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La maledizione di Pandora!» gridò un giovane strillone a Emmerich che, il mattino successivo, entrava in Roßauer Lände. «Un incantesimo sul nuovo film di Fritz Oswald? Comprate l’Illustrierte Kronen-Zeitung, e lo scoprirete!».

Emmerich si fermò sotto la pioggerellina fine, prese una copia dalle mani del ragazzino e osservò la prima pagina: MISTERIOSO TERREMOTO FA TREMARE IL TEATRO DI POSA DELLA SASCHA-FILM. Mentre nel resto di Vienna non si muove foglia, a Sievering la terra trema. Lo stato maggiore della casa di produzione parla inoltre di altri eventi misteriosi. Sulla pellicola aleggia una maledizione? Continua a p. 5.

A quanto pareva, il piano di Oswald aveva avuto successo. Pandora era sulla bocca di tutti.

«Ehi!». Il ragazzino tirò Emmerich per la giacca. «Prima si paga e poi si legge».

Emmerich gli diede una moneta e usò il giornale per proteggersi dalla pioggia mentre si affrettava al commissariato.

«Arresto per l’omicidio Fürst» sentì urlare al ragazzino dietro di sé. «Chi è il mostro che ha colpito il buon samaritano. E inoltre: trattative a Berlino. Quanto ancora durerà lo sciopero?».

Quel giorno c’erano un sacco di notizie importanti… quanto fossero autentiche, si sarebbe capito a breve.

Quando Emmerich aprì la porta della sezione Omicidi fu investito da un’ondata di autocompiacimento.

«Salve, Emmerich, già sveglio?». Brühl se ne stava nel bel mezzo della stanza e si appoggiava con nonchalance alla scrivania a cui lavorava una brunetta poco appariscente di nome Grete Silbermann. Era la centralinista e a Emmerich sembrava che avesse messo gli occhi su Winter. Brühl aveva una tazza di caffè in mano e un sorrisetto stampato in faccia, untuoso quanto i suoi capelli. «Sentita la novità? Ho risolto il caso Fürst».

E così era stato Brühl ad arrestare il povero Peppi. Avrebbe dovuto immaginarselo.

Emmerich si tolse la giacca bagnata con movimento così rapido da schizzare Brühl con le gocce di pioggia. «Intanto, non l’ha risolto da solo, e poi: arrestare qualcuno non significa per forza aver trovato l’effettivo colpevole».

«Ah, quindi adesso solidarizza pure con quel manigoldo? Solo perché è uno storpio anche lui?». Brühl si asciugò le gocce sulla camicia.

Emmerich si morse la lingua per reprimere una risposta al vetriolo e mentre raggiungeva la scrivania si dedicò con attenzione al giornale. Gli scioperi in Germania proseguivano. I fronti si erano ulteriormente induriti e gli scontri tra militari e operai si erano fatti più gravi. All’interno del paese la contrapposizione ideologica tra i maggiori partiti aumentava e, se non fosse accaduto presto un miracolo, la coalizione di governo, formata da socialdemocratici e cristiano-sociali, non sarebbe durata ancora a lungo.

Anche il resto dei titoloni non contribuì a risollevare il morale di Emmerich. Si parlava di povertà in crescita, ondate di suicidi, rivolta panislamica e cimiteri strapieni. In aggiunta, desolanti bollettini sul carovita e descrizioni della pietosa situazione degli approvvigionamenti.

«Con l’imperatore non c’era mica tutta questa miseria e questo caos» aveva sospirato Papousek dopo aver osservato Emmerich. «Spero sempre che un giorno Sua Maestà torni» aggiunse guadagnandosi un cenno d’assenso da parte di Brühl.

«Dannati monarchici» mormorò Emmerich sedendosi al suo posto. Poi chiuse gli occhi e si concentrò su quanto gli accadeva intorno. Telefoni che squillavano, il ticchettio di una macchina da scrivere, qualcuno che succhiava rumorosamente una caramellina, sbuffi, l’odore di violette e mughetto che emanava dalle segretarie… Non ne poteva più.

Senza aggiungere una sola parola si alzò di nuovo, zoppicò fuori dalla stanza e si diresse verso l’ufficio di Gonska. Bussò ed entrò senza aspettare risposta.

