17

Aiuto!» riecheggiò una voce. «Aiuto!».
Emmerich e Winter incespicarono in direzione del grido, ritrovandosi in una stradina dove una donna fuori di sé correva loro incontro. Indossava un semplice grembiule da casa e ciabatte di feltro.

«Polizia». Emmerich la bloccò. «Che è successo?».

La donna si fermò e tentò di riprendere fiato. «È… è…» iniziò, ma senza riuscire a proseguire.

«Si calmi, adesso è al sicuro» tentò di tranquillizzarla Emmerich.

La donna si toccò un fianco e indicò la direzione da cui era venuta. «La signora Abele» ansimò. «La mia padrona…».

«Che le è successo?». Emmerich toccò la guancia della donna. Gelida. Era sicuramente sotto shock.

«È morta» disse tutto d’un fiato asciugandosi gli occhi. «Credo… credo che l’abbiano uccisa».

Emmerich disse ai curiosi che si erano radunati tutt’attorno fissandoli a bocca spalancata: «Non c’è niente da vedere, qui. Sgombrare! Su, veloci». Batté le mani come per disperdere una muta di cani rognosi. «Come si chiama, signora? E dov’è la sua padrona adesso?» chiese rivolgendosi di nuovo alla donna.

«Else» singhiozzò lei. «Sono Else Ziskal e la signora Abele è in salotto».

«E dove si trova questo salotto?».

Anziché dare un indirizzo, Else afferrò la mano di Emmerich e si mise in marcia. «Ero andata a trovare mia sorella» ansimò. «Quando sono tornata a casa all’inizio non ho notato nulla di strano, poi ho sentito la musica. Era ferma sulle stesse note, come se si fosse bloccata la puntina del grammofono». Gli strinse le dita così forte che Emmerich dovette fare uno sforzo per non mettersi a urlare. «E allora sono andata di sopra…».

«C’era qualcun altro in casa?».

Scosse il capo senza proferire verbo e si fermò davanti a una casa di carrettieri. «Ruhe sanfte…» sussurrò fissando una finestra illuminata al primo piano.

Emmerich seguì lo sguardo della donna massaggiandosi la mano dolorante. «Ci abita qualcun altro, qui?».

«Solo noi due». Singhiozzando si sedette sul ciglio del marciapiede.

«Si prenda cura della signora» disse Emmerich a una giovane donna uscita dalla casa accanto. Poi fece un cenno a Winter e tirò fuori la pistola.

Winter lo imitò e insieme varcarono il portone spalancato.

«Ruhe sanfte Ruhe sanfte Ruhe sanfte…» suonava il grammofono.

Emmerich strisciò con la schiena lungo la parete guardandosi attentamente intorno. Non si vedeva nessuno e, fatta eccezione per la ripetitiva melodia che proveniva dal piano superiore, non si udiva nessun rumore. Con le pistole pronte a far fuoco ispezionarono le stanze al pianterreno e poi salirono su per una scala scricchiolante.

La signora Ziskal non sembrava una donna facilmente impressionabile. Era una governante robusta, una di quelle che non si faceva problemi ad ammazzare topi o macellare conigli. Dunque, che cosa l’aveva sconvolta così tanto?

Nel corso della sua vita Emmerich aveva visto già parecchi cadaveri. In orfanotrofio, in guerra e in veste di poliziotto. Si era fatto crescere parecchio pelo sullo stomaco, tuttavia c’erano sempre dei casi che lo colpivano molto. Soprattutto quelli che riguardavano donne e bambini.

«Ruhe sanfte Ruhe sanfte Ruhe sanfte…».

«Bach» sussurrò Winter.

«È il nome dell’assassino? È l’unica cosa che mi interessa, al momento».

Attraversarono uno stretto corridoio con uno specchio, insegne di famiglia e fotografie incorniciate alle pareti. Volti seri da proprietari terrieri, ufficiali pluridecorati, battute di caccia e donne ingioiellate con pettinature elaborate.

«Sembra una famiglia di nobili origini» constatò Winter.

«Però ormai in disgrazia» concluse Emmerich osservando l’arredamento.

I tappeti sul pavimento tarlato erano consunti, la carta da parati ingiallita e i mobili avevano un aspetto così trasandato che avrebbero potuto benissimo trovare posto nel pensionato in cui alloggiava Emmerich.

«Magari era solo… come dire… avara. Molte persone anziane lo diventano. Tengono da parte i soldi per i tempi cattivi, senza capire che li stanno già vivendo».

Raggiunsero l’ultima stanza. Il salotto.

«Ruhe sanfte Ruhe sanfte Ruhe sanfte…».

