Cum tantum arderem quantum Trinacria rupes.
Catullo, LXVIII, 52
Fra i miei ricordi più lontani e in bilico, come quei ruderi a picco sul mare, lì lì per cadere alla prossima mareggiata, c’è Tripoli, bel suol d’amore. Un nostro contadino era soldato, e ci restò, là, per dieci anni. Io giocavo in giardino, con mio fratello e due bambini di campagna. Tripoli, bel suol d’amore.
Così questo viaggio mi turbava, come a rimescolare, in un passato senza presente, in un cassetto dove si conservano, senza avere il coraggio di buttarli, i ricordi della prima Comunione, il nastro della Cresima, i certificati delle elementari. Tripoli, bel suol d’amore. Rivedo la mamma, giovane come una ragazzina; risento come una fitta il terribile fascino che queste parole, patria, vittoria, hanno sempre esercitato su di me, e su di me fanciullo anche più d’ora. Sicché è forse una propaggine di quella d’allora, l’emozione, la mestizia, innegabile devo dire, che questo viaggio in un continente dove non sono mai stato – se non per essere appiedato una notte ad Algeri – procura ora in me. Così inguaribilmente lo stesso, a onta dei miei capelli grigi. Tripoli, bel suol d’amore. Ero in giardino, come lo ricordo, e si giocava fra i bambù che sono morti, e nel bersò che c’è ancora, sotto il lauro.
Eppoi l’indubitabile angustia della città coloniale, in cui tutto è sbagliato, tutto falso, con l’architettura di Brasini, la spocchia dei vialoni di palme, lo stile arabico fasullo: prima di arrivarci lo sento il colpo proibito, all’inguine più che al fegato.
Intanto, questo viaggio al sole è cominciato col freddo, col mare mosso, come fosse marzo invece che maggio: e su una navicella decrepita, veramente del tempo di Tripoli, bel suol d’amore.
Ma poi le cose si sono aggiustate. Non certo a Messina, dove vedo per la prima volta gli esecrabili piloni dell’alta tensione. Trabiccoli giganteschi e gretti, provvisori e friabili nella vastità del mare e sulle coste tonde e compatte come pani di creta. Tralicci sgarbati, a balze bianche e rosse. Quando ci sarà anche il ponte, l’inutile ponte, il costosissimo ponte, questo ingresso mitico e grandioso, con la Calabria alpestre, e la Sicilia come un cane accucciato, un cane di pelo corto, sarà ridotto alla volgarità della Golden Gate di San Francisco. E per queste operazioni voluttuarie: traforo del Monte Bianco, autostrada del Sole, ponte fra la Calabria e la Sicilia, i miliardi si sprecano.
Le nuvole si erano talmente ammassate verso l’Aspromonte, che pareva uno sgombero del cielo, e che qualcuno dovesse caricarle e portarsele via. Le coste della Sicilia erano verdi, pruriginose, e sulla città di Messina arrivava il sole che non era sullo stretto, e lì al sole la città stesa come si stirasse.
Poi venne l’Etna, zebrata di neve, con dei fumacchi che si sbagliavano per nuvole, e Taormina che dal mare non dice nulla. Questa costa superba, che da terra è senza uguali, dal mare sembra una costa montuosa e spelata con qualche macchia di verde, come voglie di bile. Non l’avevo mai vista dal mare, e ne rimasi sorpreso. La bellezza era più che altro nelle ombre delle nuvole, che passavano veloci, e a singulti lasciavano cadere come delle macchie d’olio che ingigantivano i colori, fino a portarli all’evidenza di una fossa scoperchiata. Poi le scabre montagne si riassettavano come quando si stende sui fichi, messi ad asciugare al sole, un velo per le mosche. Così, dal mare, la più straordinaria costa del mondo, dopo quella amalfitana. Ma la terra è terra, va presa con il possesso diretto, con la pianta del piede che sposa la pianta della terra, e allora l’occhio si trova al punto giusto, vede i colori giusti. Quel mare diviene, da terra, viscoso come il raso, a due tinte come col dritto e il rovescio, da buttarcisi sopra e non mollare più. Invece, dal mare, è come un altro mare, azzurro fondo, ma non di raso.
Doveva essere l’arrivo a Siracusa a ricondurre l’ordine nel viaggio. Vista dal mare, è codesta città protesa come una zattera, galleggia, con le sue facciatine appena dorate, la roccia appena sopraelevata sul pelo dell’acqua, così simile e così diversa da Brindisi. Diversa perché, sebbene il colore sia quasi lo stesso e il verde cupo, quasi restio, del Sud non differisca, si apre, Siracusa, come quando s’allenta la stretta di due braccia, e a Brindisi, invece, quelle braccia si stringono.
Il porto era deserto, sembrava d’entrare nel bacino gentile di una fontana, non in un porto: e con la nave s’arrivò fino in fondo; si scese dalla nave come dalla porta di casa, senza barcarizzo, ponendo il piede sulla banchina lastricata di sole.
C’era tanta gente, in città, bella come il sereno dopo la pioggia: con gli occhi neri e umidi, le labbra lilla, e la pelle scura, appunto come la terra bagnata.
Avrei visto Castello Eurialo.
Via via che l’automobile saliva, io provavo il senso di quando ci si comincia a staccare da terra con l’aereo, che basta il primo salto delle ruote perché non si sia ancora in aria, e non si sia più in terra. Qui il salto poteva parere rispetto alle case della città, che, appena lasciate, era una roccia bellissima a venir fuori, traforata di colombari e di caverne, ma anche traforata d’aria e di luce e scritta due volte dal tempo come un’epigrafe consunta. Era terrestre, ma subito così remota da non parere più terrestre, quella roccia, e questo dava lo scatto repentino come in un altro tempo, appunto come con l’aereo si fa il salto in un altro elemento, e non è più la stessa cosa, allora, che se uno sta alla medesima altezza, ma coi piedi sulla terra. Il tempo, in cui sentivo di progredire, non era mitico, ma come il ricupero di un modo di essere eterno dello spirito, o come un andante rispetto a un allegro, che siamo sempre dentro la musica, ma per ogni tempo in una temperie diversa, in un strato che combacia senza identificarsi col nostro tempo. In codesto tempo remoto e tuttavia pertinente io salivo, ma come se a poco a poco lo ricuperassi in me stesso. Una foresta di mandorli verdissimi e fittissimi si assiepò ai lati della strada, e, per essere fitti, non riuscivano tuttavia a sopprimere i raggi di luce leggera come perennemente mattutina, sotto a quelle foglie. Anche se non ci fosse stato niente altro da vedere, bastava quella strada. E poi i mandorli finirono, il terreno essudò la pietra, e sul margine del costone apparve una lunga assise irregolare di regolarissime pietre squadrate, le quali subito parlarono greco e si dissero la cinta grande del Castello. Finché si passò dalla porta, superstite appena nelle due spalle, e ritrovati i mandorli, aumentati i fiori, svoltata la strada, apparvero le rovine, lì per lì neppure grandiose, del Castello Eurialo.
Spesso è così delle rovine greche, che acquistano solo da vicino le proporzioni, e da lontano, anche ciclopiche, non lo sembrano. Se invece le rovine romane non fossero sempre dei ruderi immensi, che non riescono a estinguersi, anche ridotte a tronconi, ma col senso irrecusabile del potere terreno. Anche Castello Eurialo era un atto di forza di un tiranno greco, e permanente, ma perfino da poco lontano sembra ridotto a una spanna, e quelle pietre squadrate e non cementate si sono sgranate irremissibilmente a terra, come materiale intonso da impiegare ora per la prima volta. Cadute a terra, le divine pietre, tagliate precise come diamanti, non ritroveranno mai più il loro posto. Guai a tentarlo: sarebbe un modo di profanare ancor più che falsare.
Ma le costruzioni romane erano fatte di mattoni, legati da una malta ferrea e, per quanto rosicate, riescono sempre a farsi sentire in opera, disperatamente al loro posto, come sentinelle cadute senza arrendersi; e questo non le riduce mai sperdute nella notte della memoria, incapaci a riprendere la quota primitiva e il rango eccelso, come è dei meravigliosi conci greci, subito adespoti, una volta staccati dall’idea. Sulla grandezza reale delle rovine di Castello Eurialo dovevo per altro ricredermi subito; e il primo fossato non lascia in dubbio. Già questi fossati o latomie, tagliati come enormi loculi per giganti, e scoperchiati così che mai il cielo appare più membranaceo e teso, che visto di laggiù in fondo, e se passa un uccello sembra che sia entrato da uno strappo; questi fossi di roccia, che al fondo custodiscono piante gentili e indifese, piante di pace, come aranci e mandarini, ma così carichi di odore che sembra facciano luce, questi spacchi grandi come il taglio di un istmo, per cui si cala nell’ombra come fosse il piano interrato della casa della luce; rendono il passato rispetto al presente, sembra di viverci a ritroso: e di doverne uscire senza voltarsi indietro. Castello Eurialo non è sopra terra, è sotto terra, in uno di questi fossi prodigiosi.
Dal fossato immane si parte un condotto sotterraneo, e torno torno un passaggio coperto, scavato anch’esso nella roccia, con feritoie grandi come cappelle, ariose come finestroni. Il silenzio, là dentro, cresce come un’alta marea.
Poi si risale, e fra le pietre perfette ma orfane, circondate di fiori gremiti come pulcini sotto la chioccia, si arriva fino in fondo, dove c’è uno sprone, quasi un rostro puntato verso l’aria aperta, più che verso il mare. E c’è anche il mare, all’orizzonte, ma in primo luogo è l’aria, tanto limpida e lustra, come vista attraverso lo spessore d’una lente. L’Anapo è a destra, ma chi lo vede, soffocato di piante intense, corpose, fitte come fossero un foraggio, e sono agrumi dalla chioma di verde antico, a capo tondo, a capo scoperto, lanoso. E sono spalliere alte di cipressi o di pioppi, e improvvisi languidi sciaveri di verde, come la gonna buttata là dalla ragazza, e lei è nuda sotto le foglie, rabbrividente e beata. Né il mare è lontano, azzurro tiepido, senz’alito.
Per questo io so che non c’è bestemmia pari al cementificio che sorge in fondo a sinistra, enorme, impossibile a nascondersi, come il peccato davanti all’occhio di Dio.
In quel momento si vorrebbe essere Polifemo e scagliare un masso grande come l’Etna; in quel momento l’odio è un sentimento tenero e caritatevole: filiale.
Age, si qua est animus, est an non licentia?
Fedro, Lupus ad canem
Malta l’avevo vista dall’alto, la conoscevo dall’alto, in primavera, toppata, come un quadro astratto, dalle pezze verdi di piccoli prati tigliosi, degni dei cammelli che ci allevava Federigo II. Ad arrivarci dal mare riprende il suo nome, che è miele, nel colore di miele svanito delle coste e delle case fatte con la stessa pietra di quelle rocce. Il mare la circonda d’inchiostro azzurro, appena più trasparente, ma cupo, grave: sotto il cielo secco come la volta d’un forno. Sgraziatamente tirava un ventaccio gelido, quasi si fosse trattato di una dispettosa lite fra gli elementi. Sicché faceva fresco, quasi freddo, pareva impossibile, di maggio, a un passo dall’Africa in quell’isola di pietra. La nave si fermava per tanto tempo, occorse scendere, anche se io non avevo nessuna voglia di rivedere la graziosissima città che vive di contraddizioni. Sembra sicula ed è inglese; la gente passeggia, vestita all’italiana, i giovani soprattutto sembrano italiani, di Pachino o di Modica, e non capiscono una parola d’italiano. Ma irremissibilmente portano le stesse scarpe, hanno gli stessi capelli, e quegli occhi neri e pelosi, come mosconi. Sono mosconi posati su pelli grasse e nerastre, e succhiano voluttuosamente il bianco dell’occhio: ma quelli non li scacciano con la mano, anzi li portano, i due neri mosconi, come l’onore del loro volto corvino, del corpicciolo macilento con le scarpe a punta… dopodiché parlano una lingua africana, incomprensibile.
L’isola del resto è tutta così: una roccaforte che un’atomica farebbe scomparire in fretta e furia come un atollo: un possedimento inglese che fa finta di voler farsi “integrare” all’Inghilterra, ma per lucro, che dell’Inghilterra non si fida; e l’Inghilterra del resto non fa entrare quei degni sudditi, nonché a Westminster, neanche nel Circolo dove si reca il signor Governatore. Capperi, o non sono nativi? O non sono di pelle scura? O non parlano un dialetto magrebino, magari aggravato da trecento parole italiane? Come pretendono di diventare inglesi? Codesta gente, l’Inghilterra l’impicca; così fa a Cipro. E così Cipro fa all’Inghilterra.
Intanto, era domenica, la gente strascicava le scarpe per le strade: e andava in chiesa. Quanto vada in chiesa la gente a Malta, è incredibile per chi viene da Roma, dove non ci va nessuno, e i preti meno di tutti. Qui vanno in chiesa, e gli uomini mica solo le donne, la mattina prima dell’ufficio, il pomeriggio per assicurarsi una santa digestione, la sera per un prolifero sonno: e pregano, genuflessi, col fazzoletto o il giornale sotto le ginocchia, e le mani aperte, a libro, perché ci caschi dentro la grazia. Fa una tenerezza, che verrebbe voglia di battergli la testa in terra, per farli morire d’un colpo, tutti in grazia di Dio: un paradiso solo di maltesi, con gli inglesi che gli puliscono le scarpe a punta…
Avrei voluto rivedere, nelle chiese della periferia, le donne con la faldetta, che mi commuove sempre: sembrano uscite da un quadro di Pietro Longhi, e belle, perfino belle sembrano, sotto l’ombra volante di quel tettino nero. Fu così che mi decisi a ritornare alla Notabile. È la città vecchia, quella che con nome arabo si chiama Mdina, Medina, la città. I bastioni la racchiudevano come le murate di una nave: si entra, e l’ineffabile ricordo delle città vecchie della Puglia, Giovinazzo, Bisceglie, si ripresenta con la nettezza dell’allucinazione. Come in un’altra vita, ci siamo già stati in quelle strade tortuose e strette, fra mura lisce come cataratte, quasi senza finestre, e luminose, attraversate da una luce bianca che sa talmente di giorno da parere artificiale. I ricordi che mi si rianimavano, andavano oltre al ricordo: mi sentivo veramente in un tempo più antico di me stesso. E qui, dove il silenzio è clausura, da sotto i nuovi nomi inglesi delle strade, la città balbettava i suoi nomi veri, italiani, che gli inglesi, come già gli jugoslavi della Dalmazia, hanno tolto, cancellato, sostituito. Quasi che si potesse, senza distruggere tutto l’abitato, impedire a quella colonnina stretta come il mignolo di evocare Siracusa o Sciacca, o a Mattia Preti, al Caravaggio, al Cassar, al Gafà, all’Ittar di parlare la stessa lingua che a Roma o a Taverna o a Catania. Quant’aurea saggezza in questo insulto alla storia, in questa damnatio memoriae che viene data all’Italia in un lembo d’Italia, se è vero come è vero che da quando Ruggero liberò Malta in una con la Sicilia, Malta non se ne partì neppure con l’Ordine Sovrano a cui fu demandata, e perfino la giustizia veniva resa in italiano. Non mi rimaneva che la dolcezza residua del silenzio. Abbandonata come una città in festa che si riversa al mare e in montagna, sedeva la Notabile: ma non derelitta come una città inglese allo weekend: ferma sul modico colle come l’Arca sul Monte Ararat, digradano le pendici fino al mare. La rete dei muri a secco, vista di lassù, non così a perpendicolo come quando si osserva dall’aereo, sembra veramente stringere l’isola in una sciabica, fa pensare a cose lontanissime, agli avanzi di una città preistorica o protostorica distrutta. E non per suggestione delle straordinarie reliquie neolitiche dell’isola. Pensavo a Càmiro, a Trianda, ai muretti delle case ittite o micenee, ancora più che alle macère sicule o pugliesi. Salgono e scendono, i muretti, con un po’ di verde dentro, di grano, di sulla, che non era più rossa come una carne cruda. Il mare scopre la porpora: alla linea d’orizzonte s’appanna.
“Se è bello si vede l’Etna.” Sono gli spalti in fondo alla Notabile, e nella pietra è segnata, incisa, la direzione eterna, con il temperino.
Tornai a La Valletta, ancora in tempo per rivedere nelle Chiese qualche Mattia Preti: il grande Caravaggio l’avevo lasciato a Roma, presso di me, all’Istituto del Restauro. Ma il fascino di Mattia Preti, a Malta, è ineguagliabile. Più ancora del Tintoretto a Venezia.
Lasciavo l’isola, come sempre, contagiato dagli argenti di Mattia Preti: mi sentivo quelle luci impareggiabili addosso, come l’olio che ci si dà contro il sole, e sono invece olio di luna che il grande e fracassone pittore stendeva su tutto, come si spennella la chiara d’uovo sulle schiacciate di Pasqua. E incontrai una Banda inglese. In calzoncini, in calzettoni, con pifferi, bandiere e non so che Duchessa in giro di prime pietre. Dopo il silenzio della Notabile, le note lamentose della banda facevano come un altro silenzio: quello che evoca le ninna-nanne per addormentare i ragazzi. Ragazzi sembrano essi stessi, quei soldati, così inguaribilmente rosei e quasi albini: guardandoli, nessuno, via, poteva credere sul serio all’integrazione…
Finalmente si ripartiva per l’Africa e la nave usciva con quella pacata lentezza che è sempre un complice addio, un indugio nel saluto.
Il mare era diventato come un panno, come quando si stende un lenzuolo sull’erba ad asciugare, che appena c’è qua e là un cespo più alto che gli fa fare una gobba. Così stava fermo, e tagliato dalla prua si scostava sbavando a malincuore, quasi senza fruscio. E quando venne la notte, si trovarono insieme la luna a falce e Venere: facevano un bel chiarore sul mare, ciascuna per conto suo, come se l’una fingesse di non sapere dell’altra. E non avevo mai visto due strascichi di luce così vicini e paralleli, come rotaie luminose. Fu quello il primo accenno alla Libia: nella sua bandiera, che sembra un oroscopo, di Stato messo insieme così in fretta da non potere aspettare la luna piena, la luna a fauci aperte sta per mangiarsi la stella.
O nox mihi candida!
Properzio, II, 15
A questo arrivo mi ero preparato con l’attesa, come a un esame. Un continente nuovo, è un’eredità inaspettata, che ti viene dal di fuori, non è maturata con te. E appena si cominciò a vedere all’orizzonte, sembrò una linea più spessa di nebbia: e c’erano le nuvole, maledizione. Le nuvole quasi d’estate, anche in Africa.
Il comandante cominciò a scorgere sul ponte, e prima del credibile, il campanile della Cattedrale di Tripoli: anche ad avere gli occhi di lince, bisognava saperlo. E lui lo sapeva, infatti, con quanto tempo è che fa questa rotta sulla sua nave antichissima e bonacciona.
Nessuno s’immagini, anche avvicinandosi, qualcosa che ripaghi del continente che si lascia per quello che si trova: semplicemente non si vede, è una soglia consunta. Forse per questo Scipione ebbe a inciamparci, quando scese: non se ne accorse.
