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Tutto, intorno a Emmerich, vibrava e traballava. Era rannicchiato sul fondo della macchina di Völzer e ogni buca, ogni dosso, gli arrivava dritto alle ossa. La gamba gli faceva un male tremendo nonostante gli antidolorifici. Prese alla svelta un altro Togal. Se la gamba lo avesse tradito all’ultimo momento, sarebbe stato tutto inutile.

«Ha pensato a quale scusa accampare per la sua visita da Častolowitz?» chiese stringendo i denti mentre Völzer prendeva una curva così stretta da sbalzarlo contro la portiera.

«Dirò che è per i finanziamenti per il centro di riabilitazione. Il che in parte è vero, ci sono alcune cose da discutere in proposito».

«Bene, meno sospetti ha e meglio è. Faccia attenzione alle mani. Ho notato che lei ha la tendenza a portarsele al cuore, quando mente».

«Buono a sapersi». Völzer aggrottò la fronte e si preparò ad affrontare a tutta velocità la curva successiva. «Ignatius Častolowitz, un assassino a sangue freddo» mormorò scuotendo la testa. «Non me lo sarei mai immaginato. E a essere sincero, vorrei proprio vederlo, questo famoso manifesto».

«Non c’è tempo».

«Sicuro? Questa è una Steyr II, l’ultimo modello. Quaranta cavalli di potenza, fa i cento all’ora. Se l’ha nascosto qui nei paraggi facciamo in tempo».

Emmerich ci pensò su. Non potevano arrivare in macchina direttamente davanti al reparto sifilide, avrebbero dovuto comunque parcheggiare davanti all’ingresso principale dell’ospedale e poi attraversare i vari reparti a piedi.

«No» disse alla fine. «Ci resta troppo poco tempo. Le farò vedere il taccuino più tardi, non appena l’ispettore Winter sarà al sicuro. Glielo prometto. Fino a quel momento dovrà fidarsi della mia parola».

Per i due minuti successivi guidarono in silenzio attraverso la città. Emmerich si tastava la gamba pulsante. Andrà tutto bene, diceva fra sé e sé per infondersi coraggio. Domani a quest’ora io e Winter saremo nell’ufficio di Gonska a brindare per l’arresto di Častolowitz e soci.

«Siamo arrivati». Völzer imboccò Ghegastraße e poi svoltò a destra davanti all’edificio dell’ex presidio militare.

Il cuore di Emmerich accelerò. «Parcheggi all’ingresso, se possibile accanto al muro, così io riesco a scendere senza farmi vedere».

«Bene» borbottò Völzer. «Che ci creda o no, anche a me il buon Dio ha dato un po’ di cervello». Fermò la macchina e spense il motore. «Non si vede nessuno qui fuori. Sembra che l’ingresso non sia sorvegliato. Se quei tizi la stanno davvero aspettando, allora sono dentro».

Emmerich annuì. «Entri e dica che mi ha visto sul tetto. Così la maggior parte degli uomini correrà di sopra, almeno spero. E io potrò intrufolarmi dentro, non visto».

«E poi come farà a uscire?».

«Le ruberò la macchina. Che lei avrà inavvertitamente lasciato con le chiavi inserite nel quadro, rendendomi le cose molto facili. Poi andrò a recuperare il manifesto e a richiedere l’arresto di tutti i coinvolti».

Völzer si lasciò andare contro il sedile arricciandosi le estremità dei baffi. «Lei è un uomo molto astuto, signor Emmerich. È una fortuna che stia dalla mia parte».

«E lei dalla mia. Častolowitz e la sua banda di assassini riceveranno una bella sorpresa».

Völzer annuì. «Buona fortuna» disse scendendo dall’auto. «Lascio le chiavi qui».

Emmerich contò piano fra sé e sé fino a sessanta. Ripeté la procedura cinque volte, poi trasse un gran respiro, aprì con cautela la portiera e scivolò fuori.

Costeggiando il muro di mattoni raggiunse la parte centrale dell’edificio, più sporgente, dove si fermò un attimo.

Per provare a passare per un operaio si era fatto prestare da Johann, il servitore di Völzer, un vecchio paio di pantaloni con pettorina e un berretto con visiera. Si calò quest’ultimo sul viso e con le mani in tasca riprese a camminare in direzione dell’ingresso principale fingendo la massima nonchalance.

A parte Častolowitz e il suo segretario nessuno sapeva che aspetto avesse e anche se qualcuno l’avesse riconosciuto, ce l’avrebbe fatta a sbarazzarsi di tre o anche quattro uomini. Toccò la pistola ed entrò nel museo.

A parte le statue dei condottieri non si vedeva anima viva. Nel foyer vigeva un silenzio spettrale. Emmerich avvertì un brivido gelido lungo la schiena. Pensò a Winter, represse l’istinto di fuggire e, continuando a tenere una mano sulla pistola, si avviò lungo le varie sale del museo, cercando di assumere un’aria indaffarata. Chissà se Völzer era riuscito a dirottare davvero tutti gli uomini sul tetto… Častolowitz l’aveva sottovalutato? Che stava succedendo?

Emmerich continuò ad avanzare senza problemi e senza incontrare nessuno lungo il percorso. Forzò la serratura della porticina segreta, discese le scale e sgusciò lungo il tunnel e tutto l’armamentario di guerra ammucchiato nelle nicchie. Sembrava non ci fosse traccia di vita e quando arrivò davanti alla porticina in legno fece qualcosa che non avrebbe mai creduto di fare più nella vita: levò una giaculatoria al cielo.