A prima vista sembrava tutto in ordine, tralasciando la fastidiosa musica che si ripeteva. Si trovavano in un salotto molto semplice, con un soffitto basso e un pavimento in legno simile a quello usato per le barche. L’arredamento era modesto ma confortevole.

«Vedi qualcosa?». Con lo guardo Emmerich scandagliò una panchetta imbottita, una cassettiera graffiata e un grosso orologio a pendolo.

«Guardi lì». Senza parole, Winter indicò una grossa poltrona, di cui vedevano lo schienale.

E a quel punto anche Emmerich lo vide – un esile braccio rugoso pendeva dal bracciolo.

Aggirò la poltrona e sospirò ritrovandosi davanti a una vecchia signora, i cui occhi ormai opachi e pieni di dolore fissavano il vuoto. Il viso era diventato blu, la bocca era piena di sangue, la lingua sporgeva gonfia in maniera grottesca, e le mani sembravano artigli.

«Ruhe sanfte Ruhe sanfte Ruhe sanfte…».

«Fai smettere questa maledetta musica!».

Mentre Winter si appropinquava al grammofono Emmerich esaminò il cadavere. «È stata strangolata» disse tastandole il collo. «La laringe è schiacciata e gli occhi sono iniettati di sangue. C’è da dire che si è battuta con tutte le sue forze. Un’unghia è spezzata».

Dopo che Winter ristabilì finalmente il silenzio andò alla porta evitando accuratamente di osservare la donna morta. «Vado a chiamare la Scientifica e il medico legale».

«Va bene».

Emmerich fece per seguirlo quando si accorse di uno sbrilluccichio proveniente dalla bocca della defunta. Con cautela si chinò in avanti e fissò le labbra flosce, i denti ingialliti, di cui uno era scheggiato, e la ripugnante patina sulla lingua gonfia.

Morte violenta e bellezza erano due cose che si escludevano a vicenda, senza eccezioni. Emmerich si sentì invadere da un senso di schifo, ci pensasse il medico legale a capire di che si trattava. Probabilmente non era nulla di rilevante, e anche in quel caso… che gliene importava a lui? Il caso non era di sua competenza. E poi aveva altro da fare. Cose ben più urgenti. E non voleva guai. Meglio lasciare il cadavere in pace e levare le tende.

Come guidato da una forza superiore, l’indice di Emmerich si avvicinò alla bocca della donna.

Lascia stare, disse una voce nella sua testa, ma la curiosità fu più forte della ragione. Con precauzione Emmerich le abbassò il labbro e diede una sbirciatina lì dove aveva creduto di vedere lo sbrilluccichio. E in effetti, tra i molari e la parte interna della guancia era incastrato un pezzetto di metallo scintillante. Lo recuperò, poi lo pulì con l’orlo del mantello, rendendosi conto che si trattava di un gemello d’argento con una specie di decorazione.

Si avvicinò al davanzale, accese la lampada a gas e tenne l’oggetto alla luce. Vi era raffigurato un angelo… no, non era un angelo perché non aveva ali… forse era una donna… una donna in un abito fluttuante… che strana decorazione.

Dopo aver memorizzato il simbolo stava per rimettere il gemello lì dove l’aveva trovato quando udì passi pesanti risalire la scala.

«Emmerich!». Il suddetto sobbalzò. Brühl. Proprio lui doveva essere di turno quella sera?!

In tutta fretta Emmerich fece sparire il gemello in tasca. «Ha fatto presto».

«Ci hanno chiamati i vicini. A quanto pare la signora ha gridato come un’ossessa». Si piazzò accanto a Emmerich e osservò il cadavere.

«Io e Winter eravamo per puro caso…».

«Al Rote Bretze. Lo so. Ho incrociato l’ispettore Winter qui sotto». Brühl squadrò Emmerich. «E a quanto pare lei non si è limitato a bere e fumare, ma ha fatto anche a botte. Gonska non ne sarà per niente felice. E nemmeno del fatto che oggi lei è stato assente per quasi tutto il giorno, senza la minima giustificazione». Gongolava all’idea di riferire le trasgressioni di Emmerich, ce l’aveva scritto in faccia.

«È stata strangolata» spiegò Emmerich senza replicare al rimprovero. «La vittima presenta petecchie, laringe schiacciata e i segni tipici…».

Brühl gli scoccò un’occhiata piccata. «Il caso non è suo» disse. «Se ne torni pure al Rote Bretze e ci lasci lavorare. Ha toccato qualcosa?».

«Io? Ovviamente no». Emmerich si tastò il gemello in tasca. «Conosco la procedura!» disse guadagnando l’uscita. «Buon lavoro».