Avviciniamoci ancora, ed ecco i primi agitati flabelli delle palme, in riva al mare, che poi sono palme d’ornamento, come da noi. Le palme, e i soliti cubi bianchi, di tipo arabo, ma fasulli anche a un miglio di distanza. E neppure i minareti si vedono: i minareti, li ho recuperati dopo, sono tozzi come gli sparagi bianchi, e bianchi fino in punta come quelli. Non gli riesce a uscire dalle case, come se quel tenero germoglio, una capra via via lo brucasse, appena mettono la punta fuori.
Insomma era Tripoli, esattamente come l’avevo immaginata, in un solitario della fantasia, con lo sfarzo del lungomare, le costruzioni fasciste di Brasini e di Di Fausto, un non so che di instabile, lussuoso e fittizio come una Fiera d’oltremare o del Levante, da dover levare le tende da un momento all’altro e chiudere bottega fino all’anno prossimo. E invece le tende si sono levate noi, e ora ci stiamo con un piede in una scarpa e uno in una ciabatta.
Nell’attesa del passaporto le nuvole si diradarono e un’aria fresca, agile, per nulla africana, ci faceva più lieve l’attesa. Ma il sole, per quanto splendido, con quell’aria in movimento toccava appena con un dito.
La città è pulita, forse la più pulita che io conosca, piena di fiori e silenziosa: gli arabi portano il barracano bianco, la papalina rossa (che si chiama tachía), i calzoni stretti che sembrano tutti con le scarpe troppo grandi. Lì per lì fanno color locale, quasi fossero di fazione all’arrivo del piroscafo, come i portieri degli alberghi: le donne guardano con un occhio solo. Così bene imbacuccate. Non c’è i gridi, non c’è le radio accese altissime, come in Turchia. Così mancano quelle strazianti melopee, vere caricature della musica, musica da masticare come la gomma, ma affliggenti come un meteorismo.
La ricerca dell’albergo si conclude presto: è in riva al mare e tanto basta. Perché stare al mare e non essere sul mare, è come trovarsi a due passi e non poter vedere la persona amata.
Mi sta davanti, mentre scrivo, la nitida linea azzurra, più alta dell’orizzonte, come una diga, ma d’acqua.
Sono stato subito nella città vecchia, che è assai piccola – Tripoli era un paesino quando ci sbarcarono gli italiani – ma per quanto ormai occidentalizzata, a parte i barracani, mantiene ancora l’intimità di ridotto, l’acciabattio, gli archi sulla strada, che fanno vedere quanto e quanto il mondo arabo avesse, nel Medio Evo, determinato l’Occidente.
Le Moschee sono modeste, nulla da fare con quelle, non dico di Costantinopoli, ma di Rodi stessa a cui Solimano il Magnifico legò edifici insigni. Però la Moschea di Gurgi non è per nulla spregevole. Certo, le sue mattonelle di tipo vagamente persiano non sono finissime, ma le volticine con stucchi garbati, e quel chiarore mite di cripta sopra terra, ne fanno un monumento minore di rustica grazia. È certo più interessante di quella, rinomata, dei Caramanli. E qui si può vedere, nel ristagno del mondo musulmano, dopo le prime sorprendenti ondate, come il contatto con Costantinopoli, e soprattutto con Santa Sofia, fosse riuscito a rivitalizzarlo, almeno per l’architettura. Dove l’eco di Santa Sofia (ripresa e variata, anche fraintesa, ma con un grandioso fraintendimento, da Sinan) non giunge, si perpetua quel tipo di costruzione, per le Moschee, che gli arabi tolsero dalle cisterne bizantine e che ha il suo capolavoro a Cordoba. Lentamente le auliche forme tornano dialettali: come quei corsi d’acqua che non riescono a giungere al mare, e s’insabbiano alla foce.
Ma c’è una stradetta che è tutta una fragranza inattesa, quella dei forni: e sono forni modestissimi, con un pane così croccante, tutto esposto in strada, come se invece di pagnotte, fossero meloni. Il pane col sesamo: e si ritrova a Palermo.
Il giro finisce all’Arco di Marco Aurelio che, a dispetto degli eventi vari, è discretamente conservato. La sua disgrazia è d’avere intorno quel tanto d’interrato, che sembra piuttosto un grosso sgabello che un arco. Ci avevano fatto un cinematografo, e questo, forse, ha finito per salvaguardarlo più di tutto il resto.
Con l’Arco di Marco Aurelio siamo di nuovo sul mare, e torna la città in cui ti senti in Italia, e scorgo un mare come in Sicilia, e forse più scuro; ma allora ci si avvede che il cielo, scendendo fino al mare non si sfuma, come fa da noi. Arriva giù, tutto d’un pezzo, con lo stesso azzurro, anche se non è un azzurro violento, anzi schiarito, come un panno di colore dopo lavato.
Ci sono ancora le carrozzelle, e speriamo non vengano mai soppresse, perché questo lungomare in carrozza, sotto le grandi palme e l’azzurro che ti sbalugina da una parte, diviene sedativo, lentamente appaga come un sonno da svegli. Non mi son mai sentito addosso tanta poca fretta. E allora ci si accorge che Tripoli è una città dolce, dove l’Italia ha versato a poco a poco se stessa, come l’olio in un lume. E ce n’ha versato tanto di quell’olio: ora, quello che ci versano gli americani e gli inglesi sarà petrolio e scatolette, ma è meno cordiale.
Per la prima volta, stasera, uscendo mi ha colpito la luna d’Africa. Era quasi a perpendicolo, e mai più musulmana di così: il mare riceveva non so che incidenza fatale di raggi, che d’improvviso fu chiaro trasparente e illuminato da sotto, mentre la luna era sopra. L’acqua così limpida da parer fatta di lacrime e il cielo che invece era sceso, sembrava più basso, forato di stelle come le cupole dei bagni turchi. Ma questo cielo ravvicinato diveniva metallo, era pietra dura, era – incredibile a dirsi – paurosamente osseo, volta cranica: lì dentro, mi sentivo come il mio cervello.
Fu un attimo, e tutto tornò a posto: caserma, albergo, poste e telegrafo. Ma io non dimenticherò d’essermi sentito per un attimo la terra, il cielo, in un blocco solo.
Amer savoir, celui qu’on tire du voyage!
Baudelaire, Les fleurs, CL.
Avrei visto le piantagioni, le oasi, il deserto: avrei visto i nuovi paesi simili a quelli dell’Agro pontino, nulla mi sarebbe stato risparmiato di questa storia malinconica, ancora in atto e struggente. Perché, anche a non essere mai stati in Libia, era il mio caso, la Libia è cresciuta su su con noi, ed è come una certa parentela che si sa che esiste anche se non ci si scrive da anni, neppure a Pasqua o a Natale. C’è, vive, prolifica e a un tratto bussa alla tua porta un ragazzone florido e ti dice: “Sono il figlio della Nina”. “Ma guarda: la Nina… che si sposò e andò a Tripoli…” Il ragazzone entra e si accomoda. È fatta: la colonia bisogna sorbirsela. Così arrivava per me questa rassegna a cose disfatte, e non ne avevo voglia. Ma neanche volevo stare in polemica: mi lasciai andare.
Finché siamo arrivati all’oasi di Zanzur. Un’oasi, era la prima che vedevo, ho capito cos’è. Ci sono le palme, fitte abbastanza come una pineta, tutte press’a poco della stessa altezza, e sotto non c’è niente, o appena, fra mezzo, degli ulivi quasi selvatici. Poi, di tanto in tanto, dei pozzi, e l’acqua la tira una vacca: proprio la tira, aggiogata come per l’aratro, andando all’ingiù; e arrivata al punto, l’otre che è salito si versa da sé, per via d’una fune: e si ricomincia da capo.
È ingegnoso, è mortificante, più antico di Noè: immemoriale, quasi come il gesto del bambino che nasce e sa poppare. Ma ci sono due vittime retrocesse al mito di Sisifo: la bestia e l’uomo che stimola la bestia. L’acqua è l’elemento filosofico e inerte che si lascia fare ma non fa nulla da sé: sta sotto le palme polverose, come sotto il letto. Perché le palme sono polverose, quasi grigie più che verdi. E quella è un’oasi.
Dopo venne una campagna, sudata dagli italiani, bella quasi come la Puglia, livellata, tutta ulivi. Ma la terra, che forse è migliore di quella pugliese, e certo ha meno sassi, qui sembra degradata a sabbia, anche quando non è ancora sabbia. Se poi c’è un tubo che l’irriga, allora fa cert’erba verde e crudele, un’erba al sangue.
E passano anche le file degli ulivi, e i viali di eucaliptus, un’Italia di riporto, come le trecce finte su un capo calvo. L’avevo capito. La vegetazione, in Africa, è innaturale: la natura vera è il terreno brullo, piano, senz’ombra; il resto è una sopraffazione dell’uomo. La vegetazione violenta il suolo: che in realtà resta sempre calpestato dai secoli, senza iniziative proprie, come una morte geologica.
Naturalmente il mio sguardo tornava al mare che quasi sempre si costeggiava: denso, il mare, e innegabilmente torvo, col suo azzurro intenso ma senza trasparenza, e la balza, a riva, d’un verde di pavone ma non un verde come a Capri o nell’Egeo. È un verde opalino, quasi ad averci versato il mistrà…
A un tratto, enorme, sproporzionato, inverosimile, il teatro di Sabratha. E non si avverte come una rovina, ma come un colossale modello al vero, messo lì per far vedere quello che doveva essere. Un modello al vero, campionato qua e là: ma fuori del vero e del falso, fuori della natura e della storia, come la possibilità di essere teatro, di diventare teatro, di funzionare da teatro, senza essere, senza divenire, e senza funzionare. Questo era il teatro di Sabratha: quanto non avevo desiderato di vederlo. Con la sua scena come il Settizonio, come un’assurda architettura dipinta del cosiddetto quarto stile: e ora l’avevo lì davanti, tutto rifatto, tutto inventato sul Settizonio e sul quarto stile, ma assai poco sui dati di scavo.
Certo, l’impressione è immensa. Ma non è quello che produce l’architettura: perché è sconcertante; il Colosseo, per intendersi, non è sconcertante. Ma il teatro di Sabratha è come se, dopo essersi fatto trarre l’oroscopo, uno volesse vivere, di riffe o di raffe, secondo l’oroscopo.È un conflitto col destino, la resurrezione posticcia della scena di Sabratha: l’archeologo trasse l’oroscopo e ci adeguò il monumento. Neanche per un istante si può credere che in origine fosse a quel modo. L’archeologo era un mistico: forse fu visitato in sogno. Ma noi siamo visitati da svegli, invece: e ci chiediamo, perché non andò più in alto? Perché fece così e non così? E quelle colonne là e queste qua? Basta: il poveretto è morto; ma, a quest’ora, se fossero rimasti un po’ di più, Balbo a Tripoli, e lui sulla terra, il mistico Guidi, la gloria della scena di Sabratha sarebbe ben altra, di superare in altezza il Building State Empire…
Ma c’è un’altra cosa a Sabratha che non ci si aspetta, per quanto necessaria: e sono le latrine. Queste appaiono intatte, miracolosamente conservate: e sono una lezione di storia e di costume, altro che di igiene.
Codeste latrine si trovano sotto un bel portico pentagonale, con colonne di cipollino, e torno torno, come gli stalli del Coro, s’allineano i banchi di marmo. Nella panca si vedono poi, a giusta distanza l’uno dall’altro, pudichi, rotondi avvallamenti con delle modiche aperture a forma di toppa per la chiave, e, in corrispondenza, al piano terra, un buchettino per lo stillicidio. Un fossatello per l’acqua corrente completa le previdenze. Altra acqua corrente scorreva sotto il buco della chiave. Pulita, inodora, comoda. La gente sedeva all’ombra, quasi all’aria aperta, e mirava nel frattempo un Apollo nudo, anzi squisitamente glabro e deterso (a Leptis c’era un Ercole). Pensate la delizia di quei ragionamenti in libertà, la sana allegria post-conviviale, la cacca ridotta a rito, ma senza retorica: i soavi appuntamenti, come ritrovarsi al circolo o al caffè. E certo si parlava anche di filosofia: e forse c’era l’ora in cui si sapeva recarvisi Apuleio, che bisognava prenotare il posto o mandare uno schiavo a tenerlo occupato in precedenza…
Io non so perché qualcuno si scandalizzerà. Da ragazzi tutti si è fatto d’andare, quando s’era in campagna, a far la cacca insieme, e il momento era ilare e spensierato, tutti ce ne ricordiamo, dentro il pedano d’un ulivo o sotto il magico fico.
Con tutto ciò, la meraviglia di Sabratha è un’altra: il mosaico pavimentale della Basilica giustinianea.
Vale, per questo mosaico, vederlo in Museo, tolto dalla strana Basilica per cui è stato fatto. E si dice strana perché, tutta quell’accozzaglia di risalti, la diversa altimetria delle colonne, oltre alle diverse materie, dà un tale senso di raccogliticcio, che pare impossibile potesse esservi una dimensione tutta nuova proprio in quella più umile, nel pavimento, sicché, né a Santa Sofia né a San Vitale, si è mai proposto il pianoterra come il punto di forza della decorazione del monumento. E qui, con tutta quell’accozzaglia di basi e di colonne di spoglio, che fa pensare a un monumento dell’ottavo secolo, eccoti un mosaico straordinario, forse la più bella opera d’arte, in via assoluta, che sia superstite in Tripolitania. Il traliccio è dato da una specie di albero di Jesse, che nasce da un ciuffo d’acanto a volute grasse, voluminose. Di lì tralci di vite in larghissimi girari. Il prete Pantaleone a Otranto, circa sette secoli più tardi, e chi per lui, nella Cattedrale di Taranto, svilupparono un modello affine. Qui i tralci, i pampani, le zocche d’uva, sono come disegnati col lapis rosso e blu, ovvero con un segno grosso, una listatura più che un segno. Ma fra quei pampani e zocche d’uva ci sono uccelli, uccelletti, papere, pernici, oche, pavoncelle, e infine due spettacolose faraone: ma che dire di loro. Sono vestite a scacchi bianchi e neri, che non si sa più se sia un quadro di Klee o un tailleur all’inglese. Squisite, grassocce, eppure, in quella veste astrattista, piatte come un gioco a dama, mantengono tuttavia movenze assassine, improvvise, scarti, becchettii, passettini…
In parole brevi, codesto artista, certo di alto rango, confinato a Sabratha, doveva aver riesumato per l’occasione un suo prontuario di comodo, con bestiole ellenistiche, copiate da scene nilotiche o di caccia, come le nostre nonne tesaurizzavano negli scedari i passi salienti di un ancestrale punto-in-croce. Fantasticando, vien fatto di pensare che un artista simile fosse in odore di eresia e che, sbalzato in Africa, avesse tutta la intenzione di fargliela, a Giustiniano, gabellando per nuovi quei motivi decrepiti della tradizione alessandrina. Ma era anche uno di quegli artisti che stavano inventando un nuovo stile, con Antemio di Tralles, e Isidoro di Mileto: spremevano dalla plasticità classica tutto il chiaroscuro, come si strizza un limone. Arrivato sul punto d’inserire in quei ghirigori appiattiti, degli uccelletti di rilievo, non ce la fece, il cuore gli mancò e passò tutto al setaccio. Ecco i volatili, virtuosamente ellenistici nei contorni, perdere il rilievo e non perdere le penne. Queste son tutte uno spreco di paste vitree, uno scintillio di berilli e di turchese: la rota del pavone, preparato dalla fenice, dalla pernice in gabbia (oh, anima prigioniera!) diviene un fastigio da inserire pari pari a San Vitale: e nessuno se ne accorgerebbe.
Se mai tornerò in Tripolitania, non mancherei Sabratha per quel mosaico: neppure, guarda un po’, per una rappresentazione classica, nel classico teatro, davanti alla classica scena…
Il giovane tenuto in stretta custodia, le persone ritirate, le monache ecc… ecc… non hanno né un giudizio né un senso fino intorno alla bellezza, insomma non se ne intendono.
Leopardi, Zibaldone, 1796
Anche per chi viene da Roma, e conosce Ostia e sa a memoria Pompei, Leptis Magna è una cannonata. Ma dato che non si può dire tutte le cose in una volta, e che invece vanno dette una alla volta, parliamo dell’Arco di Settimio Severo. Nativo di Leptis, Settimio Severo era scuretto di pelle, e forse nel Texas non lo avrebbero accettato a scuola coi bianchi: divenuto imperatore, e la sua famiglia non era molto illustre neanche a Leptis, ci volle tornare da imperatore. Fu così inevitabile che qui spendesse un po’ di più del necessario, volesse stordire più del necessario, e che pertanto il risultato fosse come una specie di corsa al rialzo di tutti i valori figurativi più appariscenti, o la prima quotazione ufficiale di quelli novissimi.È certo che a Roma, a parte il Settizonio, vivo ormai solo negli sfondi degli affreschi cinquecenteschi e nelle incisioni e nei disegni pateticamente fedeli di francesi, olandesi, tedeschi, il suo arco è il più grigio e noioso. A Roma, Settimio Severo era l’africano dall’accento punico indelebile, che aveva sposato una siriana pinzochera, quella Giulia Domna con l’attaccatura dei capelli crespi alla radice del naso. Dové temere di apparire sempre un cafone, e volle stare nelle regole. A Leptis – che gli archeologi vogliono ora richiamare alla greca, per questo vezzo di giocare Roma al ribasso, Lepcis – a Leptis era il cittadino maggiorato fino all’apoteosi, che si poteva permettere di fare e di disfare in tutti i campi: forse i più strampalati artisti, presenti nel bacino del Medio Oriente, furono tutti suoi. Era al coperto dalla mordacia delle critiche romane, era nell’Africa torrida che lui, libico, ancora quasi fenicio, doveva rendere grande a se stessa con l’operazione inversa di chi seppellisce un tesoro.
Non sembra vero che questa sua operazione in un lembo, non fra i più apprezzati, dell’Impero, dovesse avere tanto peso per l’arte plastica. Perché peso l’ebbe, seppure indirettamente: lì avviene il primo deciso sfondamento del fronte per la scultura. Si tratta di alcuni rilievi, non di tutti, dell’arco quadrifronte che Settimio Severo, press’a poco quando a Roma (203-4 d.C.), si eresse nella città natale.
Esprimersi sull’architettura di codesto arco è quasi impossibile, per i tentativi di ricostruzione, in massima divergenti, che sono stati fatti sinora, ancorché quasi tutto sia rimasto in situ, se non in opera. È forse e senza forse, l’architettura più bislacca dell’epoca intermedia, e io direi ancor più inattesa che le stesse travolgenti facciate barocche di Petra. Perché quei mezzi timpani a cresta, che fanno parere l’arco come un cane con le orecchie mozze, sono un invenzione che oltrepassa perfino l’audacia del Borromini. La struttura, sostanzialmente, come colonne, trabeazioni e plinti, non era né nuova né particolarmente audace; eccettuate le creste dei timpani, come schegge, come spezzoni dell’architettura classica che incomincia a inabissarsi: la prima grossa falla, la prima quasi irreparabile collisione sta là, a Leptis Magna. Ancora un secolo dopo, nell’Arco di Costantino, non ci sarà una bizzarria plastica così conturbante.