«Emmerich. Chi altri, sennò?». Gonska sollevò lo sguardo e si lisciò i baffi. «Ha…».

«Brühl ha arrestato la persona sbagliata» lo interruppe Emmerich lasciandosi cadere su una sedia.

Gonska sospirò. «La signora Haidrich e il signor Oswald mi hanno telefonato e tessuto le sue lodi. Non faccia sì che questa buona impressione sparisca immediatamente».

«Il signor…». Solo a quel punto Emmerich si accorse di non conoscere affatto il vero nome di Peppi. «L’uomo che Brühl ha arrestato… Ci sono seri dubbi sulla sua colpevolezza».

«A me la faccenda sembra chiarissima». Gonska rivolse a Emmerich uno sguardo pieno di compassione. «Mi creda, mi spiace che non sia arrivato in tempo per partecipare alle indagini. Le prometto che la terrò in considerazione per il prossimo caso importante». Si appoggiò contro lo schienale della poltrona. «E adesso mi racconti di ieri. Come ha fatto a trovare la strega e a costringerla a rimangiarsi la maledizione?».

Emmerich ignorò le domande. Fino al prossimo caso importante poteva passare un sacco di tempo. «Ho ricevuto informazioni confidenziali, stando alle quali è stata arrestata la persona sbagliata. Mi lasci parlare col sospettato e controllare un paio di dettagli».

«So che tra lei e l’ispettore Brühl non corre buon sangue, ma…».

«Provi solo a immaginare che cosa potrebbe significare, per la reputazione della sezione, se saltasse fuori che il vero assassino è ancora a piede libero mentre un povero e innocente reduce di guerra marcisce in prigione». Soddisfatto di sé, tirò fuori il pacchetto di Nil e si accese una sigaretta. Poi fissò Gonska dritto negli occhi. «E inoltre, noi due avevamo un accordo».

Il superiore gli tolse la sigaretta dalle mani, aprì la finestra, la lanciò fuori e con uno sguardo gelido lo fece tacere. «Chi sarebbe il suo informatore?».

«Ho mantenuto molti dei contatti che avevo quando lavoravo come agente di polizia. Non posso fare nomi, ma sono fonti sicure, hanno la mia piena fiducia».

Gonska tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona e si arricciò le punte dei baffi. «Faccia come le pare» disse dopo un paio di secondi. «Ma glielo concedo solo in virtù del fatto che ha risolto la faccenda della Haidrich alla svelta e con soddisfazione di tutti».

Emmerich si alzò e fece per andarsene, ma Gonska lo trattenne.

«Non voglio malumori in ufficio» disse. «Non dia pubblicità alla cosa. Faccia le sue indagini ma senza che nessuno ne sappia niente. Tra un’ora parto per Brünn, per partecipare a un congresso. Sarò di ritorno venerdì. Se a quel punto non sarà in grado di presentarmi prove concrete, consideriamo il caso chiuso».

«Venerdì? Ma oggi è già martedì. Mi serve un po’ più di tempo. Diciamo una settimana».

«Emmerich, non siamo mica al bazar. Non si mercanteggia, qui».

«Ma…».

«Niente ma! E se posso darle un consiglio: mezza sezione mi sta dando il tormento per colpa sua. Vogliono che mi sbarazzi di lei. Finora sono riuscito a resistere, perché Carl Horvat mi ha assicurato che sotto tutto questo…» indicò gli abiti di Emmerich in cerca della parola giusta, ma non sembrò venirgli in mente nulla, «si cela un valido funzionario di polizia. Ma se lei continua a mostrarsi così insubordinato a un certo punto perderò la pazienza. E con “a un certo punto” intendo presto».

«Io…» provò a interloquire Emmerich.

«Non ho ancora finito. Mentre sarò via sarà Brühl a dirigere la sezione. So che la cosa non le piace, ma si comporti come si deve. E adesso, fuori».

Emmerich mormorò tra i denti e uscì dall’ufficio. Venerdì. Aveva a disposizione settantadue ore esatte.

«Si comporti come si deve!» gridò Gonska dall’ufficio.