Else Ziskal, appoggiata alla parete dell’edificio, strinse la mano a Emmerich. «Grazie di essere stato così gentile, prima».

Emmerich fece un cenno del capo e la osservò più attentamente. «Mi dica, ci conosciamo? Lei ha un’aria familiare».

«Non credo». Tirò fuori un fazzoletto dal grembiule e si soffiò il naso con forza. «Prima di oggi non ho mai avuto niente a che fare con la polizia».

«Allora devo confonderla con qualcun altro. Ho avuto una giornata pesante» disse strofinandosi gli occhi. «Un’altra cosa, però… le è mai capitato di vedere qualche simbolo che raffigura una donna in vesti fluenti?».

«Strane domande, le sue. Come le viene in mente una cosa del genere?» replicò la donna asciugandosi le lacrime.

Prima che Emmerich potesse porre qualunque altra domanda sopraggiunse Brühl. «Ancora qui?» sbottò.

«Non volevamo lasciare sola la signora Ziskal. Ha appena subìto un trauma».

Brühl sbuffò. «Molte grazie per il sostegno» disse lanciando un’occhiata alla governante. «Ma abbiamo tutto sotto controllo».

Emmerich e Winter si assicurarono che la vicina di casa continuasse a occuparsi della signora Ziskal e se ne andarono.

Il vento si era rinfrescato e grosse nuvole passavano davanti al piccolo spicchio di luna visibile in cielo.

«Che cos’era quella domanda a proposito di un simbolo? La donna con l’abito fluente?» chiese Winter dopo che ebbero svoltato l’angolo.

Emmerich si guardò intorno e poi tirò fuori il gemello. «L’hai già visto da qualche parte?».

Winter prese il gemello per osservarlo meglio. «Dove l’ha trovato?».

«Nella bocca della signora Abele. Deve averlo strappato dando un morso al braccio dell’assassino. Combattiva, l’anziana signora».

«Ce l’aveva in bocca?». Winter gli restituì il gemello e con aria schifata si strofinò le dita sui pantaloni. «Per l’amor di Dio, perché mai le ha guardato in bocca?» sussurrò. «E perché ha preso il gemello?».

«È capitato».

«È capitato? Se Brühl lo scopre siamo licenziati. Una volta e per sempre. Neanche Gonska potrà salvarci».

«Allora dobbiamo fare in modo che non lo scopra».

«Ma è un reperto importante. Non può farlo sparire!».

«Troverò un modo…».

Winter si strinse nel cappotto. «Ci renderemmo la vita più semplice se lei riuscisse ad attenersi alle regole, almeno di tanto in tanto».

«Attenersi alle regole non risolve casi».

«Io gliel’ho detto» rabbrividì Winter. «Dovrebbe davvero riposarsi un po’. Continua ad avere un’aria parecchio malconcia».

«Sì, sì, va bene. Buona notte» disse Emmerich zoppicando in direzione della fermata del tram mentre canticchiava l’aria di Bach ascoltata dalla signora Abele.

 

«Aspetta il tram?» chiese un passante con un bel nasone.

Emmerich, che aspettava sulla panchina già da un buon quarto d’ora ed era ormai congelato, fece cenno di sì con la testa.

«E allora può aspettare ancora un bel po’. Non arriverà mai».

«E perché mai? Sono solo le nove e mezza, giusto? Dovrebbe ancora circolare».

Il passante si strinse nelle spalle. «In teoria» disse. «Ma questo è». A queste parole si portò una mano al cappello e proseguì per la sua strada.

Da quando c’era stata la guerra i tram non circolavano più in maniera regolare, e talvolta non circolavano proprio. Perlopiù per colpa della mancanza di elettricità, certe volte perché le vetture si rompevano o qualcuno si suicidava gettandosi sulle rotaie. Chissà quella sera di chi era la colpa… Grazie a Zuzana che l’aveva derubato Emmerich non aveva soldi per prendere una vettura a noleggio e quindi, volente o nolente, si dovette avviare a piedi.

Quando passò accanto alla chiesa di Breitenfeld cominciò a godersi la passeggiata. Non sentiva dolore, grazie all’iniezione di Bahrfeldt che continuava a fare effetto, e Vienna aveva bellissimi scorci. Josefstadt, per esempio. In quella zona vivevano macellai, sarti, tipografi, impiegatucci… un caos variopinto di lavori, nazionalità e religioni diverse. L’atmosfera era tranquilla e nell’aria aleggiava una leggera eccitazione.

Emmerich inspirò, provò una specie di fiducia, ma poi si ricordò del gemello che aveva in tasca. Il sottilissimo oggettino, non più di un paio di grammi di metallo, gli parve improvvisamente pesantissimo.

