Emmerich si incamminò verso Roßauer Lände con lo sguardo rivolto al cielo, perso nei suoi pensieri. Era proprio ora che le rondini lasciassero le loro residenze invernali in Africa e India per tornare a Vienna, ma di loro ancora non si vedeva la minima traccia. “Se una rondine non fa primavera, in ogni caso ha bisogno di cibo e di un posto dove fare il nido. Ed entrambe le cose, a Vienna, al momento scarseggiano”, aveva letto sull’Illustrierte Kronen-Zeitung. Non restava che sperare che un paio di esemplari facessero la loro comparsa in città, nonostante tutto. Alla fin fine, erano sempre messaggeri di fortuna.
«E di fortuna ne abbiamo un gran bisogno» mormorò Emmerich passando accanto all’Ente di beneficenza americano, dove stavano per distribuire dei pasti. Uomini, donne e bambini con volti rabbiosi e miserabili aspettavano in fila che le porte venissero aperte.
Quando ciò finalmente avvenne, la truppa si trasformò in uno sciame di locuste. Guardandosi di continuo attorno, terrorizzati di essere superati e di vedere che il proprio vicino veniva sommerso di elemosine mentre loro continuavano a morire di fame.
Emmerich ripensò al gemello e all’associazione MV. Era un bene che qualcuno facesse finalmente qualcosa per i poveri. Peccato che uno dei suoi membri fosse un assassino.
I suoi pensieri vennero interrotti dalla vista di un’ombra che si affrettò a sparire dietro un albero. Lo stavano pedinando per davvero oppure era colpa della stanchezza, che gli faceva dare retta alla pulce che gli avevano messo nell’orecchio?
L’avrebbe scoperto.
Si voltò di gran carriera, fece un paio di passi, girò al primo angolo e si nascose nell’androne di un palazzo. Respirò piano e aspettò. Niente.
Si richiamò alla mente le parole di Zuzana, Ti ha pedinato per spiarti. E non te ne sei accorto, poi tornò in strada. Era deserta e non gli restò che un brutto presentimento.
In ufficio Winter era già alla scrivania, intento a battere a macchina.
«Dove sono tutti?» chiese Emmerich. Il primo piano sembrava come morto.
«Papousek è in malattia, la signorina Grete sta facendo il caffè e il resto della sezione è a rapporto in sala riunioni. A quanto pare c’è stata una svolta nel caso Abele. Pare che sia saltato fuori un indizio importante, un reperto portato qui per corriere dall’Istituto di medicina legale». Guardò Emmerich pieno di aspettativa.
«Che gran fortuna, eh?». Emmerich si accese una sigaretta e indicò l’uscita. «Andiamo?».
«Dove?».
Emmerich lo guardò incredulo. «Dal signor Völzer. Te ne sei già dimenticato? Stando a Helene Dobrensky aveva preso di mira Fürst. Dovremmo fargli un paio di domande sui soldi di cui il defunto si sarebbe indebitamente appropriato».
Winter indicò la pila di fascicoli accanto a lui. «Devo prima finire con questi. Visto che Papousek non c’è, Brühl mi ha mollato anche la sua parte di lavoro, anzi: ci ha mollato».
Emmerich tirò la catenella dell’orologio da taschino di Winter piazzandoglielo sotto il naso. «Tic tac» disse rimettendolo poi al suo posto. «Non ci resta molto tempo per dimostrare l’innocenza di Peppi».
«Ma Brühl ci stacca la testa se ce la battiamo di nuovo».
«Immagina che faccia farà quando scoprirà di aver messo in galera la persona sbagliata, e che siamo stati noi a prendere il vero colpevole. Avanti! Andiamo, prima che quel rompiscatole torni».
Lo sguardo di Winter fece la spola tra i fascicoli ed Emmerich. «E va bene» disse. «Sa dove possiamo trovare questo Völzer?».
«Direi in municipio, ma proviamo ad andare sul sicuro». Mandò giù una compressa di Togal, andò al posto della signorina Grete e inoltrò una telefonata.
«È ancora a casa» disse dopo aver messo fine alla conversazione. «All’egregio signore piace dormire fino a tardi». Con una smorfia di scherno, Emmerich uscì.
«Ci sarà da divertirsi». Winter si mise il cappello e seguì svelto il suo capo.