«In merito a che cosa deve comportarsi bene?» chiese Winter, intento a trasportare su un braccio solo un’enorme pila di fascicoli.

«Il caso Fürst. Dobbiamo risolverlo senza sollevare nessun polverone. Brühl ha messo dentro la persona sbagliata».

Winter si guardò intorno. Per fortuna tutte le porte erano chiuse e nessuno aveva sentito le parole di Emmerich. «E lei come lo sa?».

«Fonte anonima. Abbiamo settantadue ore per trovare il vero assassino».

«Noi?». Winter spalancò gli occhi.

«Gonska ha dato il via libera, ma ha detto che gli altri non devono saperne niente». Indicò i fascicoli. «Dove stai andando con quelli?».

«In archivio. Brühl mi ha incaricato di mettere via tutto quello che riguarda il caso Fürst».

«Capito». Emmerich cominciò a sfogliare la pila di documenti.

«Che sta facendo?». Quando Emmerich tirò fuori un paio di fogli Winter si agitò.

«Mi prendo quello che ci serve per le indagini».

«Non dica che glieli ho dati io!».

Emmerich annuì e cominciò a scorrere le pagine contenenti la ricostruzione dell’accaduto. «Faccio un salto in carcere, devo parlare col tizio che Brühl ha arrestato». Finalmente scovò il vero nome di Peppi. «Navratil. Si chiama Josef Navratil».

Winter si guardò intorno con fare cospiratorio. «Che devo dire se qualcuno chiede di lei?».

«Inventati qualcosa». Emmerich zoppicò all’uscita. «È ora che impari a mentire come si deve».

 

L’edificio di cinque piani in Roßauer Lände era un vero e proprio mostro, oltre le sue mura criminalità e violenza erano di casa. Né la sfarzosa facciata, né il dolce gorgoglio del canale del Danubio potevano compensare questa realtà. Oltre alla sezione Omicidi, l’edificio ospitava anche una caserma, l’ambulatorio dell’ufficiale sanitario, varie rimesse e un carcere con centocinquanta celle.

I pochi metri che Emmerich dovette percorrere fino al braccio in cui era detenuto Peppi gli furono sufficienti per scorrere con lo sguardo la maggior parte dei documenti: Bertha Fürst, la moglie della vittima, si era ritirata nelle sue stanze verso le otto di sera di giovedì 18 marzo, poiché suo marito aveva ricevuto una visita in tarda ora da parte dell’operaio Josef Navratil. Quest’ultimo, descritto come “inquietante” dalla donna, si era presentato a casa loro senza preavviso e, stando alle dichiarazioni di Bertha Fürst, sembrava nervoso e agitato. Più o meno mezz’ora più tardi era stata bruscamente svegliata dal rumore di uno sparo e aveva ritrovato il marito morto in corridoio – dell’ospite indesiderato nessuna traccia. Niente era stato sottratto. Un vetturino e due lavandaie, che all’ora del delitto si trovavano nelle immediate vicinanze, avevano visto Navratil uscire da casa Fürst in tutta fretta.

E questo era tutto. Nessuno dei poliziotti incaricati delle indagini aveva creduto alle dichiarazioni di Peppi. Nessuno si era preso la briga di stabilire l’ipotetico movente. Troppo facile, troppo comoda era la versione del veterano mentalmente labile. Trauma di guerra. Ferita alla testa. Sindrome del reduce. In dubio pro reo? Neanche a parlarne. Nel dubbio la Giustizia, quella vacca bendata, si metteva volentieri contro gli accusati. Contro i poveri e i disperati. Contro quelli che vivevano al margine. Contro la feccia della società. Contro uomini come lui e Peppi.

Emmerich entrò nel braccio del carcere attraverso una porta seminascosta, che a confronto del massiccio edificio sembrava decisamente troppo piccola. «Ispettore distrettuale August Emmerich». Sventolò il tesserino sotto il naso dell’agente di guardia seduto in una specie di rimessa, simile a Cerbero alle porte degli Inferi. «Dovrei parlare con Josef Navratil».

L’uomo aprì un grosso registro. «Em… Em… Em…». Fece scorrere l’indice dall’alto verso il basso lungo un elenco. «Qui nella lista non c’è».

«Chi lo dice?».

