Oswald propose ai due funzionari di polizia di farsi accompagnare a casa in macchina, ed entrambi accettarono, ringraziandolo.
L’autista depositò Winter per primo, visto che abitava nei dintorni, e poi chiese l’indirizzo di Emmerich.
«Può lasciarmi in Wexstraße, all’angolo con Jägerstraße» eluse la domanda Emmerich. «Alla fermata del 34».
«La accompagno volentieri fino a casa, non c’è nessun problema. Mi dica solo dove devo andare».
«Va benissimo dove le ho detto» replicò Emmerich mantenendosi sul vago. Non voleva nella maniera più assoluta che si scoprisse dove era finito a vivere – in un pensionato maschile.
Quando era andato via da casa di Luise aveva lasciato tutti i mobili a lei e ai bambini. I suoi risparmi, i vestiti e gli averi che aveva portato via con sé gli erano stati rubati durante una notte in cui aveva affogato i dispiaceri nell’alcol. Tutto sparito. Ormai possedeva solo le cose che aveva addosso, e un po’ di biancheria di ricambio. Con i pochi spiccioli del suo stipendio da poliziotto non si poteva permettere neppure di pagare un’agenzia immobiliare che lo aiutasse a cercare una casa come si deve. E non parliamo poi di una caparra. Pertanto, finché non avesse risparmiato a sufficienza, doveva vivere in un alloggio condiviso. Di nuovo.
L’edificio di Meldemannstraße, nel ventesimo distretto, era considerato modernissimo. Non aveva camerate, bensì stanzette singole di tre metri quadri. C’erano bagni in comune, un’infermeria e una sala lettura con libri e quotidiani a disposizione degli ospiti. C’erano persino lampade elettriche e acqua corrente, e in occasione del primo anniversario della Fondazione per l’edilizia popolare e la previdenza sociale, l’imperatore Francesco Giuseppe aveva fatto installare persino un impianto di riscaldamento a vapore. Il tutto per solo trenta corone a settimana.
La stampa si sperticava in lodi per quell’alloggio, definendolo come “un angolo di paradiso in terra” e “miracolo di eleganza a prezzi ragionevoli”. Tuttavia niente poteva far dimenticare che in realtà si trattava di un rifugio per senzatetto, in cui c’era puzza di sudore e disinfettante. I cinquecento ospiti erano per la maggior parte lavoratori occasionali. Indossavano tutti abiti fuori misura e scarpe consunte. E i loro volti rispecchiavano il loro stato d’animo: sfiniti e incommensurabilmente stanchi.
L’amministrazione comunale aveva tentato di dare una bella mano di vernice sulla miseria, ma per quanto ci si provasse, la povertà e la penuria non si lasciavano camuffare. No, nessuno di quelli che conosceva, neppure Winter, che viveva in un vecchio palazzo nobiliare insieme a sua nonna, doveva vedere in quale triste ambiente era finito. Emmerich non voleva la pietà del proprio assistente, pertanto gli aveva sempre raccontato di essere ospite di conoscenti.
I tempi in cui poteva rallegrarsi di avere una casa erano ormai lontani. “Casa” era ormai soltanto una parola, un guscio vuoto privo di contenuto.
Col fiato grosso Emmerich varcò il grosso portone rischiarato da una lampada ad arco ed entrò nel vestibolo. Un piacevole calore lo avvolse come un cappotto e subito la stanchezza gli si diffuse nelle vene, pesante come piombo.
Dalla sala mensa proveniva il penetrante odore del menù imperialregio – così lo definivano gli abitanti dell’alloggio: rape e patate. Di rado c’era altro; se erano fortunati, un brodo di ossa per antipasto.
Emmerich si strinse al petto il pacchetto di prelibatezze che Oswald aveva messo in una borsa di iuta insieme a una bottiglia di grappa e arrancò su per la scala che conduceva ai piani superiori.
La sua camera, o per meglio dire il suo cubicolo, si trovava al secondo piano e conteneva una stretta brandina, un tavolino, un attaccapanni, una lampada e uno specchio.