«Non male». Emmerich fece scorrere le dita sul radiatore della macchina nera e scintillante parcheggiata davanti alla proprietà di Völzer. Sembrava veloce e dalla linea slanciata, un sogno a quattro ruote. «Mi piacerebbe un sacco guidare una macchina del genere».
«E a chi non piacerebbe?». Winter gettò un’occhiata all’interno: pelle nera, dettagli cromati e legno lucido emanavano un’aura di eleganza ed esclusività.
«Ehi!». Un servitore in livrea aveva spalancato il portone d’ingresso e fissava i poliziotti con aria truce. «Giù le mani dall’automobile, mascalzoni!».
«Chissà chi è il mascalzone, qui…» mormorò Emmerich esibendo il distintivo. «Polizia criminale. Dobbiamo parlare con il signor Völzer».
L’uomo si fece ripetutamente il segno della croce sollevando un sopracciglio. «Chi devo annunciare al signor consigliere? E cosa vi porta qui?».
«Sia così cortese da annunciare gli ispettori Emmerich e Winter, per favore» disse Winter facendo sfoggio di tutta la sua buona educazione.
Il servitore annuì. «Prego, seguitemi». Li condusse in un ampio ingresso e indicò un punto indistinto sul pavimento. «Aspettatemi qui». Dopodiché si affrettò a salire una grossa e sinuosa scala.
Quanto a disposizione degli spazi, somigliava alla maggior parte delle residenze nobiliari: al piano terra, dove freddo e umidità si facevano sentire insieme al rumore e alle puzze provenienti dalla strada, viveva e lavorava la servitù. I piani superiori, e soprattutto il primo, quello più facilmente raggiungibile – il cosiddetto piano nobile, per l’appunto – era riservato alle persone importanti.
«Dove diavolo è finito?». Emmerich gettò uno sguardo all’orologio a pendolo accanto alla porta d’ingresso. Il pendolo d’argento oscillava rumorosamente avanti e indietro. Visibilmente impaziente, l’ispettore si avviò verso la scala imboccata dal servitore poco prima.
«Sicuro che sia una buona idea?» sussurrò Winter, che gli era andato dietro. «Aggirarsi in casa altrui senza essere stati invitati a farlo è estremamente scortese».
«Ora come ora, non ho tempo per l’etichetta». Emmerich salì i gradini, si addentrò nell’abitazione e cercò di capire dove potesse trovarsi il consigliere.
L’aprirsi di una porta rispose alla sua domanda.
«Avevo detto di aspettarmi di sotto!» sibilò il servitore in corridoio.
«E io avevo detto che siamo della polizia. La gente come noi va sempre di fretta. I criminali non dormono mai».
L’uomo in livrea storse il naso e si voltò verso la stanza da cui era appena uscito. «I signori ispettori» annunciò.
Emmerich lo spostò senza tanti complimenti. «Salve, signor Völzer. Abbiamo un paio di domande per lei».
L’ampia stanza inondata di sole serviva con tutta evidenza a un unico scopo – mangiare. A parte un massiccio tavolo, alcune sedie e una credenza non vi era infatti alcun altro mobile.
Emmerich decise di non avere tempo per arrabbiarsi in merito a un tale spreco di spazio e rivolse la sua attenzione a Völzer. Era un uomo corpulento, stempiato e con folti baffoni, seduto al tavolo con indosso solo una vestaglia di seta davanti a un’opulenta prima colazione, il cui profumo arrivò immediatamente alle narici di Emmerich: pane fresco, pancetta arrostita, burro, marmellata e miele.
Emmerich tentò di ricordare l’ultima volta che aveva goduto di un così lauto pasto. La risposta era: mai.
Völzer sfogliava una copia del Reichspost e sorseggiava il caffè. «Non si poteva rimandare? Non sono neppure vestito, ancora».
«Ci perdoni l’intrusione» si intromise Winter. «Non l’avremmo mai disturbata se non fosse strettamente necessario».
«E va bene». Völzer mise da parte il giornale e fece segno ai due ispettori di sedersi. «Se si tratta di un’urgenza mi metto ovviamente a vostra disposizione. Anche in questa mise». Si schiarì la voce mentre si spazzava via le briciole dal petto.
«Posso fare ancora qualcosa per lei?» chiese il servitore.
«Ho finito. Può portare via tutto. E porti un caffè per i signori».
«Come desidera».
