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Il tremore si interruppe improvvisamente, così come era iniziato. Di colpo, come se qualcuno avesse pigiato un interruttore, calò un silenzio di tomba e si accesero le luci. I presenti si guardavano intorno, increduli. Quelli che erano finiti a terra pian piano si rialzarono. Sguardi perplessi. Silenzio irritato.

Acque inondanti, fiamme devastanti, terre tremanti, venti infurianti… a quanto pareva, era questo che aveva declamato la presunta strega… Emmerich osservò Winter mentre quest’ultimo, a fatica, strisciava fuori da sotto un arazzo caduto. Tirò fuori il tabacco e mentre si faceva una nuova sigaretta si mise a riflettere. Tutto considerato, era più sorpreso che spaventato. La profezia si era avverata ancora una volta, ma non c’era nessuna maledizione, nessuna strega e nessun anatema. Doveva per forza esserci un’altra spiegazione per quanto accaduto.

Accese un cerino, poi si fermò e lo spense soffiandoci su. Maledetta dipendenza. Fumare lo distraeva dal pensiero dell’eroina, ma a lungo andare avrebbe dovuto darci un taglio anche col tabacco. Se continuava a fumare a questo ritmo sarebbe crepato lo stesso. Con un sospiro si mise la sigaretta dietro l’orecchio.

Nella sala si diffuse un’ondata di sollievo. Gli ospiti si spolverarono i vestiti e provarono a fare timidamente un paio di passi. Ovunque si sentivano mormorii e risatine imbarazzate.

«State tutti bene?». La voce di Fritz Oswald risuonò nella sala. Correva come un forsennato da una parte all’altra, rosso in viso, mentre i presenti ancora cercavano di capire che cosa fosse capitato. «State tutti bene? STATE TUTTI BENE?». Doveva aver perso il cappello in quella baraonda.

Quando Oswald fu sicuro che non ci fossero feriti cominciò a sciogliere la riunione, con gentilezza ma altrettanta decisione. «Prego, signori, andiamo a bere un grappino negli uffici della Sascha» propose spingendo la folla fuori dalla sala e asciugandosi le gocce di sudore dal viso. «Ce lo siamo meritato. Naturalmente, offre la casa».

A Emmerich fu presto chiaro perché il produttore avesse tanta fretta di mandare via quel branco di gente. L’illusione era scoppiata come una bolla di sapone – non si trovavano più in un tempio dall’aria mistica, ma in un caos di cartapesta, imitazioni in gesso e strutture in compensato, tutti miseramente crollati. Quando le luci si riaccendevano la fabbrica dei sogni non reggeva l’urto della realtà.

«Sono preoccupato per la signora Haidrich. È del tutto sconvolta. Avrebbe dovuto prendere più sul serio le sue paure». Winter lanciò a Emmerich uno sguardo pieno di rimprovero e sparì di nuovo, prima che quest’ultimo potesse replicare alcunché.

Solo quando l’incantesimo si era spezzato Emmerich si era reso conto che si trovavano in un’enorme serra. Le pareti erano alte almeno sei metri, le spesse lastre di vetro erano sostenute da una massiccia struttura di acciaio che terminava in un tetto spiovente. Ai sostegni pendevano lampade di ogni forma e dimensione, così come innumerevoli ganci e occhielli che servivano a sollevare e fissare gli elementi di scena.

Quell’edificio doveva essere costato una fortuna, anche se adesso si faticava a crederlo. Il trambusto aveva spostato la sabbia in alcuni punti, lasciando intravedere un pavimento grigio ed estremamente spartano. Era in cemento, come quello dell’orfanotrofio. Economico, robusto e facile da pulire. I bambini indesiderati, i bastardi e gli orfanelli che non interessavano a nessuno non meritavano né parquet, né tappeti. A Emmerich pareva ancora di sentire sotto i piedi la superficie fredda e ruvida. Perso nei suoi pensieri cercò con le dita il suo amuleto, che portava appeso al collo con un laccetto di cuoio. Il piccolo ciondolo in argento, un serpente che si mordeva la coda, era stato trovato nella stessa cesta in cui sua madre lo aveva abbandonato da piccolo. Era la cosa più preziosa che possedesse e per lui significava tutto.

I ricordi gli provocavano sempre un brivido lungo la schiena ed Emmerich non riusciva a staccare lo sguardo dal pavimento. Aveva uno strano aspetto. Sembrava ruvido, come carta abrasiva, come se i granelli di sabbia si fossero incollati alla sua superficie.

