27

Il museo di storia militare si trovava nel cosiddetto Arsenale, una cittadella fortificata costruita a metà del secolo scorso. Era un complesso di settantadue edifici per cui erano serviti quasi duecento milioni di mattoni, mattoni fabbricati sul Wienerberg da uomini come Isidor Kofler, che nel farlo vi avevano perso dignità e salute.

Per Dio, il Kaiser e la Patria.

Per niente.

Il museo di storia militare era in stile moresco-bizantino, con una sfarzosa cupola a coronare il tutto.

«Da questo si capisce quali sono le priorità» mugugnò Emmerich. Aveva dormito male e il suo umore ne risentiva. «La guerra è finalmente finita, anzi, per essere precisi persa, eppure si spendono centinaia di migliaia di corone per celebrarla».

«Non c’è nulla di male nel coltivare la memoria» controbatté Winter nell’entrare nell’edificio.

«Così, sì». Emmerich spalancò le braccia. «Guarda quanto sfarzo. Sembra quasi che la guerra sia stata qualcosa di nobile e glorioso. Non cascarci! In realtà è solo una cosa brutale e sporca, a tutti i livelli».

In effetti anche l’atrio di ingresso trasudava sfarzo col suo pavimento in marmo, le colonne che sorreggevano il tetto a cupola decorate in oro e le statue a grandezza naturale di importanti condottieri poste su piedistallo.

«Il museo è chiuso». Un uomo barbuto e rasato a zero, alto e imponente, sbarrò loro il passo.

«Ma la porta era aperta».

«Gli operai dovrebbero arrivare da un momento all’altro, stiamo facendo dei lavori di ristrutturazione per rinnovare la collezione. Non appena avremo una data per la riapertura la comunicheremo». Indicò l’uscita.

«Non siamo qui per visitare il museo. Siamo della polizia criminale». Emmerich esibì il distintivo. «Dobbiamo parlare col signor Častolowitz. È qui?».

«A proposito di che cosa volete parlare con lui?».

«Questo lo diremo a lui».

Il tizio non sembrò soddisfatto dalla risposta e squadrò Emmerich con aria ostile. «Aspettate qui» disse in un tono che non ammetteva repliche. Fece dietrofront e scomparve attraverso un’ampia porta laccata di bianco. Non appena fu fuori vista Emmerich seguì le sue tracce.

«Non sarebbe meglio fare come ha detto lui?».

Emmerich indicò la statua di un uomo con alti stivali e cappello a cencio. «Andreas Hofer. Anche lui non ha fatto come dicevano gli altri».

«Però sa bene che è finito davanti al plotone d’esecuzione». Con un lieve sospiro Winter gli andò dietro.

«Bum!» disse Emmerich quando si ritrovarono in una sala in cui due grossi obici puntavano le bocche direttamente verso di loro. Emmerich represse l’istinto di abbassarsi e proseguì veloce verso la sala successiva. Questa era ancora più grande della precedente ed esponeva uniformi, mitragliatrici e una cucina da campo. «Speravo di non dover mai rivedere questa roba» mormorò Emmerich oltrepassando veloce la porta successiva.

Fu la volta di un ambiente dal soffitto alto e dal pavimento in semplice pietriccio grigio. Ovunque si vedevano vetrine vuote e casse di legno di ogni forma e dimensione. Nessuna traccia del tizio pelato e barbuto.

«Dove si è cacciato?» chiese Winter.

Emmerich si guardò intorno alla ricerca di un’altra porta, ma non riuscì a individuarne nessuna. «Capolinea» disse. «Strano. Le sale espositive sono una dietro l’altro, si susseguono come un lungo budello. Se fosse tornato indietro l’avremmo incrociato per forza».

All’improvviso una porticina si aprì nel mezzo di una parete e l’uomo rasato entrò nella sala.

«Ah, una porta nascosta» comprese Emmerich. «Ogni edificio sontuoso di Vienna ne ha almeno una».

«Vi avevo detto di aspettare all’ingresso». Il pelato puntò le mani sui fianchi, col volto in tempesta. «Non potete gironzolare tra i pezzi in esposizione. Sono…».

«Non c’è problema». Alle spalle del pelato apparve un uomo in completo a tre pezzi blu scuro e camicia con colletto alto. I capelli brizzolati accuratamente pettinati all’indietro, aveva un pizzetto curato e baffi a manubrio. Doveva trattarsi di Častolowitz. Con espressione glaciale porse al pelato un taccuino in pelle e gli fece cenno di andare. «Vogliate scusarlo» disse rivolgendosi a Emmerich e Winter. «Il signor Seebold, il mio segretario, ha molto a cuore la collezione».

