RITORNO IN GRECIA

 

RITROVAMENTI
NELLO STUDIO DI FIDIA
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Da Atene per andare a Olimpia due sono le vie: una passa per l’interno. Da Corinto si entra fino al cuore del Peloponneso, si va a Tripolis, da Tripolis per una strada da Sturm und Drang, bellissima, ma stretta e piena di giravolte come un gomitolo, si arriva a Olimpia. L’altra, invece, continua per Patrasso, da Patrasso a Pyrgos, e da Pyrgos a Olimpia. Questa strada ha anch’essa un tracciato fortunoso, pieno di curve, ma talmente ameno, che non si può dire di essere stati in Grecia se non si è passati per là.

La costa del Peloponneso, sullo stretto di Corinto, vede svolgersi, come in un’immensa panoramica, le montagne dell’Attica: con il binocolo si vede anche Delfi. E il mare, là dentro, fra una costa e l’altra, depositato come la pasta vitrea di uno smalto nell’alveolo, è colmo e tenero, azzurro e limpido, sa di lago, di fiume, di stretto, di mare. È un mare quasi disabitato, è un mare quasi sempre immobile, e la riva viene a batterci con l’erba sulla riva e gli alberi e le viti, come fosse un lago. E d’altronde ha il respiro largo, il giro d’orizzonte che non si chiude, come spetta al mare. Io credo che, dopo il Bosforo e lo Stretto di Messina, non esiste braccio di mare più armonioso e dolce di questo. Ma senza essere pittoresco. Con i suoi filari di cipressi, gli agrumi a palla, gli ulivi densi, le vigne alla francese, è una campagna coltivata e al tempo stesso rustica; anche i fiori, i cespi di rose ce li ha a salti, qua e là, senza un programma, dove l’uccello lasciò cadere il seme, dove il vento lo depositò.

I paesi che si attraversano sono modesti più che poveri, sono civili, gentili, come la gente che li abita, e che si fa in quattro per aiutarti e venirti incontro.

Questa strada da Corinto a Patrasso, che pure ha un tracciato così pericoloso, a volte a picco sul mare senza neanche un parapetto, non si può ricordare che con il desiderio di rifarla, fermandosi all’odore dei pini come a un appuntamento, o a una vista particolarmente bella, fermandosi ai caffè per bere il caffè che da turco è diventato greco, per farsi indicare la strada, anche a costo di non capirci niente, ma pure di constatare ancora una volta la cortesia di questa gente dal sorriso aperto, come una finestra, sul prossimo.

A Patrasso poi, insigne esempio di turpiloquio urbanistico, si prende la via dell’interno per Pyrgos, e questa non è che sia brutta, ma si lascia il mare, ed è bene che, senza esser brutta, non sia bellissima, perché così ci prepara meglio a ricevere Olimpia. E Olimpia è tante di quelle cose insieme, da non sapere se sono i ricordi storici e le spettanze che uno ci riversa sopra e che, come un raggio di sole, tutto abbelliscono, o è proprio Olimpia, così com’è, a dare a questi ricordi e a queste aspettanze, un corpo, un vigore, una luce che nessun altro paesaggio vero possiede. Comunque sia, l’antico e il presente sono così intrecciati, che districarli è impossibile. Certo è ancora quell’aria, quel sole, quel profumo di pini, come è ancora quell’Alfeo giallognolo, che se ne andrà in Sicilia, e quei colli così densi e così umidi sono ancora quei colli, e tutto rinasce ogni anno così verde e smagliante come in nessun altro luogo in Grecia e di più che in qualsiasi altra parte del mondo, perché questo verde che copre, come un vello lanoso, le colline, è il verde che si può vedere in un paesaggio di Poussin, un verde che è dipinto prima di essere dipinto, che ha il tono del ricordo e del desiderio. Non è di quei verdi come di vernice, come si propagano al Nord, dove sono tutti uguali; le querce come i pioppi, e dove le betulle hanno la pelle bianca di chi non prende mai il sole e si nasconde fra le frasche, per vergogna. Qui ogni verde è diverso, che siano pini di Aleppo o querci o cipressi, e l’erba cresce quasi volesse diventare grande come gli alberi. Cresce l’erba, fra gli scavi, per lo sconforto degli archeologi, cresce più alta del grano, cresce come intendesse cancellare o ricoprire le pietre appena scavate. Perché Olimpia è umidissima, e ben lo sapevano agli antichi, che, per difendere lo Zeus olimpico dall’umido – lo dice Pausania – erano costretti a irrorarlo di olio d’oliva. Questa doccia d’olio di oliva, sull’avorio e il legno, che veniva raccolta alla base da una specie di bacino, è una di quelle cose che turbano: l’idea di dovere guardare una delle sette meraviglie del mondo, col perenne odore di moccolaia, fosse pure di giorno.

Perché in quanto a odore di moccolaia, con quell’olio lampante ossia rancido che dovevano avere gli antichi, per me non c’è dubbio. E del resto solo da pochi anni, in Grecia, per amore del turismo, si è rinunciato a quel sapore nazionale, che era nazionale non meno del vino resinato. E io penso alle infreddature che avranno preso gli atleti, che, come i cavalli di razza, sono più delicati assai delle libellule o delle farfalle: le quali, se anche piove, un momento dopo che è piovuto, scrollano le ali e volano che è un piacere.

Ero arrivato di notte, con una luna piena di tregenda, e invece niente tregenda, in questa classica terra, ma soavi profumi notturni, ombre diafane come quelle fatte in palcoscenico con le garze, e silenzio, dolcissimo silenzio. Non dico che al risveglio non avessi il mio dispiacere: il nuovo edificio del museo, un edificio che non si capisce a che deve servire, visto da fuori, con un tetto aguzzo e troppo poco articolato, come massa. Ma forse è colpa nostra: siamo noi italiani, così stupidamente convinti che val meglio spendere trecento milioni in un edificio di museo che acquistarci nuove opere d’arte. E non se ne acquista nessuna infatti, ma i musei eterocliti e baggiani si moltiplicano. L’architetto a briglia sciolta uscito dal funzionale e dall’organico per reinventare un nuovo assurdo liberty. Così anche i greci hanno preso la lezione, ed ecco nel cuore di Olimpia questa via di mezzo fra l’hangar e la caserma. D’accordo che, una volta dentro, ci si riconsolerà. E si consoleranno pure i militaristi, che avranno lo stupore di vedere tanti elmi di bronzo da camuffare un esercito di comparse come opliti. Fra elmi e bronzetti, più di ventimila sono i pezzi che conta il nuovo museo, e in quello vecchio ce n’era appena dei campioni. Così come la funzione condiziona la forma, le armi del museo, a Olimpia, hanno portato la caserma.

Poco più di dieci anni fa la Missione archeologica tedesca che opera a Olimpia facendo sistematici scavi dentro e fuori lo studio di Fidia, così denominato per tradizione, ebbe la ventura di imbattersi in alcuni reperti straordinari. Ed erano straordinari senza essere appariscenti. Avevano addirittura la firma: una piccola e modesta oinochóe (vaso da vino) della capacità di un nostro quartino, recava graffito niente meno che questo: sono di Fidia. Quella piccola oinochóe, mi ha fatto venire il tremito a guardarla. Dopo circa ventitré secoli un oggetto appartenuto a Fidia, di cui Fidia si è servito per dissetarsi, mentre scolpiva il suo perduto capolavoro, lo Zeus olimpico alto dodici metri, la statua crisoelefantina che i bizantini rimossero e che è perduta per sempre. Con quella razione di un quartino Fidia si centellinava la gloria; una gloria che neppure la scomparsa di tutti i suoi capolavori è riuscita a offuscare. Perché bisogna ricordarlo: il fregio, le metope, i frontoni del Partenone stanno sotto le sue ali, ma fino a che punto ci testimoniano la sua partecipazione diretta?

E ora, dalla terra di Olimpia, un piccolo, insignificante reperto viene ad attestare che la tradizione era nel vero, che Fidia aveva lavorato là dentro a quella cella dalle stesse proporzioni della cella del Tempio, e che, dopo pochi anni, forse per una diversa utilizzazione dello studio, tutti gli avanzi che ancora vi si trovano erano stati scaricati là accanto, a riempire le fondazioni su cui venne costruito un altro edificio. Dunque non solo la oinochóe ma tutto quello che si è ritrovato là dentro veniva dallo studio: e quello che si è trovato è quanto basta per turbare i sonni, né solo degli archeologi. Prima di tutto, perché interpretare quei reperti, è come proporsi di risolvere un enigma, in un primo momento, il fortunato scopritore, il Dr. Kunze, credette di aver trovato le forme di terracotta su cui era stata martellata la foglia d’oro del manto dell’Olimpico. Una cosa, finalmente, davvero della mano di Fidia, che dovrebbe testimoniarci l’ultima fase della sua attività.

Da allora, da quando la notizia si diffuse, il mio più cocente desiderio era di vedere quelle forme di terracotta. E ho dovuto aspettare dieci anni. Perché insomma, di un artista come Fidia, che, anche a giudicarlo dalle copie e dai rilievi superstiti del Partenone, indizia un culmine dello spirito umano, forse il culmine che non ha mai più raggiunto, neanche con Michelangelo, e con Raffaello, e il momento catartico della classicità, anche un solo frammento di terracotta, ma che abbia subito la pressione del suo pollice, è più di una reliquia e più di una testimonianza, è una presenza sottratta all’oblio e alla morte. E chi non sente queste cose, ci commiseri pure.

Ora io mi trovavo di fronte a queste forme, ma, confesso, smarrito più che commosso. Dieci anni sono passati dal ritrovamento, e la prima interpretazione accenna a tramontare. E intanto, quel che pone un nuvolo di interrogativi, è proprio la testimonianza diretta che queste forme (in genere losanghe di circa quindici centimetri nel lato lungo) arrecano con quelle strane pieghe che rappresentano. Sono pieghe larghe e profonde, vorrei dire orografiche che non assomigliano affatto alle fitte tremule pieghe delle statue colossali dei frontoni del Partenone, e tanto meno a quelle delle vesti rappresentate nel fregio. Sono di uno stile squisitamente fittile, che non evoca cioè né il bronzo né il marmo, ma proprio la terracotta, e una fase della scultura che addirittura fa pensare più ai panneggi del Maestro dei frontoni di Olimpia, che a quelli del Partenone. Per me questo enigma è risultato il più grave di tutto. Come è possibile pensare a un tale cammino all’inverso, che sa quasi di arcaismo, dopo il Partenone? È a questo punto che l’ipotesi del Dr. Bartels viene a suggerire un diversivo, per altro non meno conturbante. Fra i reperti di quello straordinario scavo ci sono, oltre a frammenti di avorio e strumenti per lavorare l’avorio, anche dei residui vitrei, con cui si è arrivato a ricostruire, almeno parzialmente, una palmetta. Si sa come gigli e animali costellassero il manto d’oro di Zeus. A dir vero idea poco allettante per noi, questo genere di ornamento, che veniva a turbare la solennità, “pura e senza ornato”, che sembra inscindibile dall’arte di Fidia. Poi si è pensato che, quegli ornamenti fossero nello zoccolo della statua.

