VIAGGIO NEL MEDIO ORIENTE

 

INGRESSO A BEIRUT

De lo que aquí adelante me sucediere avisaré a vuestra merced.

Lazarillo De Tormes

Delle montagne che fanno un po’ pensare alla Sicilia e alla Calabria, alte, quasi gonfie sul mare: e zone verdi, e paesi a strati, come morene di ghiaia. A un tratto dei rosa tenerissimi, quasi da lingua di gatto. E sotto, spinte avanti come un battaglione d’assalto, serrate come atletesse, le case nuove di Beirut. Ma che sia Beirut o altra città non si può dire: ormai le città si configurano tutte allo stesso modo. E se voi prendete quell’arrogante inizio di Roma, quando si arriva col treno da Firenze, e lo lanciate in mare, ecco quello che è la linea della Beirut rivierasca. Ma la luce ormai verso il tramonto, calda, orizzontale, migliorava di molto l’aspetto così decisamente ubiquitario della città. O forse erano soltanto quei monti verzicanti, troppo inattesi e repentini in questi lidi bruciati, a dare un’assicurazione di riparo, di riposo, e con una solennità compatta.

Appena accostata la nave alla banchina, vedo un grosso facchino che smanetta verso l’alto; grida il mio nome, non c’è dubbio. Mi sento felicemente scaricato da un arrivo che mi dava un certo nervosismo. C’è l’Emiro, c’è il facchino, l’autista, l’automobile, nessuna sosta ai bagagli: insomma come una scivolata sul corrimano della scala. In un momento sono in una camera ospitale, con un bagno novissimo, e due enormi finestre che danno su un galoppatoio fra i pini.

La città, così passando, mi è apparsa pulita, smagliante di automobili di lusso, civile d’una civiltà simile alla Svizzera. Il Libano, come Svizzera d’Oriente, gliel’ho detto all’Emiro. In fondo l’ha trovato giusto. Anche per le razze miste, le confessioni miste: e vanno tutti d’accordo. Il Presidente della Repubblica deve essere cattolico (maronita), il Presidente del Consiglio, musulmano, e non so che altra carica tocca all’ortodosso. Così mi piace, così uno Stato può essere confessionale senza esserlo. Sarà una presa d’immagine un po’ troppo veloce, la mia, lo ammetto; tutto non anderà così liscio. Ma insomma il Libano, paese del commercio, fetta di terra, fetta di montagne, e il mare per intingolo, con una mano si segna e con quell’altra si leva le scarpe per entrare nella moschea. Quel che conta, alla fine, sono gli affari e gli affari sono soldi. Macchine americane, alberghi con l’aria condizionata: e il senso di uno spasso generale, come in Italia. Ma sarà anche un po’ la colpa delle vespe e delle lambrette, modo di essere mediterraneo; e dei volti, in genere assai meno scuri di quelli che si incontrano in Libia o in Egitto. Parlano ancora e quasi tutti francese, e senza esclusivismi per l’arabo e le scritte arabe: sanno che la loro ricchezza è il commercio, e che l’alfabeto, il nostro, è nato proprio là, a Byblos, sulle loro sponde, e sarebbe come avere un conto in banca e non servirsene, ad adoprare solo la scrittura araba. Insomma, appena annusata, vista non lo posso dire, Beirut accoglie bene. E ripeto che davvero si annusa; c’è tanto meno olezzo di carne abbrustolita, mentre nei quartieri nuovi, sterminati per una città non grande, sul mezzo milione ma ricca, non belli, ma intercalati di giardini, passano certi odori intensi di gelsomino e di tuberosa, che è come se una bella donna e invisibile attraversasse lentamente la strada. E i pini, i pini delle Crociate (non saranno gli stessi, ma almeno i figli, i nipoti) ci mettono l’acre sentore della resina, amara e dolce, mossa nel vento come una sciarpa verde.

Certamente Beirut è umida; ci si sente gocciolare come da una ferita aperta. Rivoletti silenziosi, dalle ascelle, lungo il filo delle reni, un umidiccio rassegnato, inevitabile. Tuttavia non si soffocava e lungo il mare c’era un alito breve, come un saluto con la mano, a distanza.

Il primo contatto con una città, come con una persona, conta moltissimo, ed è un errore credere che sia superficiale di prenderne atto. Dopo, sarà come quando a furia di stare in una stanza non si sente più l’odore che ci piacque o ci disgustò, entrandoci. Per segreti sensi, che non sono quelli canonici, riceviamo; quando si tirano le somme, il totale non è mai quello che vorrebbero le cifre in colonna. E se si sbaglia, non è che sia più esatto il conto che vorrebbero le cifre. Berlino odorava di caserma, come Parigi ha il sentore delle piazze dove c’è stato il mercato; a Firenze, l’aria delle colline entra come una carrozza a cavalli, a Bologna, la polvere rigogliosa e sensuale della campagna. E la città sente tutto questo e l’esprime nei sapori, negli umori, non soltanto in quel sentore che è piuttosto come una perdita di gas, un pericolo superato se si avverte. Io reagivo a Beirut come fosse un modo di distogliermi dal deserto che mi aspetta, dal mondo arabo che si sarebbe richiuso dietro di me appena avessi passato quelle montagne. E in ciò, in questo suo essere una città di frontiera, ancora più che una città di mare, continuava la sua ascendenza fenicia, il fatto che tutta la costa non fu allora che una linea di imbarco e di sbarco, la sorte che fu, anche in Italia, per le Repubbliche marinare.

Fare un viaggio nel Medio Oriente, quando il mondo arabo si è scelto o subisce, come un nuovo profeta, Nasser, e quel volto ti ghigna da ogni vetrina, anche a Beirut, come già cominciava a vedersi pochi mesi or sono in Libia, è quasi sentirsi in perenne stato di accusa, sotto inchiesta almeno: nessuno te ne parla, ma lo sai.

Che diranno quei giornali che non riesci a leggere perché è arabo, che dirà la radio, che succederà fuori dei resoconti dei giornali in francese o in inglese, giornali per stranieri, con l’aria condizionata? Sento che comincia la sottile tortura dell’ignoranza che mi perseguiterà per tutto il viaggio. Sento l’orrore di tornare analfabeta, di smarrirmi di fronte al nome della strada che non so leggere. E, come quei caratteri indecifrabili, mi sembra debba essere indecifrabile la realtà a cui si riferiscono. Beirut, così europea, svizzera, è un paravento: con tutti i suoi luoghi di “estivage”, il verde degli alberi, la gente sempre più vestita all’europea. Dietro quel baluardo di monti gonfi, quasi grassi, sorgeranno altri monti senza un filo d’erba, in cui la pietra è più antica del mondo, e questo sembra l’abbia ereditato da un mondo precedente, in cui tutto fu detto, fu fatto, fu scritto. Qui i monti verdi, carichi di case nuove e di paesi che la sera sciamano di luci intorno agli alti edifici della Beirut nuova, ti illudono che anche questa è Europa, e siamo solo dall’altro lato del catino. Ma la radio, che non capisci, a un tratto ti diffonde una lamentela insinuante e, senza capirla, sai che è la preghiera del muezzin, e sulla cima dei minareti vedi, in mezzo alla falce della luna, la lampadina elettrica a far da stella. Sei in Oriente, non sei in Europa. Sei dove in te vedono il recente padrone, e perfino l’antico crociato contro cui guerreggiarono, e se lo ricordano anche quelli che poi si convertirono: sicché il mio Emiro non sa, lui così mite, persona di classe altissima, se può davvero accettare di far parte dell’Ordine di Malta, perché insomma i suoi li combatterono, e come e quanto, i cavalieri.

Come non stupirsi, nel veder affiorare questa questione perenta quasi da un palinsesto? Non appartiene al nostro tempo, ma neppure gli appartiene l’Ordine di Malta, ed è riproposta come l’inane sopravvivenza, quante altre ce ne sono e ben più gravi, di quel che essendo morto non vuole per altro scomparire. Ora questo è Beirut, dove a un tratto non sai se gli avi ti permettono di farti il segno della croce. Così, dietro a questo verde, preme il deserto.

 

SI PARLA D’ISRAELE

… cumque, introduxerit te Dominus Deus Tuus in Terram pro qua iuravit patribus tuis Abraham, Isaac et Iacob: et dederit tibi civitates magnas et optimas quas non aedificasti, domos plenas… quas non extruxisti, cisternas quas non fodisti…

Deuteronomium, VII, 10

Anche l’uomo deve divenire Uno.
Pitagora

Saliva, per larghi avvolgimenti, la strada sui contrafforti del Libano, e dovunque si vedevano case nuove, di pietra, forti: e la campagna piena di alberi di frutta. A ogni svolta c’era una casa in costruzione e un venditore di fichi, questi fichi minuscoli d’Oriente, in certi panierini a bicchiere, di canna. Tutto quel verde diceva che anche così in alto l’acqua doveva esserci: e c’è infatti, e mi ricordò il Gargano, sopra Rodi, così gremito di vegetazione, con le vene d’acqua leggere e silenti che sembravano nascere di sotto alle foglie morte, come i funghi. Finché si cominciò a scendere, e il piano della Beqa apparve bello e regolare sui suoi appezzamenti di culture. Mi colpirono le viti che vengono tenute riverse, con la chioma a strascico e il tronco forte e flessuoso che fa un’ansa. È chiaro che si tratta di un modo antico per tutelarle dal vento: ma deve essere una manna per i topi.

“Infatti” mi spiegò il mio vicino di taxi “ora le tengono in un altro modo.” L’altro modo è poi quello in uso in Puglia, una specie di pergola bassa: i tendoni insomma.

Via via che ci si allontanava dal più civile Libano, ricominciavano i tristi, anzi sinistri villaggi del tipo anatolicoafricano: case basse di terra, tetti di terra, neppure un albero o un cespuglio: e le porte aperte, come un’orbita accecata, nera.

“Sono i profughi di Alessandretta” mi disse il compagno.

Per poco uno se ne scorda, di questa tragica vita dell’Oriente, in cui i popoli sono nomadi come il flusso e il riflusso delle maree e, se si fermano, ritornano nomadi ricacciati, sospinti da altri nomadi. Il nomadismo di questi disgraziati sciami sembra una punizione celeste, sono nomadi come il mito di Sisifo, come la botte delle Danaidi. Ero appena venuto via da Beirut; mi trovavo ancora nel comprensorio della fertile Beqa, e già il volto scavato dell’Oriente si affacciava, come una luna scabra all’orizzonte, negazione implicita della storia, eterno ritorno.

La civiltà del bronzo scacciò quella della pietra, la civiltà del ferro si sovrappose a quella del bronzo, eppure i nomadi, se anche diminuirono, rimasero. E si può dire che i nomadi rimasero, perché rimase il deserto? Ma il deserto l’hanno nel sangue, i nomadi: se si è nati nel deserto, nel deserto si torna. Le guerre, le sconfitte, i trattati iniqui sono fatalità occasionali e ricorrenti che realizzano un persistente destino di base, nel senso che non sono causa ma questo di quelle.

Il mio compagno disse: “Naturalmente Lei si meraviglierà che le cose siano ancora a questo punto: che il provvisorio si normalizzi, e che questi orridi villaggi, si tratti dei profughi di Alessandretta o di quelli di Gerusalemme, stabilizzati nel precario, lo prolunghino per seco li. Vede, io ho vissuto per lunghi anni negli Stati Uniti, e intuisco benissimo quello che Lei sente; sono perfino disposto a darle ragione, non ad approvarla”.

Io rimasi stupefatto: l’uomo era incolore, senza età, nel senso che non era giovane e che la vecchiaia l’aveva colpito prima ancora della maturità, come un infortunio d’infanzia che ti fa zoppicare per tutto il resto della vita.

Riprese: “Anche lei non mi approvi né mi disapprovi: è inutile, se n’accorgerà bene. Lei è appena sbarcato dall’Europa, mi è parso di capire; vede ancora le cose dalla platea. Però si ricordi: anche Lei è responsabile, perché questa infamia di Israele siete voi occidentali ad averla incoraggiata, sovvenzionata, permessa. E l’America in primo luogo”.

“Andiamo” faccio io “proprio è sicuro di potersi assidere su codesto Tribunale Supremo? Sarebbe comodo ridurre la storia a due dimensioni, come una partita a dama. Troppe di più ne ha la storia.”

“Caro Signore” riprese il misterioso viaggiatore “allora ci potremmo divertire un pezzo su questo tono, e il viaggio è lungo. Ma io non ne ho voglia. Questa non è un’accademia, se ne ricordi. Qui siamo in guerra. E la guerra, per i popoli, è come l’agonia per le persone.”

“Parliamo allora del paesaggio” proposi.

“Vede?” riattaccò il compagno. “Lei vuol chiudere gli occhi di fronte alla realtà: Lei è venuto con le sue idee su Israele come con una valuta estera pregiata che non vuol cambiare. Ma è una valuta che qui non ha corso.

“Israele è più che un’ingiustizia, è un errore commesso a freddo e sostenuto col sangue, una sopraffazione storica e una prepotenza politica. Non c’è fissione dell’atomo che gareggi con una tale fissione della logica, della sacralità, della buona fede. Le pare ammissibile che si creda di poter cancellare secoli di storia per ricollegarsi a un determinato punto di questa, come se nulla fosse stato? Le pare che siano questi i tempi per rinvangare la terra promessa e il popolo eletto? Sono i primi loro a non crederci.”

“Ma non avete il diritto di parlare così, voi arabi” non potei frenarmi “che state ricalcando le pedate dei tedeschi e del vostro antico Drang nach Osten. Anche voi avete la terra promessa, tutta la terra, anche voi vi sentite il popolo eletto. Non si può rifiutare il diritto alla libera determinazione di un popolo, che si è conservato, a onta di inenarrabili deportazioni e persecuzioni, con la coscienza radicata del proprio sangue, non solo come sangue intrinseco ma come tradizione storica inalienabile. Questo è Israele, e non c’è dubbio che la Palestina è un simbolo, assai più che la sua ristretta realtà geografica.”

“E allora codesto simbolo poteva essere piantato ovunque, come una bandiera, senza bisogno di cacciare la povera gente dalla sua casa.”

“Ma nessuno fu cacciato, furono gli arabi ad andarsene, con la certezza di ritornare da padroni dopo quindici giorni. Però la guerra è guerra, e non fu così.”

“La guerra è guerra, certamente. E per questo continua e continuerà finché non saranno ributtati in mare.”

“S’illude caro Signore: quella spina nel fianco ce l’avete e la conserverete. Forse, se non gli si fossero sollevati tanti scudi intorno, agli israeliti, a un certo punto si sarebbero accorti dell’assurdità economica di uno Stato come il loro, che ancora deve sottoporsi al tesseramento. Ma, così osteggiati e odiati, si sentono rinfrancati nel loro diritto. Un’atavica disposizione al nomadismo ha assunto in loro le forme più consone a sopravvivere nelle civiltà diverse che hanno attraversato ma nomadi sono rimasti, come isole in mezzo al mare degli altri popoli. E ora, questo nomadismo radicale che li ha salvati, come su una zattera, dall’essere sommersi, rifiuta, negli israeliani, il mimetizzamento che la società offre, concede, incita di assumere agli ebrei. Hanno voluto orgogliosamente tornar nomadi nella terra in cui arrivarono nomadi e da cui sempre altri nomadi hanno voluto cacciarli. Lasciando una patria, una lingua, una terra, compiono il ritorno di un eterno ritorno che vogliono disperatamente definitivo. Nel fatto che di questa terra agli ebrei fu sempre contestato il diritto, assumono la forma ultima del loro strenuo nomadismo. In questo si sublima una eterna frustrazione, in questo si riscatta l’oscuro disonore del Ghetto: da gente pacifica, dedita al commercio, si sono trasformati in una nazione armata, e la loro terra, in un campo trincerato. La realtà è questa, e se voi li rimproverate per aver voluto riattaccarsi arbitrariamente a una plaga lontanissima della storia, come se secoli e secoli di altra storia potessero cancellarsi con un frego di penna, commettete lo stesso errore quando credete che questo fatto irrecusabile, di uno Stato di Israele, possa cancellarsi dalla storia e dal presente, come voi ne cancellate il nome fin dalle vostre gazzette, con una damnatio memoriae anticipata: e cioè, non come se fosse stato distrutto, ma come non fosse mai esistito, e voi poteste riportarvi di colpo al punto in cui vi lasciò la prima guerra mondiale.”

“Dai suoi connazionali in America” disse con freddezza lo strano interlocutore “ho imparato che ‘cosa fatta capo ha’. Israele è cosa fatta? Gli taglieremo il capo.”

Su questa frase sgraziata si chiuse nel suo mutismo incolore, nella sua età senza età; davvero immemoriale, come la disputa con gli ebrei.

Intanto ogni vegetazione s’era arrestata: si fu tra gole meravigliose, con sassi che sporgevano come costole fossili dalla terra, friabili, durissime e imminenti, appese al cielo. Erano d’un rosa folto, d’un grigio senz’ombra, erano lo sfondo per un popolo di giganti affamati e di eroi testardi. Così si annunziava Damasco.

Un rivoletto venne a scorrere sulla destra della strada, era poco più di un fosso. Lentamente ricominciarono gli alberi, a scaglioni, come una retroguardia stanca; crebbero, divennero carichi di foglie, stretti come fastelli d’erba.

L’acqua correva, il traffico s’infittiva. Apparvero i pennoni della Fiera internazionale di Damasco, e uno striscione in francese – mentre tutte le altre insegne e scritte sono in arabo – in cui si chiedevano aiuti contro la Francia che vuole sterminare gli algerini. Mi aspettavo un sarcasmo dal mio compagno. Rimase muto. L’antico siriano era riaffiorato ormai nell’emigrante americano, con l’odio per Israele, che dà una ragione d’essere, nuova e antica insieme, agli arabi, li rilancia nella guerra santa come in un gioco rovinoso dove si punta il tutto per tutto. Ma in una cosa almeno aveva avuto ragione; finora avevo visto il palcoscenico dalla platea. Cominciavo a trovarmi dietro il sipario.

 

NEL DESERTO SIRIANO

Verran strappate via la terra e le montagne, sgretolate d’un colpo.

Il Corano, LXIX, 14

Ormai avevo ritrovato il deserto, come ho imparato a conoscerlo in Libia, pianeggiante, cosparso di sassi sbriciolati e solo con i colli più numerosi all’orizzonte. Di tanto in tanto si vedeva crescere come una colonna di fumo rossastro: saliva, si avvitava velocemente su se stessa e poi si dirigeva verso la strada. Si chiudevano a precipizio i finestrini, e da quell’altra parte si vedeva disciogliersi, scarmigliata come una pazza. Oppure, lungo la strada asfaltata, appariva a una certa distanza una fila di cammelli: umilmente si riproduceva, a latere della via del progresso, la pista immemoriale, la carovaniera. Il deserto non può marciare sulle strade asfaltate, occorre l’indefinibile piano sassoso e polveroso, duro e attutito insieme dalla sabbia impalpabile in cui si disfà.

Già da alcune ore continuava il viaggio, e io non mi capacitavo di non riprovar nulla di quello che il deserto aveva suscitato in me, ponendomi al cospetto, in Libia. Lo capii in un attimo. Era il fatto della strada asfaltata. La strada non è una pista più sicura, resa stabile: la strada, sebbene percorsa e fatta per essere percorsa, non rappresenta il resultato del percorrere, del passar sempre sul solito posto. Di ciò la pista si giova e s’indurisce, di ciò la strada si deteriora. La strada è architettura.

L’avevo sempre sentito per le vie della città, per le vie di campagna anche, ma quasi per una felice contaminazione che alla strada proviene dal fatto di trovarsi fra architetture di pietra o fra una piantagione agraria, così scompartita di filari e di prese, da potersi considerare senza ambagi una pianificazione affine all’urbanistica, una pre-architettura. Tuttavia non m’ero mai accorto come la strada, in sé e per sé, possa rappresentare il grado, sia pure il più elementare, dell’espressione architettonica e la forma di base dell’urbanistica. Capivo anche il perché della noia che mi era scesa come un sonno, ma un sonno desto, che né mi faceva dormire né stare sveglio. Era il fatto della schematicità del tracciato e, d’altro canto, dell’autorevolezza del medesimo, per cui il deserto informe, il deserto senza controllo e senza tempo, veniva a trovarsi agganciato, padroneggiato, volto verso un punto fisso dell’orizzonte che lo inchiodava sul posto come una fucilata.

La strada, insomma, snaturava il deserto senza riuscire a portarlo sull’orlo della forma. Era come per i nomadi. Puoi costringerli entro un territorio, imporgli dove piantare le tende e non oltre. Non per questo divengono stanziali. La loro presenza è nel tempo, assai più che nello spazio. Ebbene, il deserto è nello spazio e non è nel tempo. La strada diritta a perdita d’occhio violentava il deserto, sia imponendogli i rudimenti di una spazialità coordinata da cui ripugna, sia dandogli nella velocità del corso rettilineo un’accelerazione nel tempo lentissimo e ineguale che segnano i cammelli, le pecore, le capre.