Winter aveva ragione, ovviamente. Era un reperto importante, e doveva trovare un modo di farlo prendere in considerazione per le indagini. Ma come?

Poiché camminare lo aiutava a pensare Emmerich continuò a vagare senza meta tra le stradine e a un certo punto si ritrovò davanti al palazzo in cui fino a poco tempo prima aveva vissuto in affitto con la sua nuova famigliola.

La famiglia di Xaver, si corresse.

Il subconscio era un bastardo, e la stanchezza il suo tirapiedi.

Per un attimo fissò la spoglia facciata grigia e le finestre al secondo piano dietro cui ancora vivevano Luise, Emil, Ida, Paul e Xaver. Tutto sembrava come prima, eppure era radicalmente diverso. Con precauzione spinse il portone, che si aprì senza opporre resistenza.

Un sorriso si disegnò sulle labbra di Emmerich quando si accorse che la serratura era stata incastrata. Qualche inquilino testardo si rifiutava di pagare il portiere per farsi aprire il portone tra le dieci di sera e le sei di mattina, orari in cui di norma doveva restare chiuso. A Vienna gli affittuari non avevano diritto alla chiave del portone, e sotto la monarchia era valso il principio che soltanto i farabutti si trattenevano fuori casa fino a tarda notte, per cui era giusto che pagassero una sorta di multa per il contributo che davano alla decadenza dei costumi. Era decisamente ora che i socialdemocratici abrogassero quella norma.

Nell’atrio respirò l’odore familiare di quella che una volta era stata casa sua. Ogni edificio, che fosse un palazzo di città o una misera baracca, aveva il proprio, inconfondibile odore. Un miscuglio caratteristico di materiali di costruzione, infrastrutture circostanti e consuetudini di chi ci viveva.

Quel palazzo odorava di broccoli lessi, legno tarmato e cane bagnato – e a lui piaceva.

Un rumore proveniente dalle cantine lo spaventò. Che ci faceva lì? Doveva salire e bussare? Cosa poteva dire a Luise che lei già non sapesse? E se Xaver fosse stato in casa? Era pronto a uno scontro?

La cosa migliore era andarsene. Tornarsene al pensionato. Alla sua misera cuccetta nel suo cubicolo.

Stava proprio per andare quando udì di nuovo il rumore proveniente dalle cantine. Un suono metallico, stavolta seguito da un lieve singhiozzare.

Luise?

Emmerich si affrettò a scendere nella lavanderia – e difatti la trovò lì, rivolta di spalle, china su un mastello di legno, con in mano una spazzola e una camicia bagnata nell’altra. Aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi, le dita erano rosse dal troppo strofinare, e tutto il corpo sussultava per i singhiozzi.

Come se avesse sentito il suo sguardo, Luise si voltò e quando lo vide cominciò a piangere a dirotto. «August» si fece sfuggire mentre le lacrime le scorrevano sulle guance e cadevano sul vestito logoro.

Emmerich la prese tra le braccia, le strinse il corpo esile e seppellì il naso tra i suoi capelli. «Mio Dio, Luise… cosa ti è successo?».

«Potrei chiederti la stessa cosa». Con estrema cautela passò le dita sul labbro spaccato e l’occhio gonfio di Emmerich. «Tu e Xaver… non è che vi siete…?».

«No, no, è stato Pessolt lo Spezzaossa… una lunga storia, te la racconterò un’altra volta. Adesso voglio sapere che sta succedendo qui». Le ravviò un paio di ciocche umide e la osservò. Le guance erano scavate e una macchia verdastra sul mento faceva pensare al peggio.

«È tutta colpa mia» sussurrò lei fissando il pavimento. «Avrei dovuto immaginarlo nel momento stesso in cui ha messo piede in casa».

«Che cosa?».

«Che non è più lo stesso Xaver. La guerra e la prigionia l’hanno cambiato. È diventato freddo, e duro, certe volte persino crudele». Singhiozzò. «Non sarei mai dovuta restare con lui. Avrei dovuto pensare ai bambini».

Emmerich le accarezzò il livido. «Picchia anche i bambini?».

«Gli manchi» eluse la domanda Luise. «E manchi anche a me».

Lui la baciò. Sapeva di sudore e lacrime, speranza e felicità, e nonostante il dolore al labbro spaccato sperò che quel bacio durasse in eterno.

Fu Luise la prima a sciogliere l’abbraccio.

Si guardò intorno nervosa e fissò le piccole finestre provviste di grate. «Te ne devi andare».