Comunque il vetro, anche in masselli informi, è stato trovato, e sembra inevitabile di doverlo fare risalire alla famosa statua crisoelefantina. Ma questa, allora, oltre all’avorio, e all’oro, alle pietre preziose e alla struttura lignea che la teneva in piedi, avrebbe avuto per soprappiù anche ornamenti di vetro, seppure ne tacciono gli storici. D’altronde all’ipotesi che le forme servissero per batterci sopra la foglia d’oro, è stato opposto, ma per me è obiezione infondata, che si sarebbero spezzate: è da credere infatti che si usassero martelli di legno, più che sufficienti per una lamina, sia pure spessa ma di oro puro. E d’altronde le forme di terracotta risultano armate internamente (lo si vede in qualcuna spezzata) da una anima di ferro. Perché tale precauzione? E perché le forme sono fatte in quel particolare modo, con un bordo rialzato torno torno, come se ci si dovesse colare qualcosa? Ma per colarci l’oro avrebbero dovuto essere di terra refrattaria.

Ecco allora farsi strada la nuova ipotesi del Dr. Bartels, che siamo autorizzati a riferire: cioè, in quelle forme doveva essere colata la pasta vitrea, e di pasta vitrea sarebbe stata composta la Vittoria (alta quasi due metri) che lo Zeus teneva in una mano. Pasta vitrea dorata. Ma questa ipotesi invece che chiarire complica ancora di più. E prima di tutto lascia intatto il problema artistico: o panneggio dello Zeus o panneggio della Vittoria, quelle pieghe sono sempre un’incongruità. E poi la terracotta poteva resistere al calore di fusione del vetro?

E con che sistema le porzioni vitree, una volta ottenute, potevano essere tenute insieme? La saldatura, come poteva essere fatta, quando non esisteva altro fuoco che quello della fucina a legna? E a quel tempo esisteva la tecnica della doratura su vetro? Tante domande a cui non si sa, crediamo, dare una precisa risposta. D’altronde, se il vetro non fosse stato dorato, se ne sarebbero dovuto accorgere gli storici, che, la statua celeberrima, oltre all’avorio e all’oro, conteneva il vetro: addirittura tutta la Vittoria di vetro, che invece Pausania dice d’oro e di avorio.

Nel lindo deposito della Missione tedesca, mentre, insieme col soprintendente greco Yalouris, si esaminavano i pezzi di terracotta che via via uscivano dai cassetti, uno smarrimento, un dubbio quasi glaciale assaliva. E se non avessero avuto, se non avessero niente a che fare con lo Zeus? In fondo sono stati trovati in uno scarico: gli avanzi eliminati dallo studio di Fidia non vi furono depositati in bell’ordine per conservarli. Tanti altri rifiuti poterono esservi stati accumulati, da altre provenienze, per livellare il terreno. Mi parve d’essere stato derubato. L’odore agonizzante della camomilla messa ad appassire dalle mani gentili del Dr. Bartels mi sembrava il commento funebre e canzonatorio alle mie illusioni perdute. Per dieci anni avevo sognato di potere finalmente accertarmi come fosse lo stile di Fidia al tempo dell’Olimpico. Ma bastò che mi guardassi in giro. A Olimpia nessuno può ritenersi derubato. Quel che c’è, quello che resta; è sempre un dono immenso, tanto elevato e incommestibile che non si è mai sicuri di poterlo ricevere per intero.

Se ne godrà un attimo, di una parte minima, ma sarà sempre abbastanza.


* Questo articolo e i successivi I restauri del Partenone, Il Pireo e l’Apollo arcaico di bronzo, I restauri dell’Agorá di Atene sono apparsi nel 1966 sulla rivista della ERI “Terzo programma. Quaderni trimestrali” (4, 1965) con il titolo Viaggio in Grecia.

 

I RESTAURI DEL PARTENONE

Un monumento ce lo consegna la storia, e qualsiasi intervento che ne cambi l’aspetto deve essere giustificato da superiori ragioni di estetica o di conservazione.

Ma tali ragioni, e il modo col quale vengono attuate, non devono servire a cancellare la storia, e cioè il tempo che è passato sul monumento; e neppure a sostituire all’aspetto, con cui la storia consegnava il monumento stesso, un aspetto che, senza potersi porre come l’originario, ne costituisca una versione ridotta e magari con esiti del tutto opposti a quelli autenticamente strutturali.

Questo discorso, se possa apparire a taluno oscuro, si chiarisce subito con l’esempio: il Partenone. Quale monumento più famoso? Forse neppure la Cupola di San Pietro lo è altrettanto, e, al massimo, si pone a pari grado. Ebbene, proprio perché così famoso, così inciso nella mente, anche di chi non l’ha mai visto in proprio ma solo in riproduzione, era un monumento che, per modificarlo anche in un piccolo particolare, richiedeva che ci si andasse coi piedi di piombo e si avesse la certezza che questa modificazione si introduceva per ristabilirlo, con tutte le garanzie, nella sua condizione originaria, posto che questa fosse possibile, o comunque lo esigessero ragioni di conservazione. Ma, ristabilire la condizione originaria del Partenone, è impossibile senza falsificarlo.

Si sa infatti come è andata la storia. Fatto deposito di esplosivi e sventrato nei due lati lunghi per lo scoppio prodotto da una granata, il Partenone si presentava integro solo nelle due testate.

Questa sciagura non rendeva incomprensibile il monumento, che, anche la persona più sprovvista, poteva reintegrare mentalmente nella successione laterale delle colonne abbattute; e vorremmo dire che proprio il sentimento di rimpianto e di sdegno che provocava un tale danno, aveva in sé la sua catarsi, nella purezza, nell’autenticità assoluta di quanto era rimasto in piedi. Poiché, certo, ricostruirlo in quel che manca, dell’architettura, potrebbe esser anche possibile fino a un certo punto – le colonne, i muri perimetrali della naós – ma col risultato di dotare di arti ortopedici, o visibilmente aggiunti, o certamente ingannevoli, un monumento la cui leggibilità, nel suo complesso, non ha bisogno di nessuna integrazione, pur ridotto a una lacera ma grandiosa sussistenza.

Né per la parte rimasta in piedi, abbisognavano interventi da dovere esigere una “legatura”: teneva perfettamente anche senza.

Quel che c’era da fare, per il Partenone, era dunque di lasciarlo come l’esplosione l’aveva ridotto.

E, anche in quello stato, a nessuna maggiore grandezza poteva aspirare il mondo. Ma il problema di come intendere e godere un’opera d’arte, si complica sciaguratamente col sentimentalismo e con la malintesa carità di patria. Il rimpianto di non vedere il monumento, intaccato nel corso della storia, nel suo aspetto originario, diviene spinta irragionevole a riportarlo, costi quel che costi, all’aspetto originario. Irrazionale, perché implica annullamento della storia, reversibilità del tempo irreversibile.

Ora, un artista, per quel che fa e crea, può permettersi tutte le irrazionalità. Ma, chi riceve l’opera d’arte e non la crea, il fruitore, per intendersi, non ha diritto, sia semplice osservatore o professore d’università o soprintendente, di intervenire sull’opera d’arte, che nei due casi che si è detto in principio: o per ristabilire, ove sia possibile senza falsificare l’opera d’arte, un’unità infranta, o per ragioni di conservazione e cioè di trasmissione dell’opera al futuro.

Per il Partenone, troppa parte ne aveva polverizzato e sbriciolato l’esplosione, perché alcuno dovesse illudersi che si potevano ricostruire, non fosse che su un lato, e colonne e muro della cella.

D’altra parte la ricostruzione di una colonna, con rocchi originali, ma manchevoli, e con rocchi di nuova materia, in qualsiasi modo si faccia, risulterà sempre, in vario grado, sgradevole. Per quante precauzioni e misure si prendano, la colonna non riacquisterà mai i suoi appiombi, apparirà storta o traballante.

In secondo luogo la colonna isolata, la colonna a giorno, era, per i greci, un’eresia. Solo la romanità introdurrà la colonna a sé stante, ma mai, neanche la romanità, le colonne in trasparenza, come i denti del pettine, per intendersi. Dove file di colonne così sono rimaste, hanno la loro giustificazione storica nel fatto di estollersi come relitto storico di un monumento e di testimoniarlo, e possono avere una giustificazione seconda, d’ordine estetico, nel modo di legarsi al paesaggio. Così, infatti, vennero intese dal Cinquecento in poi e soprattutto nel Settecento.

Ma questa giustificazione sarebbe assurdo cercarla per un monumento come il Partenone, che è l’esempio più alto e più intransigente dell’esternità, con cui veniva pensata l’architettura greca: ogni monumento relativo solo a se stesso, non urbanizzato, non legato a un paesaggio. Nella recinzione del períbolos c’era la dimostrazione a vista di questa spazialità che, emanata dal monumento, ritornava sul monumento come un’eco di se stesso.

Un irragionevole amore e un’irrazionale cieca spinta a deformare il restauro in quanto lo costituisce come restauro, conservazione cioè e non scorrimento del tempo alla rovescia, ha portato studiosi e autorità greche, non crediamo con pieno accordo, ad accollarsi la responsabilità della ricostruzione del lato nord del Partenone.

Ricostruzione e non anastilosi, perché i pezzi erano ben lungi dall’essere completi, squarciati, per lo più, polverizzati alcuni.

Né il perimetro della naós dava i conci sufficienti a ristabilire il controfondo indispensabile come proiezione della spazialità propria del colonnato. È risultata quindi una serie di colonne rattoppate. Questo, che è il lato più probo dell’operazione, in quanto non s’è addivenuto a una mimetizzazione assoluta del nuovo col vecchio, usando anzi un materiale diverso, non è tuttavia alieno da censura, perché l’unità plastica della colonna risulta ora più frantumata di quando era ridotta a un moncone.

E, per la colonna, l’unità dello slancio, quasi diremmo di traiettoria dalla base al capitello, è essenziale. C’è poi il fatto che, per quanta cura sia stata messa in questa soprammissione di rocchi laceri e di rattoppi, il resultato, per ogni colonna ricostituita, è sempre imperfetto; basta guardarle, queste colonne ortopediche, e si vedrà subito che viziose discese si ostentano dal capitello alla base.

Ma non è tutto. Ora, come per il colonnato di S. Lorenzo a Milano, il lato nord del Partenone è ridotto a un pettine che istituisce, nel Partenone stesso, l’effetto più diametralmente opposto che quella architettura doveva produrre. Non una fila di colonne libere nello spazio, in una infusione incontrollata d’aria e di luce, ma proprio l’opposizione del muro alla colonna, l’opposizione di un limite fatto più di ombra che di materia alla rotazione della colonna nella luce.

La gradualità d’ombra e luce istituita dalle scanalature faceva emergere le colonne da questo loro particolare spazio-luce, spazio-ombra, che altro non era se non l’epifania della spazialità autonoma del tempio che, entro lo spazio naturale, aveva inserito l’architetto. Possono, colonne isolate come relitto isolato, legarsi a un certo ambiente: ma avere ricostituito le colonne isolate, entro un’opera ancora vivissima ed eloquentissima nei suoi dati superstiti, come il Partenone, è stata offesa peggiore di quella prodotta dallo scoppio. Pietas male intesa, come male intesa fu, da noi, quella con cui si ricostruirono a furia di cieco amore, e più di campanilismo, tante opere distrutte o mortalmente danneggiate dalla guerra. Si è parlato di cieco amore: ma se poi questo cieco amore si vuole addirittura fondare come scienza, e sono, non già degli esaltati o dei politici, ma degli archeologi che compiono questi misfatti, allora non c’è scampo e neanche commiserazione.