Di colpo la maestà brulla del deserto si riduceva alla sterilità, all’abbandono: non era possibile fermarsi se non per un guasto, per un accidente. Il deserto ripugnava perché si poneva come l’inespresso, l’incombusto, il residuo ultimo e irriducibile, la mutilazione funesta della lebbra che è qualcosa di consunto, di scomparso da un volto come il segno di gesso della lavagna. Tale sembrava ora quel mucchio di sassi, quel masso orrendamente informe e avvampato. La strada correva all’impazzata, correva per non vedere, correva per arrivare. E il deserto è una realtà dello spirito a patto di non correre, di non muoversi, sempre e ovunque lo stesso, e dove ti fermi stai.

Intanto si era giunti alla frontiera della Siria. Si scese, c’erano altre macchine, i soliti ragazzini che vendono bottigliette ripiene d’un liquido che a tutto fa pensare fuor che si possa bere: un giallo, un rosa, un rosso, colori, non bibite. Ma vennero anche due giovani col bracciale verde: e offrivano cartoline con un soldato francese che infila la baionetta nel ventre d’una madre algerina col bambino in braccio. Lo sguardo dei due giovani non era fiammeggiante, anzi quasi atono, ma l’espressione del volto appariva funesta.

A dire il vero le pratiche non furono né lunghe né estenuanti: anche alla frontiera della Giordania non ci sottoposero a insistenze vessatorie. E si riprese il viaggio. Presto divenne interminabile. Eppoi le macchine ormai posseggono la radio, e la misteriosa sinistra onda arriva anche nel deserto. L’autista era arabo: amava la musica araba, a pieno volume, come a essere dentro a un trombone. E già sarebbe stato nauseante un programma di musica leggera, ma tre o quattro ore di musica araba veramente inveleniscono. Devo però, a quelle quattro ore, una scoperta. Quei suoni lamentosi e flautati, perennemente meteorici, ripetuti infinite volte sulla base di un periodo di note brevissimo, non si possono asseverare che al piacere che prende il bambino in certe funzioni sonore che solo l’educazione insegna a reprimere, e su cui Freud ha costruito precisamente la sua fase anale. La musica araba ha creato dunque un neofita, ma un neofita freudiano…

Nel frattempo si profilò un diversivo: le caserme. A un tratto, di punto in bianco, comparivano delle file di baracche basse e lunghe coi recinti di filo spinato, e i soldati, fino agli omeri vestiti come quelli della Nato, ma con la testa araba coperta dal velo bianco e rosso che ricade a punta sulle spalle, tenuto fermo dal doppio cordoncino nero: come si mise a portarlo anche il Lawrence d’Arabia, sulla sua bazza anglosassone, e così si vede riprodotto.

Tanto era innaturale d’incontrarsi in pieno deserto con quelle postazioni fisse, che si sperava vagamente di scoprire che non erano baracche ma carrozzoni, e che non si trattava se non di un campo provvisorio, tappa di un più lungo viaggio (e il viaggio è lungo, infatti, se deve riunire nel redivivo califfato il Golfo Persico con l’Atlantico…). Invece si tratta della rete strategica tessuta con previdenza, ma quale scarsa lungimiranza, dall’Inghilterra. E ora che Glubb Pascià è stato rispedito in quarantott’ore nell’isola nativa, se ne preparano delle belle.

Non meno di quattro grandi postazioni si incontrò, dunque, per la strada prima di arrivare ad Amman: e anche un colossale deposito di benzina, tutto allo scoperto, con certi enormi tubi a proboscide come hanno gli elefanti. Il deserto, all’interno, era assoluto: e del resto, per quasi trecento chilometri non si sarà incappato in più di due rigagnoli acquattati fra un po’ di verde. Su quel verde, allora, come i polli quando si getta il becchime, s’assiepavano poveri funerei villaggi.

Non diversamente dalle caserme che parevano lazzaretti, quei villaggi sembravano un confino di polizia, ed era difficile persuadersi che le cose non stavano proprio a questo modo. In genere, chi ha fatto il soldato sa come le caserme siano rumorose, cortili di ricreazione di ragazzi più grandi ma sempre ragazzi. Qui, passando, si vedevano i soldati fermi e disinteressati come cammelli: neppure seguivano con lo sguardo le lussuose automobili americane, le autobotti di benzina, unico tratto d’unione con le città lontane. Poi, da quelle loro Tebaidi, se si scatenano, ritornano i beduini d’un tempo, pronti a far dove passano la terra bruciata, come quella da cui provengono: ricoverare le bestie nelle case saccheggiate, attendarsi davanti alla porta sfondata, e dove già fu campagna irrigata e fiorente come è avvenuto in Cirenaica, ricostituire il deserto, non per quel che è il deserto ma come negazione di civiltà.

Così parve una fatalità, più che un punto di arrivo, giungere, ed era già buio, ad Amman.

 

DOVE MORÌ URIA

… dimicavi adversum Rabbath (Amman) et capienda est Urbs aquarum.

Samuel, II, 12, 27

Chi capitasse ad Amman senza sapere nulla della sua storia, dopo aver provato meraviglia, anzi stupore, che si sia edificata una città in un posto simile, favoleggerebbe di tempi in cui forse era tutto un giardino e scrosciavano le acque dell’uadi Amman, quelle che la facevano chiamare urbs aquarum dalla Bibbia. E invece non è così: qui fu sempre deserto, e il misero uadi fu sempre misero, e questa non fu mai un’oasi, una regione agricola, anche se qualcosa ci crebbe e ci cresce. Certo, la presenza dell’uadi, per quanto modesto ma perenne, aiutò il fissarsi di una popolazione in quel punto, e proprio dovette essere il fatto di quella gola stretta in cui scorre l’uadi, nato poco più su, a fare il passaggio obbligato per la carovaniera, e a richiedere fortificazioni, piazze, templi, teatri. È indubbio che fu città ambitissima, luogo nevralgico della grande carovaniera araba che aveva il suo caposaldo in Petra, e che da Petra si biforcava verso Palmira e verso Amman-Gerasc. L’assedio di Joab, dove il Santo re David mandò cinicamente a morire Uria l’ittita, il marito della bella Betsabea, è un ricordo ancora vivo fra gli arabi, ma appena uno dei tanti momenti della storia lunghissima di Amman; finché si arriva a Roma, al meraviglioso e intenso momento fra i Flavi e Traiano in cui tutto il territorio, da Petra a Palmira e lungo la Palestina e la Siria, si copre di una rete di strade selciate come la via Appia. Questi magnifici ricordi funzionano come i fumi dell’alcool: a un certo momento fanno vedere quel che non c’è più. A chi ci arriva ora, Amman fa l’effetto, in peggio, dei Sassi di Matera: l’ho detto. Matera, le gravine di Massafra e di Gravina stessa. Questa è Amman. Ossia lungo le pareti quasi a picco di un canalone rossastro, tutto di pietra secca, si accavallano disordinatamente case su case venute su come funghi al pedano degli alberi, e quasi tutte lasciate a mezzo, con i tondelli di ferro che escono dal tetto come se le case avessero i capelli ritti. Avviene questo perché le case a mezzo non pagano tasse. Mi son dovuto ricordare allora che, di case a mezzo, preparate a ricevere un secondo piano, ce n’è tante nei borghi rurali di Puglia, dove si vedono soprattutto i terrazzini con le mensole e senza le balaustre. Ma qui è decisamente fatto per non pagare le tasse. Così, di qua e di là dalle strade, si vedono torreggiare le creste del burrone raggiunte quasi dalle case, e con qualche spazzolino verde di pino stentissimo. È già un miracolo che ci sia. Non che vi abbia trovato un caldo feroce: c’è caldo, ma appunto è il caldo del deserto percorso talora da venti freschi e secchi, un caldo che la notte cade di colpo come quando s’ammaina una vela.

Di antico c’era rimasto molto ad Amman, ma l’avervi immesso una tribù di circassi, verso la fine del secolo, ha fatto sì che molti monumenti sono scomparsi. Quello più vivo e impressionante è il Teatro, la cui cavea è quasi perfetta, perfino col tempietto in cima. Ma, dove era la scena, passa ora la strada, e i resti di un colonnato che dovevano collegare il teatro alla strada (costruita probabilmente su volte sotto cui passava il prezioso uadi) si vedono ora annegati nell’asfalto. Fa quasi altrettanto cattiva impressione di quando tocca agli alberi a venire soffocati al piede dall’asfalto: ma quelli si difendono e fanno saltare la crosta. Le colonne invece restano dei mozziconi inerti.

Il fatto che si veda la cavea come se si fosse gli attori, produce, non so perché, un effetto sgradevole. Insomma non è di lì che si doveva guardare, e questa enfasi con cui si presenta ora, come digrignando i denti, l’enorme scalinata, per lo meno sconcerta. Il teatro, che è romano (degli Antonini), è costruito, seppure addossato alla montagna, e ci si doveva salire dai lati. Come poi fosse la città è difficile dirlo, dato che la dilagante città nuova ha coperto tutta l’antica. Ed è, naturalmente, una città piena di traffico, di automobili americane sgargianti, di venditori ambulanti e di soldati.

Di questi, con la testa rimasta araba su una divisa occidentale, s’è già detto, e come sia una delle metamorfosi peggio riuscite, evidentemente troncate sul più bello. Ma esteticamente la cosa funziona. È una mescolanza che val meglio di quella che imbastardisce il costume civile. Questo è formato da una tonaca con due spacchi ai lati, ma sopra ci mettono una giubba a due petti, una giubba lunga: e con la resistenza al calore che hanno gli arabi, anche con questo caldo se la tengono addosso. Insomma, sembra di vedere un frate domenicano in doppiopetto fantasia. Ma i giovani hanno quasi in massa abbandonato lo hatta e la palandrana, per lo più hanno dei baffetti come i greci: però sono assai più distinti dei greci. Veramente c’è da sbagliarli con gli italiani. Se non ci si sbaglia, è per via che sono un po’ meno bulli, un po’ più poveri dei ragazzi del popolo italiano. Ma in quanto a pulirsi le scarpe dal lustrino non cedono. Ce n’è, ad Amman, a ogni passo: con il piedistallo ornato di grossi pomi d’ottone. E solo che le scarpe non sono quelle dei bulli italiani, e le camicie neppure e i calzoni hanno la rovescia. A parte questo, a incontrarli a Napoli o a Palermo, ci si sbaglierebbe.

Stamani era venerdì quindi come la domenica per i musulmani, e io, forzato a segnare il passo, mi sono avviato per la cittadella: è la seconda zona archeologica su perstite di Amman. Dopo una salita ripidissima incontro un bel muro a retta romano, e un viottolo fra pini così stenti da apparire moribondi. Arrivo facilmente al sommo, passo fra le rovine e trovo il muro di fondo del peribolo del Tempio diroccatissimo, con delle nicchie a distanze regolari. Poi c’è una via che doveva essere colonnata, e porta a un monumento straordinario, di Gasr, quello che gli arabi credono la tomba di Uria, il marito di Betsabea. È un edificio che i più stimano sassanide e alcuni omayade. I sassanidi ci furono per quattordici anni appena, ad Amman, dal 615 al 629, e non so se abbiano fatto a tempo a costruire qualcosa: ma omayade non parrebbe, perché troppo decisamente iranizzante. Si tratta di un edificio a croce iscritto in un quadrato: la grande cupola centrale è caduta, le due calotte laterali su trombe d’angolo appena segnate. Ma la decorazione interna, che è un seguito di piccoli archi oltrepassati su semicolonne binate senza capitelli, e con il fondo scolpito, è d’una eleganza che rapisce. I profili delle cornici sono forti e i disegni delle decorazioni esclusivamente geometrizzanti, a piatto, senza accenni animali. C’è, fra l’altro, una traduzione plastica dei finti marmi bizantini che è di un interesse straordinario: e cioè, è eseguita come con grandi impronte digitali che si intersecano. Il genere di rilievo appena graffito si presta benissimo a questa curiosa traduzione degli alabastri orientali e delle sardoniche. Ma la dice lunga, per chi almeno non sia cieco, sul significato grafico, niente affatto plastico, di quei rilievi. E qui veramente c’era da ammirare in un monumento purissimo, intatto seppure in parte diruto, la straordinaria intelligenza formale dell’arte sassanide.

Dico sassanide decisamente, perché le strutture sono di tale purezza che non si può pensare neppure alla ripresa abbasside. C’è come l’antecedente diretto dell’architettura normanna di Sicilia. L’arco acuto ha grande ampiezza e s’alza su un alto ma non altissimo pieddritto: gli archi oltrepassati sono come quelli che si vedono nel paliotto di Salerno, e la serie delle finte nicchie che cos’è se non la serie dei loggiati pisani? In qualcuna di queste finte nicchie era caduto il fondo (piano, naturalmente, seppure scolpito come s’è detto) e dal fatto che sembrava una finestra e innegabilmente disturbava quasi offendeva, veniva un’eloquente conferma sul valore che questa raffinatissima architettura dava alla parete. Questa doveva acquistare spessore, ma non profondità: esprimere il blocco pieno senza spostarlo o allontanarlo gradatamente verso un piano di fondo. E cioè vi è un punto di vista diverso, tanto dall’architettura bizantina, quanto da quella musulmana di derivazione abbasside. Rispetto all’architettura bizantina può trattarsi, anche a questa epoca, della persistenza di una fase anteriore alla catalizzazione, che dovettero compiere, a Costantinopoli, Isidoro e Antemio rispetto al sincretismo del tardo romano e dell’architettura sassanide: ma, in quanto all’architettura musulmana, è certo che questa, attraverso la fusione bizantina e sassanide, intese a rappresentare lo spazio con i vuoti, anche se non senti più l’invaso alla maniera bizantina, anzi come una dispersione sempre più dilatata fino all’indeterminata lontananza a cui si pongono i tralicci delle transenne di gesso nelle finestre o le grate di legno in controluce. La meraviglia di questa architettura, che si vede nel Gasr di Amman, è di tagliare i vuoti come cristalli, ma come a piè fermo, senza tensione alcuna né del vuoto verso il pieno né del pieno verso il vuoto. Sicché quelle pareti con le teorie di semicolonnette binate non intendono né forare né trasparire né fare indietreggiare la parete, ma unicamente scandire, ritmare il blocco del pieno perfettamente ingranato, nelle sporgenze e nei rientri al blocco del vuoto. Per questo l’apertura di un vuoto non previsto, come le accidentali aperture, metteva in pericolo lo straordinario equilibrio, esteticamente statico, come rovina un diamante un’incrinatura mentre lo esalta la sfaccettatura. Ed è a un resultato simile che si rivolgono le migliori architetture normanne, come la Zisa, le absidi di Monreale o il quadriportico di Salerno.

È strano che gli architetti arabo-normanni avessero al lora saputo estrarre questo significato originario, davvero etimologico, da quello che invece nella pratica fatimita – e in Egitto come in Marocco – risultava in evoluzione diversa, nel senso già detto.

Ma era anche di grande interesse costatare come i bizantini del X secolo, con un impianto strutturale assolutamente identico al Gasr, avessero invece trovato una soluzione assai meno pura e felice che, adulterando il senso dell’invaso bizantino dell’epoca giustinianea, riusciva solo – come doveva essere nella Nea di Basilio I e come è a Dafní e a Hosios Loukas – a contrarre i vuoti costringendoli nello sviluppo verticale. Il che non creava affatto una nuova dinamica spaziale e, senza affidare una diversa funzione ai pieni, diminuiva, fino a neutralizzarla, l’espansione dei vuoti, in quanto il maggiore sviluppo verticale accentuava solo il restringersi delle pareti intorno al vano centrale: ma senza conservare quasi più nulla dell’antica spazialità che costituisce la struttura suprema di Santa Sofia e di San Vitale.

Mentre sono rapito in questi superni concetti mi si avvicina una guardia con l’elmo a chiodo, come hanno qui.È gentile, giovanissimo, mi offre una sigaretta, mi vuol far vedere il Museo che invece è chiuso, e a conclusione di tutte queste inattese e non richieste cortesie mi scorta al Commissariato. Una lunga strada sotto il sole, il sottufficiale in branda (è mezzogiorno e mezzo) che si alza stizzito – Dio mio, com’è uguale il mondo – e lunghe spiegazioni. Dopo di che esco come ero venuto, ma senza lo zelante accompagnatore, che mi saluta con un sorriso quasi rincresciuto che me ne vada solo.

Naturalmente ero indispettito, come non esserlo: non basta aver tutto in regola, in un mondo in cui nulla è in regola? L’osservazione dei passanti mi distrae, ma sempre più mi riporta alle somiglianze italiane. Ecco qui questi due giovani che vengono avanti tenendosi per mano: due dita dell’uno nel pugno dell’altro. Chi non ricorda di aver visto i soldati nostri, i marinai, nello stesso tenero, infantile atteggiamento? I paisà sperduti nella città del Nord, in libera uscita senza un soldo, si tengono per mano con quello sguardo ottuso. Per mano sentono il paese, la patria piccina. E quanti se ne vede, qui fra gli arabi. L’avevo già notato a Beirut e a Damasco: qui ne incontro a ogni passo. E a braccetto o col braccio intorno al collo dell’altro. Questo estremo cameratismo scandalizza al nord e, si vede, fa proprio una cosa sola col caldo, col sole, con un amore disteso senza reticenze come l’acqua calma sul fondo del mare. Quando guardano, è un attimo, si vede nei loro occhi come il piccolo scatto dell’obiettivo fotografico: non hanno, a dire il vero, la nostra curiosità spesso petulante. Ma questo fa sì che non si senta cordialità, in loro.

Alcune donne si vedono vestite con meravigliose tuniche ricamate a punto in croce, come una tunica bizantina. Veramente il rapporto mi sembra innegabile, forse attraverso le tuniche copte d’Egitto, ma certo che fa impressione vedere questi vestiti così antichi portati per strada. Senonché ci pensa la nostra cara civiltà a sciupare tutto: in genere, infatti, la base di quei ricami è una stoffaccia di finta seta, priva di ritegno e di sostegno, ciondolante, troppo lustra: e i ricami sono così fini e così meticolosi. Ho notato che queste donne non portano il viso coperto, neppure da quel velo nero che, come diceva l’autista Mohammed, le fa sembrare fantasime.

Sono donne dal viso bruciato, incolore, come una foglia secca: sembra che non ci sia più né linfa né sangue. Gli uomini non si riducono mai così.

 

IN TERRA SANTA

Mecum eras et tecum non eram.

Sant’Agostino, Confessioni, X, XXVII

Nam non ego vita mea.

Sant’Agostino, Confessioni, XII, X

La vraie vie est absente.

Rimbaud, Une Saison en Enfer, Délires, I

Sono a Gerusalemme e quasi non mi pare possibile. Ci sono dei viaggi che si fanno troppo presto, altri troppo tardi. Per me questo è arrivato troppo tardi. Non riguarda l’aspetto straordinario della città antica, appena intravista sul momento, ma già abbastanza perché quei sottopassaggi a volte e la spianata incommensurabile della vecchia cinta del Tempio di Salomone non diano un fremito segreto, lungo, assorto. Eppure io aspettavo da me qualcosa di diverso: sono restato muto. L’aspettavo senza aspettarlo, a dire il vero, con la rassegnazione di chi invoca il miracolo senza credere nel miracolo. È il mio caso esatto. Quando ho passato il Giordano non so che cosa avrei dato, in quel momento, per non sentirmi opaco e ottuso come un sasso. Ho visto che quell’acqua era densa e giallognola, neanche un terzo del Volturno, – e non è un gran fiume, – ho visto quell’acqua che mi doveva far sciogliere in pianto – mi avrebbe certamente fatto sciogliere in pianto, dieci anni fa – ma ho costatato che era solo un torrente grumoso, torpido: non ho visto nulla di quel che sapevo, di quel che speravo si rianimasse in me. Donde una malinconia che era a un passo dall’angoscia.

Io volevo, disperatamente volevo che Gerusalemme s’imponesse anche a me come la Città Santa, oltrepassasse l’opera d’arte e la storia, per giungermi come il teatro stesso dell’anima, dove l’anima gioca se medesima. Ma da quando la mia anima è solo la mia coscienza, quanto abbia perduto sono io soltanto a saperlo, proprio perché c’è qualcosa come un invisibile cadavere di me dentro di me, un’assenza. Come sarebbero state felici quelle lacrime che non ho sparso: come sarebbe stata rigenerante e profonda la discesa a picco dentro di me: oh, quegli accenti che avevo, che sapevo, che provavo: e non proverò più. Gerusalemme per quanto affascinante sia il tuo giro di mura, cavalleresco, saracino, turco; per quanto gli angiporti con i miasmi della verdura fresca e della carne inferma siano la stessa epopea delle Crociate, un incontro diretto, a tu per tu con la storia, mi sfugge in te la Gerusalemme celeste: vuoto io resto, orfano mi sento, da quando la preghiera s’è chiusa in me come un fiore che non s’è aperto, senza allegare frutto.