«Non senza te e i bambini». Le prese spazzola e camicia dalle mani e le mise da una parte. «Vai a chiamarli, prendi un paio di cose. Domani mi faccio dare un anticipo sullo stipendio e ce ne andiamo per un paio di giorni in albergo e poi…». Ci pensò su. «Poi vediamo».

«Ah, August». Luise sorrise triste. «Sarebbe così bello».

«Allora sbrigati. Che aspetti?». Le afferrò una mano, ma lei si sottrasse.

«Non si può».

Emmerich si rese conto di non fare una bella impressione. Malconcio e trasandato. «Fidati di me. Posso provvedere a voi. In un modo o nell’altro, ci riuscirò. Fammi solo provare». Le prese di nuovo la mano. «Potremmo fare domanda per una di quelle case popolari che stanno facendo costruire i socialdemocratici. Dovrebbero essere economiche e adatte alle famiglie. C’è la corrente elettrica, e ogni appartamento ha l’acqua corrente. Immagina…».

«Non hai capito» lo interruppe lei. «Xaver non ci lascerà mai andare via. Men che meno con te. Piuttosto ci ammazza, e dico sul serio».

«Posso proteggervi. Sono pur sempre della polizia criminale».

«Questo non lo scoraggerebbe neanche un po’. Tutto ciò che aveva di buono l’ha perso in guerra. Non so cosa gli abbiano fatto in Russia, ma credimi: Xaver è capace di tutto». Guardò verso il corridoio. «Adesso, va’. Non deve vederti».

«Non posso lasciarvi nelle mani di quel pazzo». Emmerich continuava a riflettere. «Vi aiuterò a nascondervi. A casa della nonna di Winter o da qualche parte in campagna».

Luise scosse il capo e riprese l’occorrente per il bucato. «Ci troverebbe. Ovunque ci nascondessimo. Non possiamo scappare poi così lontano».

Emmerich la prese per il braccio e la guardò negli occhi. «E come potrebbe riuscirci?».

«Ha degli amici» sussurrò. «Gente con cui è meglio non avere a che fare. Va’ via, ti prego, e non tornare più».

«No!». La strinse forte a sé. «Dammi un paio di giorni, il tempo di risolvere una faccenda, e poi torno a prendervi. Tenetevi pronti». Emmerich poteva vedere quanto Luise fosse combattuta. Paura contro speranza. Preoccupazione contro nostalgia.

«Va bene» disse alla fine. «Tutte le volte che lui non sarà in casa metterò alla finestra una candela accesa».

Emmerich la baciò di nuovo. «Resisti. Non ci vorrà molto».

Lei annuì e sorrise un po’ meno triste.

«Torno presto. Fidati di me». E a queste parole uscì dalla lavanderia.

Emozionato e sconvolto al tempo stesso uscì e si accese una sigaretta. Tutti i suoi pensieri erano rivolti a formulare un piano e così quasi non notò l’ombra accoccolata dietro la pattumiera.

«Ehi, lei!» gridò quando finalmente se ne accorse.

Senza una parola la figura si dileguò in gran fretta in una stradina secondaria.

Emmerich avrebbe potuto giurare che indossasse pantaloni marroni.

 

Quando, verso mezzanotte, Emmerich arrivò al pensionato vi trovò un gran fermento nonostante l’ora e la regola del silenzio. Gli uomini correvano frenetici di qua e di là, si parlavano addosso e ignoravano anche il divieto di fumare.

Emmerich fendette la folla. «Ma che succede?» chiese quando riuscì a individuare Theo.

«Brutta storia» si lamentò quest’ultimo. «Ludwig… eravamo in sala lettura e a un certo punto ha accusato un gran dolore ed è svenuto».

«E adesso dov’è? Che gli è successo?».

«Sta in infermeria ed è ancora privo di sensi. Quando arriva quella dannata ambulanza?».

«Lo sai com’è… quando chiamano da Meldemannstraße, nessuno ha fretta» commentò il tizio pallido dallo sguardo cupo.

E in effetti aveva ragione. I soccorsi si palesarono solo dopo una buona mezz’ora.

«Ma fate sul serio?» li aggredì Emmerich quando vide che erano venuti non con un’automobile, ma con un vecchio carro. «Non c’era niente di meglio?».

«Fate largo». Due portantini dall’atteggiamento risoluto lo spostarono urtandolo con la barella ed entrarono nell’edificio senza particolare fretta. Poco dopo tornarono indietro, infilarono Ludwig, ancora svenuto, nel pianale del carro e presero posto a cassetta.

«Dove lo portate?» gridò Emmerich.

«All’Ospedale generale».

Poi, senza aggiungere altro, il cocchiere fece schioccare le redini e si misero in marcia.