Per garantire la circolazione dell’aria le pareti divisorie in legno non arrivavano né fino a terra, né fino al soffitto, il che faceva sì che ci fosse sempre una certa corrente e che, oltre al freddo, si potesse percepire anche il minimo rumore proveniente dalle cuccette adiacenti. Tanto per parlare di privacy. In quell’alloggio ce n’era poca come in orfanotrofio, e in compenso c’erano altrettante regole a cui attenersi. Alcolici e sigarette erano vietati nell’intero edificio, alle dieci di sera bisognava fare silenzio, si poteva stare nella propria camera solo tra le otto di sera e le nove di mattina, e indipendentemente da quali fossero le istruzioni del personale di sorveglianza bisognava obbedire. Il pensionato ignorava la parola “autodeterminazione” ed era proprio questa sottomissione – ancor più che l’atmosfera desolata – a colpire l’animo di Emmerich. Era un funzionario di polizia in servizio per la Repubblica austriaca, ma in quell’alloggio veniva trattato come uno stupido bamboccio.
Era una cosa che odiava.
Con un lieve gemito entrò nel suo misero regno, contraddistinto dal numero 240. Dopo l’opulenza e lo sfarzo che aveva sperimentato quella sera tutto gli sembrò ancora più meschino. Si chiuse la porta alle spalle. Era pallido, smunto e dolorante. Si distese sulla brandina e iniziò a pensare. Perlomeno si intravedeva un piccolo spiraglio di luce: da domani avrebbe preso parte alle indagini sul caso Fürst. Se lui e Winter se la giocavano bene, la loro situazione poteva migliorare significativamente.
Le sue elucubrazioni vennero interrotte bruscamente da un forte picchiare alla porta.
«Emmerich?» udì dire. «Avanti, apri un attimo».
Emmerich trattenne il respiro e finse di non esserci. Non aveva voglia di rimproveri, insulti o qualunque cosa fosse.
In quell’alloggio c’erano due fazioni – lui e tutti gli altri. Lui era un poliziotto, tutti gli altri abitanti erano dalla parte opposta della legge. Se non come farabutti veri e propri, quantomeno da un punto di vista morale. Lo stato che lui serviva non era stato clemente con loro. Prima li aveva spediti in guerra, e adesso non li risarciva né con un lavoro come si doveva, né con cibo a sufficienza e un posto decente in cui vivere.
«Emmerich!». Il tono interrogativo era sparito, virando sull’autoritario. Verosimilmente, il tizio in questione aveva sentito l’odore delle salsicce ed era venuto a scroccarne qualcuna. «Emmerich!». Continuava a infastidirlo e a bussare così forte che l’intero cubicolo aveva preso a oscillare. «È importante, si tratta di Peppi».
Emmerich non conosceva alcun Peppi, e continuò a fingersi morto.
«Emmerich, lo sappiamo che sei lì dentro. Theo ti ha visto mentre salivi le scale. Perciò apri la porta, per favore. Fallo per il povero Peppi».
Chiunque fosse quel Peppi, e qualunque problema avesse, a Emmerich non importava. Non voleva averci nulla a che fare, perciò si girò sul fianco e chiuse gli occhi. Continuasse pure a bussare e inveire… era riuscito a ignorare cose ben peggiori.
Il suo piano sembrò funzionare, infatti poco dopo le grida cessarono e si trasformarono in un lieve mormorio, finché alla fine non sentì i passi che si allontanavano.
Finalmente pace.
Si mise di nuovo supino e cominciò a ripensare al caso Fürst, ma pochi minuti dopo venne nuovamente distolto dalle sue riflessioni perché i passi tornarono e davanti alla sua porta cominciò a succedere qualcosa. Scricchiolii, crepitii, ansiti e sbuffi.
«Pensi che la sedia regga?».
«Ora vediamo».
Non avrebbero mica osato…
«Stai bene? Non è che sei malato?».
Emmerich aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il viso di un uomo che lo osservava da sopra il telaio della porta. Ai lati del volto spuntavano le dita ricoperte da ulcere nodose con cui si teneva aggrappato al legno sottile del divisorio.
Quando si avvide dello sguardo di Emmerich, l’importuno osservatore nascose le mani. «Scusa il disturbo».