C’è poi stata la serie delle visite, appena arrivato: il Governatore della città, lo Sceicco che sovraintende alla Moschea, l’Ingegnere di una specie di Genio Civile. Ogni visita, un caffè e lunghe chiacchiere che non capisco fra il mio accompagnatore e l’ospite. Mentre taccio aspettando che la visita finisca e incominci l’altra, percepisco come una sbarra attraverso di me. E quel muro che sorge, simile a un bastione, a separare la Gerusalemme della Giordania da quella d’Israele; delimita la fascia della zona neutra, smilitarizzata. Ma io la sento come se veramente tagliasse anche me in due. Avevo visto Vienna quando era sotto l’occupazione alleata: da un settore all’altro c’era un semplice cartello: si circolava liberamente. Qui c’è il muro: sempre un muro si alza davanti agli ebrei. Ieri fu il muro del pianto, oggi è questo che tiene su, a mala pena, l’Onu a furia di rimbrotti e di biasimi ora all’uno ora all’altro dei contendenti. E bastava un’occhiata per accorgersi della differenza radicale fra quel muro nuovo e le mura. Né solo perché le mura sono secolari e il muro ha pochi mesi: la pietra, che è la stessa, è come se non fosse la stessa. Le mura sono per difendere la città: la chiudono quasi amorosamente e recano ornamenti bellissimi, quei dischi in rilievo che si vedono anche nelle più antiche case veneziane. Le mura sono come le mura di una casa, fanno della città una casa più grande con il cielo invece del tetto. Ma il muro che divide in due l’unica Gerusalemme è un’ostruzione infeconda, è murato alla brava, come si murano i sostegni per una fabbrica pericolante. Non segue un perimetro d’abitato, chiude, non difende: si alza protervo sull’orizzonte, si sostituisce all’orizzonte. Ed è infatti un orizzonte d’odio pietrificato.

Il tramonto, l’avevo già notato ad Amman, produce come una precipitazione nei colori del cielo. Alto rimane, e come leggermente svuotato: l’azzurro, solo occipitale. Dove il sole è scomparso, l’arancione è come in Giorgione o in Tiziano giovane. Ma dura poco. Improvvisamente su quell’avanzo di giallo, che resta come in certe rose tèe all’unghia del petalo, il cielo non è né giallo, né azzurro, né turchino: è d’un pallore come le donne brune dai grandi occhi neri. Ecco, quando in un bicchiere di cristallo resta una goccia di vino e ci si versa l’acqua, l’acqua prende un riflesso appena livido eppure rimane trasparentissima. Così quel cielo di Gerusalemme, dove fra l’azzurro che s’inabissa sotto le stelle e l’ultimo bagliore del sole, spazia come un cielo più lontano ed esangue, un pallore come di donna, la palpebra della notte.

 

LA CUPOLA SULLA ROCCIA

Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo.

Il Corano, XVII, I

Gerusalemme è una città del deserto. Forse a chi ci arriva dalla Palestina non dava questa impressione, ma gli ebrei non ci arrivarono dalla Palestina. Venivano dal deserto e di questo deserto il Giordano è come l’ultima trincea: offre a un tratto la piana di Gerico che dà palme, frutta d’ogni specie, così sotto il livello del mare come sta. Ma poi, passata la breve zona, comincia un paese che più brullo non potrebbe essere e che, sebbene non sia di creta, ricorda moltissimo le crete senesi dove e quando sono più aspre, più tondute. Si risale così fra queste protuberanze senza fine, come dune solidificate, fino al livello del mare, e poi si sale ancora. Il verde che comincia, a chiazze, intorno a Gerusalemme è magro, macilento. Gerusalemme, nelle sue bellissime mura da cui spunta qualche campanile e minareto, la cupola superba della cosiddetta Moschea di Omar, appare a chiusura di orizzonte: ha qualcosa di impenetrabile.

Ma alla sera si sente che è la sentinella del deserto: né la sua altitudine, né il modestissimo corredo arboreo giustificherebbero il vento fresco, la caduta del calore. Penso che allora il beduino apra le nari, le porga al vento come un cavallo che nitrisce e si riconosca a casa sua. Da quanto tempo, ormai, ci si sente a casa sua.

La mia visita, che non era un pellegrinaggio, è cominciata dal luogo santo degli infedeli. È appunto la Moschea, detta la Cupola sulla roccia. Abd el Malik, che era in rotta con la Mecca, voleva togliere alla Mecca il privilegio oscuro, che da feticcio di idolatri l’astuzia di Maometto aveva inserito nella fede islamica, la pietra nera. Inventò un’altra pietra. Il pullulare delle leggende, sagacemente messe in giro in contropiede al Vangelo e al Talmud dopo la morte di Maometto, e un passo controverso del Corano, avevano fatto favoleggiare anche di un’ascensione di Maometto dalla roccia dove David aveva posato l’altare degli olocausti: e la roccia volle volare dietro a lui, ma l’Arcangelo Gabriele la fermò con una mano. C’è l’impronta della mano… Ce n’è tante d’impronte su quel sasso travagliato, e buchi che dovrebbero essere diti basterebbero a un centopiedi. L’ingegnere egiziano che era con me, non essendo un infedele, e con ammirabile disinvoltura, s’è affacciato sulla bellissima balaustra che cinge la roccia e ha cercato di mettere la sua mano nella presunta impronta, che assomiglia a un’impronta come l’Orsa maggiore assomiglia a un carro: paragone benevolo.

Gli arabi allora non avevano nessuna arte: non avevano nulla, ma tanta fame, tanta sete, e di dominio, e d’oro, e di ogni bene. La Moschea non seguì la prima idea che ne era stata data a Medina: fu un tempio come un mausoleo romano, sul tipo della Basilica dell’Ascensione e della Rotonda dell’Anastasis: ossia, per avere un’idea immediata, sul tipo di Santa Costanza. Ma più grande, più lussuosa. Da una base ottagona si arriva, con due deambulatori, al cerchio su cui la grande cupola s’innalza. Colonne preziose di templi antichi, mosaici corruschi d’oro e di madreperla eseguiti da artisti bizantini. Non fu solo Abd el Malik a mescere quegli ornamenti, si continuò per un pezzo nelle alterne vicende della città: fino agli addendi d’epoca turca.

Ora il monumento deve essere restaurato, e io son qua per i mosaici. Ma basta con questo argomento. Quel che è impossibile non ricordare, ancora più dell’interno, è l’esterno, il modo con cui è porto il monumento stesso. Qui è facile farlo sorgere in via approssimativa davanti agli occhi: il tempio dello Sposalizio di Raffaello. Io sono nettamente convinto che tutti i templi ottagoni degli sfondi del Rinascimento vengano di là. Disegni dalla Terra Santa giungevano inviati o portati: basterebbe il fatto del curioso ciborio che l’Alberti mise sul suo immaginario Santo Sepolcro in S. Pancrazio a Firenze che, per quanto immaginario, ripete proprio quel particolare dal modo con cui, anche nel Quattrocento, il Santo Sepolcro si presentava.

E, del resto, Santa Casa di Loreto e Porziuncola sono svolgimenti dalla rotonda costantiniana posta sull’edicola del Sepolcro.

Ora la Moschea della Cupola si presenta all’esterno, seppure senza più i mosaici che l’adornavano, con le mattonelle di Solimano, fatte a Tabriz alla metà del Cinquecento, e se c’è qualcosa che sotto il sole rapisce, sono quei colori brillanti e tenui, trasparenti e intensi. Le forme ancora così nobili e misurate, lo spazio quasi calcareo dello spiazzo così biancastro e petrigno, i ciuffi di alberi come vecchi dignitari stanchi, il portico lontano che chiude: è un luogo incantato, luminoso e tuttavia segreto. I secoli lo minano, le civiltà sovrapposte si arroventano come ipocausti sotto le lastre del sagrato, l’ottagono ruota lentamente su se stesso come la lente di un faro.

Si esce di là e si esce in una città sotterranea: la bellezza di questi voltoni, dei quali per lo più è difficile poter dire dove sono ancora cavallereschi e dove decisamente turchi, non fa che evocare le città italiane. Sicché la città vecchia di Bari, intorno a S. Nicola, è quanto più da vicino ricordi la città vecchia di Gerusalemme. E non è un caso, neppure. Sia per il tempo che Bari fu saracena, sia per i rapporti strettissimi con le Crociate, da Boemondo e Tancredi a Federigo II, la somiglianza non è certo fortuita, anche se non puntuale. Quando si arriva al disgraziato Santo Sepolcro, salta agli occhi. Che la chiesa, all’interno, per il poco che ancora se ne capisce, sia franca, niente da eccepire: non fosse che per il deambulatorio. Ma quel che resta della facciata (eccettuato gli architravi a rilievo, francesi), con le sculture a traforo, le cornici zoomorfe, e i pesanti archi acuti chiaramente musulmani (della seconda ondata abbasside-fatimita) come già prima si troveranno in Sicilia (il Santo Sepolcro è del 1148), ricordano la Puglia normanna: e del resto non è una scoperta. Ma vale richiamarla perché è incredibile, veramente, che razza di penosi sciovinismi si stiano dispiegando per il Santo Sepolcro. Se mai c’è un luogo dove le confessioni cristiane dovrebbero sentirsi in eterna tregua, è questo, che invece è un campo di astiosa battaglia. Per farla breve, i papassi ortodossi pretendono nientemeno di cancellare dall’architettura il ricordo delle Crociate! Già nel 1810, approfittando di mali minori del reale, mascherarono la rotonda cavalleresca e l’edicola del Santo Sepolcro con una terribile graveolenza balcanica. Particolarmente l’edicola, cancellate le epigrafi latine, vestita di vistose scritte greche come se fosse coperta di manifesti, è uno dei luoghi, ahimè, più figurativamente revulsivi della terra. C’è quello che c’è, naturalmente: il ricordo della morte più ingiusta dell’Uomo più buono, la grande luce che ne è nata per il mondo, al di là delle confessioni che ne discendono. Ma quali icone, quali lampade, quale iniqua, stregata pietistica bigiotteria, entro la cella santa!

Ora tutta la chiesa, dalla facciata all’interno, è una selva di puntelli di ferro e di legname: e se si pensa che era già tutta una confusione di scale, di muri tirati su all’improvviso, di iconostasi ingombranti, di cappelle senza nesso, ci si può figurare a che disillusione cocente espone il visitatore.

Ma tutto è fermo perché l’esecutore dei lavori approvati – e sa Iddio che razza di piano sarà – non deve essere né italiano né francese né greco… Neutrale ha da essere, ateo magari, mica esperto, mica il migliore sulla piazza: ateo, neutrale, smilitarizzato come la zona che divide la Gerusalemme antica da quella di Israele. E intanto, ancora, all’ingresso della chiesa si deve vedere quello sconcio che è il divano turco; ossia delle guardie della Giordania. Un “divano”, con il materasso e i guanciali, largo da farci le capriole. Sono misture che offendono pur chi non ha una fede, ma rispetta quella degli altri. Così, con quel turbinio di papassi e di frati francescani, di abissini copti e suore bianche e nere, anche i guardiani con l’elmo col chiodo: e ringraziamo Iddio che non ci portano pure il narghilè.

 

ALTRE COSE DI GERUSALEMME

Ma fuor la terra intorno è nuda d’erba.
Tasso, Gerusalemme, III, 56

La vita, in Giordania, comincia alle sette e mezzo: nessuno ne capisce il perché. Per il tempo che ci sono stato ho visto solo uffici, e ne dovetti vedere molti, dove non si faceva nulla, ma chiacchiere senza fine e, di tanto in tanto, il caffè. Dopo il tocco e mezzo la città si addormenta… ma non è vero, si chiudono gli uffici soltanto. Resta nelle strade lo stesso via vai delle persone e degli asini: qua a Gerusalemme, oltre alle persone sono accettati solo gli asini, non ci passa neanche un carretto. E poi è tutto un saliscendi: gradini larghi, di pietra dura e biancastra. I voltoni ombrosi chiudono tesori di frescura, non si capisce quasi, talora, se siano sopra terra o sotto terra: la visione, rivelata all’improvviso, l’epifania della città, si ha solo dalla piattaforma dove era il Tempio e dove ora è la Moschea della Cupola sulla roccia. Quando ci si volta e si scopre, che sale su tutta unita come un anfiteatro di cupole e cupolette, tutta d’un tono chiarissimo, appena scaldato come da un’alba perenne, è piuttosto un miraggio che una città, quasi non ci si crede, o d’averla vista, per un attimo solo, nei globi di cristallo delle maghe. Né io mi so staccare da questa visione, ogni giorno.

Il recinto è sacro: vi sono guardiani alle porte e solo gli arabi entrano senza pedaggio. Ma, appena entrati, avviene qualcosa di simile a quando il vapor acqueo si condensa sui vetri e con un dito si fa un tondo per vedere di fuori: da quello spioncino il mondo, sia città o campagna, è come ringiovanito, sembra uscire dalla placenta. Ora è così l’Haram, è uno spiazzo meravigliosamente fuori del mondo opaco: la sua luce è una luce che è di qua da noi, pende come quando nei fuochi d’artifizio lentamente scende una stella più bianca del sole.

Tutto ciò che si trova là dentro, e per il fatto d’essere là dentro, partecipa d’un certo grado di antichità e di stupefazione: quanti ciechi, seduti, calmi come un’immagine riflessa, con quello sguardo macchiato che è quasi un altro volto dentro il volto. E poi c’erano i premilitari, i giovani col fucile che avevano il passo leggero a cui abitua il deserto, e non smuovevano la ghiaia. Facevano gli esercizi davanti all’altra Moschea famosa, El Aqsà, e anche dove una volta era il pinnacolo del Tempio, quello su cui Gesù ebbe la terza tentazione. Ora è una terrazza che guarda sulla Valle di Giosafatte, e più là la Geenna. Certo, questi nomi fanno paura: suonano a morto. Ma, guardati sul vero, non ci si pensa più. Non è diversa la Valle di Giosafatte, né la paurosa Geenna da tante altre strette e nude vallate, con quei quattro ulivi in fondo: non sono luoghi più tristi, desolati o grandiosi. Solo nel Vangelo esistono in un certo modo, fra il bagliore delle predizioni come di lampi muti.

Avevo tanto differito di entrare nella Moschea di El Aqsà: ma poi non potei farne a meno. Il terribile restauro che subì per mano egiziana, parecchi anni addietro, è presto detto, solo che si pensi alla sostituzione integrale delle antiche colonne con gonfie colonne di marmo di Carrara, che hanno la grazia dei bidoni: regalo di Mussolini. Faruk donò il soffino e fece il resto. Quando si commemora questo monumento ormai peggio che distrutto, e si ripercorre mentalmente la sua storia, è una storia che avrebbe fatto tremare chiunque: opera di Abd el Malik, lo stesso della Cupola sulla roccia, e in seguito dimora dei Templari, restaurato dal Saladino… Ormai resta affidato a qualche capitello e qualche colonna, di provenienza bizantina, rimaste in una specie di transetto a sinistra. Quelle vecchie colonne hanno ancora le trabeazioni in legno fra arco e arco, e la travatura è quella originale, dipinta a colori vivaci, a tempera non verniciata. Sono motivi piuttosto semplici, quasi popolareschi, se avesse un senso un’espressione simile per un’arte che stava inventando se stessa dagli incroci bizantini e sassanidi. Ma erano incroci come di fiori, ne uscivano delle specie nuove, sempre legittime. Già si sente preannunziato il soffitto della Palatina a Palermo, codesto capolavoro. Sempre vagando negli annessi della Moschea si scopre un altro Mirhab con dei capitelli reimpiegati, di quelli più antichi e sfrenatamente islamici, con metamorfosi in atto di uccelli, bestie, foglie, intrecciati come viticci. Potrebbero stare anche a Monreale, nel Chiostro accanto a certi altri che sono assai simili. Ma nella Moschea dovevano trovarsi anche delle sculture di legno: sono riprodotte in tutti i manuali. Dove saranno andate a finire?

Queste, per altro, hanno trovato il padrone. Il giorno dopo, andando nel Museo Archeologico di Gerusalemme ce le trovai, fetide e ingrassate come scarpe da montagna.

Il Museo di Gerusalemme, una fondazione americana che non so per quanto tempo ancora resterà così a mezz’aria fra il mondo della cultura e quello del fanatismo, è una costruzione che mentalmente riporta ai tempi di Viollet Le Duc, al nefasto stilismo dell’Ottocento. Per quanto il Museo è tenuto bene, altrettanto è illecito come architettura; e non avrà neppure venti anni. Dentro, naturalmente, reca documenti insigni, da quelle occhiaie vuote del più antico indigeno palestinese, ai bellissimi stucchi del Castello di Khirbat Mafiar costruito da Abd el Malik nel 724 e distrutto nel 747 d.C. Fu per me il più inatteso incontro. Gli stucchi non sono solo delle squisite transenne, in un acerbo intreccio di tarda romanità e di primizie sassanidi: vi sono anche figure, grasse figure di donne dalle turgide poppe nude con improvvise quasi sinistre macchie di colore. Sono figure rozze come fatte con la pasta del pane e lievitate troppo: veramente non si sa a che cosa ravvicinarle, dal punto di vista dello stile: solo la faccia echeggia qualche lontano ricordo palmireno. Sta che son donne guardate solo col gusto delle forme esorbitanti, nella segreta intimità del bagno elevato in mezzo al deserto. Colpisce questa rozza fabulazione erotica accanto alla venusta esattezza, all’incredibile tornitura come di ninnoli squisiti, degli uccelli e delle gazzelle. Sotto le gelosie di stucco delle finestre c’era una fila di colombe o tortore, l’una dietro l’altra come fossero sul filo del telegrafo. E allora mi sovvenne l’amore per i piccioni che hanno i maomettani, fin da prima di essere maomettani, onde Maometto l’ereditò come la pietra nera. Sta il fatto che nel recinto sacro della Mecca c’erano già da prima, le colombe; quella famosa che parlava all’orecchio di Maometto era una di esse… La ricorda perfino Shakespeare. Ora chi ci crederebbe che i maledetti piccioni delle nostre piazze sono ancora un regalo arabo? Quei sudici uccelli che sporcano indelebilmente le nostre Cattedrali: quei maomettani travestiti da uccelli del Signore. Che aspettano i vescovi e i canonici a seminare un po’ di granturco avvelenato? Le loro feci corrodono i marmi, segnano le statue di rivoli d’immondezza. Tanto sono coriacei, che neppure c’è da suggerire, come nella novella: pelarli, lessarli, o arrosto mangiarli.

 

GETSEMANI

Veni in terram quam monstravero tibi.
Genesis, XII, V

Continuano, s’infittiscono anzi gli attentati israeliani in Giordania, azioni di ritorsione di cui ormai si è perso il computo esatto, da una parte e dall’altra. La sera si vive, praticamente, in stato di coprifuoco. Quando tramonta il sole, le mura, verso la zona neutra e Israele, si guarniscono silenziosamente di armati: tende sorgono lungo la parte esterna tra la porta di Damasco e quella di Erode. Sui cammini di ronda delle mura si vedono allora spuntar le teste velate dei soldati, e quel loro copricapo da saraceni sembra ancora il medesimo che al tempo di Goffredo di Buglione.

Così in questa Gerusalemme, che ignora il Tasso, si vive come con una ricostruzione in atto, a fini di cinematografo, dell’assedio di Gerusalemme coi Crociati. La cosa tuttavia non ha alcun fascino, né solo per lo stato di inquietudine che genera e che ha fatto fuggire turisti e pellegrini come rondini. È cosa senza fascino, anzi amara, perché, da qualsiasi parte ci si collochi, appare sempre una situazione paradossale e ingiusta, perpetrata da una politica insensata. Non si potrà tenere per gli arabi, ma neppure per gli israeliani. Gli arabi ci stavano e ci stanno da secoli, e la città è città santa anche per loro, sciaguratamente. La soluzione internazionale era, sulla carta almeno, la migliore: quella attuale, la peggiore. Col cuore si vorrebbe dar ragione agli ebrei e non si può, se appena ci si metta ad analizzare il complesso sostrato che, come un basso continuo, accompagna le ragioni dei sionisti. Si vorrebbe infatti che questo loro ritorno in Palestina fosse giustificato più nel presente che nel passato, che rispondesse all’universale della fratellanza umana e non al particolare di una razza, che fosse volto a istituire una città di Dio e non uno Stato politico come gli altri, subito né peggio né meglio degli altri.