«La lista». Il tizio si grattò l’orecchio peloso e abbassò lo sguardo sul giornale che aveva in grembo.

Come vapore bollente la rabbia e l’impazienza invasero il corpo di Emmerich. Il tempo scorreva veloce. Avevano meno di tre giorni e non c’era un minuto da sprecare con i tormenti della burocrazia austriaca. «Sono della Omicidi» disse, esibendo di nuovo il distintivo.

«Il suo nome non è sulla li…».

«Me ne frego, della sua lista! Sta ostacolando le indagini!». Emmerich picchiò il pugno sul bancone e tenne il distintivo così vicino al viso terrorizzato dell’agente che il suo fiato lo appannò. «Questo caso ha massima priorità, non lo sa?». Afferrò il telefono che l’uomo aveva accanto. «Come si chiama?».

«Ma cosa fa? Non vorrà mica… Perché mai…».

Emmerich raddrizzò la schiena e socchiuse gli occhi riducendoli a fessura. «Presenterò le mie rimostranze. Come si chiama?».

La strategia stava funzionando, perché l’uomo si morse spaventato il labbro inferiore. «E va bene» disse togliendo di mano a Emmerich il telefono per metterlo fuori dalla sua portata. «Pensavo che il caso fosse risolto» mormorò.

«Non ancora, e se continua a farmi perdere tempo non lo sarà tanto presto».

Senza celare il suo malumore, l’uomo pigiò un bottone. Poco dopo dal retro dell’edificio spuntò un agente.

«Che c’è?» chiese asciutto e conciso.

«Porta Navratil nella sala 3» disse il secondino. «E lei per favore scriva qui il suo nome». Dopo aver firmato il registro Emmerich seguì l’agente oltre una porta di ferro a righe gialle, entrando nel braccio del carcere. I loro passi risuonavano nei lunghi corridoi dal pavimento in piastre metalliche.

«Aspetti qui. Vado a prenderlo» disse l’agente aprendo una porticina.

La sala 3 era una stanzetta per gli interrogatori tinteggiata di verde, con al centro un tavolo di metallo fissato a terra, a mo’ di gigantesco baluardo che divideva il Bene dal Male.

Emmerich prese posto dalla parte della legge e rabbrividì. Mai viste sedie così scomode e stanze così spoglie. C’era puzza di sudore e paura e disperazione. Tamburellò con le dita sul tavolo e si chiese dove fossero finiti tutti.

Guai, se Peppi non era innocente.

Quando la porta si aprì dopo quella che gli era sembrata un’eternità Emmerich era così snervato che stava per lanciarsi in una sequela d’insulti, ma la vista di Josef Navratil lo fece ammutolire. La seppur breve detenzione aveva provato talmente tanto il poveretto che suscitava ancora più pietà di quanto Emmerich ricordasse – era ancora più magro, più curvo… un alberello piegato dalle forze della natura, che non sarebbe sopravvissuto alla prossima tempesta.

«Può andare» disse Emmerich all’agente, che si era piazzato all’ingresso. «Me la vedo da solo».

L’agente osservò Emmerich e poi il prigioniero, annuì e si chiuse la porta alle spalle.

«Io la conosco…». Peppi era rimasto lì dove la guardia l’aveva lasciato, e fissava Emmerich con sguardo vacuo. La protesi del braccio gli era stata tolta, e tra la gamba e la mano sana pendeva una lunga catena. La maschera che gli nascondeva metà del volto pendeva storta e sul mento spiccava un livido violaceo. Non aveva quasi più niente di umano, sembrava piuttosto una creatura grottesca di un incubo alcolico.

«Sì. Meldemannstraße». Emmerich gli indicò la sedia.

Peppi si infilò dietro il tavolino, spalle cascanti, simile a un cane bastonato, e si sedette. «Davvero?». Non disse altro, poiché evidentemente non sapeva come elaborare quell’informazione.

«Mi mandano Ludwig e Theo. Dicono che sei innocente».

Peppi sembrò lentamente capire che Emmerich era dalla sua parte. Sollevò la testa e annuì. «Sì, sono innocente».

«Bene. Allora faremo in modo di tirarti fuori di qui il più presto possibile».