Ma è stata una sorte strana, anche per gli archeologi più intelligenti, di non essersi accorti come l’episodio provinciale di Leptis Magna segnava invece la temperatura reale dell’architettura e della scultura nell’Impero romano. La temperatura reale, che non era quella offerta dai bollettini ufficiali di Roma. La cui potenza normatrice, la cui riserva di equilibrio classico finiva sempre per ristabilire una temperie, non dava vita facile né lunga alle velleità che l’Oriente soprattutto istradava o cercava di promulgare. L’Arco di Costantino, così coscientemente mescolato di sculture del tempo di Marco Aurelio e di sculture nuove, ma in modo che, a colpo d’occhio, le prime facessero rientrare in riga le seconde, è la tipica “restaurazione” imperiale dell’arte imperiale di Roma: l’editto di Costantino in materia d’arte, editto di tolleranza. Come alla fede nuova – si battezzò quasi in fin di vita – così all’arte nuova doveva crederci poco, Costantino.
Ora, la sorte artistica di Roma, che gli esegeti delle copie romane delle statue greche, e gli esegeti in cerca di maestri e maestrini a somiglianza dell’arte medioevale e moderna, non son riusciti a centrare spregiudicatamente, fu questa. Posto di fronte, il genio artistico di Roma, a una tradizione plastica già conclusa ma ricevuta in due versioni, in quella etrusca e in quella autentica greca, non poté staccarsi da un doppio binario. Col primo si ricollegava al filone utilitario e pedestre che sta alla base del ritratto realistico, col secondo si esprimeva nel meraviglioso gergo rettorico di chi parla bene senza aver nulla da dire.
I romani avevano molte cose da dire, e guerre e trionfi, e giochi: ma per questo si servirono dell’arte ellenistica acclimatata a Roma, come di una lingua sacra e annoblissante. Il ritratto ne fu toccato in tanto e in quanto l’assuefazione al sistema fonetico di una lingua colpisce la pronunzia anche di parole straniere. Il ritratto, nell’arte di discendenza greca, era una parola straniera. Così si possono datare i ritratti romani, ma in base, oltre che al costume, alle inflessioni plastiche, che, come il sistema fonetico di una lingua, la lingua plastica del tempo di Augusto, di Tiberio di Adriano e di Marco Aurelio, fa subire ai tratti della pedestre o augusta umanità da raffigurare. Invece l’operazione inversa, che avrebbe potuto straordinariamente resuscitare la cadaverica scultura romana, non avvenne: il ritratto non contagiò la scultura. Il fatto determinante avvenne quando un rilassamento nelle intenzionalità plastiche – la radice sta all’Est, nella Mesopotamia – aprì per così dire una porta di servizio nella scultura togata: il ritratto, ridotto a pochi tratti caratteristici, a una specie di tiro a segno fisionomico, indusse a una similare perspicuità nel trattamento plastico del resto dell’immagine. Questo fatto basilare – sebbene non espresso in questi termini – veniva addebitato in genere, con le dovute riserve dettate dal persistere di un gusto winchelmaniano, al tempo di Costantino: a Leptis Magna dovevo riconoscere che s’era prodotto un secolo prima. Questa scoperta mi ostendeva in realtà non delle sculture di altra sorgente formale, come tali incomparabili anche se coeve con quelle romane, ma proprio l’affascinante confluire di una tradizione nell’altra, e il perfetto assorbimento, ma con una radicale trasformazione da parte della tradizione classica, di quella nuova, lontanamente iranica, orientale.
Questa insospettata confluenza, che è perfettamente bilanciata anche dalle straordinarie novità architettoniche nella stessa Leptis, avviene in modo da fare assistere in presenza al sinecismo del passato, del presente protocollare, e dell’attività di questo sfacciatissimo apportatore del nuovo verbo formale; per sciogliere ogni riserva: l’audace ritoccatore del rilievo trionfale.
La corrente più protocollare, che vi si trovava e contemporaneamente si ritrova anche a Roma, è quella che, nell’Arco di Leptis, è affidata alle pilastrate e che già è stata ricollegata dalla critica alla Scuola di Afrodisia. Una scultura che cerca di guadagnare aggetto plastico staccandosi a tutto tondo dal fondo, a cui si ricollega solo con dei nascosti pedicelli di marmo: scultura sovraccarica, di un gergo pesante, e infallibile come la procedura. C’è poi un bassorilievo con l’assedio di una città, che ancor più si ricollega a quelli dell’Arco di Settimio a Roma: e cioè una scultura più triste ed emaciata di fronte alla turgida pratica di Afrodisia. Se allora tutta la scultura dell’Arco appartenesse a questi generi canonici, la lascerei senza rimpianto agli archeologi. Ma invece c’è la serie degli altorilievi dell’Attico.
Di questi ci si potrebbe sbrigare in questo modo soave: stavano in alto, in un luogo, Leptis, dove la luce è sempre più che intensa, dirompente, abrasiva. In quella luce i passaggi tenui della plastica di tradizione, ammissibili nella penombra sotto la volta dell’arco, divenivano senza senso: donde la necessità di giungere a delle sottolineature che sbalzassero, per così dire, le figure dal loro fondo, imponendo al pallore dei marmi come degli orli neri, quasi delle unghie mal tenute.
E non è detto niente. Perché, anche se fosse avvenuto, come per un istante ho perfidamente suggerito, una tale forzatura plastica non può mai essere posta sullo stesso piano degli accorgimenti che portano alla truccatura degli attori, per vincere la distanza e le luci del palcoscenico. L’avere individuato la necessità di sottolineare da fermo quello che il flusso stesso, seppure pigro, della plastica della Grecia declinante aveva consegnato a Roma, significa un radicale capovolgimento dei valori formali perseguiti dalla tradizione fino ad allora. Ed è incontrovertibile che, per codesti valori canonici, la scultura del fregio dell’Arco di Leptis punta decisamente al ribasso.
È incontrovertibile, perché le lastre vetuste recano, come nella carne viva, la testimonianza autentica del duplice lavorio che subirono e che nessuno finora ha notato. I rilievi, infatti, furono pensati, sbozzati, e in certe parti perfino condotti a compimento sul genere di qualsiasi altra scultura del tempo, diciamo nel genere, meno fine, ma di quelle del tempo di Marco Aurelio. S’intende dire con ciò – e basti controllare, una volta per tutte, la figura di Giulia Domna nella lastra principale col sacrificio del torello – che i rilievi vennero impostati e portati avanti – si direbbe, fino a mezza cottura – con i procedimenti generici di una generica plastica ellenistico-romana, anche se l’imposto già risentiva di una frontalità maggiore; e ciò avviene sia nelle piegoline schiacciate artificiosamente – ad esempio per velare e rivelare il seno femminile – sia nelle perifrasi imperturbabili dei drappeggi dei togati tradizionali, che ognun sa come non si possano certo dire veristici, ma come non siano neppure astrattizzati. Le pieghe, dunque, offrono un sapiente trapasso, l’alternanza di alti e bassi, in una modulazione che renda il corpo attraverso le vesti e giustifichi le vesti per dato e fatto del corpo. Senonché, a metà strada in certi casi, e a strada conclusa per altri – come appunto nel caso, illuminante, di Giulia Domna – ecco intervenire il maestro che la pensa in modo radicalmente diverso, e che a questa scultura, d’impianto in sostanza tradizionale, dotta quanto generica, impone una specie di tatuaggio plastico, che mira a prosciugare il chiaroscuro avvolgente in un sistema di canaletti, cretti, fossatelli marginali, fino a far retrocedere gli aggetti, anche i più rilevanti, verso un allusivo piano di fondo. Si dice allusivo perché non deve credersi che sia il fondo effettivo del bassorilievo: questo stesso, a sua volta, è distrutto o neutralizzato dalla alterazione del rapporto iniziale, quello per cui gli aggetti della scultura suggeriscono il tutto tondo, e il fondo, dal canto suo, figura di continuare l’avvolgimento spaziale che al tutto tondo compete.
Invece, questo superiore tatuaggio, che la scultura ha subito, tanto più è tatuaggio, in quanto è compiuto a punti di trapano ravvicinati, perché qualsiasi scalpello, per quanto sottile, avrebbe altrimenti dato un solco meno netto, perpendicolare e scavato. Sicché, in certi casi, quei solchi appaiono né più né meno come i canali dei tarli, quando si seghi una tavola che sia stata trivellata da codesti anobidi. L’intelligenza formale, la spregiudicata sicurezza, quasi l’infallibilità con cui questa redazione avviene, è tale che, a mia conoscenza, non ha nessun paragone possibile. Per la prima volta è dato assistere in atto all’abiura che la plastica classica compie dei suoi principii formali per anticipare quelli che dovranno alla fine dar ragione della figuratività bizantina.
Perché questo è il punto: neppure le sculture nuove dell’Arco di Costantino, un secolo dopo, dimostreranno così al netto la nuova inflessione formale. Per codeste, e non dico dei rozzi, pesanti rilievi del fregio, ma anche delle pregiate Vittorie dei plinti, la sottolineata linearità delle pieghe, che si ammatassano sulle forme ancora stancamente classiche, può sempre insinuare il sospetto di un rigurgito provinciale basato sulla non perfetta assimilazione dei modi classici piuttosto di un cosciente apporto di diversa e appuntata figuratività.
Ma per le sculture del fregio dell’Arco, a Leptis, questo sospetto non alligna: la forzatura autoritaria che viene applicata su una plastica d’impianto tradizionale e quasi virtuosistico, non può esser dovuta che a un intento formale ben preciso, antinaturalistico, e rivolto non già a facilitare l’aggetto, la protuberanza della scultura nella luce viva, ma ad aiutare la luce viva ad appiattirla sul fondo.
Quindi, già fra la fine del II e al principio del III secolo, senza neppure un rapporto diretto con la scultura di Palmira o di Dura – che hanno procedimenti tecnici ben diversi – scientemente, sul ceppo stesso della tradizione classica, così come s’innesta un albero, si agiva fino a svuotarla del suo più appariscente anche se non sostanziale valore, che era stato la conquista della spazialità del tutto tondo, paritetica a quella in cui ci muoviamo e viviamo. Era giunto lo spirito spregiudicato che retrocedeva tutto ciò al passato, al sofferto, al superato. Col suo trapano tatuava le nobili rotondità di quei rilievi, vi tracciava canali riempiti d’inchiostro: e in quelli parti dove la prima redazione tradizionale non era stata compiuta, addirittura giungeva a segnare delle pieghe simili a vene varicose, o a cordonettature su superfici rese tubolari e lisce, anestetizzate, come il collo di un vaso. Codesto artista, senza obbligarci a ricorrere alle valenze provinciali innegabili a Palmira come a Orange, ci permette di documentare, con estrema chiarezza, che la traiettoria figurativa dall’arte classica a quella bizantina non avviene per una progressiva involuzione formale, non avviene per una specie di rivalsa dello spirito anticlassico – e qui antiromano – della periferia verso il classicismo canonico della metropoli, e neppure per una valorizzazione in extremis di barbarismi casuali, ma per iniziativa cosciente e autoritaria di artisti che intervengono e rimodellano a modo loro, per una finalità formale precisa e non per imperizia, (e neppure per risparmiar tempo e denaro, come marxisticamente favoleggi, caro Ranuccio, per i Decennali del Foro Romano!) la consegnata correttezza di una tradizione conclusa. Ed è questo un successo della libertà creativa, come della buona critica che rifiuta il facile e vuoto schema di un anticlassicismo sempre in agguato come il diavolo.
In quanto alla provenienza, in questo caso, del deciso riformatore della plastica tradizionale, non si può dire nulla: la sua opera essendo troppo autonoma e coraggiosa per svilirla a un rango regionale invece che personale. Che tuttavia provenisse dalla Siria o dalla Mesopotamia è l’ipotesi che, non tanto la scultura, quanto la pittura partica può suggerire. Tuttavia nello stesso arco, oltre alla presenza delle banalità afrodisiache, ce n’è un’altra che invano si cerca di riportare anch’essa ad Afrodisia, e che attira e sconvolge i benpensanti archeologi. Questa perfino fa pensare all’Egitto, per certe inflessioni che arieggiano alla successiva arte copta. Si tratta dell’Autore delle otto Vittorie nei pennacchi delle quattro arcate: sicuramente i rilievi meno generici di questa generica scultura trionfale romana.
Il modulo femminile è ormai diverso da quello euritmico della tradizione prassitelica e lisippea: codesti nudi hanno vita sottile e grandi anche, blandite da un chiaroscuro che, pur senza determinare il tondo impianto delle donne-ranocchie dell’arte copta, quelle preannunziano. E ce n’è che si pongono con le spalle di taglio, e nella torsione inverosimile deliziosamente scandalizzano il puntuale archeologo: “Note the graceful, but anatomically quite impossible, swing of the torso”. Sì certo, anatomicamente impossibile quella torsione che offre un partito plastico sfolgorante e immediato come una rasoiata: un solco che attraversa il seno fino al grembo castissimo, implume si direbbe, quanto disposto e materno.
Allor conobbi che fatale è Roma.
Monti, La Basvilliana, III
Durante il ventennio fascista romanità, scavi e città romane finirono per urtare i nervi a tutti. Le esaltazioni che se ne faceva, per portare arbitraria acqua al mulino di allora, produssero innegabilmente l’effetto opposto, almeno in Italia. Da quando è finita la guerra, a tutto ciò che è romano è stata messa la sordina. Psicologicamente si capisce: culturalmente è una assurdità. Era comunque inevitabile che, con la perdita della Libia, le due città antiche il cui scavo era stato un grande vanto italiano, Sabratha e Leptis Magna, subissero nella attualità della coscienza italiana un oscuramento. Ma lo scavo di quelle città è stato un fatto culturale di grande importanza, e soprattutto per Leptis Magna; anche per chi sta in Italia c’è di che largamente sorprendersi e largamente ammirare. Anzi lo spettacolo di Leptis Magna, grande città al termine di una carovaniera importantissima, porto di cospicuo movimento, con un abitato estesissimo, permette lo studio dell’urbanistica severiana con un profitto assai maggiore della stessa Roma.
Leptis Magna è un’oasi di colonne: e tante più ce ne sarebbe se il bravo console Lemaire, nel Seicento, non ne avesse prelevato una bella provvista per la Francia. Né fu il solo. Ormai colonne di Leptis si trovano a Windsor come a Saint-Germain-des-Prés. Né ci sarebbe da meravigliarsi se, anche prima, avessero cominciato i pisani: i quali tuttavia avevano di che approvvigionarsi altrove, durante le Crociate, e senza cambiar di rotta. Tuttavia, anche saccheggiata, Leptis Magna resta una selva di colonne: e quante ce ne sono ancora coricate che il bravo Soprintendente vorrebbe tirar su. E non ha torto. Perché soprattutto il complesso severiano di Leptis è di tale imponenza e ancora così in atto, tanto per dire, che sembra un sopruso non poterlo vedere ancora più completo, rialzando solamente quel che è disteso per terra. Ma non è un’impresa da nulla, e si può ragionevolmente dubitare che ci sarà mai un governo, ora che non è più l’Italia a fare le spese, che si accolli un onere simile. “Con un miliardo” dice il Soprintendente “rimetto a sesto tutta Leptis, completo lo scavo, completo i monumenti…” Sono parole assennate che suonano come una dolce follia.
Ciononostante è impossibile, trovandosi a Leptis, di non lasciarsi andare al sogno di una cotale Leptis restituta, riassestata come e più di Pompei. Perché, certo, esistono complessi monumentali insigni dell’epoca romana più matura e quasi tarda, Baalbek, Petra, Palmira per non dire dei tanti insigni monumenti romani superstiti in tutta Europa, ma una città intera, lunga tre chilometri, della grandiosità di Leptis, non s’immagina facilmente. Perfino col porto che, per insabbiato che sia, reca ancora ormai a fior di sabbia invece che sul pelo dell’acqua, i grossi anelli di pietra per ormeggiare barche e navi.
Le strade sono larghe, lastricate – un’iscrizione dice anche da chi – con le fognature perfette, e sebbene per la massima parte traccino un reticolato regolare, non mancano gli episodi urbanistici inattesi, tipico quello della sistemazione severiana, che verrebbe voglia di chiamare, come per l’addizione erculea di Ferrara, l’addizione severiana.
Per quanto, infatti, i singoli monumenti abbiano una importanza singola e non generica, non si può negare che il complesso supera di gran lunga il monumento a sé stante. Ed è un complesso che, tutt’ora, non rinasce solo dalle piante millimetrate e da quei mefitici disegni, attanagliati dalla prospettiva, che si chiamano ricostruzioni ideali. Arrivare nella piazza pentagonale, dove c’è il grande Ninfeo e di dove ha inizio la solennissima Via trionfale, con il duplice colonnato, è veramente trovarsi al centro di una sistemazione urbana di una grandiosità come solo saprà impiantarla l’epoca barocca. Già, in sé, il Ninfeo prelude al nicchione del Belvedere di Bramante, ma nulla è più persuasivo a segnare le differenze, che quell’imposto di squincio, riguardo alla Via colonnata. Dalla via il nicchione non si doveva vedere, e basta un simile particolare per far percepire quanto diversa sia la concezione prospettica rinascimentale da quella che fu realizzata dalla spazialità classica, anche se in un momento di interna evoluzione, e quasi di rivolgimento geologico, come è quello documentato dall’architettura severiana.
Per quanto dunque la Via colonnata finisca per risolversi in sé e per sé, in fondo col porto, all’inizio virando con uno scarto laterale rispetto al grande Ninfeo, permane tuttavia una correlazione monumentale fra Ninfeo, piazza e strada, che finisce per coagulare in un insieme infinitamente più organico e articolato di quanto non si possa supporre in Roma stessa, sulla base dei Fori imperiali e degli Archi di Trionfo. Ancora al tempo di Costantino, tanto tempo dopo Settimio Severo, una correlazione predeterminata non si istituisce in modo stretto fra l’Arco, il Colosseo, la Meta sudante, il Tempio di Venere e Roma. Qui, a Leptis, lo snodo spaziale, che la piazza a pentagono riesce ad attirare, rivela un virtuosismo urbanistico sopraffino, appartiene alla grande architettura. E non ha nulla di scenografico, anche se le articolazioni di colonne e nicchie del Ninfeo possano far pensare a una scena di teatro. Proprio oggi che si insinua una moda critica pedestre di scaricare tre quarti dell’architettura e della pittura sul teatro, sarà bene avvisare che, questa moda, designa proprio l’inautenticità della spiegazione proposta, perché, se mai, scenografia e architettura andranno interrogate sulla base comune della spazialità che realizzano, e non cavate fuori l’una dall’altra come le scatole cinesi. Ora appunto, il gusto dello sventagliamento delle direzioni che dai lati del pentagono si aprono simili alle dita di una mano, ottiene di far rotare come su un pernio le strade che imboccano nella piazza, fa sentire le strade come un attraversamento nella materia viva della città, e non come una geometrica e sensata spartizione in regioni e insule, secondo che generalmente offriva la pianta quadrata delle città antiche, particolarmente romane. Inoltre, si deve pensare che questa piazza e queste strade non si deducono da pochi mozziconi o da muretti alti una spanna, ma da alzati che, per il Ninfeo, sorpassano i venti metri di altezza. Se la fantasia lavora, non lavora sul vuoto.
I portici non sono in piedi, ma quante colonne restano là distese, come dormissero, e con i capitelli misti a foglie di loto accanto, e i conci degli archi; almeno un quarto dei portici potrebbero venire rialzati. E a proposito dei capitelli, di gusto chiaramente neo-egizio, ma generalmente detti “egei”, non si vedono forse le porte, altissime, quelle che portano alla Basilica e al Foro Severiano, rastremate verso l’alto come porte egiziane? Il filo che unisce Leptis all’Egitto non è una ragnatela.
