giorno e notte».
«E allora deve essere qualcuno dall’interno» buttò lì Winter.
«Ma per quale motivo qualcuno dovrebbe voler mettere in pericolo il proprio posto di lavoro? Proprio adesso che la situazione economica è così disastrosa».
Prima che Emmerich potesse porle altre domande sopraggiunse di corsa un uomo. Indossava uno smoking nero e una lobbia dalla falda incassata e ripiegata all’insù. Era perfettamente sbarbato e l’odore della sua acqua di Colonia aveva pervaso l’aria. «Rita! Dannazione, dov’eri finita? Stanno tutti aspettando te».
«Fritz Oswald, il produttore» lo presentò la Haidrich. «Fritz, loro sono l’ispettore Emmerich e il suo assistente, il signor Winter. Spezzeranno finalmente la maledizione».
L’uomo rimase impietrito. Cercando di non farsi notare, fece un occhiolino all’indirizzo dei due funzionari di polizia. «Innanzitutto, stai di nuovo esagerando» sibilò alla Haidrich, «e poi: cosa mai dovrebbe fare la polizia contro una maledizione?».
«E io che ne so! Ma che siano qui è di certo meglio di niente». La donna mise il broncio, sollevò il mento e si allontanò impettita.
Winter le corse dietro mentre Oswald si rivolgeva a Emmerich. «Rita è un po’ esaltata, come quasi tutte le sue colleghe. Quella donna… la presunta strega… di certo non è altro che un’imbrogliona, che vuole spaventare Rita e spillarle un po’ di soldi. Capita spesso, soprattutto quando si è sempre generosi e gentili». Dalla manica della giacca tirò fuori un fazzoletto con cui lucidò i gemelli. «Abbiamo tutto sotto controllo, davvero. Potete tranquillamente andarvene».
«La signora Haidrich sostiene che si siano verificati strani incidenti».
«Ehi, siamo su un set» replicò Oswald facendo un nuovo occhiolino. «Qui tutto è strano e futuristico. Esploriamo terre vergini. Scriviamo la storia. E ogni tanto accadono delle piccole catastrofi, è vero. Per quanto riguarda le malattie: mezza città si è ammalata. Anzi, mi meraviglio che non ci siano stati ancora più casi». Squadrò Emmerich da capo a piedi e fece un passo indietro.
Emmerich si osservò a sua volta e capì. Chi scoppiava di salute aveva tutt’altro aspetto. Sotto il vestito logoro si delineava il suo corpo scarno e i dolori cronici gli avevano segnato il volto. «Il mio superiore ha promesso alla signora Haidrich che ci saremmo occupati della questione. Anche io preferirei non dover avere a che fare con cose del genere». Si raddrizzò e si stiracchiò. «Mi lasci fare il mio lavoro».
Oswald sospirò e fece un cenno in direzione del teatro di posa. «Se proprio non se ne può fare a meno… Per me è lo stesso, ma non tocchi niente e cerchi di passare il più possibile inosservato. Non dobbiamo disturbare».
Emmerich annuì e seguì il produttore nella sala dal soffitto a volta, così enorme che avrebbe potuto contenere una casetta. Varcarono una stretta porta situata sulla parete opposta e arrivarono in un atrio da cui si dipartiva un corridoio che terminava davanti a un imponente portale. Quando Oswald socchiuse l’anta destra ed Emmerich si intrufolò all’interno, dimenticò per un attimo la gamba dolorante, la maledizione e anche il caso Fürst. Rimase a bocca aperta.
Oswald si godé l’espressione sbalordita sul suo volto. «Se non finiamo in prima pagina stavolta, non so quando potremmo riuscirci».
Emmerich non lo ascoltava affatto, completamente soggiogato dall’incredibile scenografia: un paio di passi e dalla Vienna del 1920 si era ritrovato nel bel mezzo di un antico tempio greco. Colonne di marmo alte metri e metri, gigantesche statue di divinità lungo le pareti. Il pavimento era cosparso di una sabbia bianca che scricchiolava sotto le scarpe. Al centro della sala troneggiava un enorme braciere di pietra da cui si levava un fuoco che illuminava di una luce crepuscolare l’ambiente. C’era odore di incenso, e in lontananza si percepivano il rumore del mare e il canto delle cicale.
Solo un vago odore di colla e vernice disturbava quell’illusione perfetta.
Emmerich lasciò scorrere le dita sopra una delle colonne. Ciò che anche da vicino sembrava pietra massiccia al tatto risultava calda e ruvida. Cartapesta.
«Vino?».
Emmerich si era lasciato coinvolgere dall’atmosfera talmente tanto che la ragazza nel lungo peplo bianco, la tipica veste degli antichi Greci, dovette ripetergli la domanda. «Volentieri» rispose, e lei gli porse una coppa in argilla.
Emmerich mandò giù un sorso, ringraziò con un cenno del capo e rivolse l’attenzione ai presenti. C’erano un sacco di persone avvolte dal fumo di sigari, ben pasciute e in abiti costosi – dovevano essere i finanziatori. Nonostante la luce crepuscolare, se ne vedevano chiaramente i doppi menti e le grosse pance. Spettacolo inconsueto per Emmerich, visto che lì da dove proveniva lui non c’era alcuna abbondanza.
Tra gli eleganti signori circolavano innumerevoli figure, meno benvestite ma che in compenso andavano in giro a testa ancora più alta – la stampa viennese. Mentre la città sprofondava nella miseria loro scrivevano articoli sulle storie sentimentali dei pezzi grossi e le mode del momento. Distraevano la gente dalla realtà, invece di incoraggiarla a prendere in mano il proprio destino. I sudditi umiliati sono più facili da manovrare rispetto ai democratici emancipati. Quei pennivendoli erano al soldo della nuova nobiltà, non più caratterizzata dal lignaggio, ma da soldi e mancanza di scrupoli.