Peppi emise un singhiozzo, le lacrime scorsero sul suo viso. Fece per asciugarle, ma la catena glielo impedì e pertanto le grosse gocce salate caddero sul tavolo lasciandovi delle macchie circolari.

Emmerich ignorò lo sfogo e si schiarì la voce. «Nel fascicolo c’è scritto che verso le sette e mezza eri a casa di Fürst. È vero?».

«Sì. Volevo…».

«Lo so. La medaglia. I tuoi amici mi hanno raccontato tutto». Sfogliò i rapporti. «E dopo circa mezz’ora te ne sei andato via?».

«Sì, e lui era ancora vivo. Lo giuro su Dio».

Emmerich si tastò inutilmente le tasche in cerca di una sigaretta e rimuginò: l’orario, il colpo, le testimonianze… L’assassino doveva essere entrato in casa Fürst subito dopo che Peppi se n’era andato. Oppure era già lì. «A parte te e Fürst, in casa c’era qualcun altro? Personale di servizio? Operai? Fornitori?».

«Poco prima di andare via un tizio ha portato una lettera. Cattive notizie, credo. Il signor Fürst era molto avvilito dopo averla letta. Però chi l’ha consegnata è andato subito via. Ero seduto vicino alla finestra e ho potuto vedere che si è allontanato in fretta».

«Perciò non può essere stato lui». Emmerich fissò la documentazione sul tavolo, come se potesse estrarne qualche indizio prezioso con la sola forza dello sguardo.

«Penso che sia stato il facchino» disse Peppi a bassa voce.

«Il facchino? Che facchino?».

«Un tizio grosso. Aveva l’uniforme della Stadt-Couriere». A Vienna esistevano due società di facchinaggio, le uniche due provviste dell’autorizzazione a svolgere la professione: la Wiener Stadtträger e la Stadt-Couriere. «Ha bighellonato in Seilerstätte tenendo d’occhio il palazzo del signor consigliere».

Emmerich sfogliò il fascicolo. «Ah sì, ecco». Scorse velocemente la pagina. «L’ispettore Brühl…».

«Lo so». Peppi abbassò la testa, e la protesi scivolò giù dal viso. Con un riflesso automatico fece per rimetterla al suo posto, ma di nuovo la catena gli impedì il movimento. Girò il viso e tentò di sistemarsela col moncherino, ma non ci riuscì.

Emmerich si sporse sul tavolo, riportò la maschera nella giusta posizione e osservò l’uomo. Un povero diavolo, preso a schiaffi dal destino…

«Il signor Brühl pensa che me lo sono inventato, per allontanare i sospetti. Infatti la società di facchinaggio afferma che nessuno dei suoi dipendenti aveva consegne in zona. Hanno tutti un alibi valido, e non manca nessuna uniforme».

Emmerich si ricordò delle dichiarazioni dei dipendenti della Stadt-Couriere. Aveva battuto a macchina lui stesso i verbali degli interrogatori. «E tu sei sicuro che quel tizio non lavorasse per qualche altra società?».

«Sicurissimo. Quando sono entrato in casa gli sono passato accanto. Indossava un loden grigio, pantaloni con la striscia gialla e un berretto con visiera – la divisa della Stadt-Couriere. Quelli della Stadtträger hanno una divisa simile, ma con le strisce rosse».

«Giusto» disse Emmerich. «E quando te ne sei andato via il tizio era ancora nei paraggi?».

Peppi scosse la testa. «Lo so che sembra assurdo, ma avrebbe dovuto vederlo. Il modo in cui era lì appostato. Come… come un rapace. Non saprei descriverlo altrimenti».

«Sei riuscito a vederlo in faccia?».

«Solo per un attimo. Aveva una folta barba nera e gli occhiali. Non ho notato nient’altro. La luce era fioca, per il crepuscolo, e io non ci vedo tanto bene, con un occhio solo».

«Doveva trattarsi di un travestimento, poco ma sicuro». I facchini a Vienna facevano parte del paesaggio urbano. Bastava pagarli e consegnavano messaggi, trasportavano cose, svolgevano commissioni o altri lavoretti, portavano a spasso i cani, facevano la fila per la distribuzione del cibo, o davanti agli edifici pubblici. A nessuno sarebbe saltato all’occhio se uno di loro si fosse aggirato in Seilerstätte. Quel tizio, verosimilmente, aveva solo dovuto aspettare l’occasione giusta per introdursi inosservato in casa Fürst.