Tutto questo, pensavo, può apparire stupidamente utopico, astratto, misticheggiante. Ma, senza di ciò, il ritorno in Palestina degli ebrei è un atto di forza, un levati te perché ci vengo io, e non ha diritto a maggiore considerazione o a delle valutazioni morali come quelle di cui invece tende a fregiarsi. Prendiamo il ritorno dell’emigrante, dopo avere raggranellato quel poco o quel molto da poter rientrare in patria: nessuno può contestargli questo patetico diritto di tornare in un paese che, rispetto a quando ne venne via, appartiene alla sua privata storia di persona viva, anche se non potrà raggiungerlo nel presente di allora né bagnarsi nella stessa acqua del fiume dell’infanzia. Ma il ritorno dell’ebreo in Palestina non è il ritorno dell’emigrante. Si pone invece sotto il segno delle restaurazioni che, da qualunque parte provengano, è sempre un segno funesto. E in questo caso appare un atto, oltreché antistorico quasi empio, di quella particolare empietà che fu di Giuliano l’Apostata. E non perché apostata, ma perché si credette autorizzato a imporre una storia retroattiva, per sempre conclusa. Egli imponeva Dei, ai quali non credeva, per soffocare la nuova idealità umana e divina in cui tutto un mondo nascente si era riconosciuto. Certamente gli ebrei, tornando in Palestina, non si trovano di fronte agli arabi come di fronte al nuovo mondo morale che nasceva col Cristianesimo, ma la loro restaurazione, fatta in Palestina, si rivolge implicitamente al mondo da cui in realtà provengono, di cui in realtà continuano a far parte. Se fino a che sono in Francia o in America la loro religione è più un’agnazione nobiliare che una religione attuale, una volta che di quella religione, materializzata in una razza, legata feticisticamente a un sangue, se ne fa un argomento politico per creare uno Stato, viene prospettato come attuale uno strato addirittura fossile della sacralità. Il loro Jahvè, a chi lo raccontano, che ci credono, fra tuoni e fulmini, essi che vengono dagli strati più sofisticati e macerati della cultura europea: il loro Jahvè, ma tanto vale tornare anche più lontano, agli Dei di Ur nei quali fu allevato Abramo, o quel che si voglia, sia Luna o Sole, perché l’antico Jahvè fu già coinvolto in ben altra sublimazione del divino, quella che ha congiunto l’Uno di Parmenide col Motore immobile di Aristotele, diventando l’Amor che muove il Sole e le altre stelle. E se anche questo subisce l’inevitabile processo di razionalizzazione, per cui tutti i testi sacri devono perdere la lettera se vogliono salvare lo spirito, proprio a Jahvè dovremmo tornare?

La restaurazione di Giuliano l’Apostata era simbolica, negli Dei, della cultura che si andava sgretolando, della classicità infranta: la restaurazione di Jahvè a quale civiltà della vendetta e del contrappasso ci vuol far tornare? Ma, senza Jahvè, che senso avrebbe la terra promessa e il ritorno in Palestina? È per questo che si vorrebbe un universale umano alla base di questo ritorno, e non una ricostituzione razziale: è per questo che l’universale non potrebbe essere dato allora che da un recupero della sacralità agonizzante nello spirito moderno, sotto le spoglie profane dei riti. Fosse stata una Tebaide, un luogo di sfrenata penitenza e amore, la voragine aperta sull’aldilà, almeno il digiuno di Gandhi, si poteva davvero restarne ammaliati anche se scettici: ma questa discesa alle madri, fatta a freddo, coi trattori e le sonde del petrolio, si pone come l’inverso, e in tutti i sensi, di una Subida del Monte Carmelo.

Naturalmente io non credevo una parola di quello che mi avevano raccontato gli arabi, dei cadaveri orrendamente sconciati e di altre nequizie. Restavano però altre realtà inoppugnabili: i villaggi dei profughi palestinesi, semenzaio di disperazione e di furore, e un paese come la Giordania, che più del novanta per cento è deserto e tuttavia popolato. Qui, certamente, non c’entrano più gli israeliani, ma l’assurda politica che, della Giordania, ha fatto una specie di campo di concentramento di soldati, come uno sciame di cavallette appostato nel deserto. Guardando contro il cielo impallidito le figure dei soldati col mitra fra i merli medioevali, scoccava come una molla incontenibile questo presente, insensato. Come sarebbe possibile che le cose si fermino a questo punto? Nessuno ci può credere. E allora è solamente pensabile che gli arabi si acconcino a stare sotto gli israeliani o questi sotto gli arabi? Quale orrenda carneficina si prepara?

Sono interrogativi inevitabili, ma soprattutto trovandosi a Gerusalemme in stato d’assedio: città sospesa sulla guerra come il paiolo sul fuoco. Sul momento restava la noia di queste sere, dalle quali ci si poteva aspettare da un istante all’altro ben di peggio, noia fatta di brevi passeggiatine in su e in giù sul marciapiede, davanti all’albergo, noia di una solitudine che non è già quella della campagna ma qualcosa di minato, di insicuro. E il silenzio assomigliava, più che al silenzio tranquillo della notte serena, all’intervallo sospeso fra il lampo e il tuono: che è un attimo quasi interminabile.

La camera dell’albergo, alle nove e mezzo di sera, è la camera di un ospedale non di un albergo. E in più la luce, devoltata, ricorda quella delle nottate a un infermo o gli anni dopo la liberazione, che fu un modo di essere infermi anche se convalescenti. Come timida evasione viene fatto di pensare quanto sarebbe bello aggirarsi la notte, nella città vecchia, per le strade tagliate nell’ombra e nella luce della luna, come in una pietra bianca e nera: e poi a poterlo fare, forse che verrebbe a noia subito. Ma perché non è prudente farlo, e c’è da essere presi per qualche israeliano infiltrato attraverso la zona neutra, bisogna starsene a compitare le solite tre stelle dalla finestra quieta dell’albergo, fra i cipressi, e a prendere il fresco come un vecchio pensionato sulla porta di casa.

Ieri, sul tardi, siamo stati a Getsemani. Della chiesa è assolutamente il caso di non parlare, ma gli ulivi, gli otto decrepiti ulivi fanno quasi pietà e certo tristezza. Non che si possa credere veramente che siano ancora quelli, ma vecchissimi, ma carichi di secoli certo. Il tronco ha perso la forma di tronco, è come una vecchia donna grigia, grassa, cascante, in cui il peso della carne disfà gli arti, mescola l’anatomia. Sono asmatici, sono coronati di rami giovani come se chiedessero a quei rami di venirne nascosti, di essere messi a riposo. Caro autem infirma. Aldilà si stende, oltre la strada, un modesto uliveto, qualche palma, delle tombe fra cui anche quella (di Giacomo?) che termina come con un imbuto rovesciato. Ma i vecchi ulivi di Getsemani vincono su tutto. Se dovessi dire quale sia veramente la commozione più viva della Terra Santa, additerei quegli ulivi. Caro autem infirma. Queste sono le parole che a nessuna interpolazione possono venire attribuite e sono, apparentemente, le parole della rassegnazione, ma in realtà dicono il momento amarissimo in cui, accettandosi nella propria miseria, non ci si accolla ma si discende fino nel profondo, fin dove non c’è più che un’oscurità a occhi chiusi. Di fronte ai grandi detti, come: Pete non dolet, questa umile confessione può parere la più lontana dall’onnipotente immagine di Dio. Ma se l’umanità, nell’atto di coraggio in cui si sorpassa, fonda se stessa come superumana, divina, la divinità, ove se ne giunga ad articolare il concetto, non può che fondarsi come umana. Dovrà essere il peso stesso della carne a produrre, nell’accettazione del destino dell’uomo, la vittoria dello spirito. La resurrezione di Gesù sta tutta qui, in questo eterno principio, e non avvenne, avviene, avverrà finché l’uomo sia uomo.

Così guardavo questi ulivi rugosi e laceri, ma immensi, li interrogavo come se potessi leggervi scritta la mia sorte. Ma la mia sorte, non altrimenti che per gli altri, era in quello spasimo di cui i meravigliosi e quasi geologici tronchi fungevano ancora da testimoni autentici: lontani, come dal principio del mondo. E veramente un mondo, un mondo nuovo prese inizio, allora.

“Ma se Lui era Dio” è obbiezione spontanea “come poteva vacillare?”. E invece la fede è un ausilio solo per chi l’ha dal di fuori, la riceve come la luce del sole. Ausilio grandissimo, incommensurabile. Ma chi è la sua stessa fede, è come chi porta una luce nella notte: gli altri vedono, egli non vede. Dovrà schermirsi da quella luce, rientrare nell’ombra della lanterna cieca per poter anch’egli, come gli altri, non più degli altri, averla a guida del suo cammino. Donde la più grande fede può celarsi nel non aver fede: cecità fatta di luce.

 

BETLEMME

Quod sum causa tuae viae.
Dies irae

Pochi sono i nomi che, al pari di Betlemme, possono vantarsi di possedere come un corpo mistico dentro la maggior parte di noi: corpo mistico di cui Betlemme, nella sua realtà ancora attuale, è solo quel poco che risale alla luce. Il Presepio, la stella, i pastori, i Re Magi sono eventi della nostra infanzia, come di quella di Gesù: impossibile o fatuo credere che uno se n’è disfatto e li ha relegati alla severa distanza della storia o in quella opalescente della leggenda. Il fatto sta che anch’io ero internamente preso da un’attesa, assai più tremula che per lo stesso Santo Sepolcro.

Subito, usciti da Gerusalemme, ricomincia, con poche chiazze di scarsa vegetazione qua e là, la rude vicinanza del deserto, o per meglio dire, di quelle groppe nude di pietra biancastra e di creta che sembrano fulminate per sempre alla vegetazione. Lontano appariva una breve lunetta del Mar Morto, d’un azzurro solforoso, e come in un polverone rosato, contro il baluardo irriducibile di montagne brulle, palpeggiate da ombre appena viola. In questo scenario il sole sembra con lo scudiscio in mano. Ma noi eravamo in macchina, e io pensavo malinconicamente che non avrei visto da vicino il Mar Morto, né le grotte donde è venuta fuori tutta la biblioteca degli Esseni.

La strada si svolgeva con una dovizia di curve da fare invidia alla Calabria e, fuori che qualche gregge, non offriva varianti. Poi, il paese cominciò a essere meno bruciato, apparvero delle case, in una parola si era arrivati a Betlemme, la Bellemme della mia infanzia. C’è una specie di piazza colle solite macchine sgargianti americane (acquistate a rate): un muro con due rozzi contrafforti chiude quella che fu la facciata della chiesa. Si vede un architrave, chiuso: sotto, un arco ogivale, chiuso: più sotto ancora, una porticina bassa, come per entrare in un canile, che dico? più simile a una gattaiola tagliata in fondo a un uscio. E quello è l’ingresso della Basilica della Natività. Si spiega che così si è fatto per impedire ai beduini di entrarci con gli asini: ma è una cosa sconcia.

La Basilica, si sa, fu salva, ed è la sola salva, in Terra Santa, del tempo di Costantino, perché i persiani sassanidi, arrivati lì, si riconobbero nei Re Magi che un mosaico recava a metà della facciata: infatti i Magi venivano raffigurati con i calzoni stretti, come Mitra. I persiani salvarono la Basilica con le sue cinque navate, e il presbiterio che vi aveva inserito a forza Giustiniano. I persiani salvarono la Basilica, i Crociati l’adornarono di mosaici (1169). Ma i barbari sono di tutti i tempi, e l’avvicendarsi delle ondate di invasione in Palestina hanno compiuto il resto. Veramente il colpo finale si deve al clero ortodosso che occupa la Basilica, e che l’ha segnata col suo sigillo di provincia rurale. Per disgrazia, mentre furono fatti scavi fortunati per ritrovare il livello dell’impiantito costantiniano, e ne sono venuti fuori mosaici d’un interesse erudito, i grandi avanzi di mosaici, che, quasi viene voglia di dire, pendono dalle pareti come vele dilaniate dal vento, codesti restano coperti come di fango. E l’unica cosa che davvero si vede è il sobbollimento delle tessere, e come delle impronte risugate, che furono le città dei Concili, la Genealogia di Cristo, e gli angeli che stavano fra le alte finestre. Perché, per immaginare la Basilica di Betlemme, si pensi a S. Maria Maggiore e, con minor lusso, se n’avrà un’idea. Codesti mosaici sono firmati – Basilius pictor – dunque d’un greco costretto a firmarsi in latino, ma le scritte che si riportano ai Concili sono quasi tutte in greco (una sola ne resta in latino). Per quanto sia un azzardo esprimere un parere su delle immagini similmente nascoste, mi è parso che si possa segnare una certa parentela con i mosaici siciliani coevi, soprattutto con quelli di Cefalù. Gli angeli, col volto tondeggiante e in pose di libellule, inventate con sorprendente novità figurativa, ancorché seminvisibili, si offrono in una sigla elegante come un sigillo.

I mosaici del presbiterio (che ha forma di solenne triconca) sono appena un po’ più visibili, soprattutto per il dato di una finestra che versa il sole sul mosaico della Incredulità di San Tommaso.

E questo offre la sorpresa di una composizione movimentata, assai più di quel che si potrebbe attendere per l’epoca, come un anticipo preso sul successivo periodo paleologo. Non solo questo: ma proprio certi particolari dei panneggi, che formano vortice sul ventre, e i gesti assai meno compassati, fanno rimemorare da un lato stilizzazioni ottoniane, dall’altro certi affreschi in Serbia, come a Sopočani.

Ma un sospetto occidentale si dissolve subito: Sopočani è di un secolo almeno posteriore, e questi mosaici del presbiterio furono fatti fare da Manuele Comneno; l’artista si chiama Efrem e la qualità è di tre cubiti più alta delle miniature ottoniane, che ripetono, aggravandoli, i tic nervosi della pittura bizantina, mentre a Sopočani è chiaro non esservi altro che i riflessi cadetti di quello che qui dichiara il suo maggiorascato. Questi mosaici stanno in linea primogenita, e tanto basta.

Questi o simili pensieri mi avevano intanto felicemente distratto dalla contristante desolazione della chiesa, con la pesante iconostasi e tutti gli altri aggeggi: ma bisognò scendere alla Cripta della Natività. E qui aumentò lo stringimento di cuore al disordine delle pareti, degli altarucoli, delle lampaduzze, del paramento incombustibile. Perché le chiese tornino il luogo della preghiera, vanno sconsacrate, liberate da tutto quello che non è essenziale al monumento. Ma soprattutto le chiese ortodosse sono intollerabili. Il Padre francescano che mi accompagnava mi fece lestamente passare dall’altra parte di quel dedalo sotterraneo di caverne. È la parte che spetta a loro, custodi di Terra Santa. E qui i luoghi illustri si sprecano, basterebbe la caverna di S. Girolamo dove avrebbe sfilato la Vulgata. Ma c’è perfino un dipinto discreto, veneziano: con la Fuga in Egitto. Ha il fondo d’oro ma è cinquecentesco, vagamente lottesco: e l’Angelo che avverte S. Giuseppe ha una mossa che farebbe gola a Giovanni Pisano, tanto è audace e riplasma l’arto, la spalla e il braccio per esattezza. Ma certo non è il Lotto e neppure il Previtali.

Mi ero, come dire, rifocillato a quell’incontro, e stavo passandogliele tutte per buone al reverendo Padre, anche la grotta della Strage degli Innocenti. Perché, in Palestina, dove tutto è accaduto, qualsiasi luogo dei Sinottici o del Quarto Vangelo, o di quelli Apocrifi, deve potersi ritrovare. E così c’è ogni cosa, non s’è perduto niente; come le vere Stazioni della Via Crucis, che combinano, in luoghi inattesi, costruzioni moderne, botteghe arabe e via di questo passo. La fede, che solo conta, fa il resto: integra, disintegra, riplasma. Dunque io mi ero anche sorbito la grotta della Strage degli Innocenti, quando il candido religioso mi volle far vedere la Chiesa nuova. Chi ve l’ha fatto fare, Padre mio? Perché lasciarmi con quel lezzo in bocca? La chiesa gotica dell’Ingegnere Barluzzi, pensate un po’ che focaccia! Non bastava: “Guardi Gesù bambino,” mi dice. “Questo si mette nella culla per Natale, ce lo mette il nostro Patriarca e lo fascia, nella culla d’argento che sta nella mangiatoia. Tutti i riti assistono devotamente a quella funzione. Guardi che bellezza! L’ha regalato la Spagna! E questo invece più grandicello, sette giorni dopo, si mette sull’altare! Questo è italiano!” Siete pari e patta, con quelle immagini sacrileghe, bambolotti rosati dagli occhi di porcellana. Oh, patria mia, quanto mi costi! Perché siamo scesi a tal punto? E per credere, per pregare, per amare occorrono codesti oggetti, dunque, degni neppure dell’incoscienza dei bambini, per i loro giochi? Ma come piacciono, ah come piacciono! Mi sembra di toccare con un dito la tiepida lacrima che scende dall’occhio che si riconcilia con Dio…

Ma il Padre francescano si salvò: mi prega di passare nel convento e di gradire un bicchiere d’acqua. Fu proprio un bicchiere d’acqua e di cisterna, neppure fresca. Ecco la carità, dissi dentro di me, la vera carità che è povera e ricca. Un bicchiere d’acqua. La sete. Inestinguibile sete.

 

UN UOMO E CINQUE FIGLI

“Vrayement” respondit Panurge “vous me alleguez de gentilz veaulx.”

Rabelais, III, 18

La storia di Ibrahim va raccontata. Ibrahim è il custode del nostro Consolato a Gerusalemme, e il giorno che sono arrivato andava in congedo per un mese. Ibrahim parla un italiano che è qualcosa di meno di un italiano da forestieri, con i verbi all’infinito: è un gergo fluttuante, capriccioso, che sposta il significato dei vocaboli in modo così collaterale, che può darsi di sentirsi dire, passando davanti alla prigione, che è l’ufficio dove ricevono i ladri. Ma intanto Ibrahim parla l’italiano, anche se a modo suo, e io non parlo l’arabo. Inoltre Ibrahim è attaccatissimo al suo Consolato che gli dà il pane per sé e per i suoi figli; credo che questo mese di licenza sia una terribile disoccupazione per lui. Egli si sente italiano e vuol bene a frati e monache, anche se è cittadino giordano e musulmano. E soprattutto gode di sentirsi vicino a una persona importante. Mi ha recitato non so quante volte la lista dei Consoli che ha servito, come se si trattasse della cronologia dei Papi o delle dinastie faraoniche. Si meravigliava che io, che sono una persona importante, non conoscessi quelle persone importanti. Come che sia, Ibrahim si è spontaneamente messo al mio servizio. Anche quando non gli davo appuntamento, sapeva dove trovarmi: e veniva alla Moschía, come dice lui. E veniva con due bambini. Questi sono graziosi, puliti, bene educati: appena mi vedevano, mi tendevano una mano stretta col pollice all’insù, come la mano di Fatima, e mi dicevano, uno alla volta: “Buon giorno, Signore, come sta?”; il loro italiano si fermava qui, ma era limpidissimo. Sembravano veramente due pappagallini, e quel che li differenziava, oltre l’aspetto decisamente umano, era che la loro unica frase non veniva ripetuta fuori luogo. Del resto potevano sembrare italiani, anzi sardi: e a metterli a Sassari sembrerebbero nati lì. Come succede a tutti i ragazzi di questo mondo, uno aveva voglia di studiare e l’altro no: ma erano ugualmente simpatici.

Quando si andò a Betlemme, inopinatamente mezz’ora prima del previsto, Ibrahim era venuto a prendermi col taxi. Dentro il taxi trovammo i due pappagallini. La cosa non mi dispiacque in sé, ma piuttosto m’intrigò perché temevo un’attenzione eccessiva e ingiustificata da parte di Ibrahim, che cioè volesse offrire lui la gita: altrimenti non aveva senso che, senza chiedere il permesso, avesse portato anche i due ragazzi. Ma la spiegazione s’ebbe per strada: “Questi venire sempre con me: non essere figli, essere nipoti, il padre morto, io tenere con me”. Lodi sincere al bravo Ibrahim, che s’era accollato due bambini, a questi lumi di luna. Non era tutto: il resto si è saputo dopo. Infatti ieri, come al solito, ci viene a trovare nella Moschía: eravamo esacerbati dalla consueta lunga inconcludente attesa. Il palco non andava né avanti né indietro: le tavole per i ripiani non si vedevano ancora: e noi a far niente. Alle undici ce ne veniamo via per disperati, e Ibrahim con noi. Per la strada voglio offrire dei dolci ai bambini. Pronto, Ibrahim: “Meglio mele”. Si compra le mele, ciò che è sempre un evento, qualcuno che compra, in Oriente; e qui, poi, dove la roba è molta, tanta, e i denari pochi. I due ragazzi prendono le mele fra le braccia, carta da involgere non esiste. Allora Ibrahim ha un’idea subitanea che mi costerna: “Venire casa mia prendere caffè”. Impossibile rifiutare senza offesa. Si scantona per un vicoletto dove dei copertoni vecchi di automobile vengono industriosamente ridotti nelle forme più impensate. Ibrahim spiega: “Questo, servire per acqua” sono delle specie di brocche di caucciù “queste, scarpe per beduini”. Anche le cose che si capiscono Ibrahim ha bisogno di spiegarle. Di lì si passa a un altro vicoletto sudicissimo, si trova una porticina, una scala, un cortiletto in alto con tre stanze che si affacciano. È la casa di Ibrahim. Attraversa lentamente una donna ancora giovane, ma di proporzioni così inconsuete da far ammutolire. Meglio così: perché è la moglie di Ibrahim. Potrebbe essere incinta, non si sa mai: in quanto al treno posteriore… Ecco, nei frantoi vi è la doppia mola, metteteci un panno sopra.