La Basilica ha ancora quasi tutte le colonne, e se si pensa che è lunga quasi cento metri, non si stenterà a raffigurarsene la grandiosità. Le due absidi recavano al centro due colonne alte come ciminiere, che rappresentano l’elemento di più evidente frattura rispetto all’euritmia classica. Inseriscono un volontario anacoluto in un giro sintattico ancora in apparenza classico, seppure altri arbitri, come quello, gravissimo dell’arco poggiante sulla colonna, abbondino. Ma a questo proposito, quel che soprattutto colpisce – con un anticipo così notevole sul palazzo di Diocleziano a Spalato – è il fatto che rispetto all’altezza delle colonne, queste sono assai ravvicinate, e l’arco appare quanto mai piccolo, issato a tale altezza. Ma un tale impiego diviene allora definitivamente indicativo: quel che l’architetto vuole infrangere è l’omogeneità spaziale delle dimensioni, che attraverso regole più o meno empiriche, sezioni auree e divine proporzioni, si mantiene nell’architettura romana fino, giusto, a Settimio Severo. E dunque non è tanto il voluto barbarismo dell’arco poggiante sul capitello, quanto un nuovo rapporto fra vuoti e pieni, e il ridimensionarsi reciproco, di volta in volta, degli elementi architettonici. Il colonnato del Foro è tipico, in questo senso, come nessun altro. Invece di dilatarsi nell’arcata, lo spazio interno fra i fusti marmorei si contrae fino al punto di addensare gli intercolunni come fossero pieni. Ossia, il vuoto fra colonna e colonna non deve tanto valere come vuoto, quanto come il modellarsi stesso dello spazio in una diversa materia, rispetto alla materia della colonna. Il gusto e la frequenza con cui le colonne saranno d’ora in poi addossate a poca distanza dal muro di fondo, sviluppa, senza dubbio, uno spunto classico, già presente in strutture architettoniche del primo secolo, ma ora si tratta di uno sviluppo che finisce per non avere più nulla da spartire con lo spunto iniziale. La struttura delle edicole addossate nella cavità delle esedre della Basilica, come anche nel grande Ninfeo, dicono chiaramente che l’intervallo fra colonna e colonna come fra edicola e edicola non deve aprire degli spazi nel guscio continuo delle esedre, ma unicamente delle alternanze strutturali e delle varianti di materia, sicché gli aggetti hanno solo significato plastico.
Questo fa sì che anche il colonnato viene inteso come intessuto di materie alternanti, ma non di spazi radicalmente diversi, come, nella stretta e alterna qualificazione, il vuoto e il pieno. L’intercolunnio crea soltanto una nicchia fra colonna e colonna, e questo suo significato circolare è appunto quello che istituisce, rivela, sottolinea l’arco che, poggiando sulle colonne, invece della trabeazione, conclude in nicchia l’intercolunnio stesso. Così l’architettura severiana, a Leptis, mira a ricostruire su una continuità plastica serrata e ininterrotta, lo spazio intero del vano costruito. E questo spiega anche come sia rafforzato nel Foro nuovo il senso di cortile, sia con l’alto muro che lo chiude, sia con le porte di accesso: e come perciò un simile ambiente misurato, alla stregua di un interno per quanto all’aperto, non fosse messo direttamente in relazione con le grandi arterie stradali che venivano tracciate al momento stesso in questa nuova addizione severiana. Talché, come si è detto, anche la piazza pentagonale evita di istituire, alla propria spazialità conclusa ma non chiusa, le strade come emissari prospettici del suo “invaso”. È dunque un concetto spaziale agli antipodi del gusto prospettico sia rinascimentale che barocco, e fa vedere come siano ancora una volta superficiali gli accostamenti al barocco, di questa architettura che in realtà si basa su una spazialità assolutamente diversa. Basta pensare a Piazza del Popolo a Roma, o all’Étoile di Parigi, che ne deriva, per capire subito come, nell’avere evitato la confluenza delle strade al centro geometrico della piazza, non possa esservi nulla di comune fra l’urbanistica di Settimio Severo e quella che, o barocca o neoclassica, si matura a Roma e si conclude a Parigi.
Nunc litora plangunt.
Virgilio, Georgiche, I, 334.
Non credo che, per quanto numerose rimangano le Terme romane, possano esservene altre che d’acchito immettano nell’ambiente quale fu un tempo, come queste di Leptis Magna, ancorché non ci sia da paragonarle, per grandezza, alle Terme o di Caracalla o di Diocleziano a Roma. Ma ognuno sa che a Caracalla l’immane e superba mole dei ruderi è ridotta allo scheletro, se si pensa alla veste che quei mattoni avevano tanto di dentro che di fuori; e, in quanto a quelle di Diocleziano, sfido chiunque, che non sia architetto o archeologo, e con tanto di pianta e spaccati sotto gli occhi, a rendersi conto, dai vani sbrecciati e superstiti, di come potessero smistarsi quando terme erano e da terme funzionavano. Invece queste di Leptis, tanto più piccole, introducono nella vita stessa delle terme, e bene farà l’amico Soprintendente se riporterà in questi ambienti, squisitamente misurati e predisposti, le statue, almeno quelle acefale, che vi furono trovate, indi tolte.
In realtà, queste statue rinvenute a Leptis – e quando non ne vengono fuori anche ora – sono in genere poca co sa, e in un museo più ce ne sono e più infastidiscono; viceversa, incontrate sul posto, riacquistano un fascino perduto e intensificano la zona, non fosse che con la meravigliosa intatta patina che la sabbia ha conservato a quei marmi. Neppure i marmi ateniesi hanno un colore così caldo. E se pensate al cielo avido di Leptis, al sole di Leptis, alla pietra fulva di cui è fatta tutta la città, non potrete mai immaginare niente di più affocato e sonoro.
Strani arbusti si piegavano con fiori leggeri e foglie spesse che parevano ritagliate in orecchie di elefante, ciuffi di un timo a cespugli, quasi spinoso ma vivissimo, rialzavano i toni della pietra e dei marmi, come in un giardino. E questa sarebbe una città sepolta, e questa sarebbe una città di un’epoca per sempre trascorsa.
Rovine che non sono rovine, ma voci che neppure il tempo e le barbarie hanno messo a tacere, e risorgono dal passato come un ricordo tuo, un momento insopprimibile della tua storia d’ieri appena trascorsa. Non già in una vita precedente io avevo camminato per la grande palestra e passando nel frigidario mi ero seduto con Adriano, mentre Antinoo si bagnava nella piscina opalescente, ma era la mia vita attuale in cui si prolungava quella di quasi venti secoli fa, e che ritrovavo in me, con la struttura stessa del mio pensiero, l’educazione alla bellezza, il lusso offerto a tutti che diviene lusso dell’anima. Onde quei marmi preziosi, quella volta di mosaico, e le luci vaganti che riverberavano le acque delle piscine, erano un’unica e sola immagine creata dall’uomo. Né mai potrei sentire staccata la mia vita da codesta, più di quel che non possa separare il mio attuale presente dall’infanzia.
Il teatro di Leptis è altra cosa dalla protuberante ricostruzione di quello di Sabratha. Intanto tutta la cavea è intatta, se si toglie l’ultimo sommo giro di cui, da una parte, si vedono ancora ricollocate in vetta, a un’altezza che diviene vertiginosa, le colonne che lo guarnivano. La scena è salva nel suo ordine inferiore, e consentirebbe, senza perpetrare le fantasie di Sabratha, la ricollocazione almeno del secondo ordine di colonne. Ma il restauro di Caputo, tanto più prudente e saggio di quello del Guidi, ha finito per peccare per difetto, per la ricollocazione, cioè, dentro il fossato del palcoscenico, delle colonne del secondo ordine che stanno lì come a fare il pediluvio e sconvolgono le idee. Questo, e il fatto, invece, di avere collocato le colonne del tempio centrale sulla cavea, al livello che non ebbero mai sono i due unici peccati, del resto veniali e rimediabili, di un’opera di restauro commendevole sotto ogni riguardo.
Devo augurarmi che almeno le colonne del secondo ordine della scena possano essere ricollocate in alto, e sebbene, innegabilmente, falsino l’idea primitiva con il mare a sfondo, che mai si doveva vedere dal teatro, realizzeranno sempre un aspetto più coerente che a rimanere mezze fuori e mezze dentro nel fossato del palcoscenico. Il quale fossato esige d’essere ricoperto di tavole, perché l’alterazione spaziale è sensibile con le due trincee in vista, trabocchetto sempre aperto. Voi mi direte che, sempre, gli scavi determinano alterazioni e favoriscono una specie di nuovo aspetto parassitario e bugiardo rispetto alla struttura originaria del monumento. Ma qui bisogna intendersi che, se non si chieda al monumento di divenire un plastico di se stesso, come a Sabratha, si deve consentire il contubernio di soluzioni spaziali successive, che il semplice rialzare una colonna e lasciarla senz’architrave produce. Non è un falso della cultura né una storia artificiosa, quello di individuare una rovina costituendosela in quanto rovina, nella sua attuale presenza, indipendentemente dalla struttura che possedeva all’origine. Non è un falso, perché indizia il rispetto che si porta al relitto storico, non è un nuovo corso artificioso che si fa subire al relitto, perché la sua autenticità è data proprio dal rispetto che proclama la conservazione del relitto in sé e per sé. E, in quanto ai sentimenti che il singolo può provare, le emozioni, le fantasie, questo appartiene al modo stesso, personale e legittimo di ciascheduno, e finché così resta non può essere sindacato o impedito. Quel che occorre respingere è la tentazione di solidificare queste affezioni personali, in modo da renderle normative anche per gli altri; come avviene nelle presentazioni troppo romanticizzate di rovine che sono a un passo dalle false rovine dei parchi settecenteschi e ottocenteschi.
Così la sparagiaia di colonne che pullula dietro la scena di Leptis, induce un effetto del tutto nuovo ma non arbitrario, né tendenzioso: scorre il tempo, e anche tale rovina è storia, come è storia l’aver ritirato su quelle colonne. Ognuno ha di che potersi orientare, senza inganno, su quello che ora si vede né si doveva vedere, e su quello che non si vede più e il restauro fa supporre.
Se mi danno noia le colonne poste a semicupio davanti alla scena, è per il fatto che non si riesce a realizzare, senza spiegazione, che cosa stiano a fare là, e dunque alterano un rapporto che potrebbe essere facilmente ristabilito.
I nuovi scavi che ora sono stati ripresi a Leptis, aprono inattese, sibilline incognite, seppure non rivelano lì per lì dei monumenti strabilianti anche per i profani. Per dirne una, basterebbe il fatto di una grande aula che riproduce, in piccolo, quella che doveva essere la Basilica di Massenzio. Ma quando l’ho vista – lo scavo non era ancora finito – non si capiva bene cosa fosse; aveva tutta l’aria di essere un edificio termale. Non lontano di lì una specie di Rotonda, ancora più problematica; ma, quel che avrebbe colpito chiunque, un porticato a mare. Quasi battevano alla soglia di quelle colonne, le onde, allora come ora: e la curva dilatata, aperta come un ventaglio, della costa sembra far bere il mare in un sorso solo. Sulla sinistra si vedono le palme di Homs, e sulla destra gli avanzi dell’antico faro, su degli scogli enormi, su delle costruzioni tenaci come la fede dei martiri.
Il luogo giace in un silenzio limpido come il sole: e quando uno arriva lì, che porta dentro di sé la città antica come una gioia che si ha fretta di comunicare, quel mare così coperto e quel silenzio così sereno appagano con una comunicazione diversa dalla parola.
Rare volte ho sentito, come su quella sponda, che la contemplazione vera non è mai ricettiva; è solo un modo di lasciarsi daccanto come se si dormisse, e capire quel che non si vede, e vedere quello che è nascosto.
C’est assez vescu pour autruy, vivons pour nous au moins ce bout de vie.
Montaigne, I, 39
Questa punta nel deserto si produsse quasi per caso. Sarei dovuto andare in Cirenaica, ma la persona che mi doveva ricevere non era in sede, stava per arrivare a Tripoli da Palermo, e non arrivava. A me si presentò allora l’occasione inattesa di fare un viaggio nel deserto vero, e non sul tipo dell’escursione turistica: andare nel deserto, accamparsi, vedere rovine romane men che desuete, misteriose. Avevo già potuto studiare i rilievi più importanti, e quasi sibillini, nel Museo di Tripoli, ma altra cosa è un monumento in pezzi, altra cosa trovarcisi a tu per tu, nella sua integrità, dato che qualcuna delle tombe risultava ancora quasi intatta. E poi, tombe o non tombe, attendevo come a un’oscura svolta di me stesso di conoscere il deserto che, se il mare è mare anche dalla spiaggia, il deserto non è qualsiasi zona senz’alberi e senz’erba.
Naturalmente si andava con le macchine, e delle macchine robuste, non con i cammelli, ma non senza complicazioni. Perché l’amico archeologo, il Dottor V., che mi aveva proposto di partecipare alla piccola spedizione, era dovuto partire prima degli altri, e ci avrebbe aspettato a Beni Ulid, che è come dire all’estremo avamposto del deserto, dove finiva la strada fatta dagli italiani. Ma rimaneva in discussione ancora se ci avrebbero o no concesso la macchina che doveva servirci per il ritorno – il resto della comitiva sarebbe rimasto nel deserto una ventina di giorni – e questa incertezza pregiudicava la mia partenza. Se infatti il Dottor V. non mi avesse visto arrivare a Beni Ulid con la Land Rover – una specie di jeep o gippone di buona memoria – se ne sarebbe ritornato la sera stessa a Tripoli, e il mio viaggio nel deserto andava in fumo. Di qui la mia ragionevole ansia quando, dovendosi partire alle ore dieci, si cominciò a slittare al mezzogiorno. A mezzogiorno mi telefonano dal Museo: era Mrs. B. in persona, e cioè la signora inglese che faceva da capocarovana. All’altro capo del filo andavo acciuffando una parola là e una qua, come quando si gioca ai richiappi: ma fra tante esitazioni risultò che ormai si sarebbe partiti alle due. Potevo dunque andarmene a mangiare, e la colazione fu gagliarda, come i futuri mangiari di fortuna consigliavano.
Mi reco alle due al Castello, e nessuno si sognava di muoversi: Mrs. B. si ricordò di varie cose che mancavano, di un pacco di posta da imbucare che aveva l’affrancatura sbagliata e doveva rettificarsi.
“Ma,” azzardai “il Dottor V. non si muoverà da Beni Ulid, non vedendoci arrivare?”
Cominciava a essere la mia nuova preoccupazione, ora che la faccenda della Land Rover era risolta. Infatti io non avrei saputo cosa fare, solo con degli sconosciuti, in mezzo al deserto. Subito un impiegato del Museo assicurò che avrebbero tentato di telefonare a Beni Ulid: ma come? Via radio… A me sembrava che stesse diventando tutto un gioco. Ma non riuscivo a determinarmi in altro modo. Già, mi è sempre stato difficile di tornare sulle mie decisioni. Avrei dunque aspettato che l’affrancatura delle lettere di Mrs. B. fosse in ordine. Sicché, dalle dieci che erano state in programma, si partì alle tre e un quarto.
Io mi trovavo nella Land Rover con un autista berbero, Mohammed, e l’inglese che studiava con Mrs. B. le rovine di Ghirza. La strada era liscia, il tempo fresco, con un sole… l’avrei detto un sole di prima nomina, tanto era genuino e giovane.
Si esce da Tripoli verso Castel Benito, con una campagna di qua e di là dalla strada, che sembra veramente, con qualche palma in più, una campagna italiana. C’è dei tratti stepposi, e poi riprendono viti e ulivi. Presto, in fondo, si comincia a vedere uno scalino all’orizzonte, quasi tutto unito, e d’un azzurro che tende al lilla: è il Gebel. Di nuovo questo nome mi tornava come una cattiva digestione: c’erano dei fatti d’arme che non mi andavano, nel Gebel, ma non ricordavo più quali. E poi c’era Castel Benito, che ora si denominava in arabo in un altro modo, ma che tutti continuavano a chiamare Castel Benito. Ed è strano, con tanti nomi – troppi – che sono cambiati in Tripolitania, nel solito fatuo zelo nazionalistico che crede di cancellare la storia, è strano che proprio Castel Benito, il più compromettente di tutti, almeno nell’uso sia rimasto. D’altro so solo che si costeggia uno splendido parco di eucaliptus e che, allora, imboccando la strada verso Bir Miggi, è di lì che si comincia a vedere il Gebel e a presentire il deserto. Ma continuavano anche le coltivazioni, intercalate di tratti sterili e sabbiosi, trattenuti, come anche in certe spiaggie italiane, da ciuffi d’erbe aride e resistenti.
Quando incontravo questi tratti, mi accorsi che quasi rimproveravo ai ciuffi d’erba d’essere abbastanza fitti, ai cammelli e alle capre di essere in troppi. Mi accorsi distintamente che cresceva in me l’impazienza di un deserto totale che ponesse me lontano da me stesso, in pace. Ed era una pace singolare, quella che pretendevo dal deserto, la pace di chi a ogni passo intende gettare qualcosa dietro le spalle, fino a restare nudo come per mettersi in tinozza. Ma io non volevo la tinozza, che è un avello scoperchiato, volevo possedere l’estremo senza intralci, in ogni direzione. Non sapevo più di questo, e solo sapevo ormai che le antichità di Ghirza erano state soltanto l’occasione appena plausibile per poter intraprendere il viaggio, e che questo avveniva come fosse stato prestabilito al di fuori di me, al punto di farmelo cominciare a ogni costo, con compagni casuali, mai conosciuti avanti. Ancora pochi giorni prima non ne sapevo nulla e ora, a un tratto, lo sentivo un transito obbligato della mia vita, quasi, pensavo con immagine grottesca, la pubertà della maturità.
La nostra macchina, più veloce, andava per prima: seguivano le altre due. Ma i contatti rimanevano assai scarsi. Di qui avvenne che, arrivati a Bir Miggi, dopo le gole di Tarhuna, invece di fermarsi per ricomporre il convoglio, si proseguì da soli, e ci si arrestò soltanto un po’ di chilometri dopo, e perché si prospettò un evidentissimo bivio. Ci si ferma e si scende. Il terreno era di una concessione italiana, o che fu italiana, non so: ulivi, fichi d’India ed eucaliptus. L’aria si serbava fresca: ai margini della strada vi erano piccole erbe fiorite che non conoscevo, ma senza profumo. Mi sedei per terra.
Passò un ragazzo arabo, quasi negro, scalzo, davvero a brandelli, ma con i libri di scuola. Si fermò: Mohammed gli chiese di dove veniva, e lui disse dalla scuola e che a piedi doveva fare non so quanti chilometri, ma parecchi, scalzo sull’asfalto arroventato. Non ci voleva molto a pensare con odio ai nostri cari ragazzi svogliati, fannulloni, viziati, rissosi, dai più ricchi ai più poveri. E questo povero negretto, scalzo, col suo quinterno di sapere sgualcito: e per di più un sapere arabo, che è come dire chiuso come una noce, senza sbocchi che non si chiamino, ora come allora, guerre sante o contro gli ebrei o contro gli europei. E lui, a piedi, scalzo, sull’asfalto arroventato, si rinfrescava con questo santo sapere.