Affettati, annoiati e autocompiaciuti, alcuni degli ospiti se ne andavano in giro a toccare il materiale di scena, incluse le cameriere, altri se ne stavano semplicemente lì a spettegolare, bere vino e mangiare stuzzichini.
Emmerich bevve un altro lungo sorso dalla sua coppa. Quant’era piacevole quando l’alcol annebbiava un po’ la mente… All’improvviso un profumo speziato gli invase il naso: Emmerich si voltò e scorse un ragazzo che teneva in equilibrio due enormi vassoi. Su uno troneggiavano involtini di foglie di vite e sull’altro… Deglutì. Erano forse coscette di pollo?
Ancor prima che il suo cervello continuasse a elucubrare i suoi piedi si mossero in direzione del cibo. Come dotati di volontà propria. La forza della fame, la chiamavano. La razione settimanale di carne era di cento grammi. Due chili e duecento grammi di pane, centoventi grammi di grasso e cinquecento di farina. E al momento non si riuscivano a ottenere neppure quelle misere quantità.
Emmerich tossì e fece intendere al cameriere di restare dov’era. Senza badare all’espressione scioccata che gli si dipinse in faccia, posò la coppa vuota, prese un tovagliolo e vi ammucchiò quante più cosce di pollo poté. Erano arrostite e condite con un miscuglio di rosmarino e timo.
Profumavano in maniera paradisiaca…
«Grazie» disse, quando la montagna di pollo cominciò a oscillare pericolosamente, e sotto gli sguardi seccati dei presenti iniziò a mangiare.
Non appena ebbe finito di rosicchiare l’ultimo osso all’improvviso si fece ancora più buio, e le conversazioni tutt’intorno a lui ammutolirono. Si sentivano ancora solo il crepitio del fuoco e un lievissimo masticare a piene ganasce. Quando Emmerich si accorse che quell’ultimo suono proveniva proprio da lui si diede un contegno.
«Benvenuti al tempio di Pandora» risuonò una voce, echeggiando in maniera inquietante. «Gli dèi elargiscono agli uomini ricchi doni» proseguì lo sconosciuto, «ma costoro contraccambiano solo con ingratitudine. È tempo di metterli alla prova».
Si udì un tuono, e un proiettore rischiarò il punto in cui si trovava un grande altare riccamente decorato. Ci fu un mormorio generale e la folla dei presenti si spinse in avanti.
«Come falene attratte dalla luce…». Emmerich si guardò attorno con fare circospetto e gettò gli ossicini di pollo ben spolpati in una grossa ciotola di terracotta.
All’improvviso riecheggiarono suoni eterei, una nebbia invase la stanza e dietro l’altare fece la sua comparsa una figura. Emmerich dovette guardare due volte prima di riconoscere Rita Haidrich. Aveva gli occhi circondati da una linea scura, indossava una fluttuante veste bianca e una parrucca di neri ricci selvaggi trattenuti da sottilissimi fili d’oro.
Scrosciarono applausi, grida di acclamazione e mormorii di approvazione. Gli ospiti, con tutta evidenza, erano facilmente impressionabili. Emmerich alzò gli occhi al cielo e si accese una sigaretta, mentre la Haidrich si immergeva completamente nel suo ruolo. Alla fine riuscì a individuare anche Winter. Se ne stava da una parte, all’altezza dell’altare, e si struggeva a bocca aperta per l’attrice.
«Non è meravigliosa?» sussurrò qualcuno.
Emmerich sbadigliò. Il vino, la pancia piena e il calore che si sprigionava dal fuoco gli stavano facendo venire sonno. Soffiò in aria dei cerchietti di fumo e lasciò vagare lo sguardo, ma da nessuna parte vedeva alcunché di sospetto. Niente streghe, niente oscure minacce.
Annoiato finì la sigaretta, gettò la cicca per terra e la calpestò.
«Aprite le orecchie! Aprite i cuori e ascoltate il volere degli dèi» declamava Rita Haidrich, ma prima che potesse trasmettere il messaggio proveniente dalle divinità il pavimento cominciò a vibrare.
All’inizio fu un vibrare leggero, ma si rafforzò alla svelta, diventando sempre più intenso e sfociando, alla fine, in una specie di terremoto. Sulle prime Emmerich pensò, come tutti gli altri, che fosse un effetto speciale, quando però il tempio venne illuminato dalla luce tremolante dei proiettori, le colonne iniziarono a traballare in modo inquietante, la Haidrich si portò scoraggiata la mano alla gola e si cominciarono a sentire le prime urla, anche Emmerich si rese conto che quella scena non era nel copione.
«La maledizione!» si udì gridare. «Signore Iddio, aiuto! Esiste davvero, la maledizione».
Dal soffitto cominciò a piovere intonaco, e si udirono scricchiolii e crepitii inquietanti. Le quinte presero a ondeggiare minacciosamente ed Emmerich lottò per rimanere in piedi. Ancora una volta maledisse il suo stato di salute e osservò il tumulto che gli era esploso intorno. Gente che si urtava, si prendeva a calci e spintoni insultandosi, alcuni dei distinti ospiti esibirono tutto a un tratto pessime maniere.
«Niente panico!» gridò Emmerich. «Mantenete la calma! Nessuno è mai rimasto schiacciato sotto un po’ di cartone».
Guardò verso l’altare, dove Rita Haidrich era come bloccata, a occhi sgranati. Pietrificata dallo shock. Aveva visto quella reazione già tante volte. Troppe volte.
Quando i loro sguardi si incrociarono ogni parola fu superflua. “Ha visto?” diceva l’espressione di lei, ed Emmerich si sorprese a pensare che il panico le donava.