Emmerich guardò con un certo languore le prelibatezze a malapena assaggiate che l’uomo, senza battere ciglio, metteva su un carrello per portarsele via. «Si tratta del consigliere comunale Fürst» disse andando dritto al punto.
«Pensavo che il caso fosse chiuso». Völzer si tamponò la bocca con un tovagliolo e per la prima volta guardò sul serio le persone che aveva davanti.
«Non è stato Josef Navratil».
«Interessante. E io cosa posso fare per voi?».
Emmerich si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò le gambe. «Siamo venuti a sapere che Fürst si sarebbe procurato alcune somme di denaro in maniera non del tutto legale. Apparentemente, per finanziare la costruzione di un ospizio per disabili».
A quel punto si era assicurato la completa attenzione di Völzer. «Alcune somme? In maniera non legale? Bell’eufemismo! Aveva rubato, ecco il termine giusto!».
«A chi?».
«A chi?» ripeté Völzer, come se fosse una domanda insensata. «Be’, a tutti noi! A me, a lei, e al resto dei contribuenti. Quel furbacchione aveva munto quattrini da vari fondi comunali. Un paio di corone qui, un paio di corone là. Piccole somme che all’inizio non saltavano all’occhio, ma che messe insieme facevano un bel mucchio di soldi».
Il servitore era tornato così silenziosamente che Emmerich fece un balzo sulla sedia: all’improvviso da dietro le sue spalle era spuntata una mano intenta a sistemare sul tavolo una tazza di porcellana colma di caffè, con tanto di piattino.
«Grazie, molto gentile». Prese un sorsetto, era bello forte e caldo. «Qualcuno è stato danneggiato in maniera particolare dall’iniziativa di Fürst?».
Völzer si strinse nelle spalle. «No, questo no, ma è stato un gesto sbagliato, pur muovendo da nobilissimi intenti» aggiunse.
«L’ospizio non verrà costruito» concluse Emmerich.
«No. I soldi saranno restituiti. La legge è legge». Völzer si portò una mano al petto. «Anche se mi dispiace per quella povera gente».
All’improvviso Emmerich sentì uno strano brivido lungo la schiena, un misto di ripugnanza e sfiducia. Si bloccò per un attimo: non capiva il perché di quella sensazione, in fondo Völzer non aveva detto, né fatto, nulla di male. Fino a quel momento si era comportato in maniera educata e cortese. «Quell’ospizio avrebbe di sicuro giovato, se non addirittura salvato, parecchie vite» disse nel modo più pacato possibile.
«Lo so, ma il fine non giustifica i mezzi. Vedremo cosa riusciremo a fare per quelle persone. Io stesso sono un grosso filantropo».
Annuì con convinzione ed Emmerich comprese all’improvviso che cosa gli avesse suscitato quella subitanea avversione. Völzer gli ricordava sorella Erzsebet, la suora che aveva reso la vita impossibile a lui e agli altri bambini dell’orfanotrofio. Puniva severamente anche i più piccoli peccati, come bisbigliare durante la messa o dire qualche innocente parolaccia. Le punizioni corporali più tenere erano: andare a letto senza cena, ricevere bacchettate o restare giorni chiusi in una cantina umida e senza finestre.
«Torniamo ai soldi sottratti» disse Winter nel tentativo di riportare il discorso sul punto saliente. «È possibile che Fürst sia stato assassinato a causa loro?».
Völzer aggrottò la fronte. «Mi stupirebbe assai. Non erano in molti a essere a conoscenza della faccenda, ho insistito sulla massima discrezione. Non ci possiamo permettere il minimo scandalo e poi volevo proteggere Fürst, nella maniera più assoluta». Di nuovo si portò una mano al petto.
Emmerich spalancò gli occhi. Quel gesto… quel mettersi la mano sul cuore come a voler fare un giuramento. Anche sorella Erzsebet aveva sempre fatto così, tutte le volte che mentiva. Il che capitava spesso. «Tra lei e il consigliere Fürst correva buon sangue, ovviamente…». Le sue parole suonarono dure e ciniche.
Völzer strinse gli occhi e inclinò la testa. «Non crederà mica che…». Fece una piccola pausa e trasse un profondo respiro. «Certo, tra noi correva buon sangue, nessunissimo screzio. Avevo enorme stima di lui e del suo lavoro».
«E un alibi per la notte del delitto? Ce l’avrebbe?».