Finii per essere così turbato da quel Muratori in erba che, scuotendomi, dovetti accorgermi che passava il tempo e le altre automobili non arrivavano, il ritardo non si spiegava. Proposi allora di tornare almeno a Bir Miggi. E lì si seppe che le altre due macchine avevano preso, infallibilmente, un’altra strada: oserei dire la peggiore. In seguito ce ne furono di più cattive, ma lì per lì si poteva sperare, senza inutili olocausti, di continuare sull’asfalto, almeno finché questo durava. Invece cominciò la volata su uno sconvolto fondo stradale, una specie di strada a sterro, che attraversava la solita distesa di sassi e di ciuffi di erbe dure, con qualche raro animale da pascolo. Ci incrociammo con delle automobili americane, e mi pareva d’esser sicuro che il Dottor V. sarebbe stato dentro una di quelle, e se ne tornava a Tripoli scazzifottito per averci atteso invano a Beni Ulid fin dalla mattina: e io sarei stato, allora, più furente di lui. Inoltre, per quanto Mohammed conducesse come un indemoniato, non si riusciva neppure a richiappare le altre due macchine del nostro scombiccherato convoglio, ancorché si vedesse la strada fino a grande distanza. Ma non c’era proprio nient’altro da fare. E fu solo quando si arrivò ai piedi di una rovina imponente di un castello romano, che trovammo, senza pene e senza affanni, Mrs. B. e l’altra automobile. Si seppe allora che una di quelle invadenti macchine americane aveva consentito di fermarsi al segno di Mrs. B., e così si era potuto sapere che l’amico archeologo, per una singolare congiunzione astrale, era stato raggiunto dalla precaria telefonata per radio, e ci aspettava con tutta la rassegnazione del caso a Beni Ulid. Ragione per cui, quantunque fosse già abbastanza tardi, si poteva fare anche più tardi e avventurarsi nella breve ascensione alle rovine del Castello, che credo fosse quello detto Gasr Dauani.
Il sole volgeva verso un tramonto altezzoso, e noi si salì la china presi di sotto, come appuntellati, dai suoi raggi. Arrivati in cima, risultò che in piedi restava solo un arco di ingresso con un gentile rosoncino d’alloro, e poi un altro dall’altra parte: una cinta fortificata, una fattoria-castello. Di lassù, il panorama dell’uadi, dove ancora, dopo più di sedici secoli, si riconoscevano benissimo i muretti a secco, romani, affioranti dalla colmata sabbiosa del piano: ossia tutto quel razionale sistema di chiuse e aperture a labirinto, che serviva a convogliare l’acqua, facendola serpeggiare fino a giungere nella grande cisterna: e questa si vide dopo, scendendo dal Castello.
Perché, l’uadi, sbaglierebbe chi credesse che è un torrente o comunque un corso d’acqua. L’uadi è solo un fondo valle che raccoglie l’acqua che scende dalle pendici, le quali, secche come ossi, non l’assorbono: e allora e soltanto allora, per il breve tempo di queste alluvioni, si trasforma in una ribollente fiumara. Imbrigliandolo e costringendolo lì a fermarsi e a zuppare la terra, là a uscire per colmare un’altra chiusa, a poco a poco, in quell’andirivieni la corrente superstite si lascia condurre entro i fianchi meravigliosamente squadrati, intonacati, eterni di una cisterna; e non senza una sosta preliminare in una vasca di decantazione. Qui c’era su un fianco perfino un levigato pozzo, stretto come un tubo, con tanti buchi a distanze regolari, quasi per dei piccioni, e sono per i piedi di chi ci deve scendere dentro per pulire la cisterna: insomma un miracolo di accortezza, ma talmente semplice e funzionale, da parere che rilevi da un istinto inveterato piuttosto che da un ragionamento. Sembrava impossibile che non si dovesse complicare per strada, per lo sterile gusto della mente che si accanisce su se stessa. È un alveare, è una tela di ragno, è un nido di castoro: ed è invece un’opera civile, agricola, militare. Non si può fare più onore a questa forma mentale romana, che a riconoscerle una tale superiore dote, da assumere la sicurezza, la semplicità, l’infallibilità dell’istinto. Su quelle pendici brulle, in quella terra rimasta arida e spoglia, c’era stato chi, quando era altrettanto arida – su questo non c’è dubbio – era riuscito a farci fermare l’acqua, crescere le piante, il grano e, in una parola, la vita. L’avevo visto con i miei occhi quel che c’era ora, se non fosse stato per le coltivazioni italiane, altrettanto coraggiose e altrettanto labili, purtroppo, di quelle romane: il povero contadino arabo che aveva seminato l’orzo in fretta e furia, dopo la pioggia, senza neanche estirpare i cespugli puntigliosi dal letto secco dell’uadi; e, fra quei cespugli mezzi secchi e coriacei, era venuta su un’erba stenta, subito gialla, alta una spanna, con dei baffi lunghi come un gatto. Era orzo, e con tre chicchi per ogni spiga. Ecco dove era discesa la civiltà. E davanti ai miei occhi stava invece il dispositivo sapiente, che con poco si sarebbe potuto riattivare: giaceva là come la Bella addormentata nel bosco, il corpo stesso da risvegliare, dell’agricoltura e della civiltà, della prima civiltà davvero ecumenica, totale.
Ma non ho ancora detto del quarto membro della compagnia, che io credevo un archeologo, ancorché troppo robusto e ben conformato. Inopinatamente si apprese che era il controllore delle cavallette. Che ci facesse con noi, è rimasto un mistero. Egli insegue le cavallette con dei sacchi di crusca avvelenata: e volteggia in tale bisogna dal Nilo all’Eufrate, dal Fezzan alla Cirenaica. Questa volta era lì, come se nelle tombe romane si annidassero i pericolosi insetti. E faceva quella gita come una gita di piacere, lui che, di deserto, doveva averne fin sopra gli occhi. Era un giovane posato, sorridente e silenzioso: inglese come il porridge. Ci dette utili istruzioni sulle cavallette: ma non gradì affatto che gli chiedessi se le avesse mai mangiate, come fanno gli arabi. Alla fine, un protestante, che conosce il Vangelo meglio di un cattolico, non poteva ignorare che erano state il cibo anche del Battista, quando s’era ritirato nel deserto. Non era dunque un’offesa.
Così ci rimettemmo in marcia, tenendo questa volta un ordine più serrato. E il paese rimase brullo, anche nel fondo valle; e sempre di quel colore rossastro, e più che rossastro, focato, che è il colore del deserto e non si può descrivere: ma fa pensare al cielo al tramonto, quando promette il vento.
Finché apparve, nella dolcezza della luce di crepuscolo, una vallata verdognola, con grandi ulivi, palme, una cupoletta bianca e piccola come un mezzo guscio d’uovo. Era Beni Ulid, l’avamposto del deserto.
Non solo perché si trova quasi a picco, da Beni Ulid si ha la sensazione d’essere su uno spalto. Dopo tanta steppa e tanti sassi, giungere a quella vallata dove si rivedono grandi selvosi ulivi accovolati, ciuffi di palme, qua e là un po’ di verde, proprio di vegetali e non solo di sempreverdi, fa di Beni Ulid un luogo quasi cordiale, agreste come un’ecloga. Il paese si stende lungo il crinale, con una Moschea bassa come un recinto e quel minareto tozzo, con la punta rientrata come un lapis. C’è poi il castello nano ma con i suoi romantici merli, e un po’ dappertutto delle anticaglie romane, capitelli e rilievi, strappati a tombe ignote. Sono scolpiti in una pietra rossastra, simile al tufo, e come il tufo granulosa, ma più dura, e sicuramente venivano da tombe sul genere di quelle che si dovevano trovare a Ghirza: ma l’unico rilievo, che ora è sopra la fonte, si dava in una redazione assai più conforme ai canoni classici.
Il paese fu costruito tutto dagli italiani, qualcosa più di vent’anni fa, la Moschea compresa, che invece sembra antichissima; come ovunque in Libia, vi si parla ancora l’italiano. Quando arrivammo, sulla piazza si trovò puntualmente il Dottor V. che ci attendeva, da quanto ci attendeva; si trovò perfino una camera ampia, una fontanella che tirava… Era come giungere nelle retrovie, lì finiva il viaggio con le strade regolari.
Intanto la sera era scesa come un sipario trasparente, col cielo puro, l’aria sottile e freddina, una luna a mezzo ma lucentissima. Dalla terrazza si scorgeva, in basso, il fondo dell’uadi con gli ulivi e le palme, sotto l’ombra come sotto un velo d’acqua, e sulle colline brulle di contro, quasi indistinguibili dal cielo, qualche luce qua e là, che rivelava le borgate indigene. Queste luci sembravano flebili nebulose, la pietra arsa dei muri, la stessa pietra delle colline, assorbiva i raggi come la cartasuga: intorno rimaneva, come nella cartasuga, un leggero alone. Non c’erano rumori, se non quello fitto fitto della centrale elettrica; nessuno di quei sussurri, voli, fremiti sommessi che danno come una penombra di suoni, in campagna.
In quel silenzio, il battito sordo del motore si sgranava a nastro, come l’impronta regolare e minuta che lasciano gli scarabei sulla sabbia: così liscio e indeterminato era il silenzio.
Ma non dormii: prima la luce elettrica che filtrava da un uscio e spaccava il sonno in due, poi la luce che presto cominciò dalla finestra. E quando ci alzammo, prestissimo, la lindura della mattina rivelò i paesi dove avevo visto le luci scarse come nebulose: ma li rivelò per le ombre, che il sole, a raso dell’orizzonte, imponeva anche a quelle case alte appena quanto un uomo. E io dovetti ricordarmi dei villaggi dell’interno dell’Anatolia, che non si vedevano finché non si era a due passi, le case come canili, da doverci stare carponi o quasi, e di fango. Queste erano di pietra ma ugualmente basse, disperate come casematte. Né un albero, né un minareto. Soltanto il sole nascente riusciva a infilare i raggi come per un invisibile cruna, aprendo fra cubetto e cubetto quelle sottili fessure d’ombra.
Prima di partire si dové pensare a qualche ulteriore rifornimento: c’era un abbozzo di mercato, pane, uova. Le uova si trovavano da un arabo che chiamavano il calabrese, e parlava speditamente italiano. Quando seppe che ero toscano, e lui aveva conosciuto un toscano, non voleva crederci. Lì per lì non capivo perché: non tardò a spiegarmelo. Perché non bestemmiavo; e con una perfetta c aspirata intonò allora una fanfara di bestemmie che avrebbe fatto impallidire un carrettiere pisano. Bestemmiava e rideva: ma io sentii che non era per offendermi o farmi dispetto. Forse riteneva una superiorità dell’italiano quella di bestemmiare il proprio Dio, mentre un musulmano non l’oserebbe mai, e in lui non c’era nessuna animosità verso gli italiani, qualcosa di più di un buon ricordo.
Almeno nella povera gente, che è quella più numerosa, in questo paese così povero che nessuno l’aveva voluto prima di noi, e perfino la Turchia lo teneva al rango di colonia, nel popolo minuto non ho osservato traccia di risentimento verso gli italiani. Si è dovunque bene accolti, con grandi strette di mano e quel saluto arabo, così conturbante per un europeo, quando, dopo averti dato la mano, se la portano alle labbra e la baciano.
Non so, invece, se una residua simpatia si possa dire anche nell’attuale classe dirigente; di cui il fatto più singolare resta per me la confidenza eccessiva con la cultura se, per allineare l’ora della Libia su quella dell’Egitto, si è finito per confondere i meridiani con i paralleli…
Appena si fu usciti da Beni Ulid cominciò un pianoro che sarebbe stato liscio, voglio dire livellato, senza una sterminata distesa di sassi, ed erano sassi neri come imbevuti di morchia. Anche i più grossi non arrivavano a essere più grossi di una testa, e gli altri più piccoli sembravano il pietrisco delle strade. Di colpo non c’era più neanche uno di quei cespugli mezzi secchi, o un ciuffo d’erba dura. La terra sotto ai sassi era ferma, compatta, rossastra, come fosse limo depositato da un’alluvione e seccato da secoli: e i sassi, sopra, pareva che avessero galleggiato sull’acqua, e poi fossero rimasti a secco, fermi, come fulminati d’inerzia sotto il sole puro. In un momento erano scomparse le case di Beni Ulid, il recinto di un campo minato, e presto finì anche la pista dell’antico aeroporto. Continuava una pista quasi imperscrutabile, rotaie scancellate che si aprivano, si perdevano, si ricongiungevano, e di quando in quando un mucchietto di sassi per segnare una direzione vaga. Veramente non c’era altro. Il cielo stava sopra alla terra immobile come un falco, ostile alla terra, e la terra al cielo, nessun rapporto intermedio li legava: ma la terra era al fondo, in fondo a tutto. Se si fosse stati in fondo a un pozzo non si sarebbe avuto un’uguale irremovibile certezza di trovarsi così nel fondo, più in giù del polo. Uno sterminato piano, sparso di sassi senza limiti di orizzonte.
“E invece” disse il Dottor V. “l’orizzonte è meno sterminato di quel che si crede. Tutto è così appiattito, nel deserto, che basta un leggero ondulamento del suolo per porsi come estremo orizzonte e magari si trova appena a duecento metri. Non si riesce a misurare né le distanze né le grandezze e, senza il sole, non ci sarebbe direzione.”
Era vero, e potei costatarlo. Ecco che dopo poco compare, dietro un minimo avvallamento, un qualcosa che non si sapeva definire, torre o tomba romana: sembrava un rudere cospicuo e lontano dei chilometri. Neanche cinque minuti dopo ci si passava accanto: era un mucchio di sassi non più alto di un metro. Rimasi quasi turbato, perché veramente entro la linea blanda, rilassata dell’orizzonte in circolo non c’era lontananza e non c’era vicinanza: era come trovarsi sempre nel medesimo posto e, per spostarsi che si facesse, non cambiava. Un vento fresco, lungo, senza quasi respiro, rendeva l’aria leggera ancorché il sole fosse aspro. Io mi meravigliai di quel vento, e chiesi se era sempre così nel deserto. A poco a poco si sgretolava l’immagine casalinga che io mi ero fatto del deserto, come se non ci dovesse essere mai vento, e l’aria soffocante e immobile. Negli occhi mi restavano le dune profonde e maestose che il cinematografo ci ha abituato a considerare il deserto, e infatti, quando avevo attraversato l’Anatolia, nella Licaonia, e avevo visto i laghi salati e mi avevano assicurato che quello là era il deserto, io avevo dubitato. Non c’era sabbia, spuntava sempre qualche cespuglio e all’orizzonte si succedevano delle alture: infine, per quanto brutta, continuava la strada. Si aveva, allora, il senso di una terra spopolata che il disboscamento, quindi un intervento umano, aveva reso brulla, ma il deserto doveva essere altra cosa. Ora mi ci trovavo, ora non potevo più dubitarne; eppure continuavo a interrogare me stesso sui perché di quella accettazione del deserto, in forme così diverse da come l’avevo immaginato. D’altronde era avvenuto un distacco che poteva assomigliarsi a quando si coglie un fiore o un frutto dalla pianta. Rimane lo stesso fiore o lo stesso frutto, ma nulla al mondo lo potrà far riaderire al gambo tagliato. Ebbene io rimanevo lo stesso, sicuramente, ma quel vagare su un fondo brullo e sassoso, senza direzioni, con un orizzonte sempre spostato e sempre identico, aveva determinato come una cesura con la mia vita di poco prima. Tutto quello che nell’animo infantile era stato il mio disperato rimorso o il disperato anelito che qualcosa di accaduto non fosse accaduto, si trovava ora raggiunto con un’operazione indolore, senza spargimenti di lacrime o di sangue. Io mi sentivo tagliato fuori da me stesso, pur rimanendo me stesso: e come se il mio passato si fosse fermato alla strada dove questa si era arrestata. Su una pista ondeggiante, insicura, continuava la mia vita, ma questa vita era diventata a un tratto leggera a portarsi, come se fosse stata svuotata di tutto il suo peso dall’interno. Non era gioia, quella, non era piacere: ma appunto un distacco lucido, senza passione e senza rimpianto. I miei affetti non erano morti, i miei desideri non erano sfumati, ma vorrei dire che mi sentivo accanto agli affetti e ai desideri, presso di essi, non dentro di essi. Non una distanza, ma una mancanza di continuità mi separava da loro. Sicché cosa restava di me, se non l’occhio pacato che guardava intorno senza essere attirato da nulla: che cosa restava, se non questo dilagare della mia vita come una superficie estesa e inestesa al tempo stesso, le cui dimensioni reali non venivano da altro rapporto che dal rapporto che io creavo, insistendo sul suolo. Io divenivo naturalmente, senza enfasi alcuna, il centro stesso dell’universo; e ogni posto dove mi posassi o mi spostassi automaticamente diveniva quel centro, e io l’albero della vita. Come tutto ciò, con lucidità remissiva, si conciliasse a questa vita ridotta al solo pensiero che pensava se stesso, io non sapevo ancora spiegarmi, ma sentivo che l’avrei saputo; maturerebbe segretamente. Una rivelazione che non poteva rivelare nulla che già non sapessi, e tuttavia rivelazione.
Mi ero, con ciò, lentamente allontanato dagli altri. Mi passò avanti il camioncino di Mrs. B. e poi mi raggiunse il nostro, col Dottor V.
Si riprese coi soliti scossoni ad andare e andare. Lentamente il terreno cominciò a divenire diverso, riapparvero qua e là dei ciuffi di erbe giallognole e, a un tratto, passò davanti a noi un branco di gazzelle. Erano quattro, andavano con una velocità così prodigiosa, che io riuscivo a vederle solo per quei dati estremi che servirono ai primi uomini per fissare simili immagini di bestie sulle pareti delle caverne. Ricordo la testa eretta e quei garretti posteriori, salienti, altissimi. Erano vicine allo schema di se stesse, nel momento che erano quanto di più nobile, anzi fulmineo potesse attendersi.
Mohammed si scatenò. I sobbalzi divennero orrendi. Attaccati a due mani alla sporgenza sotto il parabrise, non si riusciva a sedere, come quando chi non sa andare a cavallo non arriva a prendere il tempo giusto del trotto.
“È il sistema per cacciare le gazzelle” diceva in quello sconquasso, e a singulti più che a parole, il Dottor V. “Si fanno correre tanto che alfine si stancano, cadono a terra e allora o si pigliano vive o si ammazzano con un coltello.”
Ma questa volta il terreno era così aspro e con una quantità così prodigiosa di sassi, che fu giocoforza interrompere l’inseguimento.
L’apparizione fantomatica delle gazzelle preveniva l’uadi, e io dovevo imparare che l’attraversamento delle sabbie di un uadi è assai più penoso del terreno duro e sassoso. Le cunette improvvise e gli sbalzi quasi a scatto, come s’apre un coltello a serramanico, mi consigliarono a puntare i piedi e le spalle, facendo arco: seduti non si stava.