Seebold scoccò un altro sguardo truce ai due poliziotti e scomparve di nuovo nel passaggio oscuro da cui era sbucato fuori pochi istanti prima. La porta si richiuse come per magia, mimetizzandosi alla perfezione nella parete.

«Cosa posso fare per voi?» si informò Častolowitz.

«Abbiamo un paio di domande. Comincerei dal signor Fürst».

«Spero che non vi dispiaccia se nel frattempo continuo un po’ a lavorare». Častolowitz dedicò la propria attenzione al contenuto di una grossa cassa di legno, che osservò con ardente devozione.

«Cappelli da alpino» disse Emmerich che aveva sbirciato per capire che cosa affascinasse tanto il direttore. «Sesto reggimento, terzo battaglione».

Častolowitz lo guardò aggrottando la fronte. Sembrava impressionato dalla competenza di Emmerich. «Vedo che se ne intende di uniformi italiane. Ha servito da quelle parti, in guerra?».

«Undicesima armata, ventiseiesimo raggruppamento, trentaduesima divisione di fanteria».

«Sotto Horsetzky…». Častolowitz annuì con fare comprensivo e squadrò Emmerich. «Ne è uscito incolume?».

«Non del tutto». Si indicò la gamba. «Sono stato ferito a Vittorio Veneto».

«Capisco». Il fatto che Emmerich avesse fatto parte delle bellicose truppe condotte dal generale Horsetzky von Hornthal sembrava ben disporlo. «Io invece ho lasciato qualcosa nella battaglia sul fiume Aa». Sollevò la mano sinistra, a cui mancavano medio e anulare. «Congelati, ma questo non mi ha impedito di infilzare con la baionetta cinque soldati russi a cavallo, nella stessa giornata». Častolowitz sorrise e diede una pacca sulla spalla a Emmerich. «Di solito però preferisco le armi da fuoco. Che cosa usa la polizia, attualmente?».

«La buona vecchia Steyr M1912».

«Affidabile» approvò Častolowitz. «Personalmente prediligo la Luger P08, si ricarica più velocemente e ha un angolo di puntamento più comodo. Dovrebbe provare. Tutti quelli che conosco concordano con me».

«Il meccanismo di carica della Steyr in compenso è più resistente allo sporco». Emmerich studiò con attenzione il direttore del museo. A parte il passato militare e il suo debole per le armi non incuteva particolare timore. Era semplicemente un signore un po’ rigido nel fiore degli anni.

«Chiami la ditta dei lavori, per favore» disse Častolowitz al segretario che si era improvvisamente materializzato di nuovo nella sala. «Gli operai dovevano essere qui già da un pezzo».

«Come desidera». Seebold annuì e si affrettò a eseguire.

«Tornando a Fürst…» Emmerich ritentò, «…ci è giunta voce che tra voi ci sia stato un grave litigio, un paio di settimane prima che morisse. In merito alla clinica di riabilitazione gestita dalla vostra associazione di beneficenza».

Častolowitz prese un ampio cappello con penne di gallo nere e verdi – il tradizionale copricapo dei bersaglieri, la fanteria leggera dell’esercito italiano. «Ah, quello». Con estrema calma spolverò qualche invisibile granello di polvere, poi l’osservò da tutte le prospettive e lo sistemò in una delle vetrine aperte. «Fürst riteneva che stessimo spendendo troppi soldi per pochi pazienti. Voleva che ci occupassimo di più persone. Il che poteva accadere solo a discapito della qualità delle terapie. Cosa che io non volevo».

Emmerich taceva. Tutto qui? Una semplice differenza di vedute su come utilizzare i fondi a disposizione?

«Fürst sapeva essere collerico, e purtroppo lo sono anch’io» continuò Častolowitz. «Per cui è probabile che i toni si siano alzati un po’ più del dovuto». Tornò alla cassa, immerse le mani nei trucioli di legno e ne tirò fuori un elmetto d’acciaio grigiastro, che osservò attentamente alla luce. Qualcosa non doveva essere di suo gradimento, giacché non lo sistemò in vetrina, ma si limitò ad appoggiarlo per terra accanto a sé. «Abbiamo ricevuto così tanto materiale dai fronti di guerra che non riusciamo a rendere giustizia a tutti i pezzi. Esporremo solo i più belli». Si lisciò il pizzetto. «Ci è arrivato anche qualche reperto da Vittorio Veneto. Vuole vederli? Dovrebbero essere nell’ala sud-ovest». Si avviò senza attendere risposta.