Ma si dirà, con un proverbio amaro toscano: cencio dice mal di straccio. Dopo quello che è stato fatto in Italia, dopo la ricostruzione del Tempio E di Selinunte, con che coraggio possiamo parlare male della ricostruzione del Partenone?

Ma chi scrive ha sempre lottato contro la ricostruzione insensata di quel tempio, che dal cumulo di rovine che era, le più belle e allucinanti che esistessero sulla terra, è risorto con le gambe storte e rattoppate peggio di quelle del Partenone.

E poi per quanto il Tempio E fosse rispettabile, anche per chi, come noi, non accetta gerarchie fra le opere d’arte, non era il Partenone. Codesto non è il santuario di Atene, ma della civiltà occidentale. Tutta un’epoca gloriosa, forse la più gloriosa della nostra civiltà, culmina, né metaforicamente, nel Partenone.

Il maggior titolo di benemerenza era di conservarlo così come ormai il tempo, la storia, cioè, ce l’aveva trasmesso, e, non potendosi invertire il corso della storia, tanto meno inserirvi degli effetti che distruggono la sua struttura formale, come è quello di fargli esibire delle colonne in trasparenza contro il cielo.

Ma l’appetito viene mangiando.

E già, là intorno, compaiono monoliti di pentelico pronti ad andare a inserirsi sul soffitto dell’opistodomo, con la scusa di salvaguardare i resti del fregio ancora in situ: con la conseguenza, questa volta di falsificare il soffitto con aggiunte fatte perfino nella stessa materia, e magari (come per le altre già messe a posto) neanche contrassegnate da una sigla chiaramente visibile. Quando per riparare quei venerandi e laceri avanzi, basterebbe una protezione di plastica trasparente che non si vedrebbe e lascerebbe le cose come il tempo ce l’ha tramandate.

Dopoché certamente, verrà la voglia di ricostruire anche il lato a mezzogiorno, e un secondo Iktinos potrà firmare allora un’opera che sarà diventata la copia di se stessa. Ed era il Partenone.

 

IL PIREO E L’APOLLO ARCAICO DI BRONZO

“Discesi ieri al Pireo insieme con Glaucone, figlio di Aristone, per fare le mie preghiere alla dea” così comincia la Repubblica di Platone: e per una certa specie di individui, per i quali la civiltà antica non è una lingua morta, questo inizio di un dialogo tanto famoso riecheggia continuamente quando dal Pireo si vada ad Atene e viceversa. Risale continuamente, destando quasi incredulità negli occhi che vedono e nella memoria che rievoca. Infatti non c’è nulla che, meno dell’attuale Pireo, possa far pensare all’epoca di Platone, e a quello che doveva essere la città costruita da Ippodamo di Mileto. Non che con questo si voglia negare al Pireo d’oggi un suo interesse nutritissimo, ma perché è un interesse basato sulla vita viva, esplosiva quasi, a cui corrisponde un’urbanistica caotica e sovrabbondante. Sovrapporre allora le immagini, pur con la magia dei nomi, diviene impossibile. La città di cui dette il piano Ippodamo di Mileto razionalizzava un tipo di città che, con varie morti, obliterazioni, resurrezioni, è arrivato fino al nostro tempo. In questo, necessariamente, dovrebbe scomparire, ma la speculazione edilizia, il massimo intensivo sfruttamento delle aree lo lascia ancora sopravvivere.

Il piano di città, a cui infatti è legato il nome di Ippodamo, differiva dal piano di città derivato dal castrum romano, proprio in questo, che mentre nel castrum lo scheletro strategico era dato da un incrocio di due strade principali, il cardo e il decumano, nel piano ippodameo il nucleo centrale era costituito dall’agorá, e l’agorá, anche se rispondeva a usi simili a quelli del forum romano, urbanisticamente era un’altra cosa. Certo, il reticolo di vie che si tagliavano ad angolo retto, nel piano ippodameo, richiama pure l’incrocio del cardo e del decumano, ma quel reticolo rappresentava lo sviluppo e l’estendersi logico della città intorno all’agorá, che era pensata come posto di ritrovo ma non d’incontro di tutte le direzioni. Insomma l’agorá greca non era un luogo di obbligato passaggio, anche se poteva essere attraversato da una strada, come appunto la strada che conduceva all’Acropoli nell’Agorá di Atene. Dal fatto che, nel piano ippodameo, il rincrocio delle strade costituiva il naturale segmentarsi ed estendersi degli insediamenti umani, viene a essere sottolineata la nascita non militare della polis greca, rispetto alla città sorta dal quadrilatero strategico, in cui bisogna assicurarsi il possesso degli incroci stradali. Il piano ippodameo infatti non risultava dalla quadrettatura di uno spazio interiore a un recinto di mura, anche se di mura l’abitato poteva essere circondato.

Allora, pensare questa cristallina traduzione urbanistica del logos greco, in mezzo al tumulto edilizio del Pireo, fa veramente un curioso effetto.

Ma sarebbe d’altronde assurdo formalizzarsi di questa mancanza di rispondenza fra l’antico e il nuovo, perché il Pireo, che in qualche parte conserva persino una toponomastica turca, ormai impossibile a sradicare dall’uso, è, come si è già accennato, uno dei luoghi più attraenti e cordiali che si possa immaginare, e, il Turcolìmani, un porticciolo senza pretese, ma pieno di imbarcazioni, è pieno di trattorie dove si mangia un pesce straordinario e ancora guizzante. È impossibile, una volta fatta l’esperienza, rifiutarsi ogni sera, da Atene, di recarsi al Pireo. Il luogo ha un suo orizzonte marino dove le isole e le penisole s’intrecciano, ma come se non stessero ferme, e transitassero lentamente all’orizzonte. Io credo che neppure tutti i venti messi insieme riuscirebbero ad agitare queste acque che, senza essere morte, giacciono come abbarbicate al fondo.

La sera, le collane di luci del Pireo si scavalcano e s’inseguono, si sovrappongono e si srotolano come getti di stelle filanti, in un carnevale che dura tutto l’anno. È così cordiale quando si comincia a vedere dall’alto, quella luminaria. È come se tante navi, ma una sopra l’altra, avessero acceso il gran pavese di lampadine. Guardando questo spettacolo vitale, naturalmente mi veniva da paragonarlo a tanti altri porti bellissimi, anzi più belli di quello del Pireo. Napoli, ad esempio, di notte sembra dilatarsi nel cerchio luminoso della costa come se via via si allontanasse dal centro al Golfo. E per quanto la vita napoletana non sia certo meno esuberante di quella del Pireo, e l’edilizia assassina di questo dopo guerra vi abbia introdotto l’espressione propria e indubitabile del caos speculativo, c’è sempre un succedersi di quei lumi a terrazze, che riesce a ricomporre l’idea di una città. I lumi del Pireo non sono i lumi di una città, ma di tutte queste cose che abbiamo detto: del gran pavese delle navi, di nastri di stelle filanti, di uno sciame di lucciole, infine. Ed è questa ultima immagine, che è anche la più consona a conferire il vero senso di lietezza e di primavera matura, che comunica il Pireo. E quando si scende giù, a una trattoria del Turcolìmani e si va dentro a ordinare e a farsi pesare il pesce, è impossibile non lasciarsi prendere da una gaiezza placida: per cui si assapora già il gusto del pesce e quello di conoscere in anticipo, quanto al prezzo, dove si casca. Si pensi un po’ cosa succede da noi quando uno si avventura, nelle liste delle nostre trattorie, su una di quelle misteriose sigle s.q. o s.g. che si traducono secondo quantità e secondo grandezza: cioè alla completa mercé del trattore. Questa digressione speriamo che non parrà inutile: serva comunque a sottolineare come divenga remoto il pensiero dell’antichità classica al Pireo, a onta del suo nome e del fatidico inizio della Repubblica di Platone.

In vena di ricordi valga infine rammentarsi che il vichingo Harold Haardrade, al servizio dell’imperatore di Bisanzio, fece scrivere in runico, su un antico e colossale leone, il ricordo della sua spedizione. Il leone stava all’ingresso del porto sulla punta Alkimos, e fu preso dal Morosini e trasportato all’Arsenale di Venezia, dove si trova ancora. Dovendo rubare, il Morosini, poteva rubare meglio. Avesse trovato, ad esempio, le tre statue di bronzo, che sono forse il reperto archeologico più importante di quest’ultimo quinquennio.

Per uno di quegli scavi utilitari, fogna o scarico che fosse, quattro anni or sono, al Pireo, vennero fuori tre statue di bronzo. Tre statue che certo non dovevano star lì, ma lì erano state abbandonate, forse al tempo della prima spoliazione di Atene fatta da Silla, forse dopo. Un ritrovamento di statue bronzee greche è un fatto più che raro. E intanto dà la quasi certezza di trovarsi di fronte a degli originali. La scultura in bronzo era la più pregiata, e per la possibilità di riutilizzazione del metallo non è da meravigliarsi che fosse la prima a scomparire. A salvarsi, sono stati soprattutto piccoli bronzi o frammenti isolati, ma grandi statue intere sono rarissime, anche per l’epoca romana. Quelle trovate al Pireo erano grandi statue, e la più antica è addirittura un bronzo della fine dell’arcaismo, il più grande bronzo, fuso a cera perduta, che di quell’epoca ci sia rimasto. Gli altri due non sono esposti, pare che siano ancora nel bagno che li deterga dalle incrostazioni; ma l’Apollo nudo è già collocato nel Museo Nazionale di Atene.

È quasi perfettamente conservato; alcune fenditure non offendono la vista né l’interezza dei volumi né la nettezza dei profili. La testa fa l’impressione che sia un po’ rincagnata; ma forse non è così, e rientra nelle particolarità inattese di questo Apollo che beatamente sconvolge tutta una cronologia, che sembrava pacifica, per la scultura arcaica greca. La quale è pensata, dagli archeologi, con una gradualità che, soprattutto per queste figure stanti di giovani nudi, i kouroi, nei quali rientra anche l’Apollo del Pireo, sembrava non potere subire deviazioni, tanto docilmente tali figure di atleti si susseguivano l’una all’altra, sempre con qualcosa di più morbido e avanzato rispetto al precedente.

L’Apollo del Pireo, invece, s’introduce a sorpresa in quel mondo ordinato, sicché, per quanto già riprodotto e diffuso, non è stato ancora scientificamente pubblicato. Sta, al solito, con un piede avanti e uno indietro, ma a cominciare da quei piedi, sembra che la squadratura volumetrica a cui ci ha avvezzati la scultura del secolo VI, abbia ricevuto qui come una imburratura. Imburrato, nella sua splendida patina di malachite, fluente, come se la cera perduta avesse trasmesso al bronzo il gusto di una morbidezza che al metallo non compete. E su su, questa inattesa rotondità delle forme continua a rivestire una struttura che è ancora, al di sotto, quella a facce della scultura arcaica. Né colpisce meno il fatto del contorno lineare. Le altre statue stanti, che siano maschili o femminili, hanno in comune con la pittura vascolare il fatto che la linea di contorno, che le definisce, è aderente più di un guanto, le ritaglia nettamente come sagome contro luce. Ciò che è più comprensibile, forse, per la pittura dei vasi a figure nere, ma si produce in realtà, in modo identico, anche nelle statue a tutto tondo, oltre che in bassorilievo. La linea di contorno isola, immunizza la figura dall’ambiente; si richiude, si ribatte per così dire, sulla figura. Per questo, se si guardi uno dei kouroi che dal secolo VII si scalano prima dell’Apollo del Pireo, se si guardi, diciamo, il profilo delle gambe, si vedrà che non c’è intacco nel risalire dal polpaccio al ginocchio. Una stessa continua linea di contorno avvolge gli arti; come senza staccare la penna. Nell’Apollo del Pireo si osserva certo una splendida continuità di linee, ma questa continuità non si conduce sul limite esterno fra statua e spazio-ambiente. Lì anzi, si rompe e si riprende, con intagli sinuosi, mentre sulla superficie del corpo, le varie linee si perdono e raffiorano come un intreccio di vene. E questo davvero è un fatto che stilisticamente anticipa più di cinquant’anni, se si vuole tenere la datazione, per noi ingiustificabile, al 530-520 a.C.