Comparvero anche dei cammelli, un vecchio quasi immobile, che il passaggio delle macchine lasciò indifferente. Ma fra gli spinosi cespugli spuntò anche il misero orzo alto una spanna. E quella traccia di coltivazione in mezzo al deserto, a giornate di cammello dall’ultimo abitato, invece di rallegrare dava una fitta al cuore, ti rinfacciava di vivere. Poi dovevo abituarmici, e dovevo anche imparare come sia possibile, al nomade, abitare il deserto in modo ubiquitario. Ma io stesso, forse, non avevo avvertito la mia presenza come ubiquitaria, dopo che s’era sciolta dalle maglie della rete stradale, dal riparo delle case costruite, per cui, dove mi fermo, sto: e quella è anche la mia casa. Di lì a un po’ avrei visto apparire un arabo nel luogo più lontano dall’ultimo pozzo, e l’avrei visto fermo in quel luogo, non come uno sperduto ma con la consapevolezza tranquilla di chi sta al suo posto, si trova al suo posto. Sentinella o guardiano che, spostandosi, sposta il suo fronte e la sua custodia, non altrimenti che lui stesso. Portare lo spazio in sé come il proprio corpo: e quanto è esterno al tuo corpo competerti ugualmente, fermarsi, rimettersi in cammino. Non lasciar dietro a sé più di quel che non si trovi davanti a sé.
È il nomade, il deserto.
Al primo gruppo di tombe non me la sentii di muovermi. Si era giunti a un luogo detto Gasr Chanàfes dove, tanti secoli fa, all’incirca fra il II e il IV secolo, erano arrivati i romani e avevano pensato bene di costruirci quattro grandi castelli o fattorie fortificate, sulle sassosissime colline che contengono l’uadi e la pista. Arrivare in questi luoghi brulli, in cui la scarsa vegetazione spinosa e giallastra è ancora più desolata del deserto schietto, arrivare e trovare delle enormi rovine ancora abbarbicate al suolo, veramente fa provare un rispetto, quasi una reverenza per codesti romani. E dopo avere avuto la forza di viverci, trovavano anche la forza di celebrarci la propria morte con tombe monumentali, dalle pietre accuratamente squadrate e con motivi scolpiti che hanno un che di rupestre, di bizantino, di medioevale. Ma io, quel primo gruppo, non mi ero sentito di andare a vederlo. Si era appena ingozzato uno scarso boccone, e subito le mie provviste si rivelarono in ogni modo sbagliate, perché l’acqua minerale, divenuta caldissima, con quelle bollicine gassose pareva addirittura in ebollizione, e l’unico modico refrigerio veniva dalla ghirba del Dottor V. che, però, conferiva un sapore aggressivo di disinfettante all’acqua incredibilmente fresca che conteneva. In quel primo giorno non ero riuscito a superarne il gusto ingrato.
Si era rimasti d’accordo che, quando l’indomita Mrs. B. fosse giunta alle tombe, se risultassero degne di essere viste avrebbe fatto dei segni, e che nel frattempo ci si sarebbe divisi per esplorare i resti dei castelli. Così io cambiai macchina e mi trovai con quella guidata da Mahmud, un conducente eccezionale. Il mio castello non era tale da permettere una visita perché, avvicinato che fu, apparve ridotto a un cumulo immane di sassi: stando ai patti dovevo allora aspettare che mi raggiungesse il Dottor V. e pertanto ci si fermò. Direi che ce n’era bisogno. La traversata dell’uadi, in quel punto, era stata ancora più aspra.
Sotto il sole ardentissimo, mentre si aspettava dentro la macchina infocata, vedo Mahmud che fa un lancio e si distende fra le ruote. Lì per lì cedetti al sospetto di un guasto. Ma non era così. Mahmud si era disteso all’ombra della macchina, sotto la macchina, come un vitello si mette sotto la vacca per poppare; la macchina essendo per lui madre, tenda, casa. In quell’atto così naturale da essere ritornato istintivo, c’era tutto il nomade, anche se aveva imparato a guidare una macchina e aveva sostituito la macchina al cammello.
Poiché si seguitava a non vedere nessuno, decisi di tornare indietro. E allora si seppe che dall’alto, dove si vedevano le tombe, era stato scoperto un altro gruppo di tombe e bisognava recarcisi. Uscire dal letto dell’uadi è faticoso e tuttavia fa sperare in meglio, ma non trovare neanche l’abbozzo di una pista per l’ascesa di una collina di sasso, invoca almeno un carro armato. Per quanto di ferro, la nostra macchina non poteva dirsi indistruttibile e soprattutto aveva delle balestre e non dei cingoli. C’era proprio da divertirsi se si fosse rimasti con la macchina rotta in mezzo al deserto. Proposi premurosamente di andare a piedi, dato che non si procedeva certo più in fretta, ma Mahmud fu irremovibile nella scalata. Per di più quelle tombe, appena avvistate, si perdettero. È il solito fenomeno, basta una lieve ondulazione nel deserto per cangiare il giro dell’orizzonte, che per altro sembra sempre lo stesso. Ma l’orientamento, che nel mio stanco ceppo si deve esser perso da un pezzo, guidava Mahmud come un uccello. Quando credevo che mai più quei mozziconi sarebbero ricomparsi sul suolo, spuntarono come da un trabocchetto, spuntarono mezzi diruti ma con la perfezione ideale d’ogni loro parte, che del resto restava sparpagliata al suolo appena pochi metri più in là dalla base. Sono codeste tombe, per intendersi, molto simili a quelle famose dei Glossatori a Bologna, le quali a lor volta ripetevano un tipo romano di Sarsina, che s’apparenta a un tipo certamente nato in Anatolia e forse originario in Armenia. Tutti questi riferimenti contemplano però sbalzi di secoli non inferiori a quelli di territorio, e creano problemi squisitamente insanabili. Il gruppo che si aveva davanti era composto, o per meglio dire era stato composto, di sei tombe, due delle quali stavano fra l’obelisco e la piramide, e quattro invece con archetti sostenuti da colonne, il tutto montato su un alto podio. Naturalmente profanate e ricoperte di scritte arabe scolpite con pazienza inutile ed esemplare, recavano, oltre alle scritte, anche delle figure che si sarebbero dette rupestri, tanto naturalmente gli arabi ritrovano nella loro usanza nomade i tratti paleolitici: ma c’era il cavallo, e il cavallo guastava tutto, perché è arrivato tardi in Africa. Oltre alle scritte arabe s’individuò un avanzo di iscrizione con un nome libico-punico e caratteri romani ancora classici. I capitelli d’acanto spinoso, i rilievi rozzi e vivaci erano dello stesso tipo di quelli di Ghirza, che in parte avevo visto nel Museo di Tripoli e che in parte mi aspettavano a Ghirza. E poiché la data di queste tombe resta un mistero, per il momento lasceremo le cose lì. Ma l’impressione che fanno questi tempietti, a trovarli nel deserto, non è forse né maggiore né minore, ma radicalmente diversa rispetto a quella che farebbero se s’incontrassero in un luogo appena un po’ ricollegato alla natura campestre e alla vita umana. Era uno spiazzo, in cima alla lunga collina, e il terreno durissimo rimaneva sparso dei soliti sassi neri, un calvario; neppure un cespuglio, niente che proponesse un diverso ambientamento di quelle opere straniere al suolo e dedicate alla morte. La serenità del luogo non era per altro funebre; ma i monumenti non attraevano lo spazio, non qualificavano il deserto. Solamente stavano là, e dopo tanti secoli avevano costretto altri uomini ad andare là, e muti parlavano e diruti vivevano. Il deserto gli faceva il vuoto intorno, li fuggiva segregandoli, era il più forte, sembrava che si fosse ritirato lontano come una marea, lasciando quelle tombe come relitti di navi, torrette di galere, a pietrificarsi al sole. Sempre quello sbriciolo di sassi in superficie mi richiamava l’acqua, le inondazioni, e quanto più arido era il suolo. Il mondo dopo il Diluvio. E mentre così penso, ecco all’orizzonte un filo d’acqua ferma come una breve laguna: alberi dalla chioma arruffata si specchiavano là dentro, e un rudere immane d’un castello romano vi si rifletteva anch’esso. Il Dottor V. mi dette il binocolo, e la visione resisté al binocolo, anzi, ingrandita, divenne più vera, più limpida e l’acqua più irrevocabile. Dunque avevo visto anche la Fata morgana, e come a darmene la riprova, la visione si spostò su un lato, poco dopo ritornò, con volubile mobilità. Appena si spostava, il castello rimaneva, e quel che spariva era l’acqua e gli alberi. Ma gli alberi non erano altro che dei cespugli spinosi, che appunto parevano chiome di alberi chinati sull’acqua, sol perché il miraggio li sospingeva in alto. E io mi ricordai delle isole che in Egeo si vedono, in distanza, sospese sul mare, e talora anche le Eolie, da Lipari o Panarea. Ma quelle non si raddoppiano: c’è una fetta d’aria, al di sotto, come fossero la volante isola di Laputa. E qui invece il rudero, i cespugli si riflettevano nell’acqua immaginaria, e questo miraggio resisteva anche al binocolo.
In seguito ne vidi moltissimi, di tali miraggi, ma non mai uno così invitante e romanzesco come questo primo, dalle tombe dell’uadi Umm el Agerem, secondo che si chiamava lo sconvolto fondo che, lasciate le tombe, dovemmo attraversare, e non finiva mai, per riprendere l’incerta pista di Ghirza.
Ormai il sole stava basso sull’orizzonte, e il pianoro era tornato duro e sassosissimo, dopo l’ultimo dilatato sciabordante uadi. Volgeva al tramonto il sole, e da quella parte la terra finiva con una linea diritta come il mare. Ma se la linea del mare sembra piuttosto che si alzi all’orizzonte, questa della terra nuda si manteneva bassissima e il sole pareva che non ci arrivasse mai, non finiva mai di scendere. Si profilò intanto una fila di strane collinette piccole e a punta come i seni che Sant’Agata offre sul piatto, e due o tre vigorosi spunzoni di muri romani apparvero nella scarpata a destra; in fondo si videro i camion della piccola missione inglese dei topografi, che l’indomita Mrs. B. era riuscita a strappare all’Autorità di Tripoli.
Io dovetti subito pensare alla festosa scena che si sarebbe svolta se, invece di essere inglesi, quei cinque ingegneri militari fossero stati italiani. Infatti non successe niente. Neppure le presentazioni. Semplicemente continuarono a piantare le loro tende come se fossimo risultati invisibili, o come quando un ufficiale entra di soppiatto in una camerata e nessuno dà l’attenti. Né prima né dopo mi son saputo spiegare tanta villania. La colpa predominante fu certo del Maggiore, perché i quattro tenentini, rosolati come tocchi di filetto, cercarono in seguito di allungare qualche cortesia. Il curioso era che il Maggiore, dall’alto della sua testa dove conservava come in un ciborio la sua superiorità, perfino appollaiata su lui stesso, non spirava neppure alterigia: era tutto un no comment. Noi non esistevamo e non dovevamo esistere, e il suo modo di tollerarci era di renderci periferici alla sua esistenza militare, assimilandoci al giro dell’orizzonte.
Discretamente andammo da Mrs. B. per pregarla di interessarsi lei alla assegnazione della tenda, nel desiderio abbastanza ovvio di passare la notte al coperto. “Oh, certo,” disse Mrs. B. nel suo italiano lunatico “ma prima facciamo il tè.”
Codesto tè ha assillato le nostre soste, ha ritardato le magre cene, è stato sempre presente e sempre fuori posto. Per maggiore vaghezza, Mrs. B. che tendeva, contrariamente al Maggiore, ad assimilarsi agli arabi una volta decollato l’aereo che la portava da Londra, fu quella l’ultima volta che chiamò il tè col suo nome inglese, perché in seguito lo designò sempre col nome arabo che suona tciai.
Come Dio volle, venne anche il momento per la nostra tenda. Un Tenente con un paio di baffi, che erano forse il suo solo sollazzo coloniale – dei baffi che accompagnavano, con due festoni di pelurie fino agli orecchi, le incredibili volute quasi austriache dei mustacchi veri e propri – codesto Tenente, giovanissimo all’ombra dei suoi mirabili baffi, venne con una palma, e sulla terra segnò con naturale gravità il solco dove doveva articolarsi la tenda.
“Il solco quadrato” bofonchiò il Dottor V. che era urtato quanto me da quella mutria.
Segnò il solco e con calma autorità ci intimò di togliere i sassi dall’ideale recinto. Eseguimmo, piantammo i paletti, e la tenda, come s’issa una vela, andò su e stette. Fu un bel momento. Si slegarono i sacchi, si tirò fuori la brandina da campo, si rifece il letto: e qui giunse Mr. S. con l’inattesa offerta delle zanzariere. Bianchissime, piegate come veli da sposa. È per veli da sposa, ci disse, le vendevano in Italia, durante l’occupazione-liberazione per lire mille alle indomite vergini italiane che, in quel velo, così più da vicino pregustavano, nelle sacre nozze, il letto nuziale. E spose sembrarono quando, nel tiepido antro della tenda appese alla corda, ci apparvero a incubare i nostri quattro lettini. Correggo: in realtà erano tre le zanzariere, perché il segugio delle cavallette, che insieme a Mr. S. divideva la tenda con noi, rifiutò il velo da sposa. Egli aveva dormito all’aperto a Beni Ulid, dentro un sacco a pelo con la testa fuori come un poppante nel port-enfant: e ora risultò che non voleva stare né dentro né fuori la tenda: o per meglio dire, colla testa stava sotto e con i piedi sporgeva di fuori.È chiaro che non doveva essere superstizioso, perché una simile posizione invoca da sola il cimitero.
Questa situazione aveva rialzato il nostro umore un poco depresso dall’accoglienza degli inglesi e, uscendo fuori della tenda, potemmo vedere quel che intanto era accaduto.
Da un lato gli autisti arabi avevano montato la loro tenda, e nel quadrilatero, che si era formato con il carro-botte e le altre tende, Mrs. B. accudiva alla cucina. Aveva aperto varie scatole, pane di fantasia, e, mescolato il tutto, questo tutto fumava sinistramente in un tegame. A poca distanza i cinque topografi si lavavano. Ognuno aveva un suo piccolo utensile per farlo, chi una bacinella di plastica e chi una bacinella smaltata: il più raffinato era il pubblico ministero delle cavallette che possedeva niente meno che un lavamano pieghevole, fatto a stecche, cioè come un arcolaio per dipanare la lana e, in mezzo, una cestina da lavoro che era la catinella di stoffa impermeabile. Il lavacro avveniva in pubblico, e stava a mezzo fra l’edificazione e la mortificazione: perché infatti né io né il Dottor V. possedevamo una catinella, né mai una ce ne fu offerta. Secondo le personali inclinazioni il resto del lavaggio serale ebbe delle sfumature. Stante che la pudicizia era di stretto rigore e che, a scanso di cattive interpretazioni, tutto doveva avvenire all’aperto, le parti che in genere hanno più bisogno di essere sciacquate rimasero all’asciutto. Occorre dire altresì che, quando arrivammo, i cinque inglesi erano assolutamente vestiti, nel senso che il Maggiore aveva perfino i calzoni lunghi, e i pollastrini quelle specie di mutandoni che gli inglesi credono di poter chiamare shorts, le calze fino al ginocchio e delle amabili ghettine alla caviglia. Il Maggiore si tolse la camicia e rimase con una canottiera casta come un reggipetto: si lavò lungamente il volto e le braccia.
I tenentini si tolsero anch’essi la camicia ma non avevano canottiera e apparvero quello che erano, dei bambini cresciuti, stretti di petto e senza un pelo. Dopo essersi ben bene risciacquati, ma sempre, per economia comprensibile, con la stessa acqua, presero le seggiole pieghevoli e si sedettero. A questo punto si poteva credere che sarebbe intervenuto il pediluvio: ma questo risultava imbarazzante, anche solo a nominarlo, per un inglese. In realtà erano così ben coperti da calzettoni e ghettine che un’unica parte esposta aveva bisogno della saponata, i ginocchi, e i ginocchi, bianchi come teste calve, furono tutti sciacquati: otto in tutto. Solo l’uomo delle cavallette, che, possedendo un lavamano, si sentiva più indipendente, con naturalezza intinse un piede dopo l’altro nella sua cestina-catinella. In quanto a Mrs. B. faceva da cucina e non aveva tempo per lavarsi.
Io possedevo una borraccia. Con la borraccia feci quel che potei, poco di sicuro e pudicamente dietro la tenda. Il Dottor V. aveva anche un gavettino, che si dimostrò un oggetto chiave, insostituibile. Col gavettino veramente il Dottor V. versava su di sé acqua lustrale, come in un rinnovato battesimo.
Fu solo dopo le imbarazzate abluzioni, che mi resi conto di quel che era accaduto nell’accampamento vicino al nostro, ossia nella tenda degli arabi. La differenza di classe s’impose. Quelli si vedeva che erano figli del deserto, e sapevano di colpo riprendere le abitudini che il viver nomadi impone. Macché lettini, macché zanzariere: si erano portati una stuoia, un barracano e una teiera. La stuoia la distesero all’ingresso della tenda e senza imbarazzo, tolte le scarpe, ci si accoccolarono sopra. Intanto uno di loro, mi pare Mohammed, era andato a scovare l’ultimo avanzo di quello che era stato un albero di acacia spinosa, e subito era riuscito a fare un focherello: poi aveva scavato una cunetta tonda nel terreno, come fanno le massaie quando scocciano le uova per fare la sfoglia. In questa cunetta depositarono i carboni accesi, e sui carboni accesi misero la teiera, piccola, di smalto azzurro, a bollire. Perché gli arabi che vivono di tè, lo fanno bollire dentro l’acqua, fino a tre volte. E il primo è fortissimo e con tanto zucchero come il giulebbe. Col tè si sostengono, vivono, si muovono e fanno figli.
In quanto a Mahmud, tirò fuori una lampadina e un filo: l’attaccò alla batteria del camioncino, sospese il tutto all’ingresso della tenda. Essi avevano la luce elettrica e noi no. Stavano, infinitamente conversando, con i barracani multicolori addosso: e fumavano.
Non appena era caduto il sole c’era stata una caduta precipitosa del calore. A parte che il vento aveva spirato sempre con un alito fresco, anche nei momenti più accesi, ora che il sole era scomparso, il fresco aumentava di momento in momento, come quando in una stanza fredda si spegne la stufa.
L’effetto di questa prima ombra notturna era quello di trovarsi sotto una campana immensa di cristallo: e solo quando si alzò la luna, diminuì il senso di essere rimasti prigionieri del cielo, come le lucciole sotto il bicchiere rovesciato.
Il fresco, oltre che nel vento, pareva di riceverlo dal suolo come se montasse una impercettibile marea, e il corpo che aveva subìto il caldo secco di una giornata lunghissima, si riprendeva a quel fresco, sembrava che per conto suo sbocciasse. La fatica accumulata alle giunture, alla schiena, si ammorbidiva: rimaneva ma non come una nemica prepotente e intrattabile. C’era un gusto senza pari a dover cercare in fretta una maglia di lana, come a essere in cima a una montagna; e alle gambe nude veniva la pelle d’oca, ma pareva piuttosto che la pelle, come i fiori sotto la guazza, rialzasse la testa, palpitasse, vivesse per suo conto: e che allora non andasse disturbata, soffocata nei panni. Era il fresco più squisito di questa terra: la guancia di una ragazza che torna da una passeggiata sulla neve.
Mr. S. venne a dirci che la cena era pronta.