«Potrebbe dirmi cos’ha fatto la sera del 18 marzo?». Emmerich fece un cenno a Winter ed entrambi si avviarono alle calcagna di Častolowitz.

«Giovedì scorso? Ero con dei conoscenti al Burgtheater. Se vuole le do volentieri i nomi. Abbiamo visto Hasard. Dopodiché abbiamo cenato insieme e discusso degli eventi di Berlino. La fallita rivoluzione di Lüttwitz e Kapp. Sa che le dico? Potrebbe succedere anche qui qualcosa del genere. E forse non sarebbe il male peggiore…».

Ritornarono all’ingresso e poi si diressero verso le sale dell’altra ala.

«Si immagina se il governo volesse mettere in vendita tutti questi pezzi per rimpinguare le finanze del Paese?». Častolowitz si era fermato davanti a un dipinto che raffigurava una scena della battaglia di Sadowa. I cadaveri di soldati e cavalli formavano un’unica massa su un terreno intriso di sangue, mentre sullo sfondo nere colonne di fumo salivano verso il cielo.

«E perché non lo fa?». La domanda di Emmerich era serissima.

Častolowitz aggrottò la fronte. «Perché io mi sono strenuamente opposto. Da questo governo non accetto ordini. È già uno scandalo che abbiano firmato quei dannati trattati, mettendo a repentaglio l’identità nazionale del nostro popolo».

«Col senso di identità non ci si mangia».

Častolowitz lo guardò come se fosse diventato matto. «Non di solo pane vive l’uomo. Abbiamo bisogno di memoriali e di maggior consapevolezza. Abbiamo bisogno di posti come questo per tramandare quei valori che permetteranno al nostro Paese di rifiorire e ridiventare quello che era fino a poco tempo fa: un impero mondiale caratterizzato da benessere, fama e gloria».

«Io me lo ricordo un pochino diverso» mormorò Emmerich facendosi sentire solo da Winter.

Benessere, fama e gloria – in tutta la vita non aveva mai sperimentato nulla di tutto ciò, ma solo fame, freddo e problemi sociali. Se fosse dipeso da lui, il governo poteva svendere ogni singolo pezzo di quella mostra per comprare cibo, medicine e combustibile per i più bisognosi.

«Le devo scrivere i nomi dei conoscenti con cui sono stato a teatro?». Častolowitz si guardò intorno alla ricerca dell’occorrente per scrivere, ma non trovò nulla. «Da qualche parte devo ancora avere i biglietti dello spettacolo… purtroppo il mio ufficio fa parte del cantiere… c’è una confusione tremenda…» mormorò. «Sa che facciamo? Glieli faccio consegnare in commissariato dal mio segretario».

«Grazie, sarebbe perfetto. Molte grazie. Scusi ancora il disturbo». Emmerich fece un cenno a Winter, girò sui tacchi e si avviò svelto alla porta.

«E i reperti di Vittorio Veneto?» gli gridò dietro Častolowitz. «Non vuole più vederli?».

«Non c’è bisogno» rispose Emmerich. «Ci sono stato».

A passo rapido oltrepassò il dipinto della battaglia di Sadowa e si allontanò dall’ala sud-ovest per guadagnare l’uscita.

Winter arrancava dietro di lui, visibilmente irritato per quella ritirata in buon ordine. «Non vuole approfondire?» gli chiese.

«A che pro? Quel tizio è sfuggente come un’anguilla. Non ti sei accorto di quanto è rimasto tranquillo, per tutto il tempo? Aveva sempre la risposta pronta, non ha dovuto riflettere neanche un attimo prima di dire dove si trovasse quella benedetta sera. Neanche un accenno di nervosismo. Si è preparato per ogni eventualità».

«O forse ha davvero la coscienza pulita».

Emmerich alzò gli occhi al cielo. «Sono proprio gli innocenti ad accalorarsi quando gli chiediamo se hanno un alibi. Ricordati la reazione infuriata di Karl Dobrensky o il dolore manifestato da sua sorella. E poi, davvero credi che uno come Častolowitz vada a teatro di sua iniziativa? Per giunta al Burgtheater, a vedere un’operetta? Hasard… una schifezza coi controfiocchi. Roba da donnette, che forse potrebbe piacere alla nostra signorina Grete, ma non certo a uno come Častolowitz. Perché non è andato a vedere Tannhäuser all’Opera? Sarebbe stato molto più adatto a lui».