È la moglie di Ibrahim, ed è la madre di tutti i figli presenti. Qui si conosce per intero la storia di Ibrahim. Suo fratello è morto qualche anno fa e lasciò ben cinque figli. Egli ha sposato la vedova, e si è accollato quattro figli, il maggiore essendo già in grado di guadagnare. Un tragico levirato, quattro figli e quella donna. Ma Ibrahim per passatempo gliene ha fatto mettere al mondo un altro, Abet si chiama, di un anno e mezzo, che comincia appena a camminare, puntellandosi in terra con i due alluci prensili come se fosse uno scimmiotto. Ma ha occhi bellissimi: letteralmente azzurro è il bianco, dorato come un calabrone il nero.

Bisogna passare nella camera e sedersi su uno dei due letti. Accanto c’è un lettino per l’ultimo nato. “Questo, culla” spiega subito Ibrahim. La figlia maggiore va a preparare il caffè: è sedicenne, gli occhi che fuggono verso le tempie, lucidissimi, teneri e scontrosi. Ma, anche così giovane, già le comincia la curva del ventre materno. L’altra figlia, meno bella, porta uva e mele sbucciate. Poi eccoli torno torno ai lati del cortiletto, in contemplazione degli ospiti.

È tutto. Ma Ibrahim, dal cuore più grande della sua piccola casa, buono e aperto come un fico maturo, carico di figli non suoi e presto dei suoi, cristiano e musulmano; chi più cristiano di Ibrahim?

 

LA CAPITALE DELLA GHUTA

Seigneur, permets-moi d’arracher ces arbres pour les compter à l’aise.

Mallarmé, Contes indiens

Anche Damasco, per capirlo, bisogna arrivarci dal deserto. Quando si giunge dal Libano, si ha ancora negli occhi gli alberi, i verzieri, i prati del Libano, e l’interruzione non è tale da provocare un entusiasmo travolgente per l’oasi di Damasco, la Ghuta. Invece quando si hanno sulle spalle chilometri e chilometri di deserto giordano e siriano, allorché si vegga la piana densa di verde cupo, ai piedi dei monti rossastri, è come un lago che apparisse, ancor più che un’oasi. L’effetto è quale si doveva provare in antico.

La strada che avevo fatto, direttamente da Gerusalemme, fino a Gerico ricalca quella per Amman. Era presto, s’incontravano poche macchine. Nel sole che, a Gerico, sembra che lasci come una fondata immobile di calore, il villaggio dei rifugiati era ancor più orrido, e mi spiegai il perché. In fondo vi sono tanti villaggi indigeni anche peggiori, con le case di mattoni crudi coperte di fango, basse, sbilenche, ammaccate, che sembrano in procinto di cadere sull’istante. Ma, quel che disanima nel villaggio di Gerico, è proprio il fatto delle casucce regolari sul tipo di quelle prefabbricate, con gli spigoli vivi che il sole mattutino rendeva taglienti, d’una precisione irritante: il provvisorio diventato definitivo, la miseria pianificata e dosata da durare illimitatamente.

Le piantagioni di banane sono belle, tanto più basse di come le immaginassi; hanno quel verde goloso delle piante improvvise in un terreno fondamentalmente arido e che beve solo a punti fissi, come con la bocca.

Poi, passato il Giordano, la strada s’innalzò un poco: a sinistra si vedevano ancora le chiazze verdi della pianura, ma che assomigliavano, più che al verde dei prati o del granturco, al verde convenzionale delle carte geografiche, dove indica la pianura. A destra c’erano colline di sasso o piccoli altopiani pianeggianti. Fu qui che rividi le case curiose che avevo già notato qua e là a Gerico, quelle, cioè, che assomigliavano ai trulli di Martina Franca.

Non sono, come ad Alberobello, che nascono a fuso dal pianoterra, ma su un blocco cubico si innalzano dei coni rivestiti di fango: tuttavia la somiglianza è innegabile. Via via che si procede, la terra è sempre più arida e sassosa, e veramente non si capisce che cosa bruchino pecore e capre e cammelli: si valgono di erbe secche così minuscole da non poterle dire che peli, neppure capelli della terra. Si nota con stupore che dove c’è qualche torrentello che scende dalle colline, non produce intorno a sé della vegetazione. Uno s’immagina che voluttuosamente erbe e arbusti facciano a gara ad affondare le radici sotto quel fresco, e invece, se l’acqua non è convogliata e attirata nelle canalizzazioni degli aranceti o nei piccoli appezzamenti di granturco, si vede scorrere indisturbata, improduttiva, arida come pietra liquida fra le pietre. Tanto che a me sovvenne il Bulicame a Viterbo, ma lì è acqua bollente e solforosa, uccide il mondo vegetale se anche risana quello animale, e qui invece è acqua fresca. Ma è come colpita di sterilità, dell’interdetto del deserto che vuole se stesso nudo sterile secco, e occorre che il suo principio vitale sia riattivato, immesso in circolazione come il sangue dentro le vene; e vene sono i canaletti che innaffiano gli aranci e le melanzane.

Quando si arrivò alla frontiera siriana, si era ritrovata la strada di Amman, sempre percorsa da autobotti del petrolio: è la strada rude del deserto, pianeggiante rossastro e nerastro. Rividi qualche alta tromba di polvere e, lungo i margini, beduini accovacciati, quasi fossero stati all’ombra, alla frescura. Il sole ormai non so se bruciasse di più dal cielo o dal riflesso del pietrame. Così in fondo, come un’acqua verde e grassa apparve la piana di Damasco.

Il sangue di Damasco si chiama Baradà. Non è un fiume, non è un torrente, è un velo d’acqua che non riesce ad arrivare né al mare né a un altro fiume; a un certo punto, poco fuori da Damasco, il deserto in due o tre sorsi se lo beve. Ma a Damasco è la vita, lo sfarzo, la ricchezza. Lungo la Baradà hanno fatto il Lungobaradà, come dire il Lungotevere: ci sono caffè, cinematografi, alberghi: infine la Fiera internazionale e altissimi altoparlanti ovunque. L’acqua scorre miserella in fondo in fondo al canale, scorre trasparentissima su scatole di latta e rifiuti di ogni genere, che non vale dragarla come ho visto fare, con una specie di ramaiolo, allo spazzino di Amman che nettava il ruscello da cui Amman trae il nome. La città nuova si stende a macchia d’olio sotto il contrafforte nudo e rossastro dell’Antilibano, e potrebbe veramente servire di esempio prammatico per l’inconciliabilità di certa architettura moderna con l’ambiente naturale in cui si inserisce. Il monte arrotondato, stropicciato dai venti del deserto, fa da sfondo alle solite case bianche di elementi sovrapposti, di balconi sovrapposti, che è inutile descrivere perché si vedono ovunque: quegli angoli secchi, quei parallelepipedi indifferenti a tutto, con un po’ di alberelli coriacei fra mezzo, che sembra la stoppa tinta di verde dei presepi. Eppure la presenza del monte non era opinabile: eppure le case del villaggio arabo che nasce più sopra, potranno parere nidi di insetti, terrazze di alveari, ma riescono a legare con la pietra, col cielo, col colore.

Quelle casacce moderne stanno invece a dimostrare la irrevocabile scissione del nostro vivere artificioso dalla natura, l’automazione, la ridicola cibernetica a cui si riduce il nostro tempo. E dico il nostro, perché qui non è colpa degli arabi. Infatti, se mai ci fosse bisogno di riprova, il padiglione inglese alla Fiera ve la fornisce subito. In uno sgraziato plastico, che è come la simbolica degradazione del Presepio alle moderne necessità propagandistiche, si vedono dei monti pelati e rossi come l’Antilibano e, sotto, case a parallelepipedo, con angoli taglienti come rasoi, e cipressetti inestimabili, e automobili in miniatura. Come non bastasse, c’è scritto: “Ecco quel che si può raggiungere con la tecnica e l’attrezzatura inglese unita all’iniziativa e all’industriosità araba, in un paese del Medio Oriente simile alla Siria”. Oh, Inghilterra impagabile! E che diavolo si ha sotto gli occhi, a Damasco, se non quello che ci fai vedere in scala ridotta, come con le case delle bambole? E, questo, mentre bolle in pentola quel po’ di roba che ha scatenato, prima e più di Suez, lo stato di guerra a Cipro. Tecnica inglese e iniziativa araba. Siamo serviti, infatti.

La Fiera di Damasco non è la fiera delle vanità, ma quella delle illusioni. Bisogna vedere che gara fra i potentati della terra; non so più se ci sono due Germanie, o quattro o sei: dieci Russie, ventiquattro Americhe… E gli elicotteri dell’una e dell’altra che volano ogni mattina. Una fiera meno fiera di questa non si potrebbe immaginare: giuro che non hanno venduto neanche uno spillo. E intanto credono davvero che gli arabi si facciano prendere dallo specchietto delle allodole. Gli arabi: e proprio gli arabi di Siria. Basta guardarli in faccia. Non è più la razza stupefatta e beduina come in Giordania, qui è rifluito come un mulinello di spore umane. E soprattutto quella semita del genere grasso, come già documentata nella scultura di Mari, al terzo millennio. Anche qui, certo, i giovani camminano tenendosi per mano, ma i loro visi, appesantiti nei tratti, sono ancora più duri verso lo straniero, l’intruso. E a parlar francese non ci si fa onore di sicuro. Qui al francese si è già sovrapposto l’inglese: e se parlano qualcosa di diverso dall’arabo, è in inglese, che cercano di esprimersi. Fu del resto indicativo quel che mi accadde andando alla Moschea degli Omayadi. Da una porta entrano i musulmani, levandosi le scarpe in strada, e da un’altra i visitatori paganti. Mi venne incontro un ragazzino biondo vivacissimo, interpellandomi in inglese: “French, english?”. Dissi: “Italiano”. “Allora siamo amici!” esclamò in italiano anche lui e dandomi la mano. Risultò che aveva studiato due anni a Firenze e si chiamava Pacifico: ma ora studiava a Damasco, non c’era più bisogno di tornare in Italia. Così accolto inopinatamente, entrai nella grande corte della Moschea.

L’impressione che fa codesta corte è quasi pari a quella di Piazza San Marco: ciò per dire in sintesi accessibile la solenne, ineguagliabile grandiosità del monumento: la sua riposta pace, il ritmo celeste, la luce rosata, il cielo come velario sopra di essa. E dove brillano di fioco lume i mosaici immortali, fantasiose costruzioni lungo un’acqua capricciosa, e alberi da frutto, palme, peri, meli cotogni: veramente favolosa immagine di un tempo e di una civiltà che, su quel monumento, stramazzavano come l’atleta che corse troppo a lungo. Il traguardo è questo per la pittura bizantina ancora così carica di ellenismo, ma di un ellenismo nostalgico, di memoria indiscriminata, che allinea i suoi ricordi come un albero genealogico, le case del secondo stile con dei padiglioni che sembrano persiani, e i peristili con le cupole rotonde, già quasi a cipolla. Sono, quelle architetture, veramente la rassegna del mondo che l’Islam soffocherà, e che per poco riesce ancora a incantare l’atavica sete del Califfo Walid che viene dal deserto. Il presente e il futuro del monumento sta solo nell’arco appena oltrepassato, che accenna a richiudersi verso il fondo, forse non tanto per scelta musulmana, quanto per le tracce lasciate sul posto dal passaggio dei sassanidi. Perché fu costruito da bizantini, anche se ora si ha la tendenza a ritenerlo nell’ambito siriaco, di cui, fuori che a essere in Siria, ben poco si sa. Furono bizantini i costruttori e lo dimostra un fatto inoppugnabile: dove è caduto il mosaico nella ghiera degli archi, si vedono ancora i segni indicativi preposti sulle pietre dai marmorai, per la loro collocazione nell’ogiva: ebbene, la lettera che designa le pietre di qua e di là da quelle di chiave è un’alfa disegnata in rosso con le caratteristiche dell’epigrafia greca verso il VII secolo. Bizantini i tagliapietre, nella Siria aramaica, bizantini i mosaicisti. Né, senza una lunga storia di ellenismo, si poteva arrivare a quegli alberi da frutto che ricordano e la villa di Livia a Prima Porta, e l’ultimo gabinetto scoperto a Pompei, quello con gli inopinati limoni.

Certamente, un secolo è passato da Santa Sofia. L’impareggiabile collegamento spaziale tende ad allentarsi, a semplificarsi. È qui enunciato per la prima volta quello che sarà il tema dell’architettura islamica, tema e svolgimento, perché non subirà né sviluppo né approfondimento. È il tema dell’architettura del vuoto, a cui viene sottratta la dinamica bizantina, e in cui, perciò, la resistenza dei pieni deve essere minata, traforata, dissimulata. Altro non è il senso delle ceramiche che, nella lucida superficie, neutralizzano la materialità della muratura, e così le penetrazioni e quasi le corrosioni che opereranno le stalattiti, le smerlettature degli archi, l’uso che sarà sempre più esteso dell’arco persiano che dissimula nella spezzatura leggiadra la funzione costruttiva, quasi fosse un ritaglio. E quegli stucchi con i vetri piccolissimi nelle transenne delle vetrate tendono inversamente a togliere l’aspetto troppo aereo alle vetrate, in modo da equipararle allo spessore incerto che le maioliche attribuiscono ai muri. E come a Cordova l’arco sovrapposto all’arco non è in funzione di un balcone o matroneo così, già qui a Damasco, le bifore sovrapposte alle arcate non corrispondono a un secondo piano: i mosaici continuano sulla parete interna fino al soffitto.

Questa irrazionalità, che sarebbe stata impossibile nella complessa struttura spaziale del VI secolo, dichiara senza dubbio la minore tensione che è succeduta nell’architettura bizantina, ma è ancora nell’ambito dell’arte bizantina che si produce, non è una innovazione musulmana. Nella sfera ufficiale costantinopolitana la versione accettata sarà invece quella che confluisce nelle chiese sul tipo di Dafní e di Hosios Loukas, ossia in quella che fu la nuova formula della Nea di Basilio I, e che in un certo senso, con una ripresa di strutturalismo più pesante, contrasta all’innegabile sfaldamento delle strutture che si determina per gli elementi svuotati della “ragion pratica”, come nei sovrapposti archi di Cordova o nella loggia inoperante della Corte di Damasco. Ma nell’uno e nell’altro caso la partenza è decisamente bizantina: basta pensare al cosiddetto Palazzo di Teodorico a Ravenna, per Damasco, e alle Cisterne bizantine, per Cordova. Il traforo dell’arco sovrapposto a Cordova e la finta loggia a Damasco, sono lo svuotamento funzionale della struttura in omaggio a una architettura dei vuoti. E del resto, prima ancora che a Cordova, nella stessa Moschea di Damasco, per quanto restaurata in modo detestabile, rifatta quasi del tutto, il motivo delle finestre vuote sopra gli archi, nelle tre navate, che ripete il motivo della fronte lungo il cortile, non è che il motivo dell’arco vuoto di Cordova. E che qui e là serva ad alleggerire il peso del muro, non conta affatto, rispetto alla irrealizzazione della finestra come correlato a una suddivisione orizzontale che invece non esiste.

Uscire dal divino cortile e rientrare nel Suk è come trovarsi fra l’alfa e l’omega del mondo islamico. Là ai suoi splendidi inizi, quando si appropriò di tutto ciò che v’era di più raffinato e prezioso, qui nel suo processo storico effettivo, nello slittamento a valle: il tutto peggiorato, nel caso pratico, dalla volgarità ottocentesca del voltone di lamiera ondulata, che sembra di essere in una stazione ferroviaria smessa ma ancora fuligginosa di carbon fossile. Non solo meno nobili dei mercati coperti di Gerusalemme e di Costantinopoli, questi Suk di Damasco, ma addirittura detestabili. Tuttavia la città vecchia ha i suoi recuperi, e alcune viuzze sono preziose come oggetti. Basta uscire dal Monumento del Saladino, accanto alla Grande Moschea, per trovarsi in un quartiere che è ancora quello del XIII e XIV secolo. Due grandi Madresseh affrontati, uno dei quali (col sepolcro del Sultano Baibars) è ora la Biblioteca Nazionale, sono fra i più nobili edifici islamici: l’eleganza di quei muri esterni intarsiati e levigati come cofani di avorio, e le alte porte a iwan con le stalattiti in alto come nidi di rondini. E poi, sottopassaggi e case con degli sporti così spinti in fuori che, in certi punti, senza esagerazione non c’è nemmeno trenta centimetri fra uno sporto e l’altro. Qui, per averne un’idea, pensate ai paesaggi urbani di Ambrogio Lorenzetti e di Simone Martini: quell’architettura tutta fuori piombo e puntelli è l’architettura di una vecchia città araba. Io giravo senza fine fra quei tuguri, e veramente, come già nei nobilissimi criptoportici di pietra a Gerusalemme, mi sentivo al tempo del Saladino e di Solimano, né i costumi, che qui abbondano, talvolta di raso a righe, mi contraddicevano. In una predella di Simone incontravo i personaggi che uscivano da avere posato per Gentile Bellini.

 

IL SACRIFICIO DI CONON

En los desiertos del Asia, primera cuna y primera estacion del sol.

Calderon, La Sibila del Oriente, I

Fra le cose che più ardevo di vedere, a Damasco, v’erano gli affreschi tolti a Dura Europos. Sto per dire che quasi più per questi che per la Grande Moschea avevo deciso il viaggio a Damasco, quando tutti a Gerusalemme, per l’incalzare degli eventi palestinesi e egiziani, mi consigliavano di andarmene subito – e in aeroplano anche meglio – a Beirut. Perciò mi ero lasciato un giorno intero per il Museo di Damasco. Non è troppo.

È difficile che accada, dopo un’attesa che dura da anni, che non intervenga una qualche delusione: le cose ci si aspettano o più grandi o più piccole, i colori più vivi o meno vivi, insomma l’immagine protesa non coincide mai con quella che si trova.

Anche per gli affreschi di Dura Europos doveva accadermi una cosa analoga, ma in senso tutto diverso perché mai mi sarei aspettato la qualità altissima di quegli affreschi, almeno di quello che si riferisce al Sacrificio di Conon agli Dei palmireni. Eppure conoscevo, da quando erano state pubblicate, queste opere subito famose: ma le riproduzioni mi avevano lasciato nel dubbio che in fondo si trattasse di una grandiosa decorazione provinciale, e che nei fermenti che recava, assai più che nella sua qualità intrinseca, stesse l’importanza sostanziale del ritrovamento. Inoltre il giudizio che avevo potuto dare degli affreschi del Museo di Yale, a parte l’orrida impiastricciatura di paraffina e vernice, mi aveva confermato nell’idea di una pittura provinciale che ha solo interesse ermeneutico per la genesi dello stile bizantino del VI secolo. E sarebbe così se, di tutte le pitture di Dura non fossero rimaste che quelle di Yale, ossia della Chiesa cristiana, e gli affreschi della Sinagoga, ora a Damasco. Per quanto codesti abbiano un interesse incalcolabile, per il fatto di essere rappresentazioni figurate di una Sinagoga e le più antiche illustrazioni della Bibbia, nonché per il fatto di rivelarci dei modi figurativi, nella narrazione, che si discostano da quelli classici e preannunziano quelli bizantini e medioevali, la qualità della pittura è rozza, quasi al limite popolaresco, se così ci si può esprimere per un’epoca a cui non si possono riferire impunemente le nostre categorie culturali. Nelle pitture della Sinagoga, per quanto la formulazione sia frettolosa, appare sempre una rustica canalizzazione della pittura classica romana: perfino in certe abbreviazioni, ancor meno che compendiarie, di procedimenti tecnici ben noti.

Invece, nel grande affresco di Conon che sacrifica alla Triade palmirena, c’è la rivelazione subitanea d’un mondo formale che non procede, per regressione di cultura o per insipienza d’individuo, da una raggiunta canonica unità della forma, ne prospetta una del tutto autonoma, da cui evidentemente deriva ma in cui si mantiene con vigorosa saldezza. Insomma, per intenderci, pensate di trovarvi di fronte prima a una pittura gotica e poi a un affresco di Piero della Francesca. Ora io non affermo che l’affresco di Conon stia sullo stesso supremo piano di Piero della Francesca, ma che certamente realizza una visione formale radicalmente diversa da quella che attraverso la Grecia e l’ellenismo giunge fino a Roma. Questa nuova visione formale poté essere elaborata a partire dal bassorilievo schiacciato achemenide e partico, – la pittura di Conon è della fine del I secolo d.C., ossia ancora del periodo partico di Dura Europos, – ma e certo che né pittura né scultura egiziana, né la pittura greca del VI secolo, come appare nei vasi e nelle preziose tavolette ritrovate in Beozia, né infine la stessa scultura achemenide, per quel che se ne sa, enuclearono mai la linea come principio risolutivo della plasticità dell’immagine. Questa intuizione permette, all’autore dell’affresco di Conon, di presentare le sue figure tutte di fronte, senza usare chiaroscuro e senza confinarle su due dimensioni. Niente può dare meglio l’idea del superbo disegno col quale è raffigurato il collo e le braccia di Conon, che paragonarlo alla presentazione frontale del S. Ludovico di Tolosa di Simone Martini. L’assoluta coscienza del fine formale è dimostrata – per chi ha bisogno di riprove – dal fatto che il profilo stesso è duplice, nel senso che è segnato prima in rosso e poi, a distanza di circa un centimetro, in nero. Al che si potrebbe favoleggiare di pentimento, di correzione: ma a togliere il sapiente dubbio soccorre l’altra e quasi identica figura di prete sacrificante (l’unica sopravvissuta del medesimo stile) in cui il procedimento del doppio profilo è attuato al medesimo modo. Sarà allora giocoforza ammettere che il doppio profilo sta in duplice intento, per rafforzare senza chiaroscuro la tonalità del colore campito all’interno della figura, e per non aggravare il profilo stesso con una listatura troppo greve. La distanza mantenuta fra una linea e l’altra assicura il contemperamento dei due scopi.