Völzer sbuffò, era paonazzo. «Certo che ce l’ho! Ero a teatro, e non da solo. I miei accompagnatori e tutti i presenti potranno confermarlo senza alcuna difficoltà».
Visto che Emmerich si limitava a guardarlo torvo senza aggiungere altro, Winter si alzò e fece un lieve inchino. «Molte grazie per il suo tempo e per la collaborazione».
«I miei rispetti, signori». Völzer prese la copia del Reichspost e la aprì ostentatamente.
«Che le è preso?» sibilò Winter una volta che si furono chiusi la porta alle spalle. «Perché ha usato quel tono così scortese? Non ha fatto proprio niente!».
«Ha mentito».
«Ah… e da cosa l’avrebbe capito?».
«Dal modo in cui si portava la mano… lasciamo perdere».
Winter lo fissò con sguardo penetrante. «Torniamo in ufficio. Forse siamo fortunati e nessuno si è accorto della nostra assenza».
Emmerich sospirò e si guardò attorno. «E cosa ci torniamo a fare, in ufficio? A trascrivere e archiviare, mentre un innocente marcisce in prigione?». Il suo sguardo cadde sulla porta in fondo al corridoio, che era un po’ aperta. Attraverso lo spiraglio si intravedeva una massiccia scrivania. Si diresse da quella parte.
«E cos’altro possiamo fare?». Winter gli corse dietro. «Guardi che sta andando nella direzione sbagliata».
«No, niente affatto. Qui c’è qualcosa che non quadra. Non saprei dire cosa, è solo una sensazione. Lo sai… una delle mie cose di pancia».
«E invece la testa cosa le dice?».
«Non è che bisogna sempre seguire la testa».
Winter sospirò. «Tanti saluti alla pancia. Non possiamo metterci a frugare qui impunemente. E poi Völzer ha anche un alibi, se n’è già dimenticato?».
«Non abbiamo alternative. Pensa al povero Peppi. Pensa alle vessazioni di Brühl». Con cautela Emmerich aprì un po’ di più la porta. «Non ci vorrà molto. Voglio solo dare un’occhiata ai registri finanziari di Völzer. Forse Fürst ha sottratto soldi anche a lui o a qualcuno dei suoi amici».
Dalla sala da pranzo risuonò il trillo di un campanello. «Johann!» chiamò Völzer. Immediatamente si udirono i passi del servitore.
Emmerich trascinò Winter nella stanza e chiuse la porta. Si trovarono in una luminosa stanza con un bovindo che dava su Rotenturmstraße. Sul parquet scuro c’era uno spesso tappeto, alle pareti scaffali di libri e al centro un antico mappamondo in legno alto fino al petto di Emmerich.
«Si sbrighi» lo incalzò Winter nel vederlo accarezzare l’Africa.
«Va bene, va bene». Emmerich si girò verso la scrivania, posizionata davanti al bovindo. Aveva sei cassetti per lato, provvisti di maniglie dorate. A caso aprì quello in alto a sinistra e tirò fuori alcuni documenti. Erano i conti di casa – vi era annotato anche ogni centesimo speso per l’ultimo dei fattorini.
«Presto. Non si metta a leggere anche le note più piccole».
Emmerich aprì il cassetto successivo, conteneva contratti di lavoro. «Che spilorcio, questo Völzer» mormorò.
«Sento dei passi!». Winter, che era rimasto alla porta, si guardò intorno. «Mio Dio!».
Emmerich richiuse i cassetti. «Sei proprio sicuro che stia arrivando qualcuno?». Restò in ascolto, ma non gli sembrò di udire alcunché.
«Penso di sì». Winter lo spinse dietro una delle lunghe tende scure che incorniciavano il bovindo e si infilò dietro l’altra. «Congedato con disonore» sussurrò. «Menomale che la mia povera mamma si può risparmiare tutto questo».
Dopo aver aspettato per un buon minuto senza che nulla accadesse Emmerich fece capolino dalla tenda. «Falso allarme». Si riavvicinò alla scrivania e aprì un altro cassetto.
Winter, che aveva ancora il terrore dipinto in faccia, si affrettò a raggiungerlo. «Ogni tanto penso che lei adori i guai al punto da non riuscire proprio a starne alla larga» si lamentò. «Andiamocene via, una buona volta».
Emmerich non gli rispose nemmeno. Con un’espressione interrogativa pescò un oggetto dal cassetto.