«Hasard, Tannhäuser… da quando in qua se ne intende così tanto della scena lirica e teatrale di Vienna?».

«Quando resti un’eternità appostato dietro una colonna per le affissioni vieni a sapere più cose di quante avresti mai voluto su quella roba».

Winter si grattò la testa. «Non possiamo certo fargliene una colpa se ha un debole per le operette romantiche».

«Non ce l’ha. Credimi» insistette Emmerich. «Scommetto che è andato al Burgtheater solo perché si trova a meno di duecento metri dalla casa di Fürst. E inoltre lì dentro è buio e c’è un gran casino, per cui se uno si allontana brevemente non se ne accorge nessuno».

«Certo, ha senso, ma la cosa non ci fa fare progressi di sorta».

Giunti alle statue dei condottieri Emmerich non si diresse verso l’uscita, ma riattraversò le sale di obici, uniformi e mitragliatrici tornando a quella con le casse di legno.

«Dove sta andando?».

Emmerich si fermò davanti alla porta segreta. «C’è stato un unico momento in cui Častolowitz non si è mostrato sicuro di sé, ovvero quando è entrato qui. Non si aspettava di vederci. Hai notato che sguardo glaciale aveva prima di indossare la maschera del direttore gentile? E non ti è sembrato stranissimo quello che ha fatto subito dopo?».

Winter inclinò la testa e si mise a riflettere. «Ha dato qualcosa al segretario».

«Esattamente. Gli ha dato un taccuino e poi l’ha spedito di sotto. E quando Seebold è tornato non ce l’aveva più».

«E quindi lei adesso vuole…».

Emmerich aprì la porta, e si ritrovò in cima a una stretta scala di pietra. «Esattamente. Voglio sapere che cosa c’è dentro quel taccuino».

«È sicuro che sia una buona idea?». Winter fissò i gradini che portavano giù nel buio.

«Ti viene in mente qualcosa di meglio?».

«Non proprio, tuttavia non mi sembra una gran trovata. Che facciamo se lì sotto c’è qualcuno?».

Emmerich accese un fiammifero. «Si vede proprio che non sei stato in guerra. Al confronto di trincee e tunnel nemici questa è una passeggiata di salute».

«L’ultima volta che abbiamo fatto una passeggiata nel sottosuolo ce la siamo vista abbastanza brutta» sussurrò Winter mentre con cautela cominciava a scendere i gradini consunti.

«Noi?». Ai piedi della scala la fiamma si spense. Emmerich accese un altro fiammifero e per quanto possibile illuminò i paraggi.

Si trovavano in un lungo corridoio col soffitto a volta e pareti di mattoni rossi. Il pavimento era coperto da lastre di pietra.

«Qui c’è un interruttore. Secondo lei possiamo…?».

Anziché rispondere Emmerich spinse il pulsante e immediatamente il sotterraneo venne invaso da una flebile luce giallognola. «Porca miseria» gli scappò.

Davanti a loro si estendeva un ampio tunnel di cui non si intravedeva la fine. A sinistra e anche a destra c’erano delle nicchie in cui erano accatastate armature da cavalieri, alabarde, balestre e altri cimeli di guerra vecchi di secoli. Tutte cose create per uccidere. L’umanità non imparava mai dal passato.

«Speriamo di non dover fare a pugni con nessuno» disse Winter.

«Al momento è l’ultimo dei nostri problemi». Emmerich si soffermò su una spada appesa al muro, e poi proseguì. «Il problema maggiore è trovare il taccuino».

Osservarono palle di cannone, sciabole e componenti di una catapulta, ma del quaderno non c’era traccia.

«Pensa che il tunnel porti da qualche parte?» chiese Winter.

«Possibilissimo. L’Arsenale è pur sempre una cittadella fortificata. È stata costruita per offrire riparo al Kaiser e al suo seguito in caso di rivoluzione. Per cui sono sicurissimo che ci siano varie vie di fuga…». Si fermò quando arrivò in vista della fine del tunnel. Sembrava fosse stato murato.

«Qui» gridò Winter. «Guardi qui». Indicò una porticina di legno su una parete e scosse la maniglia. «Chiusa a chiave».

«Molto bene».