Ora io non mi dilungherò sugli artifici di raffigurazione spaziale, per altro importantissimi e agli antipodi delle rappresentazioni classiche, soprattutto per quel che riguarda la posizione dei piedi. Mi basta solo di aggiungere che la sicurezza del procedimento del doppio profilo e l’identità della posizione delle figure dei sacrificanti fa supporre che, né quel procedimento, né quel particolare canone figurativo fossero inventati per la prima volta in questi affreschi, che si debbano e si possano ricollegare a una tradizione culturale in cui l’uno e l’altro poterono già essere stati elaborati, come ad esempio avviene per il canone egiziano della figura stante con una gamba avanzata, o per la soluzione ibrida della figura in bassorilievo con le spalle di fronte e le gambe di profilo.

Bisogna infine aggiungere che le campiture di colore sono di un grande equilibrio, che si restringe a una scelta limitatissima di ocre e di bianchi graduati: soprattutto insisto sull’equilibrio, perché la scelta cromatica è più rivolta a garantire la perfetta commessura, come per un intarsio di pietre dure, che a “sospingere” avanti o indietro le varie parti della raffigurazione. E cioè, la successione dei colori non è spaziale, ma si dispone come se si trattasse di comporre un motivo puramente geometrico sul piano. Il compresso spessore spaziale della raffigurazione rimane unicamente affidato alla forma plastica delle linee di contorno.

Ma, certo, questa di Conon, è la più alta pittura che, in mancanza degli originali greci, ci abbia trasmesso l’antichità.

Non credevo che, dopo gli affreschi di Dura Europos, avrei avuto un inatteso incontro in due sarcofagi di Palmira. In uno dei sarcofagi è rimasta anche la coloritura degli occhi, e aiuta a capire “le tappe” colle quali questi venivano eseguiti: un procedimento che, pur essendo divenuto una sigla, non è meno cosciente dell’intento formale che realizza. Ma, quello che in primo luogo sorprende, è la luminosità di queste sculture: si direbbe che riescano a fugare le ombre, a scioglierle nell’infinito grafismo delle pieghe sottili, realizzate come piccoli scalini senza affondare cioè. Una luce liquida, come quei veli d’acqua delle fontanelle arabe, bagna queste sculture, le quali, anziché perdere per questo volume e consistenza, si presentano in un blocco senza cedimenti. Ma esaminate le mani, e vedrete che sono realizzate con una squadratura quasi cubica: osservate i volti, e vi convincerete che la capillarità delle pieghe non implica nessuna consunzione del volume. I particolari dei ricami e dei capelli, come dei gioielli, sono portati avanti se non con una minuzia con grande precisione, una precisione quasi oggettiva e testuale; ma l’insieme dell’immagine si cementa in quei particolari senza ridondanza alcuna. E se tanto minuta è la lavorazione delle superfici, non si creda però che proceda, per così dire, a ruota libera: l’esempio dell’occhio è tipico, in cui l’unico risalto è dato dalla curva della palpebra superiore, e da questa si scende con un incavo fino allo zigomo: la palpebra inferiore e la pupilla saranno dipinte in nero. E questo è il procedimento che ho chiamato una sigla, ma quanto accorto. È chiaro che non si volle creare un altro orlo luminoso nella cavità oculare e che, mantenendo i rapporti naturali delle emergenze facciali, orbita superiore, naso, zigomo, si intendeva per altro di neutralizzare l’incavo, così da dare più compattezza volumetrica alla faccia. Nessuna scultura di Palmira mi era mai apparsa a tale altezza e d’una tale compiutezza.

Ma il Museo di Damasco non si arresta qui. Troppo altro dovrebbe essere ricordato: dalla sala con le sculture di Mari, a quella degli scavi di Ugarit, con la famosa tavoletta del primo alfabeto. Ancorché non sia proprio quello che poi dette luogo all’alfabeto fenicio, è sempre una commozione vedere, al XIV secolo a.C., già in atto l’incalcolabile movimento che ha dato la scrittura fonetica ai greci, ai latini, a noi.

Un’altra rarissima presenza va segnalata nel Museo: quella degli affreschi omayadi pressoché unici, gli altri essendo nel Gasr Amra, in pieno deserto. Provengono, insieme agli stucchi, dal Gasr al Hair, uno di questi castelli che, nel deserto più nudo, i principi omayadi, nostalgici della loro originaria cuna, si andarono a costruire. Qui fu il Sultano Abdullah Hichum che lo costruì nel 727.

Come a quel tempo i musulmani non erano ancora decisamente iconoclasti, qui poterono aversi, secondo che già avevo visto nel Museo di Gerusalemme, stucchi che raffiguravano persone, forse lo stesso Abdullah, e grandi affreschi, al solito ora penosamente impiastricciati di vernici, e gialli come per una diffusa itterizia. Ma soprattutto l’affresco con le suonatrici è memorabile: ridotto quasi esclusivamente al disegno, nero, largo, calcato, già all’VIII secolo consona per vie di fatto con gli affreschi indiani di Ajanta. La sorpresa per queste vaste figure, assai più grandi del naturale, è legittima: non sono meno pregnanti di quelle di Dura Europos, e dimostrano anche questo, che il lievito della linea, quale si vede per la prima volta accertato a Dura, non si perse, continuò in sottordine alla pittura ufficiale romana, e di secolo in secolo giunse fino all’Islam, dove poi doveva sterilizzarsi negli ornati. Ma non solo arrivò all’Islam: l’India da una parte, l’Europa dall’altra non lo lasciarono cadere nel vuoto.

 

PALMIRA

Et sola in sicca secum spatiatur arena.

Virgilio, Georgiche, I, 389

Pel cielo dalle molte torri!

Il Corano, LXXXV, I

Palmira, a volte mi sembrava d’esserci già stato, per quanto avevo letto delle sue rovine, studiate le sculture nei vari musei del mondo, ma non mi sarei potuto rassegnare a non vederla sul vero. Tuttavia non è un viaggio da nulla, quasi trecento chilometri da Damasco e, come potei vedere, più di tre quarti senza strade, nel deserto. Speravo che in periodo di Fiera internazionale, e con vari italiani sul posto, fosse possibile di dividere il costo notevole del viaggio in automobile: fu speranza vana. L’italiano all’estero non pensa che a mangiare, per dire – con ragione il più delle volte – che si mangia male, farsi vedere dai connazionali in locali di lusso, cambiare vestiti. Una signora madreporica all’ultimo momento pensò di dovere aver paura di stancarsi, consigliata da un altro connazionale anziano e vanesio come si conviene all’italiano fatuo, scapolo e professore d’università. Gli mancava solo la barba, a quest’imbecille, per compiere il ritratto della propria insulsaggine: parlava del viaggio a Palmira come di un viaggio nell’ignoto, dell’autista come di un pilota di Suez, del deserto come di un mare tumultuoso di sabbia. Avrei dunque visto il deserto di sabbia, come nei film: e l’avrei visto da solo, perché, con l’incoraggiante prospettiva del professore, nessuno si mosse.

Alle quattro e mezzo di mattina si partì. Appena usciti da Damasco, la campagna, ancora oscura sotto il cielo altissimo, ricordava la campagna fitta di alberi verso Nocèra dei Pagani, a Napoli, quando si lascia la strada di Pompei e la valle, stringendosi incontro a Cava dei Tirreni, rigurgita di verde, sovrapponendosi a tre piani, più alto di tutti quello dei noci. Vedevo le groppe dei meli e, sotto, un verde arruffato. Ma durò poco e poco durò la strada asfaltata. L’autista non capiva quasi una parola delle lingue in cui bene o male potevo esprimermi, e per fortuna non tentò neppure di accendere la radio. Parlava col figlio giovinetto che s’era portato e che, quando l’avevo visto, mi ero sentito sollevato da un certo peso: perché fare quasi seicento chilometri nel deserto con uno sconosciuto, siriano per giunta, nel periodo del Canale di Suez, quando non si sa mai da che parte si mette il vento, e se per caso da un momento all’altro non ti trovi in mezzo a un pogrom sul tipo di quello fatto dai turchi ai greci di Costantinopoli, pochi mesi fa, tutto ciò non prepara proprio a una gita di piacere. L’innocente presenza del figlio mi metteva allora l’animo in pace.

Sopravviene a me, soprattutto se percorro regioni sconosciute, una forma di continuato colloquio in cui riconosco il miglior frutto del viaggio.

Il gusto del viaggio, ha scritto Goethe, non consiste nell’arrivo ma nel viaggiare: ed è sentenza, come gliene scappava, ovvia e profonda, che il nostro tempo, preso dagli insulsi viaggi in aereo, non giunge più a comprendere. Il viaggio in aereo abolisce il viaggio, non è che uno spostamento. Ora dite a un albero di passare istantaneamente dal fiore al frutto, e vedrete se vi dà retta. Il viaggio in aereo è questa distanza raccorciata dal fiore al frutto, questo sconsiderato porre l’accento sull’arrivo invece che sul viaggio. Ma togliere il viaggio come distanza effettivamente percorsa sulla terra o sul mare è abolire il viaggio, è vivere superficialmente in un mondo opzionale che ti si affaccia indifferenziato dal giro dell’orizzonte: Roma, Parigi, Damasco, Palmira, non sono altro che bersagli per codesto tiro a segno, che con un colpo solo butti giù. Mentre nulla riattiva la storia come calcare le strade che l’hanno percorsa da secoli, le antiche rotte marinare, le piste. Arrivi, e questo arrivo è come se qualcosa di vivo nascesse: è come se una porta nel tempo si aprisse, e ti regala l’impazienza e, al tempo stesso, la fine della tensione dell’attesa: è insomma una cosa che accade e accade nella tua vita, ti appartiene come la tua mano o il tuo piede.

Un viaggio in aereo non è mai un accadimento tuo, nel senso che lo subisci, come ti siedi e subisci i ferri del dentista. Quando ti alzi da quella poltrona, dopo aver visto la terra capovolgersi nell’arrivo, ti senti liberato e ti trovi sgradevolmente in una città diversa da quella da cui sei entrato nell’aereo, come a svegliarsi. Il tempo passato nel bolide è un tempo che non conta, che non si somma, come non si sommano le ore di sonno nel computo delle ore che ti sono appartenute da sveglio.

Ormai s’era proprio nel deserto, ed era piano, liscio quasi, cosparso di una ghiaia così fina e sbriciolata da parere da giardino. Le piste erano vaghe. A un paesetto di quelli impastati col fango, era montato un beduino: senza neanche interpellarmi. Ci s’era fermati, l’autista aveva rimesso l’acqua nel radiatore, il bambino aveva mangiato una fetta di cocomero. Io ero rimasto a guardare una donna che impastava paglia triturata e fango. Era giovane e senza espressione: aveva quel costume, che sarebbe stato assai grazioso, con dei calzoni stretti di pannina a fiori, e la gala in fondo, poi una sottana più corta, la testa fasciata di veli neri. Impastava con gesti sempre uguali e secchi come chi fa la calza, impastava, al modo di venticinquemila anni fa, gli stessi mattoni di fango da seccare al sole per costruirci le stesse capanne basse e lunghe, che sulla costa dei monti sembrano, da lontano, dei gradini sconnessi. Impastava: una donna più vecchia era vigile, in piedi.

Quando si riprese il cammino, erano cominciate discussioni da non finire fra l’autista e il beduino. Evidentemente l’autista non sapeva la strada, il beduino la sapeva, l’autista non si fidava, e via fuori di pista, e poi indietro e poi avanti. Sembrava che appena ritrovata una pista avessero paura di farcisi cogliere. Eppure io non ero in allarme. Il deserto aveva ripreso la sua azione tonificante e io non mi sentivo mai fuori strada. Si andava e in quell’andare stava una ragione quasi così forte per me, come di vedere Palmira. Lontani colli dai colori tenui, fra l’azzurro e il viola, come nel deserto hanno le alture: un uccellaccio del genere di un avvoltoio, che passò battendo le ali così piano che le vidi distintamente quando le chiudeva in giù, come qualcosa che pendesse: nessun’altra vita che quei radi e bassi cespugli che sembrano scopo e non sono. Poi si cominciò a vedere due forme bianche in distanza che non si capiva cosa fossero, se rocce od altro. Finalmente si erano messi d’accordo, o così mi pareva, che bisognava far capo lì: avvicinandosi, si scoperse che erano enormi serbatoi, come gassometri. Si trattava dell’oleodotto che porta il petrolio dall’Irak al Mediterraneo. Quel tale oleodotto che gli arabi intendevano far saltare (e l’hanno fatto) se non si dava vinta in tutto e per tutto a Nasser. Inopinatamente comparve anche la linea elettrica e si ritrovarono capre e cammelli, che mai ho visto con così poca roba da mangiare come là. Dall’oleodotto si apriva per poco una pista larga, assai più sconquassata del deserto nudo, e la valle livellata, immensa, senza ondulazioni si stendeva fino a certi lontanissimi monti. A un tratto vidi delle forme lontane come tende molto a punta, vidi delle striature d’un verde intensissimo. Erano masserie nel deserto dove, trivellando, era stata trovata l’acqua e ci avevano seminato subito il cotone, che era verde e già coi batuffoli aperti. Ma le case erano come quelle di Gerico, come quelle cioè che assomigliano ai trulli pugliesi, e solo che quei coni non erano uno o due, ma sei o sette, tutti in fila, e parevano piuttosto i rocchetti di certe vecchie filande. Nuove erano quelle fattorie, ancora in costruzione, e ancora in fattura si videro i mattoni crudi di fango e paglia. Il verde del cotone era orgoglioso come una fanfara. Poi riprendeva il deserto più magro e, dopo un poco, un’altra masseria, finché scomparirono del tutto. Le montagne invece si avvicinavano, si rinforzavano, perdendo l’azzurro ritrovavano colori forti, dall’arancione al viola, degradando da una parte e dall’altra, formavano un valico. Nell’ampia incavatura, approssimandoci, apparve una torre diruta e poi altre, come calassero dalle balze. Erano torri solitarie, non rilegate con mura, dall’una all’altra si vedeva nitido il declivo che scendeva. Erano torri rossastre, come rossastra era la roccia di quei monti, erano le torri mortuarie di Palmira.

Sembrò di passare per uno stretto, e s’accentuava il senso come di fondo prosciugato del mare, che suscita il deserto. Di qua e di là mozziconi di torri continuavano, ma anche qualcuna alta, quasi intatta, di forme pure. In fondo si alzarono le file di colonne. Ma prima, avanti a tutti, su un colle a punta, un castello arabo, scapitozzato, dagli spigoli vivi come un cristallo. La china ripida, quasi a picco, tagliava il cielo. Improvvisa, foltissima, appena contenuta in un muro incerto, una distesa di palme e di ulivi, ma d’un verde così intenso che era più azzurro che verde.

Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, si abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico; e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.

Per prima cosa volli vedere le tombe: bisognava camminare ed era bene scegliere le ore meno bollenti. Questa storia delle tombe di Palmira credo che sia quasi unica nell’antichità. Furono, i palmireni, i primi impresari di pompe funebri, i primi a concepire la costruzione e la vendita di tanti tombarelli sovrapposti; e, non contenti di scavarli, li costruirono in altezza. Questa è l’origine, d’altronde oscura, delle tombe mortuarie a quattro o cinque piani. Inutile dire che in una città che si reggeva tutta sul commercio, c’era anche lo speculatore che comprava in blocco dal costruttore, e poi vendeva a strozzo i loculi a chi ne aveva bisogno. C’è i documenti di tutto questo, come pure dei banchetti funebri ai quali era inteso che partecipassero anche i morti: in fondo poteva essere una comoda credenza per non rattristarsi troppo.

Intanto, mentre ci avvicinavamo alla tomba detta dei Tre Fratelli, notavo, e mi era sfuggito in principio, che da quella parte la natura della montagna cambiava, perdeva il rosso, le rosicchiature; apparivano colline tondeggianti che facevano l’effetto di una negativa, in quanto che invertivano i colori come si è solito vederli: un grigio come di piombo era su tutte le parti più sporgenti, mentre un giallo soffice e paglierino appariva negli incavi dei burroni fino alle parti più basse. Era sabbia, era la famosa sabbia che non avevo incontrato finora e che il vento accumulava nelle parti cave, mentre spazzava via da quelle in risalto dove rimaneva a nudo la pietra color d’argento. L’effetto, anche dopo spiegato, mi rimaneva sempre esotico: e poi capii il perché. Quelle montagnole assomigliavano ai gatti siamesi, era lo stesso punto del giallo, e quasi lo stesso quello oscuro fra il piombo e il carbone. Ma soprattutto era la stessa inversione che fa così esotici i gatti siamesi, abituati come siamo ai nostri gatti che hanno in genere la mascherina chiara su fondo scuro, la punta della coda chiara, i pedalini bianchi, come i cavalli, ma non tutto il contrario come i siamesi. Allora le montagne che sapevano di gatto furono un nuovo fascino di Palmira.

L’ipogeo, troppo restaurato, che sembra spalmato di ricotta, reca i tre sarcofagi identici che gli hanno valso il nome dei Tre Fratelli. L’identità dei tre sarcofagi mi colpì: era come se fossero stati eseguiti col pantografo. E ripetevano quelli bellissimi del Museo di Damasco. Ma con quanta minore finezza. Però, proprio questa minore finezza che faceva il paio, evidentemente, con la lucrosa impresa delle pompe funebri, riproponeva la domanda sul rapporto con le sculture di Gandara, producendo il solito intrigo di date impossibili. Lo riproduceva sul vivo, perché, contrariamente ai due apollinei sarcofagi di Damasco, qui le pieghe, trattate sempre col taglio ad angolo retto, si disponevano con inerzia come i fili di una collana, come le onde che si formano nell’acqua ferma se ci si butta un sasso.

E io pensavo a questo modo quasi fatale che hanno di cristallizzarsi, a un certo punto, le più alte tradizioni plastiche: quasi fatale, perché dipende solo dall’altezza dell’ingegno se qui si assiste a un’operazione da marmorari irresponsabili, e là si resta col fiato sospeso, quando quei cerchi concentrici, quelle striature papillari si producono a Gandara o in Agostino di Duccio. La mia recente ammirazione per i due sarcofagi di Damasco rimaneva tuttavia scossa dall’attestato di una produzione in serie così sfacciatamente identica, che c’è da dubitare davvero se perfino i volti non furono prodotti su due o tre o quattro tipi, come le maschere del teatro greco. Le pitture dell’esedra di fondo, tutte con gli occhi coscienziosamente sfregiati, si mantenevano assai più nella scia della pittura romana, anche se è da porsi nel conto un’infiltrazione partico-iranica da Dura Europos. I ritratti, nei tondi, avevano il fondo di cielo: ma più inattesa, nella spalletta dell’arco, la figura in piedi di una matura matrona col bambino in braccio: e pareva la Madonna, e non lo era.

Si risalì dal dromos in pendio, e la verzura azzurrognola delle palme che straripavano dal muretto sembrava, così a contatto di gomito col deserto, il giardino fatato di Alcina. Grossi grappoli di datteri rossi come prugne o gialli e tondi quasi come le nespole, in tutto diversi da quelli che si trovano nelle scatole, d’inverno, sembrano piuttosto mammelle gonfie, mi convincevano dell’immediatezza con cui si proponeva a simbolo, per una religione che elaborava i suoi riti e i suoi miti, la palma, fino almeno a Giustiniano. Vicino alle palme c’è una sorgente solforosa che i romani captarono fin dentro la roccia; e ancora ci si può scendere. L’antro lungo e luminoso aveva un’acqua verdina, lucidissima, in cui si tuffavano dei bambini arabi, e quanto allegri: parevano davvero ranocchi più grandi. Sembrò quasi la grotta azzurra, e il leggero odore di zolfo non so perché stava bene, intonava col deserto.

Risalendo, riprendeva il fascino del contrasto di quel verde con la lontananza dell’orizzonte che svaporava in riflessi madreperlacei, e le montagne come gatti siamesi grandi più delle sfingi. Poi fu la volta delle torri. In quelle conservate c’è, a metà altezza, un arco quasi come una tomba fiorentina del Quattrocento, col sarcofago e, una volta, la statua giacente. In genere c’è sotto l’iscrizione in greco e in aramaico, che era la lingua – semita – parlata dai palmireni. Dentro la torre, che aveva la porta coi battenti di pietra, c’è altri sarcofagi e loculi da gente più povera, sovrapposti come scansie: scansie piene di morti. Naturalmente, sculture quasi non ce n’è più. Sono quelle che trovate a Costantinopoli, a Londra, a Parigi, in America. Il saccheggio di Palmira forse non ebbe paragoni. Poi dal pianterreno si sale, con un’elegante scaletta nello spessore del muro, al piano superiore dove si ripete la teoria delle scansie, e così via fino al tetto, se tetto vi era, o terrazza. Di cima a queste torri, soprattutto quella detta di Gamblico, il panorama mantiene la sua struttura eccezionale: le torri, così qua e là, sembrano in movimento e che non si debbano mai ritrovare al solito posto.