Emmerich cercò di ricordare dove lo aveva già visto, doveva essere uno dei suoi tanti coinquilini. Nei bagni? Nella sala disinfezione? O in mensa? Sì, doveva essere stato in mensa. Un paio di volte, a cena, dovevano aver scambiato qualche parola. Era un venditore ambulante di nome Ludwig, se ben ricordava. Un tipo strano, che esibiva buone maniere e linguaggio appropriato. A quanto pareva era un ex insegnante di latino, che aveva perso il lavoro in seguito alle sfavorevoli circostanze – fame, freddo ed epidemie colpivano soprattutto i più piccoli, e così il numero degli studenti a Vienna era diminuito di oltre centomila unità dal 1914. E negli anni a venire sarebbe ulteriormente calato, a causa del crollo della natalità durante la guerra.
«Tu lavori per la Omicidi, giusto?».
Emmerich fissò quel volto mal rasato e le sopracciglia cespugliose, gli occhi pieni di capillari che lo osservavano così attentamente, neanche volessero ipnotizzarlo. «Come se non lo sapessi già».
Ludwig voltò il capo. «Sì, lavora proprio per la Omicidi» disse al tizio di cui Emmerich riusciva a vedere solo un paio di scarpe sporche.
«Non sono in servizio». Odiava quei maledetti cubicoli e quel maledetto pensionato. Mai che si potesse stare in pace. «Sono stanco, devo dormire» disse, e si girò verso la parete per sottolineare la sua affermazione.
«Ti abbiamo aspettato per tutta la sera». Ludwig non mollava. «È una questione di vita o di morte. Perciò, per favore, abbi compassione».
Emmerich capì che Ludwig non l’avrebbe lasciato in pace. Era pur sempre un venditore ambulante. Insistere era il suo pane quotidiano. «Che c’è?».
La parola magica che Ludwig tanto aspettava. «Peppi» cominciò, «hai presente, il nostro compagno, che vive anche lui qui… L’hanno arrestato stasera. I tuoi colleghi. Dicono che ha ucciso lui il signor Fürst. Il consigliere comunale. Ma non è stato lui. È innocente come un agnellino».
Emmerich sbuffò, non tanto per il disappunto circa il destino di Peppi, ma perché a quanto pareva il caso era ormai risolto. Il suo caso. Il caso con cui si sarebbe finalmente potuto creare una buona reputazione in seno alla sezione Omicidi. Il caso su cui oggi si era guadagnato il permesso di indagare. La vita era e restava una gran bastarda. «Tutti dicono di essere innocenti». Tirò fuori la bottiglia di grappa e prese un sorso. «Se i colleghi l’hanno arrestato vuol dire che qualcosa ha fatto».
«Peppi adorava Richard Fürst. Capisci? Perché il signor consigliere è un uomo di cuore… be’, era. È stato lui a pagare, e di tasca sua, per la protesi di Peppi».
A quel punto Emmerich capì finalmente chi fosse il Peppi di cui Ludwig continuava a parlare. Un tipetto smilzo, a cui i russi avevano portato via un braccio e mezza testa a suon di pallottole. In cambio ora aveva un uncino di metallo e una specie di maschera fissata a una montatura da occhiali che gli nascondeva la metà sinistra del viso. Il più povero dei poveracci.
«E poi il signor consigliere gli ha trovato anche lavoro alla zecca. Sennò non si poteva permettere nemmeno l’affitto per questo alloggio. Capisci? Peppi non aveva nessun motivo per uccidere il signor consigliere. Al contrario!».
Emmerich fece spallucce. Ai soldati traumatizzati non servono motivi particolari. «Lì dov’è adesso, almeno non ha affitto da pagare».
Ludwig scosse veementemente il capo. «Mi devi credere. Il nostro compagno è innocente. Theo, diglielo anche tu».
«Il Peppi non ha mica fatto niente. Sicuro. Niente di niente». Una voce ruvida si fece strada attraverso la porta.
«Se fosse così, i miei colleghi l’avrebbero già appurato. Domani potrete andare a testimoniare in favore di Peppi, sottolineando il suo buon carattere. E ora, buonanotte». Si concesse un altro sorsetto di grappa e maledisse la vita.