La tavola era un tavolone messo in bilico su due latte di benzina: quanto più funzionale e dignitoso il conciliabolo arabo sulle stuoie, intorno al fuoco vero. Ci si andò subito dopo lo stufato, che doveva avere per me un seguito, anzi nessun seguito per il tempo che rimasi nel deserto. Ci si recò alla tenda degli arabi e mi venne fatto di ricordare quando da piccoli, subito appena mangiato, si fremeva per andare in cucina: dopo poco ci seguì anche Mrs. B. in aperta defezione dai suoi consanguinei. Gli arabi non erano né tristi né lieti, come si conveniva al luogo e alloro nessun entusiasmo per quella specie di degenza nel deserto. Per essi il deserto non sfoggiava né l’attrattiva dell’archeologia né quella della illimitata sospensione della comunanza civile; codesta sospensione era francamente odiata, ancor più che temuta, come un modo di ricadere nella condizione originaria di nomadi da cui faticosamente si erano sollevati, e che non si prestava a rimpianto. Perciò non vedevano l’ora di riandarsene, ma nel frattempo cicalavano. E chi non sa quanto chiacchierino gli arabi, non sa che cosa sia l’inesausto palleggio delle parole.
Notai che, certo per delicatezza verso di noi, Mohammed, che si era accovacciato dopo il nostro arrivo, non si era tolto le scarpe. In quanto a Mahmud sembrava impersonare l’allegoria della Temperanza, poiché da un bicchiere pieno di tè lasciava scendere dall’alto, in un altro bicchiere, il liquido scuro a filo che faceva la schiuma e poi, una volta che aveva fatto tutta la schiuma e quello di sopra era vuoto, ricominciava da capo: finché dovetti chiedergliene la ragione. E tutti ne furono sorpresi perché è ignorare una cosa ovvia, che più gli si fa fare schiuma al tè e più squisito diviene. Cosicché vollero immediatamente farmene assaggiare in uno di quei bicchierini piccoli come ditali, e che pareva pieno di bava gialla, altro che schiuma. A mala pena, per via del sonno, riuscii per il momento a esimermi.
Tornando sui nostri passi si ritrovò la compagnia degli inglesi che stava sciacquando e asciugando piatti e posate. Con quella sabbia impalpabile del deserto venivano pulitissimi. Mi sentii pieno d’onta. Ma ormai, per quella sera, era andata. Anzi, facendomi coraggio, impetrai da Mrs. B. un bicchiere, perché veramente io ero il più sprovveduto di tutti, e a bere nel gavettino del Dottor V. risultava un supplizio per ambedue, avendo instaurato la cineseria di risciacquare il gavettino dopo averci bevuto a turno, che era uno spreco d’acqua illegittimo e un fastidio senza fine, anche perché non veniva mai fatto di bere abbastanza, e quando uno aveva bevuto e sciacquato, mentre l’altro beveva, gli tornava più sete di prima. Ma il bicchiere non esisteva fra gli item di un accampamento nel deserto. C’erano delle tazze smaltate in cui si prendeva il tè e che conservavano inalterato calore all’acqua che ci si metteva dentro. Comunque ebbi da Mrs. B. la sua stessa tazza smaltata, ma bianca e celeste come un pitalino. Me ne sentii fiero come Robinson Crusoe. E la riponevo con cura nel sacco, ogni volta, dopo averla riempita con l’acqua fresca della ghirba del Dottor V. Al qual proposito mi accorsi che già avevo assimilato completamente il sapore di disinfettante. Non me ne accorgevo più: come quando si entra in una stanza che c’è cattivo odore, e dopo un po’ non si avverte neppure.
Il pranzo era finito, la rigovernatura anche. E io mentalmente pensavo a come si sarebbero svolte le cose se ci fossero stati gli italiani o gli americani al posto degli inglesi. Con gli americani, un’organizzazione superiore: certo anche la doccia e la macchina per rigovernare i piatti, la radio, il vocio, gli O.K. Ma con gli italiani tutto sarebbe andato diversamente. C’erano gli arabi: ebbene che lavorassero, cucinassero, rigovernassero. Il fuoco era subito degli italiani, oltre che degli arabi: e nessuno, c’è da giurarlo, avrebbe lavato una forchetta. E gli arabi sarebbero stati più contenti che di sentirsi relegati in fondo al campo, come infetti. E ci avrebbero magari mandati al diavolo, al loro diavolo, ma come gente uguale a loro, più fortunata, ecco, ma uguale a loro, né solo perché gli italiani avrebbero avuto gli stessi occhi neri, i capelli scuri, la pelle olivastra, che ancora perpetua l’attività clandestina dei saracini intorno al Mille, oltre che sui campi di battaglia. Chissà che chiasso, chissà che risate: non bastava il deserto ad ammortizzarlo. E poi gli scherzi pesanti come sotto le armi. Gli arabi ci sarebbero stati al gioco. E non avrebbero detto di noi, come non l’hanno mai detto, se anche ci hanno fatto di peggio, a pezzi magari, quel che mormorò Mohammed, facendo brillare i suoi occhietti di berbero e all’indirizzo di quei tali con tanta mutria: “Bastardi, razza bastarda!”.
Finalmente si andava a letto. Sembrava una sciocchezza, dato che c’erano ben altre scomodità, a stare nel deserto: ma nulla è più imbarazzante che dover mettere i piedi nella polvere dopo essersi levate le scarpe, prima di entrare a letto. Gli arabi, con la loro stuoia, avevano risolto ogni cosa. Tuttavia mettendo nel letto prima un piede poi un altro, con un certo contorcimento si riesce a evitare il contatto impuro. Ecco che ora la piramide della zanzariera ci trasportava quasi nella culla. Che sicurezza, che tepore, con due coperte di lana e il cappottino per copripiedi, che l’eccessiva prudenza mi aveva fatto portare e che finalmente serviva a qualche cosa.
Spenta la lampadina portatile e messala a portata di mano, chi pensava più agli scorpioni, alle scolopendre, alle vipere cornute, con cui mi aveva rallegrato alla partenza il lepido Mahmud. Dalle sue parole era balenato il deserto come un vivaio di codesti animali, altro che un deserto. E solo allora mi resi conto che la zanzariera era l’inutil precauzione; zanzare sicuramente non ce n’erano. Ma la zanzariera, oltre che a tenere caldo di notte, fu preziosa di giorno per le mosche. Perché le mosche sono un flagello nel deserto. Il buio della tenda era piuttosto una discreta penombra, dato che, come ho detto, il nemico delle cavallette dormiva con i piedi al fresco, e quindi da una parte la tenda rimaneva sollevata. Un lume di luna entrava con un raggio cristallino, preciso, impersonale, come in Piero della Francesca. Io sentii, dapprima, un grande indolenzimento alla vita per la notte prima e il letto duro. Ma fu un attimo. Come sotto l’impero di un narcotico, divenni lontano, remoto. Da me come tutte le notti, confusamente arrivarono i miei morti.
Non ebbi il coraggio di domandare se avevo russato. Certo che dovevo aver russato, non potevo mica stare sveglio, e dunque era inutile parlarne. La luce entrava da tutte le parti, anche dalle cuciture della tenda. Una volta aperti gli occhi non si potevano più richiudere. Ed era presto, così favolosamente presto che minacciavo di assistere ancora all’alba. Il giovane delle cavallette era già fuori: Mr. S. calzava certi stivali variamente affibbiati che parevano calighe romane, in chiave col luogo dunque. Il Dottor V., con uno specchietto su un sasso e a sedere sui calcagni, si sbarbava. Era indubbio risultassi l’ultimo ad alzarmi. Presi la mia borraccia e prima con una mano e poi con l’altra mi detersi il viso: non c’era molto altro da fare, e il fastidio che dava di toccare il feltro della borraccia con la mano insaponata, toglieva il desiderio di insistere. Comunque dovetti recarmi varie volte a riempire la borraccia all’autobotte: là intorno fervevano i lavaggi, esattamente gli stessi della sera prima, quasi che si trattasse di un secondo turno, come al vagone restaurant. Ed erano i medesimi pollastrini, era il medesimo Maggiore con la pudica canottiera. Mrs. B., impavida fra tante abluzioni, redigeva l’ennesimo tè. E poi vennero le scatole di latte e quella congerie di pagliuzze secche, di crosticine dorate che in una scodella fanno da pappa mattutina. Questa volta io, fierissimo, bevvi un personale succo di frutta, rifiutai il latte e la pappa, accettai solo due dita di tè. E subito dopo nuova rigovernatura. Fu una gara scintillante, sembravamo pecchie operose. In tanto fervore direi che ci s’era quasi dimenticato lo scopo di tutto quell’incomodo, come a dire i castelli-fattorie romane, le tombe. Ed era un peccato. Nella luce rosea della mattina le rovine lanciavano a lato lunghe ombre di seta, trasparenti come cortine. La pietra dorata rivelava i conci uno a unno e i cumuli di macerie sembravano anch’essi ordinati, tanto distinte si sillabavano le pietre cadute. Il fresco che alitava pareva scendere da ali invisibili che volteggiassero nel cielo. Era una mattina, che tutto sembrava dovesse ricominciare nel mondo. Un’interruzione durata dei secoli.
Col Dottor V. ci avviammo per l’ascensione; prima le tombe, poi i castelli-fattorie. Un altro gruppo, quello degli inglesi, sarebbe stato capeggiato da Mrs. B. cui competeva la spiega adatta per i topografi. In quanto agli arabi, si sguinzagliarono senz’ordine, e quando meno ci se l’aspettava, ecco spuntare da un mucchio di sassi il berretto di Salem, l’unico che non portasse un copricapo arabo, o la papalina rossa, la tachía, di Mohammed. Poi, come lepri, schizzavano da quell’altra parte.
Ma quando i nostri gruppi si incontravano, si ripeteva la stessa scena dell’arrivo, l’incontro non faceva materia: praticamente non ci si incontrava.
L’escursione, di colle in colle, fu lunghissima: prese non meno di sei ore. E come la sera il caldo, tramontato il sole, calava, avresti detto a vista d’occhio, ora, via via che il sole saliva, il calore aumentava a scatti come salisse i gradini. lo ero beneficato dal mio casco, e fu con supremo contento che, quando scendemmo e la compagnia si ricompose, potei notare i guasti che una escursione nel deserto aveva prodotto sugli inglesi. Il nemico delle cavallette, ancorché dovesse essere il più attrezzato, a un certo punto non aveva trovato di meglio che mettersi il fazzoletto in testa, con quattro nodi. Ciò lo declassava al rango di un muratore. Ma lo scempio maggiore avvenne nei pollastrini. Ancora, quando ci si era imbattuti al primo gruppo di tombe avevano la camicia, ma alla discesa le camicie erano scomparse, i calzoni corti d’ordinanza era diventati cortissimi, arrotolati fino dove la cosa era fattibile, le calze, abolite le ghette, scese sotto la caviglia: insomma, non c’era rimasto che la stretta decenza di quella tenuta impeccabile della sera prima.
Ormai ci sarebbero state superfici assai più vaste da lavare, insaponare, detergere, e con quale dolore, perché, per quanto già rosolati dal sole, la mattina dopo furono tutti rossi e dovettero ungersi. Allora, se ci si unge non ci si lava, è positivo.
Ma è tempo ormai di parlare delle rovine.
Paulo maiora canamus, dunque. Delle tombe, intanto, c’è quella che impropriamente viene detta dorica, che è quasi intatta. A terra sono cadute, soltanto, le volute grevi degli acroteri-antefisse, che praticamente ornavano tutta la trabeazione come una specie di merlatura. Questo coronamento, in opera, doveva dare un’aria particolarmente ottusa alla costruzione già greve in sé. Montata su un alto podio, aveva, questa tomba, due camere sepolcrali: eccezionalmente una sopra e una sotto. Vi si doveva seguire il rito dell’incinerazione, e per versare l’offerta c’era, all’esterno, una pietra con un canaletto quasi a ferro di cavallo, che portava a un condotto interno fino dentro la cella. Più di questo non si sa e, come si vede, non è molto. Né le scarse iscrizioni hanno aperto differenti spiragli. In quella rinvenuta sulla tomba dorica si incontrano nomi strani come Nascich e Nimmir. Si vedono, marito e moglie, rappresentati su un lato, sotto il portico: due busti geometrizzati, quasi astrattizzati, come le teste nelle monete bizantine. E cioè, con gli elementi occhi, sopraccigli, labbra, narici – riportati in rilievo, come con dei cordonetti di pasta. I panneggi sono delle striature che si incrociano come l’impagliatura delle sedie. Questo insolito modo di sintetizzare un panneggio e un volto, mi aveva già sorpreso nei rilievi che da Ghirza erano stati portati al Museo di Tripoli, ma qui, occorre sottolinearlo, mi meravigliava anche di più. E intanto per questo: vedevo il rilievo, indubbiamente barbarico, in opera e non dissociato in un museo. E il luogo, dove era in opera, non aveva l’aspetto inconsueto delle altre tombe, anzi nel complesso questa tomba a tempio mi si presentava, quasi ostentatamente, in rapporto con la sintassi architettonica classica. Né l’alto podio, né il giro di colonne, correttamente a sostegno di una trabeazione, poteva dirsi che dissonassero. C’era, è vero, una distanza maggiore degli intercolunni che quasi formavano quadrato con le colonne tozze, e c’era il tipo del capitello, scolpito da un orecchiante, sul composito e sul corinzio; e poi quella teoria di volute come una processione di chiocciole sull’orlo della trabeazione: ma il complesso, seppure dialettale, teneva ancora nella struttura classica.
A un tratto, quasi casualmente su un lato, e di qui e di là dal timpano della simbolica porta chiusa, ecco le sculture quasi piatte e comunque a bassissimo rilievo, ritagliate più che scolpite nella pietra, e senza nesso strutturale, neanche vago, con il resto del complesso decorativo, marginali come i disegni che si fanno al telefono. Sculture che d’un balzo raggiungevano il Medio Evo: perché sfido chiunque incappi in codesti rilievi, che ribollono a caso dalla tessitura levigata dei conci regolarissimi, ancora commessi all’esterno senza malta, sfido a non ricordarsi di S. Michele di Pavia e di S. Pietro a Spoleto. Questo sbalzo dalla classicità al Medio Evo, senza stazioni intermedie bizantine, non può non rendere perplessi. Inoltre il riferimento che ho fatto alle monete bizantine dal VI all’XI secolo, non riporta più facilmente questi rilievi verso Bisanzio, perché le stesse monete bizantine rappresentano un modo figurativo singolarmente a latere, seppure congruo, rispetto a quella che è la plastica dominante sia figurata che ornamentale. Inoltre anche i numerosi capitelli con l’acanto spinoso, che qui più insistentemente ricordano i capitelli verso il V e il VI secolo, mantengono una struttura classica, e solo la versione plastica diviene la versione quasi graffita che in genere si considera tipica ancor più del VII secolo fino all’XI, e in area europea, piuttosto che africana e del Medio Oriente. Io già mi ero dovuto accorgere che fin dal II secolo si può forse rintracciare, nel Medio Oriente, quella grafia che sta alla plastica diretta come il ricamo sta alla pittura, ma ora qui mi appariva in una anticipazione di morfemi già quasi medioevali, proprio perché di gusto barbarico. E sarebbe bastato, in un rilievo che è ora al Museo di Tripoli e proveniente da Ghirza, la stilizzazione del motivo architettonico degli ovuli, per ricorrere spontaneamente col pensiero ad analogo se non simile fraintendimento noto nel Mausoleo e nella corazza di Teodorico. Questo insistente sospetto di una formulazione barbarica, rende assai diversa la situazione dei rilievi di Ghirza rispetto a quelli di Palmira, che pure vengono alla mente, se non per effettivi riscontri, come esponenti di una situazione culturale non meno eccentrica. Ma analoga non è. I rilievi di Palmira nascono dall’innesto della cultura romana su un fondo che culturalmente, seppure con molta imprecisione, si può designare come propaggine iranica: la provincializzazione non è priva né di forza né di un’istintiva devoluzione dei valori della plastica volumetrica in quelli di una plastica delineata. Insomma a Palmira c’è un fenomeno di bilinguismo che si risolve in una continua collusione di modi interiormente avversi, come per quelle assuefazioni fonetiche per cui sarà quasi impossibile ad esempio a un cinese pronunciare l’erre. Viceversa gli scultori di Ghirza – e ora sapevamo che non erano degli isolati, perché a Gasr Chanàfes i rilievi risultavano identici – non si muovevano da una tradizione propria o dai resti di una tradizione propria, ma da figurazioni discordanti che contaminavano a modo loro. Per esempio, in tutti i rilievi è evidente che la figura umana è rappresentata con la soluzione di marca orientale e tipicamente egiziana, delle spalle di faccia, la testa di profilo, il bacino e le gambe di trequarti: l’occhio, rozzissimo, quasi apotropaico, anche sulla figura di profilo è di facciata. Questo modo di raffigurazione era desueto già tanto prima di Cristo: perché a Ghirza ricompare? In secondo luogo, accanto alla rozzezza esterna di questi rilievi più ritagliati che scolpiti, si nota la rimemorazione di modi rappresentativi che implicano la diminuzione – diciamo così, prospettica – delle figure in secondo e in terzo piano. Sono, codeste figure, rappresentate più in alto come volanti, ma il loro modulo s’ispira alla situazione spaziale che avrebbero potuto ricevere in un mosaico ellenistico o romano fino almeno al VI secolo. Insomma, per lo scaglionamento nello spazio in profondità, non si ricorre alla tipica e pressoché preistorica veduta dall’alto, come invece, ancora fra il I secolo a.C. e il I d.C., si vede che usavano i barbari Garamanti nei loro graffiti rupestri, e proprio lì in Africa. Ma questo innegabile riferimento alla tradizione ellenistico-romana, che trova inoltre riscontro nella vivacità di delineazione degli animali – cammelli, cervi, leoni, asini, e forse, ma è contestata, una giraffa – a un tratto cozza, e in modo assolutamente irrelativo, alle figurazioni che sono scene agricole o di caccia, con l’uso riempitivo di disseminare il fondo con ampie rosette e altri elementi isolati a carattere poveramente decorativo, per cui l’unico riscontro plausibile riporterebbe all’eguale uso che, di simili elementi dissociati, si fa nel fondo degli smalti limosini e mosani, ma nei secoli X e XI: quanti secoli allora dopo Ghirza? Questo è il problema. Perché notizie storiche mancano del tutto, le iscrizioni non riferiscono nomi né di imperatori né di Dei ma il luogo aspro e internatissimo, dove i monumenti si trovano, non può dar luogo a oscillazioni gravi, per le vicissitudini storiche. E cioè non si può andare oltre il IV secolo. Certamente ci fu, in epoca bizantina, sotto Giustiniano in particolare, una ripresa africana: ma prima c’erano stati gli Austuriani e i Vandali: e come, d’altronde, si potrebbe pensare a spostare al VI secolo quelle tombe e quei castelli, quando nulla fa sospettare che vi si possano riconoscere riti cristiani, sia pure eretici? Perfino il IV secolo, se si pensa alla veloce cristianizzazione dell’Africa, sembra azzardato. Ma in fondo non si sa neppure di che paganesimo si tratti. Certamente fa un’impressione sconcertante, quando nel Museo di Tripoli si vedono i resti della chiesa cristiana di Gariàn, che si scambiano con quelli delle tombe di Ghirza: quasi gli stessi archetti ricavati da un solo blocco, che sono così pacifici se appartengono a una chiesa del VI secolo, e così scomodi, se non eversivi, quando si debbano riconoscere in una struttura architettonica del IV secolo, come dovrebbero essere le tombe di Ghirza.