Il Tempio di Bel era, sull’Acropoli, il punto capitale della città. Un ampio peribolo a doppio ordine di colonne lo circondava. Questo peribolo per un caso assai raro (serviva da fortezza agli arabi) è per buona parte intatto, e con le sue lesene corinzie che lo ritmavano all’esterno, incredibilmente, quello a cui fa pensare, è alle pilastrate di Michelangelo sul Campidoglio. Così alte come sono, così nobilmente scandite, sull’alto zoccolo che dall’esterno stacca l’Acropoli dal resto pianeggiante della città. All’interno, l’incredibile disordine in cui si trova, con tutti quei rocchi di colonne e le pietre alla rinfusa, spenge un po’ l’entusiasmo: ma la grandiosità delle proporzioni e dell’impianto, il cospicuo numero delle colonne ancora in piedi finisce per imporsi. Al Tempio, che ha la cella completa e una buona parte del colonnato, si accedeva per una scala: l’ingresso del Tempio è sul lato e asimmetrico, ma certamente per ragioni rituali. Di qua e di là dall’altissima porta ci sono ancora vari frammenti del fregio, scolpito dalle due parti. E queste finalmente sono sculture non mortuarie, non in serie, ma fatte una volta per sempre. Da esse ebbi il bandolo della matassa. Si trovarono a Palmira due culture figurative diverse, che non potevano integrarsi senza neutralizzarsi l’una con l’altra: la tradizione partica, assai più collegata alla cultura achemenide che a quella greca, la tradizione imperiale romana. Il gusto del bassorilievo schiacciato, modulato quasi impercettibilmente in superficie non era né greco né romano: il gusto delle pieghe scavate in profondità, per dare uno spessore alla modulazione plastica delle forme, era stato greco e si trasmise a Roma. Questa modulazione, a contatto delle stiacciature iraniche fu ancestralmente riportata quanto più possibile al valore di linea che, sottile come una cicatrice, operava la sutura fra le varie zone ondulate o piatte del rilievo. Scaturì, presso i palmireni, quello smusso a spigolo vivo che non fa solco ma gradino e che si affida non all’ombra, come l’incavo greco-romano, ma alla luce che rimanda di taglio: donde l’estrema chiarezza, la innegabile solarità della scultura palmirena. Si otteneva, con tale procedimento, che la struttura della statua pensata in modo volumetrico e squadrato, quasi cubico, fosse poi tradotta nell’estensione della superficie come un bassorilievo: le varie facce del volume espresse in chiave di bassorilievo piatto. Così ora vedevo la coordinazione quasi logica, oltreché figurativa, di quelle mani squadrate ad angolo retto, di quei nasi a parallelepipedo, che lì per lì meravigliano ma non detonano, anche nei bellissimi sarcofagi di Damasco. Dove non c’è l’ammatassarsi delle pieghe a favorire la modulazione in fili di luce, ritornava come nelle mani, crudamente, la struttura squadrata, sumeriana, assira della figurazione plastica.

Ma la raffigurazione più attesa di questo fregio riguarda le donne velate in corteo: tutte ravvolte nella palla, mostrano la testa a uovo, striata come un’impronta digitale, fanno terribilmente pittura metafisica, manichino insomma. Basterebbe quell’invenzione, perché d’invenzione figurativa si tratta e non di una supina trascrizione dal vero, per dimostrare sia la qualità non certo mediocre dell’artista, sia il valore puramente lineare luministico delle pieghe. Infatti nelle donne velate l’andamento a impronta digitale costituisce un sinuoso arabesco sul piano che non vuole produrre o suggerire oggetto alcuno.

Fu all’improvviso, rivoltandomi verso l’ingresso, che mi si ripresentò l’augusto perimetro del peribolo: da due sbrecciature in alto si aveva l’affaccio, da un lato sulle rovine della città, dall’altro sull’oasi. La strada a colonne si vedeva quasi d’infilata, con i fusti color ruggine, contro i monti color ruggine e invece, a terra, la polvere color di cenere. Dall’altro lato le palme azzurre contro i colli che parevano soffici nei loro colori di gatto siamese. E il cielo era sempre più chiaro nell’arsura del sole.

Quella che da lontano sembrava cenere non è polvere, ma sabbia che il contrasto con la pietra roggia faceva divenire grigia, quasi cerulea. Sabbia che ricopre di già quel che una volta era stato rimesso in luce, cosicché invano si cerca di capire come fosse l’esedra prima di arrivare all’Arco trionfale. Questa strada, che dovette essere lunga più di due chilometri, con i portici di qua e di là e ancora con moltissime colonne in piedi, aveva ogni tanto dei diversivi lungo il percorso. Doveva arrivare fino al Tempio di Bel, sebbene non proprio di fronte, e per questo faceva un angolo secco: si rettifica all’Arco di trionfo, che a sua volta presenta un accomodamento per poter avere la mostra in asse dalle due parti della strada. Sembrerebbe dunque che non si possa negare che l’arco funzioni da clausola prospettica, che lo scopo urbanistico della Via porticata sia quello di raccordare a sé le varie parti della città: raccordare, ma certo non distribuire, nel senso che ognuna di queste parti resta a sé. Si produce insomma qualcosa di simile che a Leptis Magna (come epoca non ci corre molto), dove lo snodo che qui dà l’arco è offerto dalla piazza pentagonale, e l’ingresso al Foro e alla Basilica li mette solo in comunicazione, ma non in rapporto spaziale con la via porticata. A Palmira è tipico, ad esempio, il raccordo con il Teatro che ha la scena di tergo alla via, ma a cui dalla via si giunge per un arcata di qua e una di là che immettono in un portico torno torno alla cavea. Questo Teatro, su cui il Rostovtzeff ha dei dubbi che fosse un teatro è proprio un teatro, e la scena, ridotta ora a un sol piano, ricorda, con l’esedra circolare in mezzo, quelle di Leptis e di Sabratha. Poi il Senato e l’Agorá costituiscono altri nuclei a sé, a cui si arriva dalla Via porticata, ma che non compongono con questa. Di nuovo la via s’interrompe a un certo punto sul cosiddetto Tetrapilo, che è una specie dell’Arco di Giano a Roma, ma con i soli piloni senza gli archi: e recava, fra le altre statue, quelle, naturalmente distrutte, della famosa Zenobia e del consorte. Oltre il Tetrapilo la strada continua fino a una specie di tempio, che in parte ha ancora il frontone e invece è una Tomba grandiosa. Ci si può figurare che questo itinerario, orgoglio della città, meraviglia delle carovane, si possa ora percorrere facilmente: invece, dato l’indescrivibile abbandono in cui sono le rovine di Palmira, è tutto ingombro di colonne cadute, di pietre. Insomma, questa che è la più bella via e la più lunga che ci abbia lasciato l’antichità romana, va fatta sempre con gli occhi a terra e scavalcando ostacoli: per vederla bisogna fermarsi. Ciò che finisce per neutralizzare l’effetto anche della stupenda teoria di colonne. Però ci si convince a poco a poco che non nel disporsi prospettico questa strada conclude il suo valore: è chiaro anzi che, se anche non componeva con gli altri complessi, tuttavia si articola in quegli ingressi, si succede gradualmente, e pertanto non basta affacciarsi all’inizio, come sulla soglia di una prospettiva teatrale. Se la facciata dell’Arco trionfale ruota su un lato per presentarsi di prospetto, si deve intendere piuttosto come un espediente per restituire al tronco della strada, con un fondale in asse, il senso di spazio chiuso, come a un’Agorá stretta e lunga piuttosto che quale una clausola prospettica. Insomma non bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che per forza la strada porticata istituisce una prospettiva in profondità: non è nel rapporto al punto di fuga all’orizzonte che è intesa, ma proprio nella suddivisione in tronchi che concludono ognuno separatamente, anche se la strada continua. Questo è il senso dei “nobili interrompimenti” sia l’Arco di trionfo o il Tetrapilo, e sia infine la chiusura del frontone della Tomba a tempio. Del resto tutto ciò quadra con quel che già si conosce della urbanistica antica, tanto greca che romana: è solo che qui, come a Leptis Magna, è dato cogliere il momento in cui il tema spaziale predominante nell’epoca più propriamente classica, da essere la spazialità esterna, comincia a trasferirsi al tema dell’interno, ossia all’esterno che si viene a pensare come interno.

Chiudendo l’Agorá entro mura porticate, a cui si accede da porte come a una basilica, già si tende ad assimilare uno spazio esterno a un interno: per questo anche le varie sezioni della Via porticata concludono ognuna separatamente, a Palmira. E certo questo fatto non si è prodotto solo a Palmira e a Leptis Magna, ma in questi luoghi, sia per la maggiore conservazione dei monumenti, sia per la maggiore libertà con cui gli architetti trattarono il tema, è più visibile. I grandi architetti bizantini sapranno trarne partito, così come faranno tesoro delle specifiche infrazioni alla sintassi architettonica classica. Le quali tuttavia, a Palmira, sono assai meno pronunziate che a Leptis. In questo c’è uno iato notevole fra sculture e architetture. Non c’è nulla, nell’architettura, che possa paragonarsi al sovvertimento plastico che rivela il trattamento delle pieghe della scultura palmirena. L’infrazione più grave è il fatto che le colonne, tutte indistintamente, portino una mensola al bel mezzo dell’entasis. E le mensole dovevano recare statue: di mercanti, di capocarovana soprattutto. Era una fiera delle vanità come neppure le nostre elezioni eguagliano. Il corpus delle iscrizioni palmirene ce ne dà esempi notevoli. E certo più ci si pensa alla vita di questa città-emporio, collocata in un deserto e tuttavia ricchissima, potentissima, non sembra vero, si direbbe una favola: ma è là, Palmira, con le sue rovine, ad attestare che fu vero. Queste colonne con la mensola sarebbero state impensabili per i greci, ma dovevano essere barbare anche per i romani: tuttavia, se il nesso plastico indubbiamente è vizioso, finiva però per accentuare il parallelismo del vano esterno col vano interno, in quanto che le sporgenze delle mensole e delle statue rappresentano un addentellato del vuoto libero della strada o del cortile alle strutture piene dell’architettura. È una specie, insomma, di felix culpa, se si riguarda sotto l’aspetto della progressiva presa di coscienza di dove la disgregazione della forma classica doveva finire per parare.

Così mi ero seduto all’ombra di una colonna, investito a tratti da una folata di sabbia e di vento, ma fresco, sotto il sole ardentissimo e ormai a picco. Di tanto in tanto passava un cammello con un beduino accovacciato sopra. Attraversava le rovine con quella indolenza pari alla grazia che ha il cammello quando cammina: bestia che non si sa mai di quante bestie sia fatta. E ha la testa da uccello, e il collo da serpente, e le gambe come di trampoliere: ma di brutto, solo i piedi, non già la gobba che è come un frammento di paesaggio trasferito sul dorso. I piedi invece sono grandi, patatosi come quelli di un vecchio cameriere, e la cura con cui li discendono sul suolo è proprio di chi si vorrebbe levare le scarpe e ristorarsi coi saltrati. Eppure io non capisco perché non li mettono anche in Italia. Non mangiano nulla, vivono veramente di niente. C’è tante isole e isolotti dove starebbero benissimo, sarebbero un’attrazione: e con quel che costa la lana di cammello, diverrebbero una fonte di ricchezza. Non esiste poi zona arida dell’Appennino dove non trovassero cento volte di più da pascolare che nel deserto: e sono bestie mansuete, e con quel sorriso di presa in giro che lì per lì sconcerta. Passò un branco di pecore con la testa nera, un asinello con un ragazzo che teneva stretto al petto il fratellino: era tutto il movimento di Palmira. Ormai dovevo muovermi, bisognava mangiare e pensare al ritorno. Mentre mi avvio all’albergo che è stato costruito ai margini della zona, quasi davanti al piccolo Tempio di Baal, vedo che sono stati fatti nuovi scavi: da una parte e dall’altra del tempio sono venuti alla luce due grandi cortili porticati, e stanno rimontando delle colonne così basse e tozze che sembrano sacchi di grano. Saranno forse giuste? Non era meglio cominciare a mettere un po’ d’ordine nella Via colonnata? Così pensavo, e alla fortuna – per Palmira – che sia abbastanza lontana per impedire che la Fiera di Damasco si trasferisca là per qualche musica di fortuna.

Una sola musica vorrei sentire io qua, sebbene non ci abbia nulla a che fare, visto che ha perso da tempo anche il titolo che giustifica il mio desiderio. Nel piccolo teatro vorrei sentire la sinfonia dell’Aureliano in Palmira, che è poi quella del Barbiere. Certo la musica di Rossini così scherzosa e liquida, perennemente fresca, qui in questo deserto rovente non troverebbe eco, la beverebbe tutta la sabbia, neanche un suono arriverebbe agli orecchi. Nulla di meno romano, di meno archeologico, di meno storicamente evocativo della tremenda punizione che Aureliano inflisse alla città, dopo che per la seconda volta Zenobia s’era rivoltata. Dunque è un desiderio insensato il mio e la Sinfonia del Barbiere è ormai quella del Barbiere e giustamente di Palmira se n’è cancellato anche il nome. Non importa. Quella sinfonia è l’ultimo appello poetico della distrutta Palmira: il resto è storia, archeologia, è sapere. La sinfonia non è sapere, e Palmira ci sta dentro allo stesso diritto che il Vesuvio nella Ginestra.

Il ritorno, cominciato nell’ora più torrida, popolò l’orizzonte di bellissimi miraggi. Continuamente si aprivano golfi e laghi, c’era acqua dappertutto. E quel che vuol dire l’insensibilità al paesaggio, la mancanza di un abito all’osservazione: risultò che il conducente non se n’era mai accorto. Quando di fronte al più spettacolare di questi miraggi io volli fermarmi un momento e guardare col binocolo, per quanto non capissi quello che diceva, una volta forzato a vedere anche lui, divenne tutto elettrizzato e parlava fitto fitto al bambino. Si vedeva uno di quei serbatoi dell’oleodotto che si rifletteva in pieno, e dato che era bianco e perciò più appariscente, l’illusione dell’acqua era assoluta anche a occhio nudo. Questi miraggi continuarono fino a una certa ora del pomeriggio, quando rinfrescò smisero. E invece i monti presero allora una tinta più accentuata di malva, con una nitidezza che hanno solo le cose a portata di mano.

Era buio ormai, quando si ritrovò la strada: il cielo tornava quello del mattino allorché si era partiti, e ritrovandolo non mi pareva vero che solo un giorno fosse passato, o quasi che il giorno l’avessi trovato forando un’unica notte, in fondo alla quale, come in fondo al tunnel della storia, stava sola, integra e distrutta, Palmira.

 

DA PALAZZO AZEM A BEIT ED DIN

Tutte le cose erano mescolate insieme.
Anassagora

L’ultimo giorno di Damasco mi portò a Palazzo Azem.È codesta la dimora d’un pascià del Settecento e, per quanto infestata da quella piaga che sono i musei del costume, offre ancora l’aspetto più gentile di come fosse il palazzo d’un ricco turco nel tempo che sta fra il Ratto al Serraglio e l’Italiana in Algeri. Perché l’impressione fosse anche più autentica e squisita, basterebbe che ci fossero tante cose di meno e quasi nessuna in più; fra le cose in meno anche la folla che, per quanto la visita del Palazzosia a pagamento, aveva invaso le stanze. È pur vero che via via si rarefaceva dopo la visione del bagno turco: là, dietro un vetro, si poteva ammirare un manichino nudo con i baffi e un altro che lo insaponava. Il fascino che quei miserabili fantocci esercitavano sul pubblico, e certo non solo su quello siriano ma su qualsiasi altro, dimostra una volta di più che questi musei del costume non servono alla cultura, ma di questa sono parassiti come Lascia o raddoppia. Le sinistre ricostruzioni d’ambiente, con le signore in visita e gli uomini che fumano il narghilè, toglievano ogni gusto perfino alle bellissime lacche dipinte e dorate che, con un miscuglio di Francia e di Estremo Oriente, rivestivano soffitti e pareti. Per lo più le lacche erano settecentesche e da sole costruivano l’ambiente come un unico e squisito mobile dipinto: ma con la cianfrusaglia che ingombrava le stanze, non si avvistava altro se non il tanfo dei disinfettanti e del pubblico.

Ormai tuttavia questi insopportabili musei del costume, sottoprodotto dell’arte come della cultura, riescono a prendere piede anche da noi, e appunto al modo col quale la gente va a vedere le spettrali cere del Museo Grévin o s’interessa futilmente agli ornitorinchi per via di Lascia o raddoppia. La demagogia s’è impadronita del costume e delle cosiddette arti popolari, come se invece di rappresentare dei documenti storici, addendi minori di una cultura maggiore, costituissero l’unica autentica e ingenua espressione della sovranità popolare, accanto all’oligarchia aristocratica della pittura e della scultura. Ci sia pure il salotto e il pollaio e si preferisca pure il pollaio al salotto, ma portare il pollaio nel salotto è quel che non va. Basta allora andare in un paese a sfondo comunista per trovare subito una sistematica prelazione del folclore sull’arte. Io non scorderò mai, nella visita in Jugoslavia, quanto dovetti impetrare per vedere la collezione di dipinti francesi che fu già del Principe Paul, chiusa anzi sbarrata al pubblico, mentre si ostentava di farmi visitare con una minuzia da numismatici le collezioni, modeste per giunta, di costumi e di tegami.

Ma purtroppo cotali raccolte, che naturalmente non possono esorbitare dai margini, verrebbe da dire “dai servizi”, della storia della civiltà, e che pertanto non c’è nessun bisogno di esporre con fasto, limitandosi a una scrupolosa conservazione, si gonfiano artificiosamente anche da noi come per il recente fastoso e miserabile Museo dell’Eur, con una concezione che oscilla fra il fumetto e il quadro vivente. E questo con la scusa che il pubblico si diverte di più che nei musei di pittura e di scultura. Come se ciò fosse vero e come se, qualora fosse vero, si dovesse indulgere alla pigrizia mentale e al desiderio del minimo sforzo, per cui, invece di servire a una elevazione culturale e a una presa di coscienza più autentica e formativa, il museo dovesse rivolgersi a dilettare, o a costituire una specie di dopolavoro, il sano diversivo dall’osteria o dal cinematografo. Il costume e le tradizioni popolari sono un oggetto serissimo di studio, e come tale riservato agli specialisti, agli storici accorti, ai critici che ricercano e studiano un’epoca anche nei riflessi collaterali: ma, come museo, rappresentano una degenerazione della funzione formativa che il museo deve avere, non meno delle commistioni sincretistiche all’americana, di museo e sala di concerti, che dimostrano una sola cosa, l’insofferenza alla forma, tipica della nostra disgraziata epoca. L’arte è insopportabile, i nostri stomachi non la digeriscono da sola: donde i succedanei delle arti popolari e gli effervescenti della musica.

A questo si aggiunge il dilettantismo agnostico e codificato nelle attuali assise internazionali della cultura, che, avendo dovuto rinunciare agli ambientamenti delle opere d’arte, care ai collezionisti dell’Ottocento, possono finalmente trovare le loro cure, appena degne di un hobby domenicale, nel museo-pilota, nella casa del pescatore, nell’interno di un mulino, nella cucina patriarcale fino a giungere, come in America, alla stabile mascherata del Villaggio dei pionieri. E qui, a scanso di manichini, persone in costume filano e fabbricano perennemente candele di cera verde. Il disgusto, la noia di questi rancidi luoghi è pari a quello dei film storici, mentre una collezione di oggetti senza tanti sortilegi, messi in fila come in un negozio, restituirebbe la giusta e anonima obbiettività agli oggetti stessi, nel tempo e nello spazio. Poiché gli oggetti, che sempre appartengono all’ambito della vita vissuta, da un impiego fittizio acquistano, invece di una utensilità in atto, un alcunché di falso e stentoreo come il ribobolo tolto dal linguaggio parlato, e che dovrebbe ravvivare, mentre la contrista, la prosa in cui s’inserisce. Un Museo del Costume non si può pensare altrimenti che come un vocabolario, a cui nessuno chiede che se ne possa leggere le parole come in un discorso filato, ma una per una, secondo che interessa.