«Dobbiamo andare. Dico sul serio. Subito». E a quel punto Winter fece una cosa che Emmerich non avrebbe mai creduto possibile: anziché continuare a supplicare, lo afferrò per il braccio e lo trascinò via. «Völzer aveva quasi finito di leggere il giornale. Non mi stupirei se tra pochissimo cominciasse a dedicarsi ai suoi affari».
«Aspetta! Devo…». Emmerich indicò la scrivania, ma la pazienza di Winter sembrava definitivamente esaurita.
Dopo aver richiuso il cassetto Winter spinse energicamente il suo superiore verso la porta. «Vedrà che mi ringrazierà. La sto salvando da se stesso». Lo trascinò fuori dallo studio e poi giù per le scale, dopodiché senza fiato spalancò il portone e lo spinse così rudemente in strada che per poco non cadde. Solo quando si furono allontanati di alcuni metri confondendosi nel trambusto dei passanti riprese fiato allentandosi la cravatta. «Spero che la dose di adrenalina per oggi le basti. Io ho fatto il pieno».
Emmerich non fece minimamente caso al caos circostante. Senza dire una parola mostrò all’assistente il pugno chiuso e poi, un dito alla volta, lo aprì rivelando un oggetto tondo e scintillante.
«Ma…». Winter si strofinò gli occhi, incredulo. «Ma aveva detto di averlo riportato indietro!». Aggrottò la fronte e osservò il gemello. Era d’argento e decorato da una figura femminile.
«Era nel cassetto di Völzer. Solo soletto. Nessuna traccia di un compagno».
Winter si grattò la testa. Era così confuso che finì dentro un mucchio di sterco di cavallo. Cercò di ripulire meglio che poté le scarpe. «Ma Völzer… e la signora Abele…».
«E non dimentichiamoci di Fürst».
«Lei pensa che entrambi gli omicidi…».
«E se ci fosse un collegamento? Due rispettabili cittadini assassinati nel giro di pochi giorni. E Völzer aveva rapporti con entrambi. È stato lui a scoprire i traffici di Fürst e possiede un gemello uguale a quello trovato nella bocca della signora Abele».
«In effetti, qualcosa non quadra». Winter prese un profondo respiro. «Quello che sto per dire non le piacerà, ma deve dirlo a Brühl». Non riuscendo a guardare in faccia il suo capo, si era rivolto alla propria cravatta.
«E cosa dovrei dirgli? Che ho ripescato un gemello dalla bocca di una donna morta, senza avere la minima autorizzazione? E che abbiamo trovato l’altro gemello nello studio di Völzer, in cui ci siamo introdotti di nascosto?». Emmerich scosse la testa. «Peraltro, Brühl che se ne farebbe?». Se lo rinfilò in tasca. «Non è stato sequestrato seguendo la procedura ufficiale e dunque non può essere utilizzato come prova. Dobbiamo occuparci noi della faccenda».
Winter impallidì. «E come?».
«Per prima cosa dobbiamo rimetterlo nel cassetto. Poi bisognerà trovare un motivo per fare una perquisizione in piena regola, e rinvenirlo con tutti i crismi».
«E come pensa di riportarlo indietro? Non vorrà mica introdursi di nuovo di soppiatto in casa di Völzer?».
«“Di soppiatto” non è l’espressione giusta. Siamo forse ladri?».
Winter sbuffò.
«Hai forse un’idea migliore?».
«No, ma…».
«Allora amen» lo interruppe Emmerich. «E poi… chi è che mi ha trascinato fuori dallo studio di Völzer su due piedi, senza darmi il tempo di rimettere a posto il gemello?».
«Di questo parleremo dopo. Piuttosto mi dica come spera di ottenere un mandato di perquisizione. Le sue sensazioni di pancia non basteranno a convincere nessun giudice al mondo».
«È vero. Dobbiamo trovare prove e mettere insieme un congruo numero di sospetti. Penso che dovremmo partire da Johanna Abele. Quali erano i suoi rapporti con Völzer? E con Fürst?».
Winter sospirò. «Brühl darà di matto quando si accorgerà che stiamo ficcando il naso nel suo caso».
«Brühl non si accorgerà di niente. Anzi… ci darà una mano». Winter guardò Emmerich con fare interrogativo, ma l’ispettore lo ignorò. «Andiamo, il lavoro da dattilografe ci reclama».