L’Apollo del Pireo non è una statua propriamente arcaica, ma è, con delicatezza sorniona, arcaizzante, come, ma in altro senso, le statue dei frontoni di Olimpia. Quando l’Apollo del Pireo fu modellato, molte cose erano già accadute, sicché è infinitamente più distante dal kouros del Dýpilon che da Mirone. Basta ricordare quella mano del kouros del Dýpilon, geometrizzata come un prisma, e come, via via, a un prisma, continuino ad adeguarsi le mani chiuse, talmente egizie, anche degli altri kouroi più recenti. A un tratto, questo Apollo del Pireo osa alzare le braccia, da rigide e distese lungo i fianchi come avrebbero dovuto essere, e muove in avanti la nocca dell’indice destro, rompendo l’unità bloccata del pugno chiuso. Sicché quella nocca che sporge, sembra che sporga dal pelo di un’acqua cristallina, tanto rigorosa, presente e sottintesa resta la guaina che geometricamente contiene la figura.È come un verso ipermetro, è come quando un cavallo che va al trotto stacca il galoppo: rompe, si dice allora, e così quella nocca rompe l’involucro della statua. Ma felicemente, ma degnamente. È la formula ripresa per rinsanguarla, per ridare un significato a parole che, nella ripetizione, si erano consunte e l’avevano perso. Tutta la figura acquista allora il suo significato vero: anche la testa, quei riccioli, quasi appena sbozzati, gli orecchi che non si rifiutano minute circonvoluzioni naturalistiche. Gli occhi, certo, rimangono sgranati e stupefatti, quasi dedalici, ma il sorriso non regge più la smorfia stereotipa e sembra stampigliarsi a malavoglia. Per non dire poi del torso, dove il modellato disfà le ragioni anatomiche, le assorbe in una gradualità luminosa che è come se la luce, simile a un velo d’acqua, vi scorresse sopra.

Quindi, non solo è una statua rara, ma ci restituisce un momento importante di una civiltà altissima che non era né poteva essere unidirezionale, e in cui è errore pensare all’arcaismo come a un passaggio di stagione, una naturale fase di crescita, crescita irreversibile, come è irreversibile la pubertà sull’infanzia. L’arcaismo fu scelta e libera scelta: in quanto tale non veniva soppresso di colpo dal fatto che collateralmente si maturasse una diversa scelta stilistica e si dilatasse oltre l’involucro della figura la spazialità che prima vi rimaneva dentro come a tenuta stagna. L’autore dell’Apollo del Pireo senti questa direzione nuova e investì cautamente, come un sudario di luce, le forme sfaccettate che erano proprie dell’arcaismo, e che ancora rappresentavano la gelosa realtà dell’immagine di contro a quella della cosa viva.

 

I RESTAURI DELL’AGORÁ DI ATENE

Dopo l’Acropoli non c’è luogo in Atene più carico di memorie e di offese dell’Agorá: e, fra le offese più gravi, non mettiamo tanto le distruzioni, che cominciarono ben presto, con l’invasione degli eruli, quanto le ricostruzioni. Infatti le distruzioni, accavallandosi nei secoli, hanno prodotto un suolo che, alla lontana, fa pensare più a un campo di lava che a un terremoto.

Non si riesce a concepire, come ne verrebbe la voglia guardando le piante erudite che da quelle scarsissime vestigia sono state tratte, in qual modo questo pezzo di terra in pendio su cui sovrasta l’Acropoli, potesse avere acquistato attraverso i secoli, da Solone ad Agrippa, l’aspetto, se non di una piazza, a cui non può mai avere assomigliato, ma almeno di un luogo urbanizzato con discernimento. Questo si dice, non perché si voglia ignorare come greci e romani, almeno fino al secolo II d.C., non concepissero una coordinazione spaziale fra edifici che pure sorgevano contigui, ma perché lo stato, apparentemente caotico delle rovine, quasi tutto raso terra, doveva eloquentemente disilludere dalla possibilità di tentare ricostruzioni o anastilosi, che, inevitabilmente, avrebbero addirittura rappresentato un neoplasma accanto a quei poveri resti consunti. Doveva essere sufficiente la presenza sul lato destro del meraviglioso Tempio, il meglio conservato della Grecia, prima detto il Theséion e ormai riconosciuto come I’Hefaistéion descritto da Pausania, per rendersi conto come quel monumento autentico riusciva da solo a qualificare tutto il resto. L’Hefaistéion e null’altro era sufficiente a dare al luogo, di per sé desolato, il senso della sua antica grandezza e della tragica fatalità della storia. Invece gli americani hanno pensato bene di ricostruire ex-novo la Stoá di Attalo II.

Ex-novo, e tutto di agghiacciante pentelico, il cui colore livido e abbacinante i Greci si affrettavano a celare sotto caldi intonaci, dei quali, come è noto, restano cospicue tracce ovunque, dal Partenone ai Propilei. Almeno si fosse trattato di uno di quei monumenti le cui parti superstiti sono talmente numerose da poter giustificare, non autorizzare bene inteso, un’anastilosi. In questo caso c’erano invece solo dei modestissimi campioni: da un lato una scheggia di muro superstite dava l’altezza, un capitello doppio dell’ordine superiore fu recuperato, salvo errore, dal muro di Valeriano composto di pezzi di spolio, e poi un frammento di transenna, con avanzi di colore azzurro, un rocchio di colonna, un capitello… e con questo dovizioso materiale è risorto; come per incanto, tutto un portico lungo più di cento metri! Ora, finché queste ricostruzioni si fanno in scala ridotta, per servire allo studio, siano benedette; finché si fanno per gli insopportabili film storici, hanno il pregio di una precarietà che ne assicura la scomparsa. Ma l’idea di andare a ricostruire ex-novo la Stoá di Attalo dove era la Stoá di Attalo di fronte a tante illustri e misere rovine, che aspettano solo la grazia modesta dell’arbusto e del cespo di acanto, per sembrare meno squallide e per non apparire imbellettate, questa idea veramente non poteva venire che da un altro mondo, non dalla Grecia, e, per quanti strazi archeologici si siano fatti noi italiani, neanche dall’Italia.

Il contrasto, fra quell’edificio che sarebbe al suo posto solo vicino al Campidoglio di Washington, e i sassi rugginosi, al limite di ritornare delle rozze pietre, è tale da far desiderare che si ricoprano di terra quegli avanzi incomparabili, per sottrarli all’offesa di una sfacciata e aggressiva presenza. E poi, si fosse trattato di un solo campo di rovine: ma in alto troneggia l’Acropoli, e in basso, sul Kolonós Agoráios, lo splendido Hefaistéion con le sue colonne intatte e vellutate, si estolle molto più in su della sua altezza, per una meravigliosa congruità di proporzioni umane. Tutto intorno, verso nord-ovest, lo spazio dell’Agorá è bordato dalle casupole del quartiere quasi turco che confina con questo luogo venerando: non si può certo dire che la vista di quella specie di souk rallegri molto chi insegue gli infiniti fantasmi che suscita un tale pezzo di terra: eppure è infinitamente meno disgustoso della insipiente iattanza della Stoá di Attalo. Quelle case, per povere che siano, anzi delle vere catapecchie, sono ancora la storia in atto, sono un monito di quanto l’uomo sia fragile ed eterno, povero e cieco: attestano come la grandezza possa rifugiarsi anche nell’assenza, e come una civiltà non sia mai così perenta, che poche pietre, e quasi solo il ricordo, non riescano almeno in parte a tramandarla, a farle emettere qualche residuo sprazzo di luce. Né gli eruli né i goti né i turchi erano riusciti a spengere la civiltà greca, e, pur distruggendo tanto, come è il caso dell’Agorá, impedire che, da queste pietre a raso terra, anche l’Agorá lentamente risorga, sia presente nella sua derelizione. Ma non nel falso, non nella ricostruzione brutalmente eseguita e portata a fondo, sul luogo stesso, per rendere l’Agorá una specie di Museo Grévin dell’architettura greca.

Né bastava la Stoá di Attalo. C’era una chiesa, quella dei Santi Apostoli, del secolo XI e di interessante pianta, pur sulla base usuale della croce greca, che in tempi successivi aveva avuto un prolungamento: il tempo che passa non deve essere cancellato da un’opera d’arte, e in quel che il monumento contava, nel nucleo centrale, era perfettamente conservato. Ma la follia del ripristino, non arrestandosi alla Stoá di Attalo, ha aggredito anche i Santi Apostoli, che hanno dovuto tornare esattamente quello che si supponeva dovessero essere stati: ed ecco allora la ricostruzione del nartece, e, come non bastasse il falso architettonico, anche la lunetta del portale maggiore è stata scolpita ex-novo, manco a dirlo in stile del secolo XI. La soddisfazione che ha provocato questo esemplare restauro in chi l’ha compiuto è stata tale che, non solo non venne apposto nessun segno distintivo sulle parti nuove, né delimitazioni evidenti per la muratura nuova e quella vecchia, ma, nell’opuscolo della Scuola americana di Atene, è perfino riprodotto l’operaio intento a scolpire la nuova lunetta “antica” della porta principale, mentre un altro è consegnato alla storia, intento a comporre il nuovo pavimento cosmatesco (sic) sotto la cupola.

Per questo abbiamo voluto lasciare per ultimo l’Hefaistéion, perché, oltre tutto, il restauro a cui è stato sottoposto è assolutamente legittimo. Questo tempio dorico, di poco anteriore al Partenone, era stato battezzato Theséion perché le rovinatissime sculture superstiti raffiguravano per buona parte le imprese di Teseo, l’emulo ateniese di Ercole. Tuttavia, all’interno del tempio, che nel secolo V era stato trasformato in chiesa cristiana dedicata a San Giorgio, sono stati ritrovati i luoghi delle basi di due statue affiancate: ciò che riporta alla descrizione di Pausania di un tempio che aveva le due statue di bronzo di Efesto e di Atena Efestia. E del resto è ben comprensibile che nella parte della città che era soprattutto abitata da fonditori di metalli e soprattutto di bronzo, sorgesse un tempio dedicato a Efesto, quale inventore della metallurgia. Nella trasformazione in chiesa, il tempio era stato invertito, la cella era stata trasformata in nave unica, mentre aveva tre navate, e un’abside fu addossata alle colonne della fronte a est: infine la cella era stata coperta da una volta a botte. Nel restauro non si è tolta la volta a botte, e ci si è limitati a demolire l’abside, che, in realtà, offendeva la facciata principale del tempio, incastrandosi fra le colonne. A parte queste modifiche, non esistono in nessun altro tempio dei particolari altrettanto ben conservati e così per esteso: i soffitti fra le colonne e la cella, con il cassettonato autentico. Terribile testimonianza che si vorrebbe trasferire di peso anche sull’opistodomo del Partenone.