Emmerich tamburellò con le dita sul tavolo. Così non andavano da nessuna parte. Aveva bisogno di indicazioni più precise. «Pensaci bene. Dammi qualcosa da cui ripartire».

Peppi fece spallucce. «Non so altro. Sono giorni e giorni che mi scervello. Da quando ho saputo dell’omicidio. Ma non so nient’altro».

Tic tac… A Emmerich sembrava quasi di sentire il tempo scorrere. Ancora settantuno ore e praticamente nessuna traccia da seguire.

«Mi chiedo come mai abbiano ucciso proprio il signor consigliere». Peppi diede voce ai suoi pensieri. «Era l’uomo più buono che abbia mai conosciuto». La sua nostalgia si poteva quasi toccare con mano. «Senza di lui…» iniziò, poi gli si ruppe la voce e dovette prendere un bel respiro prima di riaversi. «Senza di lui vivrei ancora ai margini della società, come un reietto. Senza protesi, senza lavoro e senza denaro. Un mostro senza volto, utile solo a spaventare i bambini, che osa uscire dalla sua tana solo col favore della notte». Singhiozzò. «È stato Richard Fürst a salvarmi. Gli sono debitore di tutto. Piuttosto che torcere un capello a lui mi sarei ucciso con le mie stesse mani».

«Tranquillo» disse Emmerich. «Non devi convincere me. Io ti credo. Il problema è Brühl». E tutti gli altri sbruffoni del commissariato, aggiunse tra sé e sé. Si massaggiò la fronte assorto nelle sue riflessioni. L’osservazione di Peppi era significativa. Richard Fürst il santo. Perché mai qualcuno avrebbe voluto ucciderlo? Il movente probabilmente era la chiave per risolvere il caso. «Hai detto che la lettera l’ha scosso?».

Peppi annuì. «Si è fatto pallidissimo, ha mandato giù il cognac d’un fiato, poi ha dato fuoco al foglio e l’ha lasciato bruciare nel posacenere. Dopo me ne sono andato. Non volevo approfittare ancora della sua gentilezza».

«Hai idea del contenuto di quella lettera?».

«No, ma prima che prendesse fuoco sono riuscito a leggere il mittente. Un certo Karl Dobrensky».

«Karl Dobrensky?». Emmerich sgranò gli occhi. «Quel Karl Dobrensky?».

«Non ne ho idea. Non conosco nessuno che si chiami così».

«E questo la dice lunga su di te».

Si sentì bussare e la guardia fece capolino dalla porta. «Ne ha ancora per molto?».

«Solo un attimo».

La porta venne richiusa ed Emmerich si girò di nuovo verso Peppi. «Farò tutto il possibile per tirarti fuori di qui, ma non sarà facile. Ci potrebbe volere un po’».

Peppi annuì, ma gli si leggeva in faccia che il pensiero di restare ancora a lungo in prigione lo terrorizzava.

«Ti trattano decentemente?».

Il suo silenzio fu molto eloquente.

«Avanti, sputa il rospo».

«Mi minacciano, perché il signor consigliere era molto amato. Gli altri prigionieri vogliono farmi la pelle».

«E le guardie?».

«Mi lasciano morire di fame e non mi tolgono la catena nemmeno in cella. Ma perlomeno mi hanno restituito la protesi del viso». Tentò di suonare fiducioso, fallendo miseramente.

Emmerich sapeva che la restituzione della maschera non era un atto di misericordia. Più o meno riusciva a immaginare quale fosse l’aspetto della parte che celava – aveva già visto ferite di quel genere. Piaghe aperte, orrende mutilazioni, che trasformavano visi normalissimi in musi raccapriccianti. Una vista che le guardie di sicuro volevano risparmiarsi. «Farò del mio meglio. Tu nel frattempo resisti. Intesi?».

«Ci proverò, ma a essere sincero…».

Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Emmerich aveva capito perfettamente. L’orologio non ticchettava solo per lui e Winter.