«Molto bene?».

Emmerich fece cenno di sì. «Qui sotto ci sono centinaia di armi in ferro e bronzo. Solo il materiale vale migliaia di corone, per non parlare del valore dei pezzi in sé. Ma a parte questa porta non è stata presa nessuna misura di sicurezza. Qualunque cosa si trovi là dentro, dev’essere importantissima per il signor direttore. Per esempio, il taccuino».

«E come facciamo a entrare?».

Emmerich si mise a ridere, prese un pugnale tardo-medievale e un attimo dopo erano all’interno di una stanzetta intonacata a calce col pavimento di terracotta. «Accogliente» constatò. «Un bel rifugio lontano da visitatori del museo, operai e curiosi – soprattutto quelli che si stanno occupando della ristrutturazione dell’ufficio del direttore». Si guardò intorno: al centro della stanza c’erano un tavolino e un paio di sedie, a una delle pareti uno scaffale da vino e sopra… «Ci vuole più luce».

«Un attimo…». Winter premette un interruttore e a quel punto fu chiaro che cosa avesse attirato l’attenzione di Emmerich: uno stendardo con sopra la dama in rosso della MV, l’associazione di beneficenza. Osservandola più attentamente, però, Emmerich si accorse di una differenza: il “volto della misericordia” sorreggeva una spada.

Emmerich accarezzò la stoffa setosa, i suoi fili cangianti. «Che cosa significa, secondo te?».

«Non ne ho idea. Forse potremmo pensarci in ufficio. Non dovremmo trattenerci troppo da queste parti. E poi si è fatto tardi. Pensi a Brühl».

«Brühl… ti prego, non me lo nominare». Emmerich si guardò intorno meditabondo. «Avrei scommesso la testa che il taccuino fosse qui».

«Magari tornando indietro possiamo controllare meglio tra i reperti nel tunnel». Winter aprì la porta e una lieve corrente d’aria che sapeva di muschio e fogliame umido riempì la stanzetta.

«Hai visto? Si è mosso» disse Emmerich sollevando lo stendardo.

«Che cos’è?».

«Un pozzo di ventilazione». Si alzò sulle punte dei piedi e ne ispezionò l’interno. «Trovato!». Con un sorriso trionfante tirò fuori il taccuino rilegato in pelle, sulla cui copertina era incisa la donna con la spada. Sembrava pregiato, le pagine erano di preziosa carta artigianale e riempite di spesse lettere nere, anch’esse tracciate a mano. «Bellum gerere cum homines nihilum». Emmerich lesse il titolo. «Ti dice niente?».

«Bellum… ha a che fare con la guerra, ma non mi ricordo granché del latino studiato a scuola. Però di sicuro riusciremo a trovare qualcuno in grado di tradurlo». Poi con gesto eloquente controllò l’orologio da taschino.

Emmerich mise il taccuino in tasca, poi lui e Winter uscirono dalla stanzetta, si affrettarono lungo il tunnel e risalirono la scala.

Winter, che era andato avanti, si voltò verso il suo superiore mettendosi un dito sulle labbra. Poi appoggiò l’orecchio alla porta e origliò. «C’è qualcuno nella sala» sussurrò. «Direi Častolowitz e un paio di operai. E adesso che facciamo?».

Emmerich si grattò la testa. «Vediamo se riusciamo a passare attraverso il pozzo di ventilazione».

Scesero di nuovo i gradini e ripercorsero il tunnel fino alla stanzetta.

«Non ce la faremo mai» disse Winter. Il pozzo di ventilazione era un quadrato di al massimo quaranta centimetri di lato. «Io non ci passerò mai. E mi sa neanche lei».

Emmerich pensò agli anni di denutrizione durante la guerra e al misero vitto del pensionato maschile. «Forse io ce la potrei fare». Infilò testa e braccia nel buco, accese un fiammifero e si guardò intorno: il pozzetto rivestito in pietra grigia saliva lievemente. Emmerich provò a infilare una spalla, ma inutilmente. «Niente da fare».

«Accidenti» imprecò Winter. «E ora che facciamo? Brühl starà già preparando le nostre lettere di licenziamento».

Emmerich si spazzolò i capelli. «Dobbiamo trovare un’altra via d’uscita». Indicò il muro in fondo al tunnel e nel contempo frugò nelle nicchie con i reperti da esposizione finché non trovò quello che stava cercando. Un’ascia da guerra.

«Non faremo troppo rumore?».