Ma questo incomparabile monumento non si esaurisce, per così dire, in se stesso. Aveva intorno, in origine, quello spazio riservato che si diceva il témenos, chiuso da un recinto, il períbolo, e in questo recinto c’era un giardino. Nella roccia su cui si posava il tempio, da est a ovest, ci sono quattro file di incavi, che corrispondono all’asse delle colonne, e in questi incavi erano posti dei vasi senza fondo, perché potesse uscirne l’acqua. Un sistema d’irrigazione, con dei canali che scendevano dall’alto della Pnice, era stato previsto.

Ora il giardino è rinato: melograni e mirti e viti, dovevano esserci, e melograni e mirti sono ritornati. Il giardino poi si estende, con queste e altre piante, ma tutte antiche, tutte scelte nell’emporio tanto più limitato di quello odierno, delle piante dell’epoca classica. Poiché troppe piante, che sembrano inscindibili dal paesaggio mediterraneo, sono invece tanto posteriori, o addirittura recenti; come le agavi, senza le quali non sembra possibile di pensare una costa dell’Ionio o del basso Tirreno. Melograni e mirti dai piccoli modesti fiori, dal profumo intenso, soprattutto i mirti, che sembrano quasi evaporare al sole, e più scuriscono le foglie, e più emanano effluvi. Questo giardino al fondo dell’Agorá è una sorpresa riparatoria; nulla di più sedativo dopo il gelido schieramento di colonne della Stoá di Attalo, e dopo le pietre infrante e quasi cieche che disseminano l’Agorá. Si supera la breve altezza del Kolonós Agoráios, e ci si trova fra pratarelli verdi né polverosi, e questi arbusti odorosi, e queste erbe profumate, e questi fiori modesti. Tutto ha il colore giusto: non quelle rose sfacciate coi nomi dei generali a riposo, non quelle tonalità che sembrano tinte, invece che prodotte spontaneamente dalla buona terra nera, ma verdi opachi di bottiglia i mirti, rossi di ceralacca i fiorellini del melagrano, e poi quei giallini dei fiori di campo, quei rosa dei convolvoli selvatici, e gli orchietti fissi della camomilla. Anche se in Grecia i rosolacci hanno un color rosso più denso, quasi di sangue accagliato, di quanto non abbiano da noi, l’esplosione dei rosolacci e delle margherite gialle non è mai come un’eruzione cutanea, il fragore improvviso di una fanfara. Di questa natura splendida e contenuta è lo specchio il giardino dell’Hefaistéion. Sia lode a chi l’ha ricomposto, per medicarci, con quella scelta di semplici, le doglie che ci procura la Stoá di Attalo.

Il quale, tuttavia, ha almeno una funzione utile: serve da museo. Il Museo dell’Agorá. E a chi pensasse che, ad Atene, le statue importanti si trovino solo nel Museo Nazionale o in quello dell’Acropoli, la serie di sculture del Museo dell’Agorá, non susciterà meno meraviglia di quel che non faccia, per l’arte del Rinascimento, andare in un paesello o poco più come è Cortona, e incontrarsi con dei capolavori assoluti come quelli di Pietro Lorenzetti, dell’Angelico e del Sassetta.

Dunque, una volta dentro il frigido loggiato, si comincia con la statua di Apollo Patroos, che stava nella cella del tempio di ugual nome quasi ai piedi della scalinata che portava all’Hefaistéion. E questa statua è riferita a Eufranore, nel secolo IV, dunque uno dei rari originali di questo secolo. C’è poi una base, che porta il nome di Prassitele e che ebbe due statue, di Demetra e Cora. Certo è solo un nome, oramai, ma quando si pensa alla celebrità che a questo nome si attaglia, vederlo scritto, e non come è scritto sotto i Dioscuri di Monte Cavallo a Roma, dà sempre un leggero brivido. Poi c’è un gruppo di due donne che ornava la cima del frontone est dell’Hefaistéion, che è d’una vaghezza da far pensare alla scultura fiorentina della seconda metà del Quattrocento. E qui sarebbe una impresa vana di dare una descrizione, condannata a essere un magro elenco di quel che contiene un simile museo.

Ma basti almeno sottolineare il fatto che anche le sculture di epoca romana sono di ottima qualità. Non fu soltanto Adriano a non volere sfigurare presso gli eredi della civiltà greca.

Si continua fino al V secolo d.C., quando appare una statua, disgraziatamente acefala, che è bella e rara come una statua del secolo V a.C., pur con l’assoluta diversità formale. Ne sono rimaste così poche, e non sono certo meno importanti delle pitture e dei mosaici di quel periodo. È una statua di una volumetria così severa e contenuta da sembrare arcaica: e dentro c’è penetrata e si è congelata tutta la linfa della statuaria ufficiale romana. Il corpo è cilindrico, la toga è di bandone, ma quale sicurezza e inflessibilità nel perseguire un intento formale sempre meno naturalistico, con un trattamento della materia che evita le levigature eccessive, temperando il linearismo delle pieghe con il gusto degli angoli smussati, degli sfumati impercettibili.

Questa statua bellissima è il dono di una nuova civiltà della forma alla patria della civiltà classica: e non si può dire che, fra quel mondo che sembra avere fermato in sé la giovinezza, non ci stia, se non a disagio, almeno in visita.

Ancora un poco, e nel 529, Giustiniano chiuderà le scuole di Atene, quelle scuole che da Socrate e Zenone in poi avevano insegnato a pensare a tutte le epoche successive. Niente più di quell’editto, forse, ci fa sentire la fine del mondo classico.

 

FUMANO LE CIMINIERE
SULLE ROVINE DI ELEUSI
*

Non c’è nome forse, anche in Grecia, che evochi più cose e più confusamente di Eleusi. Nemmeno Delfi. Quei misteri che furono così ben custoditi, che neppure in epoca cristiana vennero resi noti: il mito di Demetra che va cercando la figlia Persefone, e intanto regala, a chi l’accoglie, il fico e il grano; la passione di Demetra, con quella specie di morte e resurrezione, e le processioni, i bagni sacri degli efebi, l’iniziazione, lo ierofante… Tutto s’accumula sui nome di Eleusi, come sul posto di Eleusi si stratificano le rovine. Ma la rovina maggiore è stato che, in quel luogo, si sia annidata una città industriale. Da un capitello si ricostruisce la colonna e il tempio, ma dalle ciminiere non si va oltre alla civiltà di massa.

Così Eleusi è un luogo profanato. Anche a non sapere che cosa era Eleusi, a vedere quelle rovine, ahimè, quasi incomprensibili, seppure attestate da grandi capitelli atticamente venusti, da profonde arcaiche incisioni nella roccia, si sente la profanazione. Ancor peggio tuttavia per la nuvola di polvere di cemento, le ciminiere, le casupole che contendono alla vista il mare di Salamina. Come a Posillipo – purtroppo sorelle, anche in questo, Italia e Grecia – la bucolica grazia di questo paesaggio è annebbiata; come a Posillipo la tenerezza di questo mare chiuso, come contenuto nel cavo della mano dei monti, di questi monti così appartati e stanchi, ma tutti d’un azzurro di fiore che sta per appassire, e sotto un sole che è luce bianca assoluta, diviene a un tratto il paesaggio visto con gli occhi arrossati dalla stanchezza, e come abolito dalla fatica quotidiana d’una giornata di lavoro manuale.

Non c’è che il nome, eletto e segreto, Eleusi, a mantenere intatti e freschezza e mistero. Ma avanzando fra le rovine a raso terra, passati i resti dei grandi Propilei romani, in cui sembra ancora di udire, nel profondo solco scavato nella pietra, il cigolio della porta di bronzo, comincia la salita. E questa salita, non meno di quella che portava dall’Agora all’Acropoli di Atene, e ora più di questa, perché conservata nel suo bel basolato romano, è veramente una subida dell’anima: la molla ha scattato, il meccanismo di una incantazione millenaria è di nuovo in moto. Allora non vuoi sentire più nulla, non vuoi note erudite e citazioni graveolenti (e tuttavia, quali note: riconoscere ancora, in quell’orifizio, il pozzo kallíchoron di cui si parla nell’inno omerico a Demetra!).

Il modo migliore di rivivere questi misteri insoluti, è di non cercare di svelarli. Assumi il passo lento e lo sguardo sfiora, come il raggio di un faro, ora quelle rocce splendidamente rugginose, ora quel mare steso come un lenzuolo azzurro a ricevere, a vol plané, gli dèi dell’Attica che scendono dall’Olimpo. Un sottile odore, vincendo la polvere, ti penetra: è di pino e di caprifoglio, e, quasi come un simbolo di questa lontana e incomparabile civiltà, così coerente e così perfettamente individualizzata nelle sue componenti, ti arriva diviso, come si giustappongono le marezzature dell’aria. Ed ecco quella specie di teatro rettangolare, con i gradini scavati nella pietra viva, e la parete che conserva tutte le ineguaglianze di una lavorazione tanto antica che sembra fatta ancora con gli strumenti dell’età della pietra, con le selci scheggiate: ed è per la massima parte, dell’età di Pericle. Come seppe restare intimamente arcaica la civiltà greca: e come restò forte finché si conservò in questa struttura piena, con questo fulcro sodo. Anche il logos si presenta così in Parmenide: e, fino alla scultura di Fidia, quel fulcro sodo resiste.

Ma il teatro che sembra arcaico non è un teatro, era il Telestérion, il luogo stesso dove si celebravano i misteri. I quali, essendo misteri non potevano avvenire alla luce, ma in una specie di ipogeo o di sala ipostilia, che ora, a ricostruirsela nella mente, quadrata com’era e con tutte quelle file di colonne (non c’è che le basi ormai) richiama più l’idea di una moschea o di una cisterna bizantina che di un tempio greco. E c’era anche un piano superiore e tutto il percorso che vi si faceva, doveva simbolizzare gli Inferi, e quel che ci si incontra e i pericoli da superare. Al lume delle torce, gli efebi che avevano fatto il bagno purificatore, imparavano che l’inferno non è solo sottoterra, e che quella in cui entravano, dall’adolescenza, è quanto i cristiani chiameranno la valle di lacrime… Ma ora le ombre sono scomparse e non c’è che una piattaforma assolata: diverse ombre sono le nostre, e ben più fitte, nel mondo desacralizzato che ci appartiene.

Poi, con una scala, anch’essa incavata nella roccia, si passa allo spiazzo superiore, che ora sembra un’agorá e competeva alla parte superiore del Telestérion. Di lì ci si reca al museo. E sebbene il pezzo più famoso sia passato al Museo Nazionale, quel rilievo celeberrimo con Triptolemo, c’è ancora, all’ingresso, una statua che è capace di scuotere. È la statua acefala di Demetra che viene dubitosamente riferita a un collaboratore di Fidia, Agoracritos. Che questa statua stupenda sia fidiaca, e ripeta magari partiti e stilemi che Fidia avrà elaborato o nella Promachos, o nella Lemnia, resta il fatto che dà subito il brivido inequivocabile che scocca solo di fronte a un originale; dove tutto, anche i partiti che sembrano più ripetuti e adusati, riacquistano una freschezza nuova. Che cosa di più risaputo, nella statuaria antica, di una statua femminile stante, rivestita da una lunga tunica a fitte pieghe che una cintola fa ricadere in alto in due cascatelle ai lati delle braccia?