D’altro canto, quelle tombe, non sono né un capriccio isolato di un potente, né quell’unicum che si poteva sospettare dalla sola Ghirza. È chiaro come si ricolleghino a un vasto piano di opere fortificate lungo una ipotetica carovaniera dal Fezzan, opere fortificate che i romani si erano industriati di rendere autosufficienti a mezzo della mirabile sistemazione idrica degli uadi. Si è visto a Gasr Dauani, a Gasr Chanàfes, si vede a Ghirza: sono sicuro che spunterà un’opera di bonifica analoga in qualche altro luogo anche più nell’interno. Certo, il larghissimo uadi di Ghirza doveva rappresentare il capoluogo, e l’uadi, allora, sicuramente contava ulivi – si è trovato il frantoio – e grosse acacie spinose che fornirono addirittura le travi (restano i mozziconi in opera) per le fattorie a due e anche a tre piani. Trentanove se ne contano, a Ghirza, di codeste fattorie-castelli: e disposte, talune, quasi intorno a una piazza. Hanno mura alte, spigoli arrotondati all’esterno – come, ma all’interno, avranno le costruzioni bizantine del VI secolo – cortili dove prendevano aria le stanze: e in genere piccole porte, fatta eccezione di una grandiosa, con l’arco storto, ma grandiosa. Erano insomma fortilizi potenti: ma neppure un tempio: e quella che si dice chiesa è quanto mai opinabile. Indubbiamente occorrerebbero degli scavi; qualcosa dovrebbe pure venir fuori, monete, iscrizioni. Che questa gente vivesse solo nel culto dei morti è pure da prospettarsi: ma non so quanto sia plausibile. Indubbiamente circondava i morti dei fatti della vita, opere agricole, cacce; poneva le tombe fuori dell’abitato, su luoghi elevati, visibili, a cavaliere degli uadi. E per di più, come risulta non solo dallo stile unitario – pur nelle sue stravaganze – ma anche dalle poche iscrizioni che danno quasi soltanto gli stessi nomi, tutto fa supporre che la complessiva situazione idrica, agricola, militare della zona, non coprisse due generazioni, non più di cinquant’anni.
Ma il mistero resta: e quando sarà chiarito, almeno con una data che non risulti troppo vacillante, rimarrà sempre il fatto di queste comunità o stazioni di frontiera, autosufficienti, non solo per l’economia ma anche per la formula figurativa che avevano coniata. Comunità a sfondo religioso, e non certo iconoclaste, ma con degli Dei non personali; sicuramente nell’orbita imperiale romana – non vi sono scritte bilingui, come al tempo di Settimio Severo e oltre – ma chiaramente barbariche di fondo. Forse il ceppo fu semitico – i nomi lo fanno supporre – e certo, per i modi figurativi, l’affaccio s’indizia verso l’Egitto e il Medio Oriente, piuttosto che verso l’Occidente. A sua volta questa gravitazione non concorda col generale orientamento della Tripolitania che guarda alla Numidia piuttosto che dal lato dell’Egitto: ma, per i dati figurativi, è inoppugnabile. Almeno finché in Tunisia non venga fuori qualcosa del genere: e, anche allora, occorrerebbe pensare piuttosto che fosse un tale orientamento ad avere progredito sino a là.
Dall’alto delle tombe si vedeva, oltre la depressione dell’uadi, su un altro costone rispetto al luogo del nostro accampamento, un secondo gruppo di tombe, e a quelle si decise di recarsi nel pomeriggio. Intanto bisognava mangiare un boccone e riposarsi.
Per quanto la lunghissima sosta fra i ruderi avesse dovuto attirare l’appetito, in realtà io mi sentivo quasi senza bisogno di cibo: del resto la colazione fu, come dire, a volo d’uccello. Un po’ di tonno con cipolle crude, a cui di mio aggiunsi un formaggino, l’acqua della ghirba, e a letto.
La tenda risultò infocata al punto di mozzare il fiato. Siccome però il vento continuava, e non era il ghibli ma un vento fresco bastò rialzare la tenda ai lati corti perché fosse percorsa da una corrente continua, come in condotta forzata. E qui le zanzariere furono provvidenziali. Perché c’erano tante mosche appiccicaticce e distratte fino al punto di entrare, come nulla fosse, in bocca. E nulla è più revulsivo che sentirsi il sudicio insetto svolazzare in libertà sotto il palato. Letteralmente bisognava stare attenti a non aprire troppo le labbra. Ma con la zanzariera il riposo scese come la rugiada.
Mi svegliai leggero, con la pelle asciutta, e non potei fare a meno di pensare ai sonni estivi, affannosi, in una pozza di sudore, da cui ci si desta come bastonati.
Il secondo gruppo di tombe era distante e dovevamo riprendere l’automobile. L’accampamento aveva finito insensibilmente per neutralizzare il deserto. Appena se ne fu fuori della vista, fuori dell’uadi su un nuovo pianoro sassoso, il deserto si ricomponeva. Tornava nella dimensione che non ha dimensioni, per cui è sconfinato anche dove restringe l’orizzonte, nella privazione che tuttavia non fa terra bruciata. Lo sentii con crudezza quando a un tratto, lungo la incertissima pista, si vide una bottiglia vuota di gin, evidentemente a segnare una direzione. Dovunque i rifiuti risultano sgradevoli, ma qui, nel deserto, la bottiglia vuota si sentiva come una scorrettezza: c’era una severità che andava rispettata, una nettezza che era superiore alla pulizia, una mancanza d’ordine che non ammetteva il disordine. Cammelli, pecore, capre passavano e non lasciavano traccia: e quella che lasciavano era tale che si pietrificava subito, scompariva restando in vista come ghiaia. Gli arabi non lasciavano cartacce, latte vuote, bottiglie. Silenziosi trascorrevano in quel letto morto delle strade che sono le piste, note a essi senza contrassegni e anche senza le rotaie delle macchine. Solo, se qualcuno moriva in cammino lo seppellivano dove era caduto, sotto il peso di uno strato di pietre, e una sola a paletta al posto della testa. Nulla, se non quella pietra a picco, distingueva il luogo da quell’immenso cimitero di pietre che è tutto il deserto.
L’autista si accorse di aver dimenticato di mettere la benzina: era meglio rientrare al campo, si trattava di poche decine di minuti. Ma io chiesi di aspettare lì, che tornassero a prendermi: la pista era chiara, né poteva esserci dubbio. Così rimasi solo e mi sedetti fra i sassi. Naturalmente mi venne di ricapitolare quel tempo che avevo passato nel deserto. Si riduceva a ben poco: ma come il passato veniva a trovarsi a una distanza che rigorosamente il tempo trascorso non giustificava; questi limitati giorni s’erano distesi in me come un fiume in piena, non sapevo più quanto spazio occupassero. E domandandomi il perché di un tale sopravvento, io non potevo certo arguirlo dalle cose che erano accadute, e quasi non facevano materia, o da quelle antichità che avevo visto, e troppe altre, assai più importanti, dovevo riconoscerne per il mondo. Sicché in definitiva tutti i minuti episodi che si erano succeduti si riducevano a polvere di vita comune, che come polvere ricadevano, e si annullerebbero nell’indistinto. Ma io sentii che proprio il fatto di non essere che della vita comune si poneva come significativo, e che tutto ciò si disponeva in una prospettiva diversa, perché io mi trovavo come se, quella vita comune, la guardassi da un altro lato. Non era il lato opposto a quello da cui si guarda il palcoscenico, e tutto si riduce allora a una finzione: nulla qui diveniva finzione, anzi l’inospitale accoglienza degli inglesi, il pacato risentimento degli arabi, le scomodità di una convivenza improvvisata restavano col loro peso di realtà concreta e non si vanificavano. Solo che io le sentivo ora senza rancore, senza partecipazione attiva: mi trovavo come se mi fosse morta una persona cara e io potessi contemplare l’evento, non già con freddezza ma nella sua vicenda vitale più grande, illimitata, partecipe al passato e al futuro, mentre l’urgenza del caso singolo lo fa percepire solo nel morso locale e dolente del sentimento.
Tutta la vita mia continuava a essere la mia vita, certo, ma non era che un episodio, fra gli infiniti, del mondo e quel che contava realmente non poteva dirsi davvero l’incidente che mi aveva indispettito o la pochezza d’animo di un compagno, ma un fatto basilare che sottofondava tutto e non s’aboliva né si giustificava per quel minuto andirivieni come di onde di sabbia, ora così disposte ora cancellate, che variegavano le dune degli uadi e che sembravano le labili impronte digitali del caso, di un destino solo superficiale. Ma il vivere non si esauriva in quella cieca scrittura sulla sabbia, né si limitava alla persona che lo pensava. Ben altrimenti io sentivo e mi spiegavo ora quel che avevo percepito dapprima nel deserto, che ogni luogo indiscriminatamente diveniva un centro, il centro del mondo, e io l’albero della vita. Era giusto infatti, ma solo in questo, che non riportava tutta la vita alla persona, ma la persona investiva di una vita più grande, non già magnificata, non già superba d’incontrastato dominio. Onde compresi come nulla fosse più lontano dalla solitudine di quel che provavo da quando ero nel deserto. E come il deserto, così inteso, fosse ben altro che solitudine e derelizione. Io non mi sentivo derelitto, per quanto posassi come sul fondo dell’anima, per quanto tutto mi fosse più lontano del cerchio dell’orizzonte, per quanto la singolare spoliazione che avevo subito mi mettesse a nudo e come frugato dalla luce, per cui veramente ero di fronte a me stesso in una confessione totale. Non ero derelitto tuttavia e, se non provavo gioia, per la prima volta in fondo a me non covava l’angoscia, come il sotterraneo sempre aperto, la voragine in atto.
Una serenità sconfinata s’era aperta in me, come una alba. Il paese che mi circondava era tutto meno che un paesaggio, non era più neppure un paesaggio distrutto, come sono in realtà gli uadi che furono piante, furono biade. Era, con quello sconfinato letto di pietre, qualcosa come il fondo di un mare prosciugato o un differente pianeta. Ma era anche la terra come unità primigenia, come il numero uno che è tutti i numeri. Sentii allora che si dividevano le persone fra quelle che vivono in un paesaggio e quelle che vivono in terra, e come vivere in terra sia vivere con la terra, in una stretta prenatale. Certamente, vivere con la terra poteva anche venire frainteso alla base, perché la terra è ogni volta quella città, quella campagna, quel mare, come quella notte, quel giorno, quel tramonto; onde la distinzione, appena posta, sembrava si sciogliesse come la neve fra le dita. Ed ecco mi era sovvenuto il deserto per farmi intendere come la terra può non essere paesaggio, casa, fiume, mare, e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, all’essere dell’esistenza concreta, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita, come i rifiuti stessi, amorfi, sterilizzati dell’essere.
A una a una mi ritornavano quelle prime determinazioni che avevo isolato durante il viaggio: la mancanza di limiti che pure non è l’infinito, l’impossibilità di valutare le distanze e le grandezze, che pure non è perdita di una misura interiore, l’assenza di ordine che non è disordine. E ora avevo sentito che il deserto non è puro, ma è privo di qualsiasi impurità; che non è utile, ma non consente rifiuti. A questo punto mi colpì che tali determinazioni, per negative che fossero, erano anteriori alla mia stessa coscienza e al mio pensiero. Il deserto come esperienza diretta dell’essere.
E qui non mi persi, mi ritrovai. Onde tutte le conseguenze, che ne trassi e continuerò a trarne finché io viva, sono legate a quella rivelazione di un attimo che fu rivelazione di null’altro che di se stesso.
Haec requies in saeculum saeculi: hic habitabo, quoniam elegi eam.
Salmo, 131, 14
Si partì da Ghirza che era prestissimo: avevamo il sole d’infilata come un disco del tiro a segno. E la direzione che prendemmo era diversa da quella di andata, con meno uadi da passare e meno deserto. Appena cento chilometri senza strada e poi sarebbe cominciata la litoranea. Chiunque poteva credere che, avendo l’occasione di muoversi in due automobili, si facesse convoglio come per l’andata. Invece quella del Maggiore inglese filò via all’inglese, e dovevamo ritrovarla solo a Faschía.
Ormai, dopo quattro giorni di vita nel deserto, questo viaggio di ritorno non rappresentava un’avventura, ma non aveva perso quell’oscuro, arido, quasi inspiegabile fascino che dal deserto emana. E sentivo dentro di me un rammarico, non arrivo a dire un rimprovero, come quando si tradisce la persona che si predilige. Tornavo nelle città, riprendevo la vita che, da quella interruzione, s’era allontanata come il mare nella bassa marea, e aveva lasciato una battima nuda con pochi relitti, con pochi frammenti, cose sperse o dimenticate. Così mi erano apparse le rovine di Ghirza, e così le avrei ricordate, come in questo ultimo sguardo, rosee con tanta luce: come quando si getta un secchio d’acqua sulla pietra e appare lustra, vivida più del marmo. Quelle rovine sembravano dissepolte, non già dalla terra che non le aveva mai ricoperte, ma dalla memoria del tempo, che si era riaperta in codesto mattino, il primo mattino dopo la rovina dell’Impero romano, dopo le incursioni dei barbari, dopo il taglio che i berberi avranno fatto degli ulivi, riportando il ricco uadi d’una volta al nudo squallore di oggi.
Così io le avrei ricordate, emergenti dal pianoro secco e sassoso su cui ancora allungavano le ombre, sottili e nitide come frecce, le grosse pietre che lo cospargevano. E nell’aria rarefatta, ancora fresca della notte, mi parvero quelle ombre di sassi come in un quadro surrealista, dove non si sa mai se i sassi sono sassi o ossa; così in Tanguy, e mi spiegai, allora, perché nel dispregio in cui ho sempre tenuto codesta sedicente pittura, quei quadri di Tanguy avessero svegliato in me un interesse che allora non potevo neppure chiamare letterario, e che, ora lo capivo, mi anticipava oscuramente la privatività del deserto, piuttosto che quella in cui si concreta il distacco dell’immagine dall’oggetto della realtà usuale.
Mohammed guidava sempre con quella fondata spavalderia che sembra una caratteristica degli italiani, dei greci, degli arabi. Io, che non so guidare, partecipavo tuttavia per qualcosa all’acre soddisfazione che doveva avvampargli dentro con la possibilità di scorrazzare sul piano sassoso, senza tenere fissa la pista, e senza per questo uscire di strada, dato che strada non esiste e, fra sobbalzo e sobbalzo, non c’è gran divario che sia la pista o il piano nudo. Soddisfazione simile si ha, andando a cavallo, di farsi da sé la strada, la propria strada fra i campi; ma qui veniva a essere centuplicata dalla velocità e dalla potenza del motore che, con scossoni furiosi, possedeva quella superficie morta, insensibile e morta più di un pianeta disabitato. Mai, come nel deserto, la definizione di crosta terrestre da nozione diviene evidenza. È una crosta dura, nemica, che non assorbe neppure i sassi; quei sassi rugginosi che poi il sole fa schiantare e frantuma come se internamente esplodessero.
Si giunse a Faschía senza che il luogo si vedesse da molto distante: come accade nel deserto. E del resto il posto non è che emerga: c’è un’acacia spinosa, e quei recinti di pietre a secco, bassissimi, entro cui i nomadi mettono un tendone, e si accovano, quasi strisciando. Ma quel che fa di Faschía un centro nel deserto è la cisterna: ancora una cisterna romana, malamente intonacata di recente, e, sempre di recente, offesa con demolizioni e ricostruzioni – da Genio Civile – che mandano in bestia il mio collega archeologo. Ma è ancora la cisterna romana, l’opera idraulica d’una grande civiltà che è trascorsa ma che non si è spenta.
E questo di trovare, ancora in opera e in uso, un’apparecchiatura di più di mille e cinquecento anni fa, è stata per me una delle impressioni più profonde che abbia provato in Africa. Ma mentre cercavo di smantellare un entusiasmo che mi pareva eccessivo, e radunavo i ricordi dei ponti, dei templi, delle arene, ancora in uso in Italia come in Francia, per dimostrare a me stesso che non era un fatto così eccezionale di trovare una cisterna romana che ancora serviva al suo scopo; mi colpì l’evidenza inoppugnabile che qui non si aveva come a Roma, a Nîmes, a Verona, una civiltà che si era sovrapposta a un’altra e poi a un’altra, donde la pagina attuale risultava come un palinsesto, scritta e riscritta. Qui la civiltà romana arrivava in presa diretta al nostro tempo, era, per il deserto, ancora l’unica, la sola civiltà in cui il deserto s’era espresso, una volta per sempre.
Guardavo le nostre automobili accanto alla cisterna, sul cui margine stavano accovolate alcune donne che pazientemente tiravano su dei secchi d’acqua, e ne riempivano la ghirba. La ghirba vera ovvero un otre fatto colla pelle di un capretto (che sembra ancora un capretto, col pelo, le zampe, la coda, senonché manca la testa) andava benissimo d’accordo con la cisterna, coi cammelli, l’accampamento dei nomadi. L’intrusa era solo l’automobile che negava, senza riuscire a sorpassarli, quei relitti di civiltà trascorsa, l’attualità del mondo romano nel nostro.
Da quell’accostamento nasceva allora come uno stridore muto; la civiltà antica era partita dall’uomo per arrivare all’uomo, e chi l’aveva distrutta era ancora stato l’uomo ma di uno strato anteriore, di una barbarie che doveva a sua volta distruggersi e rigenerarsi a quel contatto. La nostra civiltà puntava invece all’automazione e al robot. L’uomo si stava perdendo per la strada, stritolato dai suoi stessi ingranaggi. Chi aveva fiaccato l’Impero, aveva poi cercato di costruirne un altro, su quelle rovine, imparando da quelle rovine. Ma il nuovo automate, se non distruggeva niente neppure creava niente: livellando, macchinando, cercava di scaricare l’intelligenza in meccanismi tali da ridurla all’istinto, retrocedendo l’individuo allo sciame. Il senso del macchinismo non è il socialismo, ma lo sciame. Donde questa opposizione dura, latente ma costante, fra la vera humanitas e la civiltà moderna. E io la ritrovavo in mezzo al deserto, fra l’orlo di una cisterna romana e due automobili. La civiltà che era riuscita a piegare la natura più ingrata, quella del deserto, all’uomo; la civiltà che fingeva di ridurre natura e uomo a un comune denominatore che prescinda dalla natura e dall’uomo; la vita della macchina, della scatola, del sole in lampade e della clorofilla in pasticche.
Ormai non dovevo più spiegare a me stesso il rammarico e l’avversione che si dividevano il campo, dentro di me: e io da un lato, tagliato fuori di qua e di là.
Un arabo si avanzò verso il Maggiore e gli offerse, per ringraziarlo d’averlo portato in macchina, una piccola gazzella viva dentro una borsa di panno: usciva fuori con la testa soltanto, e dalla paura sembrava divenuta di marmo.
Accarezzai quella testa che era quasi una bestia a sé, delicatissima e d’una densità specifica come fosse di materia piena. Nella carezza incontrai, e quasi mi punsi, le corna nascenti ma così aguzze; aghi parevano, e che dovessero scattare da un momento all’altro come frecce, scoccate dalla bestiola in cattività, in un ultimo anelito, per ferire e morire.