«Certo, come no. Come se qualcuno ci crede, a noi» continuò Theo. «E poi lo sanno tutti: quando gli sbirri ti sbattono in gattabuia si mette male».
«Ovviamente ci sono delle eccezioni alla regola» completò il ragionamento Ludwig.
«Finché capiscono che non è stato lui – se lo capiscono – sicuro è morto da un pezzo. Peppi non ci dura una settimana in galera, e gli sbirri se ne fregano. Appena Peppi muore, caso chiuso per quegli stronzi».
«Eppure lo sapete, che sono uno di loro». Emmerich si tirò su a sedere.
«Ma tu sei anche uno di noi. Uno di Meldemannstraße. Noi poveracci dobbiamo aiutarci tra noi».
«Che combinazione, ve ne siete accorti proprio oggi…».
I due ignorarono il commento cinico. «Per favore, non puoi fare proprio niente per Peppi? È uno tranquillo, non se lo merita».
Emmerich alzò gli occhi al cielo, nascose il suo tesoro sotto il letto e finalmente aprì la porta.
Ludwig prese posto sulla sedia e Theo, un tipo esile col viso paonazzo, ai piedi del letto. Entrambi lo guardavano pieni di aspettativa.
«Su quali basi hanno arrestato il vostro amico?».
«La notte dell’omicidio qualcuno ha visto Peppi che usciva dalla casa del signor Fürst». Ludwig si grattò e, quando si avvide dello sguardo nauseato di Emmerich, si affrettò a tirarsi giù le maniche per coprire le mani squamose. I pensionati e i rifugi per senzatetto erano un’inesauribile fonte di malattie di qualunque tipo, nonostante le disinfestazioni ordinate dai sorveglianti.
«C’è andato per davvero, a casa del consigliere» continuò a spiegare Theo. «Ma mica per ammazzarlo. Gli voleva dire grazie».
Lo sguardo di Emmerich si spostò sulle mani arrossate di Theo, poi sui capillari che gli erano esplosi sulle guance e sulla punta del naso ingrossata – le insegne dell’armata degli ubriaconi.
«Nei mesi scorsi Peppi ha risparmiato un po’ di soldi» Ludwig riprese la parola. «Per comprare una medaglia d’argento. DIO RENDE MERITO AI GENEROSI, ci ha fatto incidere su. E poi quella sera ha dato la medaglia al signor consigliere. Che gli ha offerto un bicchiere di cognac. E poi Peppi se n’è andato».
«E poi subito dopo l’assassino l’ha accoppato». Theo si fece il segno della croce. «Povero signor Fürst, che il signore lo abbia in gloria».
«Bene, e quindi, secondo voi, io cosa dovrei fare? Senza prove certe ho le mani legate».
«Potresti parlare coi tuoi colleghi. A te sicuramente danno retta».
«Danno retta solo ai fatti» fece Emmerich per eludere l’argomento.
«E allora indaga tu. Ti aiutiamo noi».
Erano sinceramente preoccupati per il loro compagno, e questo commosse Emmerich. Non molto tempo prima aveva sperimentato sulla propria pelle che anche gli innocenti rischiavano di finire triturati sotto la macina della giustizia. «Vedrò che posso fare» promise.
Theo gli saltò al collo, investendolo col suo odore di cavolo e sudore acido. In cantina c’erano docce a disposizione dei pensionanti, ma erano a pagamento. E quando la scelta era tra una doccia e un grappino, si optava quasi sempre per quest’ultimo. «Grazie» disse Theo dandogli pacche sulle spalle.
«Non posso promettervi niente» disse Emmerich, senza tuttavia riuscire a frenare l’euforia dei suoi due interlocutori.
«Peppi e il Signore Iddio te ne renderanno merito» esclamò Ludwig balzando in piedi. «Vieni» disse poi a Theo, «lasciamo dormire Emmerich. Hai sentito quello che ha detto, no? È stanco». Prese il compagno per il braccio e lo trascinò fuori.
«Aspetta un attimo» disse Theo quando erano già in corridoio. «Sento odore di… pare proprio salsiccia!».
«Adesso hai le allucinazioni. Se qui dentro ci fosse un’alternativa a quello schifo di menù imperialregio, ce ne saremmo accorti da un pezzo».