Se volete nella statua di Agoracritos, non c’è che questo: ma come è da compiangere chi non ci vede che questo. Questa statua, il meno che è, è in superficie: una struttura complessa e raffinatissima la regge dal di dentro, la comanda in quei suoi rientri e in quei risalti: immobile com’è, sembra che lentamente all’interno si volga su se stessa con tanti raggi come una ruota. E su questa struttura, più architettonica ancora che scultorea, si stende, si placa, si risveglia, ricade, una plastica in superficie, che è come quando sulle onde lunghe del mare si sovrappone la increspatura, in senso contrario, del maestrale o di refole leggere. Si vedono questi due movimenti sovrapposti: così si guarda questa statua in trasparenza.

Quando si esce dal Museo, non si vedono più le ciminiere. Eleusi non è più un luogo profanato.


* “Corriere della Sera”, 27 giugno 1965.

 

SANTORINO E L’ATLANTIDE*

La scoperta dell’abitato minoico di Santorino è stato forse l’evento più inatteso del secolo, in campo archeologico. Niente faceva supporre, non tradizioni, non notizie storiche, e neppure dei reperti casuali, che al di sotto della enorme coltre di cenere e lapilli che il vulcano aveva rovesciato sull’isola in epoca quasi preistorica, esistesse qualcosa che, sul piano storico e, diciamolo pure, anche su quello turistico, potesse rivaleggiare con Pompei. Ma il paragone, appena proposto, va subito ridimensionato, e non solo per la diversità delle proporzioni assunte dagli scavi.

Pompei è veramente una città dissepolta, con le mura, le piazze, le strade, le ville. Gli scavi di Akrotíri hanno messo in luce sì e no un ettaro di rovine. Ma è chiaro che cose del genere non si misurano a metri, e sebbene il sempre più antico, per quanto suggestivo, non offra un metro di giudizio assoluto, è un fatto che l’informazione che viene da un luogo di almeno millecinquecento anni prima di Cristo, acquista una risonanza che non si può paragonare con i dati, per importanti che siano, di un’epoca storica, oserei dire perfettamente conosciuta, come è quella di Pompei. Ma il paragone con Pompei subito affacciato quando, non più di sei anni fa, incominciarono gli scavi e si sparse la notizia, si è subito e doverosamente riassorbito, per il bene stesso di Santorino, poiché andare là e credere di trovare una seconda Pompei, si ritorce in un brutto tiro all’isola bellissima, divenuta meta di un turismo giovane e incessante che, arrivato là, deve consolarsi con le proprie risorse e le bellezze naturali veramente cospicue di questo isolotto così piccolo e così grandioso.

Gli scavi, per chi ci vada senza aver visto le pitture murali e la suppellettile vascolare che implacabilmente Marinatos, lo scopritore di Akrotíri, ha strappato alle rovine, sono quanto di più deludente e quasi miserabile si possa immaginare. E per quanto fossi documentato su quello che avrei trovato, io stesso non avrei supposto uno spettacolo così miserabile. Come un cantiere piantato in asso, sotto un enorme capannone con lucernari di plastica e un polverone fumante, come se la rovina del terremoto, che deve precedere l’eruzione, fosse appena avvenuta.

A risollevare le sorti dell’isola, portata al cielo e subito depauperata dei suoi tesori, visto che Pompei non serviva, fu allora lanciato un nuovo slogan; Santorino sarebbe l’Atlantide, e questo continente fantasma, evocato su una città fantasma, ha incredibilmente attecchito, anche se contrasti con i dati stessi, si sa quanto precari, collegati all’Atlantide, che salvognuno, non è Egeide, ma Atlantide, e Platone, alla cui unica fede si deve la leggenda dell’Atlantide, non la ponga di certo nell’Egeo, a due passi da Atene, ma di là delle colonne d’Ercole. E poi che intese fare Platone raccontando dell’Atlantide? Trasmetterci una notizia storica di un naufragio di secoli, o prospettarci un apologo? Per me, inseguire l’Atlantide è come ricercare, sempre seguendo Platone, in quale momento della storia del genere umano gli uomini erano a doppia faccia, o, una volta divisi, sono in cerca della metà perduta. D’altronde la civiltà che testimonia Santorino è minoica, e, pur nel tramonto della civiltà di Creta, per opera degli Achei più che dei terremoti, era sopravvissuta ben altrimenti che in un mito platonico. Minos, il minotauro, Dedalo, Teseo sono inestricabilmente legati a un’epoca e a una civiltà che, per favolosa che fosse nella trama, era sopravvissuta come ordito alle sue ceneri, così come si era diffusa nel Mediterraneo, e insomma risaliva a livello della storia anche quando si trovava avvolta nella leggenda.

L’Atlantide, col richiamo dell’ignoto, serve però egregiamente a mettere qualcosa di allettante e imponderabile al posto di quel che a Santorino non c’è più, e che, intendiamoci bene, è di un’importanza straordinaria e rappresenta ormai l’ornamento più vistoso del Museo Archeologico di Atene. Dove la serie di pitture strappate ai ruderi è conservata perfino con l’aria condizionata e un biglietto d’ingresso suppletivo all’interno dello stesso museo.

Tuttavia non vorrei dare l’impressione che un viaggio a Santorino è un viaggio sprecato, non solo per la straordinaria qualità dell’isola, ma anche per gli stessi ruderi, una volta messo in chiaro che non si possono valutare in termini di attrattiva di massa. L’isola, ripeto, è straordinaria, e basti dire che, per descriverla in termini brevi, occorre richiamarsi a Capri, Taormina, Ravello e Pantelleria. Questa sintesi tuttavia, appena proposta, va subito ristretta, né solo perché Capri, anche in quel che ne resta, è in pari tempo più maestosa e amena, Ravello e Taormina hanno certo la stessa ampiezza d’orizzonte e lo sbalzo sul mare, ma con tante altre cose, di verde, di monumenti, oltre che di memorie, fruibili direttamente a livello degli occhi e non della fantasia, che Santorino non ha, e perfino Pantelleria ha le sue cuddie rosse, le rocce vulcaniche rossicce, ancora più rossicce di quelle di Santorino, oltre allo splendido apparato funebre e solare della sua ossidiana avvivata dalle viti più verdi che esistano sulla terra.

Si scopre allora che, come per l’Atlantide e per Pompei, è meglio lasciar da parte i paragoni e attenersi alla natura già di per sé spettacolosa di questo isolotto a forma di falce, che prospetta, dal suo balzo a picco sul mare, il monticello scuro, in mezzo alla rada, del vulcano con qualche fumarola, e altri due isolotti che creano uno scenario marino che ha solo un rivale in quello delle nostre Eolie. Siamo ricaduti in un paragone, ma questa volta non a scapito di Santorino, perché il panorama è totalmente diverso da quello indimenticabile, che si scagliona davanti a Panarea, da Stromboli, a Dattilo, a Lipari.

I colori sono altrettanto stupendi, liquidi, in questa aria che, pur infuocata dal sole, è in continuo e fresco transito, leggera e salina. Ci si sente sulle labbra come dopo aver mangiato un frutto, ci si sente sulla pelle come un fruscio delicato, un contatto quasi segreto, fuggevole e persistente. Anche nelle ore più impervie della giornata, quando il sole è a picco come una mannaia, l’aria di Santorino è un amoroso soccorso, un alito tenero e amico. E ti fa dimenticare pure la petulante scenografia mediterranea, con cui, dopo il disastroso terremoto del 1956, è stato ricostruito tutto il capoluogo di Fira.

Candidi blocchi di zucchero, volte, archi, portici, tutti in cemento armato – ed è giusto, dato che è zona sismica – ma non è giusto che siano stati modellati senza riguardo su quelli antichi e più che su quelli antichi, sull’idea che gli architetti hanno di uno stile mediterraneo fasullo, che è invece un riflesso non folcloristico del tardo antico, ed è bello quando è antico, falso e pretenzioso quando è moderno. Tutto l’abitato di Santorino è purtroppo così, falso e pretenzioso, ma quanto civettuolo, quanto di gradimento spicciolo delle ondate di coppie, e spesso belle anzi bellissime, che con lo zaino e il sacco a pelo, vestite di nulla, ma dorate dal sole con quel colore che solo è del pane uscito dal forno e dei nordici che prendono al sole, caldo, luminoso, infantile, si rovesciano giornalmente su Santorino.

Vanno agli scavi, certo, ne escono subito, anche questo è certo, né ci si potrebbe restare, scendono alla spiaggia che l’altopiano digrada al mare, spiagge deserte, limpide, anche se di sabbia scura, come limpido è questo mare Egeo, fresco e quasi verzicante, non così color del vino come a Rodi. L’arrivo a queste spiagge bisogna farlo in automobile, perché sono piuttosto distanti dal capoluogo, e la campagna che si attraversa, che è un altopiano pianeggiante, è quasi tutta una vigna. Ma nessuno pensi a una vigna come da noi. Invece che viti sembrano piante di poponi, non stanno sollevate neanche un poco dal suolo; i pampani sono quasi cinerei, come le foglie di melone, e l’uva sta rintanata là sotto, come i cuccioli sotto la cagna, o i pulcini sotto la chioccia.

Sembra di violare un’intimità animale ad allungare una mano dentro quel viluppo folto ed estrarne un grappolo che è colorito come stesse al sole. Ed è un’uva buonissima, come assai buono, il migliore della Grecia, il vino che esprime. Dei muretti bassi di pietre fanno a volte un modico terrazzamento, e poi talora, in basso, c’è una piantata di pistacchi, che, a non saperlo, sembrano fichi, con gli stessi rami lisci e grigi e il denso fogliame in punta. Poi ci sono anche dei fichi, e, lungo le strade, degli eucaliptus spennacchiati che, con quello asciuttore, non si sa come facciano a vivere! Crescono poco ma là stanno.

A tutto questo pianoro digradante fa da orizzonte, tondo come un cerchio, il mare, e, sul crinale delle colline, spesso le torri dei mulini a vento, per cui una volta era nota Santorino: non ora, privati delle ali, sembrano solo dei torrazzi di avvistamento. Certo, ci fosse quel roteare lento delle pale bianche dei mulini, questo paesaggio un po’ in minore, per la parte di terra, di Santorino, acquisterebbe un incredibile marchio di fabbrica, come era anche a Trapani, nelle Saline, anche lì quasi scomparsi, quei bellissimi mulini.

Ma ormai tocca di parlare delle rovine. Sotto il loro capannone coi tralicci di ferro e gli spioventi di eternit, stanno i muretti delle case, all’altezza, a volte, anche di tre metri: ci sono piccole strade irregolari, una cosiddetta piazza triangolare, che è poi un incrocio di viuzze. Si vede una scala con i gradini sconvolti dal terremoto, ci sono finestre che avevano l’intelaiatura in legno – ora sostituita con cemento – e gli angoli delle case hanno talvolta immorzature di pietra. La muratura è a secco. Interessante notare la forma di talune finestre, lunghe quasi “alla moda di Chicago” assolutamente inedite per l’antichità. Niente da paragonare a Knosós, anche se lì bisogna far sempre i conti con la fantasia di Evans. Certo, Marinatos, che doveva morire tragicamente, in questi stessi scavi, cadendo dall’alto, volle fare, ed è meritorio, l’anti-Evans: niente ricostruzioni, niente integrazioni. Ma dato che, per conservare i ruderi, e sono i ruderi così sgretolati, era necessario coprirli, era davvero necessario spogliarli di tutto, non lasciarci neanche un orcio, neanche un frammento di decorazione? Non solo non ne sono convinto dal punto di vista estetico, ma neanche da quello storico, e come critico di restauro. L’orrido capannone serve solo a contenere dei mucchi di pietre. Si gira, guardati da un custode quasi muto: in questo cantiere dove non si costruisce ma è come si fossero costruite le rovine. E la polvere che è cenere vulcanica aleggia, si deposita, si rialza, è l’unica cosa viva sotto lo squallore di quella tettoia. Vi sono delle pitture murali che non sono esposte neanche ad Atene: perché non lasciare al suo posto quei frammenti? E perché non studiare una copertura meno sgradevole? Ma queste domande restano ormai senza risposta.