Si accosciò stringendo i denti per ignorare il dolore. Con un mugugno passò la mano sopra il cemento e lo incise con l’unghia del pollice, lasciando una sottile mezzaluna. La gettata era ancora fresca.

Ma non era tutto. C’era ancora qualcosa che stonava. Non riusciva a capire cosa, era una sensazione vaga e confusa, una percezione sfuggente come un’anguilla che continuava a scivolargli via dalla mente.

Emmerich tentò di sgombrare la mente, lasciando che fosse l’ambiente a guidare le sue sensazioni, e di nuovo venne catapultato nel passato. Stavolta non nella sua infanzia priva di gioia, ma nelle trincee al fronte. Ma perché mai? Che cosa voleva comunicargli il suo inconscio?

Ci volle qualche istante, poi comprese cos’era a infastidirlo. L’odore pungente che aleggiava nell’aria… Ecrasite. L’esercito imperialregio aveva utilizzato quell’esplosivo a base di acido picrico per le granate, e lui ne aveva lanciate più di quante avrebbe mai voluto.

Pian piano nella mente di Emmerich si formò un’immagine. Chiuse gli occhi e ricordò le parole della Haidrich. Aveva parlato della disastrosa situazione economica. E Oswald, invece? Cos’è che aveva detto quando erano entrati nella sala? Voleva finire in prima pagina…

Un sorrisetto di soddisfazione gli si dipinse sulle labbra. Aveva bevuto, mangiato bene e risolto il mistero della maledizione di Pandora. E da domani lui e Winter avrebbero appeso le macchine da scrivere al chiodo e cominciato finalmente a occuparsi del caso Fürst.

Già si immaginava la faccia di Brühl…

«Permette una parola?» disse Emmerich quando scovò Oswald all’esterno, davanti alla sala dal soffitto a volta, dove il produttore stava apostrofando un ometto tarchiato. Aveva un naso a patata, su cui troneggiavano spessi occhiali, ed era del tutto calvo, fatta eccezione per la coroncina di capelli che gli correva da un orecchio all’altro lungo la nuca.

«Contento adesso?» Emmerich si piazzò accanto ai due, accendendosi finalmente la sua sigaretta. Riteneva di essersela proprio meritata.

Oswald aggrottò lo sguardo e inclinò la testa. «Di cosa?» chiese dopo un attimo di silenzio.

«Lo sa benissimo». Emmerich gli soffiò un po’ di fumo in faccia e sogghignò.

«Non ne ho la più pallida idea». Il produttore storse il naso e si rivolse di nuovo all’ometto. «Venga, signor Jeschek» disse dirigendosi verso la porta. «Abbiamo da fare. Dobbiamo occuparci degli ospiti».

«Come vuole». Emmerich lo seguì. «Possiamo parlare del suo terremoto anche dentro».

Oswald si immobilizzò e si guardò intorno. «Che cosa le salta in mente?» sibilò.

«Cosa salta in mente a me? Che mi dice dell’ecrasite, per esempio? Impastata nel pavimento e poi accesa».

«Ecrasite?». Oswald alzò gli occhi al cielo.

«Sì, si comporta come la dinamite, solo con effetti più forti. Lei non è stato al fronte, altrimenti ne riconoscerebbe l’odore».

Oswald impallidì e boccheggiò in cerca di parole. «Ecrasite» ripeté, fissando l’uomo di nome Jeschek.

«Be’, può capitare» disse questi facendo spallucce. Le origini boeme erano tradite da ogni sillaba che pronunciava. «Diiio miiio. Mi saaa che scambiaaato ecrasite per polvere da spaaaro. Ma non succeeesso nieeente. Effeeetto pure più speeettacolaree». Ansimò pestando i piedi. «Queeesto è per troooppo lavoooro. Jeschek qui, Jeschek là. Jeschek, Jeschek, Jeschek. E così uno peeerde concentraziooone».

Oswald sospirò, si guardò alle spalle e si passò le mani sul viso. «Non so di cosa stia parlando».

Emmerich sollevò un sopracciglio. «Gli affari vanno male, e la concorrenza è forte. Con questa storia della maledizione lei voleva monopolizzare per il suo nuovo film le attenzioni della stampa. Ho ragione?».