«Siamo molto lontani dal museo. Se non vado errato, il tunnel va verso est. Molto probabilmente ci troviamo sotto il cimitero Sankt Marx. E lì di sicuro non si lamenterà nessuno».

Winter fissò il soffitto a occhi sgranati. «Mi sta dicendo che sopra di noi ci sono…». Il resto della frase fu coperto dal fracasso.

I colpi dell’ascia che si abbattevano sui mattoni riecheggiarono in tutto il tunnel, riempiendolo di polvere. Emmerich non riusciva a smettere di tossire.

«Presto» gridò quando fu riuscito a fare un buco abbastanza grosso.

Insieme a Winter tirarono fuori pezzi di mattone e si infilarono nella breccia.

«Il tunnel prosegue» disse Emmerich dopo aver sondato la situazione.

«Solo che qui erano anni che non ci veniva più nessuno». Winter scostò una ragnatela e si girò. «Ha sentito? Sembravano voci».

«Allora sbrighiamoci».

Ignorarono lo squittio dei ratti ai loro piedi e si addentrarono nell’oscurità.

Quando non riuscirono più a vedere a un palmo dal loro naso Emmerich si fermò e accese un altro fiammifero. Nello stesso momento risuonò un urlo attutito.

«Dove siamo, dannazione?» pigolò Winter toccandosi il fianco.

«Mi sono sbagliato». Emmerich avanzò fino a bloccarsi davanti a una porticina. «Non siamo andati verso est, bensì verso nord-est».

«Grazie a Dio. Qualunque cosa è meglio del cimitero».

«Non tutto» disse Emmerich colpendo la porta con l’ascia che si era portato dietro per sicurezza.

Li investì un forte odore metallico misto a puzza di escrementi e marciume.

«Sant’Iddio» si fece sfuggire Winter. «Sembra una sala di tortura».

«In un certo senso, lo è». Camminarono accanto a lunghe catene arrugginite che penzolavano dal soffitto, mentre ai lati c’era una fila di lerce lettighe. «Questa è l’anticamera della morte. Le stalle sotterranee del macello di Sankt Marx. Un tempo qui macellavano più di cento bovini al giorno».

Risalendo una scala arrivarono nelle stalle a pianterreno dove una decina di pecore e due maiali aspettavano la fine. Immobili, quasi apatici, sembravano rassegnati al loro destino.

«Morituri nos salutant» mormorò Winter.

Raggiunsero la sala di scuoiamento, con grossi pali di legno infissi nel pavimento. Ad alcuni erano legati degli animali che attendevano a testa bassa il colpo di grazia. Dalla gola squarciata di un vecchio cavallo sgocciolava un sangue denso e scuro.

«Ehi, disgraziati, che ci fate qui? Non è posto per voi!». Un macellaio gli venne incontro brandendo un coltellaccio, ma alla vista dell’ascia di Emmerich si fermò mogio mogio.

Un’ampia porta a doppio battente dava all’esterno.

Finalmente.

«Non penso che mangerò carne tanto presto» disse Winter ed Emmerich si mise a ridere.

«Non credo che nell’immediato avremo di questi problemi. Gli animali lì dentro sono destinati alle tavole dei ricchi. Per noi solo rape e cipolle». Gettò l’ascia in un cespuglio. «In ogni caso abbiamo questo». Sollevò la camicia e tirò fuori dalla cintura il taccuino. «Sono un mucchio di pagine. Per tradurle tutte ci vorrà tempo. Che non abbiamo».

«E quindi?».

«E quindi io non posso tornare in ufficio con te. Almeno non subito».

«E cosa racconterò a Brühl?».

«Digli che avevo dei forti dolori e sono andato in ospedale. In fondo, è solo una mezza bugia. Vado per davvero all’Ospedale generale. Un tizio che conosco, un ex insegnante di latino, è ricoverato lì. Gli porto il taccuino e torno più presto che posso». Ripescò la scatola di pillole dalla tasca e prese due Togal.

«Ecco, tenga». Winter gli diede una banconota da una corona. «Se la conosco un po’ di sicuro non ha un soldo in tasca. Prenda una vettura a noleggio. Io vado verso il Canale del Danubio, magari riesco a farmi dare un passaggio fino a Roßauer Lände da qualche zatteriere».

Emmerich gli diede una pacca sulla spalla. «Vedrai che ce la faremo» disse. «Metteremo presto fine al nostro martirio in ufficio. A dopo».