* “Corriere della Sera”, 11 agosto 1975.

 

LA GUERRA DEI NEGRI
NEL CUORE DELL’EGEO
*

Nel Museo Archeologico di Atene, questo tempio della classicità, e proprio in forma di tempio, le pitture di Santorino s’inseriscono come una fantasia improvvisa, un fiume che si perde prima di arrivare alla foce. Per toglierle dalle mura diroccate dell’abitato, dato che non poterono essere rimosse a strappo, certamente dovettero essere distrutti i muri portanti. E anche questo – se poi siano stati ricostruiti, con quel materiale così sciolto, è ancora peggio – dimostra quanto sia stato avventato il presunto salvataggio.

Installate per più di tremila anni nel materiale coibente e secchissimo della cenere vulcanica, le pitture, in quello che ne rimane, sono conservatissime, con dei colori quasi ancora umidi come succhi d’erba, che pongono gli interrogativi sulla loro composizione chimica e sulla tecnica di applicazione sul muro. Qualificarle come affreschi, queste pitture, ne dubito fortemente. E come dare ad affresco quei verdolini, quei celestini, a meno che non fossero di vetro macinato? Vetro egiziano, allora, e i rapporti con l’Egitto sono indubitabili: basterebbe, nella misteriosa scena della battaglia o invasione navale, il particolare tipicamente egiziano del lungo remo come timone.

Questa pittura che, riprodotta, sembra immensa, con le sue sottili navi a remi, e il popolo negro che ne sbarca, è invece quasi una miniatura, disegnata nitidamente come con una penna, ed è, di tutte, la più impressionante. Restituisce un’esperienza diretta di un popolo negro, con strane fogge d’abiti e di turbanti, scudi di pelle rettangolari, lunghissime lance. Vi sono case sovrapposte, non si sa se in un effetto della strana prospettiva adottata, o solo immaginarie: ci si parte da una città sul mare e si arriva a un’altra. Niente, in tutta l’arte antica, dai primordi paleolitici all’arte egiziana o sumera è paragonabile con questa straordinaria raffigurazione e con quella di un fiume che serpeggia, visto dall’alto, con palmizi raffigurati inclinati, in una soluzione cartografica originale.

Per far capire la stranezza conturbante di questa e della scena della battaglia bisogna ricorrere alla pittura giapponese, non come termine di raffronto diretto, ma in relazione alla diversità di impostazione ottica della pittura occidentale, e qui di quella egiziana, come termine più antico di confronto. Se qualcosa potrebbe autorizzare l’ipotesi del continente scomparso, sono proprio queste due pitture visualizzate in modo così libero e originario.

C’è già, in esse, una lunga prassi di visualizzazione, non nascono di colpo. La loro stilizzazione è di antica data. Pertanto il distacco con la civiltà minoica di Creta non potrebbe, in questo caso, apparire più grande. Comunque, se vi erano delle pitture da trasportare in museo, erano proprio queste, intanto ritrovate in frammenti a vari livelli dello scavo, e non come le altre ancora aderenti alle muraglie. Per queste c’è esposto, al Museo di Atene, un piccolissimo campione, prelevato anche col mattone crudo su cui era stato steso l’intonaco, anche questo con una tecnica inattesa: si penserebbe a quegli impasti di calce e paglia che, in Medio Oriente, si ritrovano da una remota antichità. Invece, sul mattone crudo, c’è un alto strato, come un arriccio, di un materiale che sembra creta, ma creta, almeno soltanto creta, non può essere, perché si sarebbe crettato e invece i cretti di questi murali sono unicamente dovuti allo sconquasso del terremoto. Sopra a un tale canapè era steso un intonaco di neppure un millimetro e mezzo, intonaco di calce, evidentemente, liscio come un guscio d’uovo.

La pittura si trova là sopra, con questi colori ora teneri ora violenti, che non hanno niente in comune con quelli del palazzo di Knosós. Un uso molto particolare era la decorazione degli sguanci delle finestre, con finti marmi d’un gusto così stilizzato che non ne conosco di simili che in epoca bizantina. C’erano anche vasi con gigli, e questi gigli non sono meno stilizzati, elegantissimi, dei finti marmi alabastrini. Per i gigli, Marinatos li volle addirittura rintracciare in quelli che fioriscono sulle spiagge, ancora, di Santorino. Azzardo tipico di archeologo, perché niente è meno naturalistico di quei gigli, così da poterli ritrovare in una matrice identificabile con la terminologia di Linneo. Tutto fa pensare a un ambito naturale completamente sommosso e scomparso, come quelle scimmie azzurrine dalle lunghissime code d’una eleganza quasi liberty, scimmie che decorano un’intera stanza: ahimè quella almeno fosse rimasta sul posto! In un affresco che è descritto in una guida, ma non risulta fra quelli esposti ad Atene, una scimmia starebbe di fronte a un altare minoico con le corna di toro; dunque un animale sacro. E sacerdotessa è interpretata una donna che reca un’offerta.

È a tutta figura, e con un abbigliamento che non ricorda affatto quelli della famosa statuetta eburnea di Knosós con la sottana a gale e i seni interamente scoperti. Questa è tutta vestita, drappeggiante in un mantello: il suo profilo si direbbe semitico, ricordando la Caldea, con quel naso carnoso, e posta l’esterofilia di questi abitanti di Santorino, che la battaglia dei negri testimonia. C’è poi un’altra decorazione straordinaria, che poeticamente Marinatos chiamò festa della primavera: si sussegue senza interruzione, come quella delle scimmie, lungo tre pareti, e mostra una serie di rocce fantasiose, dal profilo falcato, che è quasi gotico, coronate da quei famosi gigli che si è detto, mentre meravigliose rondini, dalla livrea bianca e nera, con le lunghissime code forcute svolazzano qua e là.

Tuttavia la rappresentazione più affascinante è quella di un giovane pescatorello nudo con due mazzi di pesci azzurri, sgombri o maccherelli che siano. Perché qui contrariamente ai vasi di Knosós, il naturalismo dei polpi, che a Creta è quasi ripugnante, non si ripete. La tenuta stilistica è sobria, severa quasi, e si mira molto più all’eleganza della figurazione, al ritmo insistito come di greca, che alla rappresentazione allusiva. Questa differenza è notevole anche nei vasi che, se ripetono forme e motivi cretesi, li ripetono con una sobrietà diversa che non dipende da una tradizione divenuta provinciale. Tutto fa pensare che uscite da una stessa radice, Creta e Santorino, si sono sviluppate indipendentemente, con ricerche stilistiche – non si può dire in modo diverso – assai diverse. Del resto si è già detto che i costumi non coincidono: e neppure il tipo fisico.

Per quanto sia da riprovare la pretesa di estrarre una razza umana dalla pittura o dalla scultura (fra il VI e il V secolo ci fu una razza diversa a sovrapporsi in Attica?), il tipo idoleggiato a Creta, ad esempio gli efebi dalla vita di vespa, con un anello intorno alla vita, è assai diverso da quello di Santorino. Appartenga pure a un topos antico della virilità, di rappresentare il corpo degli uomini rossiccio, bianco quello delle donne, il pescatorello di Santorino, come i due fanciulli che fanno alla boxe (e con un guanto nella destra!) restituiscono un tipo che si direbbe berbero e, farneticando, di quella razza mediterranea, preindoeuropea, a cui dovettero appartenere, o così si suppone, i popoli rivieraschi tanto dell’Africa mediterranea che in Sardegna, in Provenza, in Sicilia. Le membra di questi adolescenti sono lunghe e morbide, per nulla atletiche: i piedi sottili, la vita bassa, i capelli d’un nero quasi azzurro, a meno che non siano nastri azzurri quelli che svolazzano sul capo del pescatorello. È una lamina, senza ombre, senza chiaroscuro, a cui l’occhio frontale anche di profilo, come in tutta l’arte antichissima, dai sumeri agli egiziani, conferisce un maggiore appiattimento; eppure che intensità in questa sagoma che si equilibra fra i due mazzi di pesci; che varietà di contorni, che delicatezza di ritmo. È al limite della sigla, come in una greca, e invece trattiene ancora un guizzo di vitalità carpita all’esistenza, racchiusa nella linea di contorno come un liquido dentro un’ampolla. E liquidi sono questi colori, teneri, quasi profumati. Il fondo avorio fa da trasparente: la pagina è come una grande pergamena.


* “Corriere della Sera”, 21 agosto 1975.

 

I GIOVANOTTI DI BRONZO
VENUTI DAL MARE
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Questi due splendidi bronzi da Capo Riace, nella costa ionica della Calabria, già esposti al Museo Archeologico dell’Etruria a Firenze, e destinati, com’è ovvio, al Museo Archeologico di Reggio Calabria, rappresentano la più felice ventura del maltrattato patrimonio artistico italiano, acquisizione somma, che pone, per gli originali bronzi greci – e si noti, del V secolo avanti Cristo, – il Museo di Reggio non solo alla pari ma al di sopra del Museo Nazionale di Atene. Congiuntura felice, che le proporzioni dei bronzi – sono due figure virili stanti di circa due metri – posero, le statue stesse, nelle condizioni di un difficile recupero in fondo al mare: e anche onestà del subacqueo che li scoperse, sollecitudine del soprintendente Foti che curò il reperto.

Il restauro di questi inaspettati capolavori ha impiegato diversi anni, dal 1972, ed è stato compiuto a Firenze presso quella Soprintendenza archeologica: una vasta documentazione fotografica, minuziose didascalie accertano la cura che è stata messa nel restauro, e che richiese particolari accorgimenti, per togliere cause permanenti di alterazioni, provocate dall’immersione plurisecolare in acqua marina, dalle incrostazioni di molluschi e alghe, dall’azione congiunta di sali clorurati e solforosi. Ma il risultato è stato splendido, e se può parere un po’ troppo scura la patina dei bronzi stessi, è accertato che tale patina è naturale, nel senso che si deve alla solforazione subita per la congiunta azione dei molluschi e dei sali marini! Un mistero è rappresentato dal fatto che sono due statue di giovani nudi con scudo (ora perduto) e lancia, l’uno con l’elmo, l’altro con la chioma libera, tutti e due baffuti, barbuti, ma non destinati a fare gruppo, né solo perché chiaramente di mano diversa, anche se sicuramente attici e alle soglie di Fidia. Non dunque una versione dei tirannicidi; così isolati, possono essere qualsiasi eroe o demiurgo, ma non dei vincitori di giochi olimpici ad esempio. Gli archeologi ne sono così conquisi quasi da non emettere verbo.