Oswald stropicciò i piedi per terra. «La Vita-Film sta girando proprio in questo momento un dramma monumentale». A quanto pareva si era deciso a dire la verità. «Molto più spettacolare di Pandora. E anche la Listo, a quanto pare, sbancherà presto al botteghino. Se noi del cinema non vogliamo andare a gambe all’aria, ci serve un po’ di copertura stampa».

Emmerich non si mostrò impressionato. «Le altre società di produzione hanno successo anche senza maledizioni e spampanate del genere».

«A livello finanziario loro sono messe meglio». Oswald inspirò profondamente. «Ispettore… mi ascolti. Le ultime produzioni non sono andate bene come avevo previsto, e inoltre ho investito una fortuna nello sviluppo di un audioregistratore rivoluzionario. Un apparecchio piccolo e maneggevole, che si può montare sulla telecamera per garantire il sincrono. Il futuro è nel cinema sonoro, mi creda. Sarà una rivoluzione». Puntò uno sguardo sognante oltre Emmerich e annuì convinto.

«Francamente, me ne infischio del futuro dell’industria cinematografica. Sono qui per garantire ordine e rispetto della legge».

Il volto di Oswald, che si era rischiarato, si fece mortificato. «Non si tratta solo di me. La faccenda riguarda soprattutto i pesci piccoli: addetti alle luci, truccatori, comparse e costumisti. Se Pandora non incassa abbastanza non potrò pagarli».

E così questo scapestrato si starebbe preoccupando per i lavoratori?, pensò Emmerich. Figurarsi. Però come dargli torto?

«Volevamo inscenare un piccolo terremoto, niente più che una scossetta. Jeschek doveva nascondere nel pavimento un paio di minuscoli depositi di polvere da sparo, in modo da provocare una leggera vibrazione. Nessuno poteva immaginare che invece avrebbe utilizzato dell’ecrasite!» Scosse la testa fingendosi colpito.

«Attentato alla pubblica sicurezza, uso non autorizzato di sostanze esplosive» cominciò a enumerare Emmerich. «Frode intenzionale…».

«Mi stia a sentire, di sicuro possiamo trovare un accordo» lo interruppe Oswald. «In fin dei conti, nessuno si è fatto male».

Emmerich gettò a terra il mozzicone della sigaretta, aprì la borsa da tabacco e cominciò a fabbricare un altro chiodo per la propria bara.

«Ecco, prenda» Oswald gli mise in mano un intero pacchetto di Nil. Poi si pescò dal taschino un paio di banconote accartocciate e le contò. «Sono centocinquanta corone. Gli ultimi soldi che mi restano, non ho altro. Tutto il resto l’ho investito in Pandora e nel registratore. Adesso forse capisce perché…».

«Attentato alla pubblica sicurezza, uso non autorizzato di sostanze esplosive, frode intenzionale e ora anche tentata corruzione? Non si fa mancare proprio niente!».

Oswald divenne ancora più pallido. «La prego, pensi ai poveri lavoratori e alle loro famiglie. Le sarò eternamente debitore».

Emmerich si infilò dietro l’orecchio la propria sigaretta, accese una Nil, prese una lunga boccata e lasciò uscire il fumo dalle narici. «Uhm…».

«Dentro abbiamo grappa e salsicce. Prima mi è sembrato che avesse un certo appetito… lei ha famiglia? Le faccio preparare qualcosa da portare a casa?».

Emmerich afferrò i soldi di Oswald. Era incline a mostrarsi benevolo – in fin dei conti, seppure inconsapevolmente, il produttore gli aveva garantito la possibilità di collaborare al caso Fürst. «Per quanto mi riguarda… Nessuno avrà da recriminare se la lascio andare».

Il volto di Oswald riacquistò lentamente colore.

«Ma basta maledizioni. Intesi?».

Oswald annuì. «Oggi dovrebbe essere bastato. Se neppure questo terremoto ci catapulta in prima pagina, allora davvero non so…».

«Inoltre adesso va a parlare con la signora Haidrich» Emmerich continuò a impartire istruzioni, «e le dice che mi ha visto con i suoi occhi acciuffare la strega e costringerla a rimangiarsi la maledizione. E poi entrambi vi recherete dall’ispettore capo Gonska a ringraziare per l’eccellente lavoro che ho svolto. Preferibilmente, di persona».

Oswald annuì zelante. «Le faccio preparare qualcosa da portare a casa. Siamo d’accordo, allora?».

Stavolta toccò a Emmerich fare un cenno d’assenso.