Ma tre si sono espressi: per Werner Fuchs proverrebbero dal Donario che gli ateniesi offrirono a Delfi dopo la battaglia di Maratona, e dovrebbero appartenere a Fidia. Una stessa opinione è professata da Giuliano, il migliore allievo di Bianchi Bandinelli, che li daterebbe fra il 460 e il 450 a.C. Per lui o sono di Onatas, lo scultore di Egina, che lavorò anche a Delfi, o di Fidia. Il Donario era composto da tredici figure: perché non controllare a Delfi con un calco dei piedi dei due guerrieri, se corrispondono alla base? Ma vien fatto subito di chiedersi: perché in otto anni un controllo del genere non è già stato fatto? E che ci fa la nostra Scuola archeologica di Atene se, di fronte a questa spettacolare scoperta, non prende una iniziativa del genere? Le solite gelosie di mestiere, per cui questi due capolavori sono ancora inediti, e sono stati esposti quasi di sotterfugio senza nessuna pubblicità, neppure con un adeguato manifesto, dato che, l’unico che c’era, recava un disegno al tratto?

Ma per Enrico Paribeni le cose non stanno allo stesso modo: secondo Paribeni le statue non sono coeve: quella con l’elmo sarebbe del V secolo, ma l’altra potrebbe cadere all’inizio del IV. Paribeni poi non è d’accordo sul nome di Fidia né per l’una né ovviamente per l’altra.

Tutto questo è appena un’informazione succinta, ma che almeno va integrata con la notizia dello stato di conservazione straordinario; perfino si sono salvate le ciglia, riportate in rame, le dita, le ciocche dei capelli, i baffi e la barba; manca solo un’iride d’avorio: per il resto è come fossero usciti ora dalle mani del fonditore di bronzo.

La plastica di quello con l’elmo procede per larghi piani, ma non così scandita come anche nelle migliori copie romane del Doriforo, dove il copista ha tenuto ad accentuare le masse robuste del corpo, volutamente tracagnotto. Il giovane guerriero di Riace è più svelto, sempre meravigliosamente proporzionato al quadrato, ma non così quadrato come il Doriforo. La sua muscolatura precede per gradi come per terrazze. Da qualsiasi punto si guardi, la statua gira come se fosse stata pensata da angoli visuali diversi. È frontale, certo, ma nulla resta della frontalità arcaica, che ancora sta dietro alle statue di Olimpia, di pochissimo anteriori. Nel suo snodarsi nello spazio, questa divinissima scultura, gira come incardinata su se stessa, compone, come se ognuna di queste visuali parziali fosse la principale, una meravigliosa ubiquità, ma formale, nello spazio, e in uno spazio che è il suo, non quello dello spettatore.

Viene allora da pensare che evento sarebbe stato per il Rinascimento fiorentino se una di queste statue fosse stata accessibile, quando l’Idolino e lo Spinario già fecero così impressione. Certo, anche Donatello, nello stupendo David del Bargello, costruisce una figura che non ha un solo punto di vista e gira nello spazio, ma come un parallelepipedo, per facce, quasi come una statua egiziana. Il che non è certo un difetto, ma solo una particolare struttura. Per arrivare a questa circolarità di visione, che sarà anche del David di Michelangelo, occorre appunto arrivare al David: tutto un secolo di scultura e di grande scultura era trascorso. Orbene, in questa statua policletea da Capo Riace c’è tale avvolgimento spaziale, per cui si movimenta il solido geometrico che viene ad aprirsi circolarmente.

Né discorso diverso si deve tenere, spazialmente parlando, per l’altro splendido nudo che io ipoteticamente avvicino ad Alcamene, appena un po’ dopo le soglie di Fidia: e sebbene la testa dell’Atena Lemnia di Bologna non sia certo un originale di Fidia – una certa freddezza ghiaccia quei tratti sublimi – un vago presentimento di tale augusta venustà si prova al cospetto di questa testa morbida dalla incredibile sottile ricchezza pilifera, barba, baffi, capelli; il tutto onusto come uva matura.

La plastica di questo secondo nudo è duttile come di cera, come la cera perduta che stette alla base del bronzo: ma nel senso che già presente Prassitele, assai più di quel che anticipi o concordi con gli efebi fidiaci, in cui la struttura anatomica procede per scatti meravigliosamente adombrati. E basterebbe pensare, non solo ai nudi dei frontoni del Partenone, ma alle metope, al grande fregio: se in quei nudi è da vedere il riflesso diretto, se non la mano stessa, di Fidia, è chiaro come si sia qui a un livello diverso, né solo in senso qualitativo, rispetto a questo nudo, dove i trapassi plastici non hanno senso dinamico, che è quello invece che sottofonda la plastica, che pure è da fermo, dei grandi frontoni e del fregio. Nel bellissimo nudo di Riace i trapassi restano da fermo e non sono sottesi da una tensione dinamica. Con ciò resta sempre un’opera straordinaria, la cui acquisizione è incalcolabile.

Reggio diverrà d’ora in poi, per chi non viaggia con il solo piacere di correre per una autostrada, un punto di riferimento obbligato, e veramente una scelta. E se poi si aggiunge che già, quel museo, conteneva dei capolavori come l’Apollo di Cirò, anch’esso greco, le piastrelle fittili di Locri e i due Antonello da Messina, nonché tutto il restante corredo archeologico, mi domando quale grande tour potrà farne a meno, e quali rimpianti possa produrre il tralasciarlo, dove le coste odorano di bergamotto e la luce dei mari si congiunge a un arco nel cielo.


* “Corriere della Sera”, 2 marzo 1981.

 

IPOTESI PER I BRONZI
IN CERCA DI AUTORE
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Nel cosiddetto ritratto della Fornarina, firmato Raffaello, già conservato nella collezione Barberini e ora nella Galleria statale di Palazzo Barberini, la critica è sempre stata propensa a vedere un’opera raffaellesca piuttosto che un originale di Raffaello: ora Vico Cellini, restauratore e critico d’arte, crede addirittura di poterne spostare l’esecuzione a metà del secolo XVI. La cosa potrebbe essere anche possibile, ma naturalmente, come tutte le opinioni anche rispettabili, resta un’opinione, che avvalora la qualità assai scarsa del troppo famoso dipinto, che la romanzesca identificazione con la famosa amante di Raffaello fece già scegliere imprudentemente alla commissione incaricata di eleggere i quadri che dovevano restare allo Stato, dopo la vergognosa remissione all’inalienabilità che il fascismo aveva concesso alla Galleria fidecommissaria della famiglia Barberini.

La cosa quasi incomprensibile è che alla commissione, il cui verdetto già allora fece scandalo, apparteneva anche un esperto di grande valore e onestà come il conte Gamba. Ebbene, furono lasciati andare all’estero un Dürer fa moso e firmato, ora alla Thyssen di Lugano, la Santa Caterina del Caravaggio, pure a Lugano, le famose due tavole pierfrancescane ora in America. Tanto per dire solo delle cose più importanti e di cui ancora si piange la perdita, mentre furono ritenute basilari per la città di Roma la cosiddetta Fornarina e la cosiddetta Fornarina Cenci, allora attribuita a Guido Reni.

Né è da credere che veramente il conte Gamba fosse convinto che fosse di Raffaello stesso il quadro troppo noto, né del Reni il mediocrissimo ritrattino di quella donna col turbante, ma la fama di questi dipinti, ingiustamente considerati la parte inalienabile della bellissima collezione Barberini, ebbe aggio sulla qualità pittorica.

Della cosiddetta Fornarina è bene dire che di Raffaello ha solo il nome in lettere maiuscole, ma poco più del nome: perfino per Giulio Romano è di qualità troppo scarsa. Basterebbe considerare il particolare della mano sinistra che non “scorcia”, cosa imperdonabile non dico di Raffaello, supremo disegnatore, ma anche di Giulio Romano.

Un’altra attribuzione avanzata e contrastata fin da principio è quella relativa ai due famosi Bronzi di Riace, che il dottor Fuchs, un archeologo serissimo e degno di stima, collegò fin dal principio al nome di Fidia e alla testimonianza di Pausania, che vide tredici statue di bronzo a Delfi, modellate da Fidia e regalate dagli Ateniesi come Donario di Maratona.

Che lo stile dei due Bronzi sia fidiaco, anche se di Fidia non resta neppure una statua ma solo quelle che, sotto la sua direzione, furono scolpite per il Partenone, è facile concederlo. D’altronde, fin dal ritrovamento dei due splendidi Bronzi si fece osservare che statue di quelle dimensioni, e per di più di un costoso materiale bronzeo, non erano come le copie in marmo che si facevano dei capolavori greci, e che è molto probabile provenissero da un luogo pubblico. L’idea del Donario di Delfi calzava a pennello. Ma fu osservato che tredici statue di quelle dimensioni sul basamento del Donario di Delfi, che si sa dove si trovava, erano troppe, e che difficilmente la provenienza poteva essere da Delfi.

Ora, a un congresso di alta archeologia che si è svolto ad Atene, due nuove ipotesi sono state avanzate, sempre da studiosi degnissimi: e cioè, con la prima i Bronzi famosi verrebbero da Olimpia dove un monumento, del genere del Donario di Delfi, è pure attestato da Pausania, secondo l’altra invece la provenienza è dell’Agora di Atene, dove fu innalzato un monumento agli eroi eponimi e gli autori sarebbero dell’una statua Mirone, dell’altra Alcamene: famosi scultori greci pressappoco del tempo di Fidia.

Ora, fin dal principio ci fu, da parte di vari studiosi, la proposta di riconoscere due autori diversi per i due Bronzi, per quanto sia difficile, in area fidiaca, fare delle attribuzioni personali. Per i famosi marmi del Partenone, anche a volere ammettere che ci sia da riconoscere la mano di Fidia almeno in parte dei frontoni, è poi impossibile fare qualcosa di più che stabilire dei gruppi di rilievi affini, per le metope e per il fregio, senza pretendere di avanzare nomi, tutti non meno labili, dal punto di vista di riferimenti puntuali e di stile, di quello di Fidia.

Così, sia di Mirone che di Alcamene non possediamo che copie romane, che differiscono, dal punto di vista stilistico, assai assai l’una dall’altra. Ma queste ipotesi avanzate sui due splendidi Bronzi sono assai versatili e intanto coincidono nell’importanza somma dei due originali e fanno dei nomi di estremo rilievo e di estremo onore. Con ciò si mette bene in evidenza quel che si può chiedere alle attribuzioni e quello che invece va lasciato in sospeso. Un’attribuzione è un’opinione, non un dato storico, se non nel fatto che viene emessa in un certo tempo e da una determinata persona. Certo, nel caso dei Bronzi di Riace, è molto difficile che possano darsi prove consistenti della loro provenienza.

Si diceva che nel Donario che egualmente stava nell’Acropoli di Atene, simile a quello di Delfi, era sopravvissuto un pezzo di marmo del basamento, con almeno un foro per l’applicazione di una statua. Ma la riprova del calco del piede dei Bronzi di Riace è stata fatta? Non credo proprio. Intanto sia ben chiaro che questa alternanza di opinioni non diminuisce affatto l’incalcolabile importanza dei due Bronzi ormai celeberrimi, che il pubblico farà bene ad andare a visitare al Museo di Reggio. Intanto, niente di più bello, a mio avviso, esiste al mondo; mentre la Fornarina è opera modesta e anche sgradevole, per quell’aria losca della donna che assomiglia molto alla lontana alle immagini, davvero di Raffaello, delle varie Madonne, da quella di Dresda a quella di Seggiola. Alla fine, nell’ambito dei seguaci di Raffaello, può diguazzare senza scandalo.


* “Corriere della Sera”, 12 settembre 1983.