Certo, dicevo fra me e me, doveva parere una cosa meravigliosa ai siriani e alle siriane, le quali ultime perfino alzavano il velo nero per vedere meglio: una cosa meravigliosa, quel museo. Ed era un bel dono che veniva dall’Occidente. Nessuno si sognava che, a poca distanza, esisteva un museo sul serio con ben altre cose che narghilè e mobili intarsiati, un bel museo deserto come si conviene, perché l’arte non sarà mai plebiscitaria. E pensare che Palazzo Azem, ridotto alle sue mura, affidato alle sue deliziose boiseries laccate, sarebbe stato uno dei luoghi più naturalmente evocativi, con quella specie di asindeto architettonico, per cui inconsciamente l’abitazione turca ritorna a comporsi come un accampamento di tende, e si esce e si rientra di continuo all’aperto, nel cortile. Qui è un cortile giardino, con le dolci acque fluenti senza canto, e costruzioni cubiche a balze bianche e nere come il Duomo di Siena, squadrate come dadi da gioco.

È uno stile stracco, ormai, è come un figlio di padre vecchio, figlio delicato, sottile, nervoso, ma possiede anche il fascino segreto di una fioritura sbagliata, di quegli alberi che mettono i fiori a novembre per un raggio di sole in più del solito. Un contatto più diretto con l’Occidente fa marcire codesta roba come talora l’improvviso contatto dell’aria. E lo si vedeva in quei tremendi salotti intarsiati d’avorio, con forme che per la strada perdevano il Secondo Impero per riagguantare, ma troppo tardi, quelle di un passato arabo quasi più senz’epoca e tuttavia vivente.

Stoffe, tappeti, mobili, tutto si decomponeva, divenendo goffo, provinciale, avariato: l’Ottocento islamico è quasi peggio del nostro, ancora più viziato. E io non trovavo sopportabili che quei mobili di madreperla, tutti di madreperla, che, sebbene con l’abbigliamento troppo sgargiante di chi sbaglia l’ora del vestito, raccontano ancora il delirio di fasto, di oro e di sete che prese gli arabi usciti dal deserto. Il cassettone di madreperla, che luccicherà di notte come sabbia sotto la luna.

Con tutte le cose che avrei dovuto imparare, sulla vita impenetrabile delle case arabe, dalle ricostruzioni di Palazzo Azem, rimasi con la curiosità di sapere che letti avessero. Ebbene, mi pento e mi dolgo della mia ignoranza: letti non ne avevano. Così a lungo durò lo spirito della tenda, le abitudini della tenda, per cui ci si toglie le scarpe, non già per rispetto ma per non insudiciare i tappeti entrando da fuori, e si dorme su un materasso steso a terra, su una stuoia, che poi si arrotola durante il giorno. Chi ve lo dicesse, abitanti di Procida, che quel modo di arrotolare i materassi sul letto durante il giorno è un uso saraceno, vi irriterebbe, isolani permalosi. Ma come le vostre donne avevano i calzoni e una grande splendida cappa turcomanna ricamata d’oro, così i materassi arrotolati ricordano i frequenti, non gradevoli contatti con gli infedeli.

Questa storia dei materassi arrotolati io allora dovevo saperla nel Libano, quando, qualche giorno dopo, il mio impagabile Emiro mi condusse a vedere la piccola Versailles del Libano, il grazioso palazzo di Beit ed Din, già reggia dell’Emiro Bescir II, illustre e sovrano antenato del medesimo Emiro. Codesto palazzo chiude in alto una stretta vallata che in fondo ha il mare, e la vallata è tutto un succedersi e scavalcarsi di terrazze coltivate soprattutto a meli, coltivate con cura e minuzia come a essere sulla riviera ligure. Il verde appannato dei meli svelti e raccolti come alberi da giardino, la terra minutamente zappata senz’erba, e questa luce d’Oriente che sale dal suolo, come al Settentrione la nebbia. Questo si vede dalla grande terrazza che il palazzo di Beit ed Din affaccia sulla valle. E il palazzo, per noi, assomiglia più a un convento che a un palazzo, con tutta la serie di corti e di cortili, e infine un giardino quasi pensile, come nei monasteri di clausura dove si vede senza essere visti. Nei cortili ci sono vasti iwan che si affacciano dalla parte dell’ombra, ossia delle profonde stanze a tre pareti, per l’estate: la mobilia vera è solo composta di divani bassi e duri lungo le pareti e, gli ornamenti, dalle sole e bellissime boiseries laccate, come quelle che avevo visto a Damasco e che anche qui provengono da Damasco, comprate a tempo dalle case demolite, e amaramente perdute dai siriani.

Ora in questo palazzo fa le sue estati il Presidente del Libano e quando, visitandolo nella parte settecentesca, mi fu mostrata quella che era stata la camera da letto di Bescir II, non vi vidi letto ma solo una specie di nicchia al muro, chiusa da una tenda, dietro cui si mettevano i materassi arrotolati. Ecco come costatai che fino all’Ottocento il letto era rimasto ignoto al mondo musulmano.

Accanto al palazzo, nelle antiche stalle, è stato organizzato un Museo del Costume in modo abbastanza discreto e istruttivo, con incisioni e ricordi storici, senza le pretese di Palazzo Azem. Ma prima si tornerà al Museo del Costume come a un’armeria, e meglio sarà.

 

BAALBEK

Drizza pur gli occhi a riguardar l’immenso.
Tasso, Gerusalemme, XVIII, 93

Baalbek me lo immaginavo su un monte e invece è in fondo alla Beqa, questo grande e fertile fossato che divide il Libano dall’Antilibano. Ma tanto l’uno che l’altro hanno la superficie arida, di quell’arancione che a volte diviene rosso come ci fossero dei pomodori stesi al sole. Queste montagne glabre sono quasi uno schermo; nell’aria secca, senza vapori, non si sa donde traggano quei fiati azzurri che, stendendosi a velo, fanno cangiare l’arancione in lilla, come una seta. Nella Beqa, dove, a distanze varie, nascono il Giordano e l’Oronte, si incontrano molti altri corsi d’acqua più piccoli ma assai redditizi. Alti pioppi e cipressi crescono allora, larghe distese di poponi e di cocomeri, e viti. Presso uno di questi ruscelli c’è una trattoria: dai tratagli del fogliame scuro traspariva il paonazzo dei monti, s’era in pianura ma s’era ancora in montagna. Due oche, tutte spennacchiate perché nella muta, fungevano da gatti domestici, venivano battendo il becco a chiedere dei frammenti di quel pane asiatico che sembra carta, ed è una specie, ma più rozzo, di quella che in Romagna si chiama piè o piadina o piada, solo che qui è cotta sul ferro invece che sul testo. È un po’ come quando da ragazzi si prendeva un ritaglio di pasta e si metteva sull’orlo del fornello: faceva quelle bolle, s’abbrustoliva un poco. Era buonissima a mangiarsi, così bruciacchiata. Questa sfoglia asiatica è però fredda e mencia, ripeto che sembra cartasuga grigia. Ma è quasi indispensabile per il genere di mangiare che si usa qua. Il quale mangiare è previsto senza cucchiai, forchette, coltelli, e col piatto in comune. La cosa non entusiasma un europeo, però è resa possibile senza esigere un rapporto diretto con le dita altrui, dal fatto di questo panesfoglia. Voi ne strappate un lembo, lo accartocciate appena e, nel piatto comune, ve ne servite come di una paletta: quel che tirate su lo mangiate insieme coll’utensile improvvisato. Se proprio non lo fate apposta, o per congenita inettitudine, non dovreste inzuppare anche il dito col vostro cannellino di sfoglia nella terrina in comune. Di queste terrine ve ne portano un visibilio, è il cosiddetto mezzé su cui bevete quella specie di forte anisetta annacquata che si chiami arak, come qui, o mastica o rakí è sempre alcool col gusto dell’anice e dunque può piacere o meno. Nelle terrine c’è di tutto, pasta di farina di ceci e ceci con l’olio, un miscuglio con olio di sesamo e melanzane spiaccicate, peperoncini che portano via la bocca, cetriolini, pomodori crudi, fagioli neri, melanzane farcite, piccoli dolmà e via dicendo; non sembra di mangiare, e poi a un tratto vi sentite la bocca come la bottega di un erborista, perché le erbe e i profumi inattesi che c’è, in combinazione di legumi così innocui e ben noti, non lo immaginate. Il minimo che vi possa capitare è la menta, a ciuffi come si trattasse di basilico o di prezzemolo: delle altre erbe o semi non imparerete mai il nome, e a farselo scrivere è lo stesso perché tanto quell’accozzo di lettere non vi restituisce la pianta, mentre il sapore resta: a volte resta tutto il giorno.

Dunque si mangiò con le oche domestiche e poi si riprese la via di Baalbek. Giusto, prima di arrivare la campagna è meno verde, e a un tratto si vede un fitto di alberi che è qualcosa di sonoro, come quando in orchestra entrano corni e tromboni a tiro. Al disopra le colonne del Tempio di Giove o di Bal, non dico alte e grosse come la Colonna Traiana, ma poco ci manca. È questo, del colossale, la prerogativa fragorosa di Baalbek: quello che fa dire con onesto orgoglio ai libanesi: “Anche a Roma, se si eccettua il Colosseo, non avete nulla da paragonare a questo”. Certamente è vero, ma come l’abito non fa il monaco, le proporzioni eccezionali non fanno di per sé architettura. Che ci fosse una specie di volontà faraonica, un’impuntatura del mastodontico sembra innegabile. L’ingresso, con quei Propilei divaricati e quell’enorme scalinata in mezzo (ora è distrutta), è un ingresso che forza la mano, che vuole far vacillare il visitatore sui gradini in cerca di appoggio. Poi si entra nel cortile esagonale, e di questo è rimasto poco. L’idea del cortile antistante al sagrato del tempio è un’idea semita, c’era nel tempio di Salomone, e i “gentili” non potevano procedere oltre. A me tornava in mente il cortile pentagonale del Vignola a Caprarola, che pure non sapeva di Baalbek. È destino che gli architetti italiani divinassero le possibilità insite nell’architettura classica, ma quel che è più straordinario, divinassero non solo le applicazioni previste da un canonico impiego delle membrature architettoniche, sebbene le forme eccezionali, le flessioni irregolari, gli anacoluti sintattici. Sta di fatto che il Borromini, senza conoscere Petra né Baalbek, si direbbe ci fosse stato in sogno o portato da un tappeto volante. E del resto il Brunelleschi e l’Alberti è ancora dubbio di dove si cavassero quell’arco che si vede nella Cappella dei Pazzi e nel San Sebastiano di Mantova. Orange, Civita Castellana, Spalato? Basta, è un gioco senza sfondo. E tanto vale, invece, ricorrere alla prodigiosa visione del genio che prevede la possibilità di certi sviluppi formati da una comune base di partenza.

Per tornare a Baalbek, dal cortile esagonale si passa al peribolo del Tempio, e questo è d’una grandiosità che dovette essere quella delle Terme di Diocleziano. Era tutto un susseguirsi alterno di esedre ad abside e di esedre rettangolari, davanti con alte colonne e all’interno con nicchie che avrebbero dovuto contenere delle statue, o forse non le ebbero mai, perché in parte le nicchie stesse non sono finite. Queste nicchie, sul tipo di finestre più che di nicchie, hanno un’incorniciatura che, al solito, fa pensare al Borromini. Una delle esedre è stata restaurata con molta prudenza e probità: le pietre rimesse sono siglate. L’E-miro Chehab è molto da lodarsi per tutto questo. Il centro del peribolo ora non corrisponde più ai plastici che ne dettero i primi scavatori tedeschi: niente meno c’era in mezzo, proprio davanti alla scalinata del Tempio, una torre a cinque piani: e che fossero cinque è indubbio perché risulta dai frammenti dei soffitti che erano fatti di larghissime lastre di pietra. Questa torre nel bel mezzo di quella simmetria perimetrale, questa torre che dopo la preparazione solenne, quasi strepitosa, che ti avvia alla scalea del Tempio, tutta a un tratto si pianta nel mezzo e sacrifica la visuale, è qualcosa che per noi, che abbiamo tutta una consuetudine rinascimentale, riesce incomprensibile. Un obelisco, un monumento, una colonna, si capirebbe: ma una torre… Invece è così ed è inutile scervellarcisi.

La scalinata del Tempio, a diversi ripiani, non so come fare per suscitarne la grandezza; se non fosse così revulsiva dovrei riferirmi a quella del Monumento a Vittorio Emanuele a Roma. Naturalmente questa scala ha eccitato le fantasie dei registi, e da due anni si celebra a Baalbek un Festival; si dice che l’acustica sia buona, ma io sono stato felicissimo che fosse bell’e finito. Trovo che l’ambiente non si presta affatto, che la sua bellezza è data dalla solitudine in cui i resti colossali hanno come la pena segreta di essere troppo grandi, e l’uomo erra fra quei blocchi come in una foresta equatoriale mezza abbattuta e mezza secca. Metteteci una platea di persone e avrete l’impressione del formicaio, poiché la proporzione intrinseca di questa architettura esige il rapporto solo con se stessa. Sei sono le colonne del Tempio, ed erano ancor nove nel Settecento; non si capisce davvero che razza di terremoti siano venuti in passato per scardinare colonne simili a quelle, anche più grandi, di Selinunte. Dalla platea del Tempio c’è un salto che è quasi un abisso, giù verso la meravigliosa verzura che attornia l’acropoli. “Vorrebbero che io scavassi intorno, che togliessi il verde” dice l’Emiro. Lodo questa prudenza che rifiuta nuove ossa archeologiche, comunque insignificanti di fronte a queste ancora in piedi.

Dal Tempio si passa a una specie di piazzetta fra l’enorme costruzione del Tempio e quella del Tempio di Bacco, conservatissimo anche nell’interno. Questo intervallo che non è piazza, che non è cortile, che non è nulla se non un intervallo fra i templi, è un altro esempio della persistenza con cui si seguitava, ancora fra il II e il III secolo, a pensare pur dei colossi come quei due Templi, senza nesso reciproco, senza alcuna pianificazione urbanistica. Talché, questo intervallo, è quasi un crepaccio architettonico aperto fra due templi che si ignorano, come ciascuno su una frontiera diversa, come se veramente il fossato che determinano fosse un fossato naturale che non era dato riempire. Gli arabi che costruirono una moschea o un madresseh, già in tempo omayade, hanno ricollegato, senza volerlo, questo spazio-tampone, sicché togliere, come vorrebbero i soliti insopportabili integralisti, queste costruzioni per il fatto che non sono “in stile e in epoca” coi templi, sarebbe doppiamente una castroneria. Per fortuna l’Emiro la pensa come me.

Anche il Tempio di Bacco si erge su una scalinata imponente e ha l’interno della cella conservatissimo: qui pure pensieri preborrominiani fanno capolino. Ma la cosa che mi colpisce di più il soffitto del colonnato periptero che è a lacunari di triangoli incrociati sul tipo che diverrà arabo, e poi uno dei fregi della enorme porta d’ingresso, che è a rilievo traforato come a Leptis Magna. Almeno tre maestranze di decoratori lavorarono qui, una più ellenizzante una più romanizzante, e infine questa che dovette essere della stessa supposta provenienza da Afrodisia come quella di Leptis. Del resto al Museo di Beirut c’è un rilievo tutto traforato che a portarlo a Leptis sembrerebbe venuto dalla Basilica Severiana. Come tempo, ci siamo, e nessuno pensa che gli scultori di Leptis fossero africani.

Si esce da un criptoportico che sembra una galleria ferroviaria, tanto è lungo. Ma prima, siamo nel tramonto, non è possibile evitare la nota di colore. I monti glabri che sorgono dietro le mura, le pietre delle mura, il verde dei noci. Vedete i monti divenuti ora come rivestiti di ciclamini, e le pietre del peribolo di scorza d’arancio, e il cielo prendere lo sguardo stupefatto e lontano di una bella ragazza inglese. C’era da perderci la testa: ma io dovevo ancora vedere il Tempio cosiddetto di Venere, quella specie di straordinaria edicola con le esedre rotanti intorno a una tolos centrale: pensate un po’, quasi il campanile di Sant’Andrea delle Fratte del Borromini. Ma invece mi sono convinto che, se si arriverà a vederlo dal suo punto di vista ossia dal basso, l’affinità pre-barocca diminuirà molto, e per questo. Vedendolo dal basso, le esedre rappresentano delle nicchie alle quali manca la calotta, la loro successione ricostruisce il colonnato anulare come nel Tempio di Vesta: il significato formale che assumono non è dunque di trascinare la struttura in un movimento plastico, quanto di dilatare la circonferenza della cella, avanzandola sui rispettivi raggi che escono dal centro come i raggi dal mozzo della ruota. Dal basso l’opposizione fra concavo e convesso, che è quella che fa gridare al barocco, non si percepisce anche se strutturalmente rimane.

Ma ormai la luce senza crepuscolo è tutta dietro i monti del Libano che perdono le gobbe, s’alzano in punta di piedi, ripidi, laminati, con quel profilo che sembra intaccare il cielo. E l’ombra sale da dentro la valle come se si riempisse di liquido denso, il sangue azzurro della notte.

 

I CEDRI

Ciò che era fu sempre e sempre sarà.
Melisso

Sono i Cedri, per il Libano, come lo stemma vivente, oltre che sulla bandiera, di un passato più che di una storia: di un passato quattro volte millenario che a quei favolosi alberi rimanda, dalle tavolette sumeriane alla Bibbia. A trovarli, a ricordarli così vegeti e attempati nei nostri giardini, non sembra che possano essere gli stessi, e che una degradazione impercettibile ma sostanziale debba essersi prodotta, scendendo le alture che l’inverno, anche nel Libano, copre di una neve settentrionale, fresca, soffice, adatta agli sci, come in qualunque profana stazione delle Alpi o dell’Appennino.

Così io avevo, per questi pochi alberi superstiti, se non la stessa venerazione dei libanesi, per lo meno una curiosità che direi simmetrica, e l’attesa di quello che fa l’incontro inevitabile, senza cui, anche ad aver visto tutto, non sembra d’essere stati in un paese.

La strada per arrivarci prepara invece che con l’ascesi, con le gioie del mondo: è turgida, profusa, la striscia costiera verso Tripoli: i bananeti bassi come se fossero in vaso, gli agrumeti fitti e il mare che frastaglia le rocce. Poi vengono le saline che, con le piccole pompe a vento, sembrano aver dato la nascita a una nuova specie di gigli marini, aperti a girasole e senza foglie, come quelli che si vedono nascere sulla spiaggia, e pare che ci siano stati infilati, col gambo nudo, come negli improvvisati giardini dei ragazzi. Le saline, scavate nella roccia, come quelle romane, sono simili ai cassettoni dove i contadini seminano per tempo pomodori e basilico, e che un coperchio a vetri richiude. Qui, invece di vetri, c’erano le scaglie bianche del sale, e quell’acqua azzurrognola, come in gestazione.

La prima fermata fu nei pressi, per vedere dei resti di affreschi di una grotta squarciata, in alto. Fu una ascesa bella, prima fra gli ulivi e le viti – e tutto era così ben tenuto, come in Toscana – e poi su su per il greppo sassoso, finché la salita s’impennò, e bisogno arrampicarsi con le mani e coi piedi. Il sole sembrava che si divertisse a scaldarci le spalle come se avesse a seccare l’acqua delle saline.

Lassù, quasi in bilico sull’orlo della grotta, vedemmo gli affreschi medioevali, laceri, sfregiati accuratamente dagli arabi, sicché non c’era un solo occhio sano. Ma c’era ben poco anche del resto. Un po’ d’acqua gocciolava al piede della roccia, come quando si vede gemere le ultime goccie d’olio dal frantoio, sotto le macine.

La discesa si sarebbe potuta fare egregiamente e in un attimo su una tavola, come quando da ragazzi s’improvvisava quello spasso, e non ce n’era per me uno maggiore né, per la mia famiglia, uno più deprecato.

Poi fu la volta di una Cappella dove c’è ancora la tomba di un Crociato: e lì, in una cappelletta all’interno e in un’abside murata, rimangono forse i più conservati fra gli scarsi avanzi di pitture che nel Libano restino del periodo anteriore e contemporaneo delle Crociate.

C’è soprattutto una Dormitio Virginis dove, sebbene si tratti di una pittura rustica, compaiono certi prediletti tipi facciali che non possono ritenersi casuali, e che offrono un tenue filo per rintracciare la semenza della pittura in Siria fra l’XI e il XIII secolo. Ho scritto Siria e me ne pento, perché il Libano ci tiene moltissimo a differenziarsi dalla Siria: sarebbe, insomma, come chiamare terrone un milanese.

Con queste visite si era intanto fatto piuttosto tardi, ma si poté arrivare a Tripoli ancora in tempo per fare colazione sul mare. C’è, a Tripoli, una trattoria su palafitte, come a Palermo, al Romagnolo, e lì si poté assaggiare la specialità di un certo pollo, quasi alla diavola, ma tutto strofinato d’aglio. Come non bastasse, ti presentano una salsina d’aglio spiaccicato nell’olio che basterebbe a profumare un reggimento. Apprezzai tuttavia il pollo, e la serie, sempre con qualche sorpresa, del mezzé che precedé il pollo, con i ceci, le melanzane, i peperoni, e dei pesci arrostiti in modo egregio.

Il mare era così dolce e così flaccido che proprio distoglieva dai monti. Perché esistono i monti? Ci si chiedeva, sospirando di dover abbandonare un luogo tanto simile ai luoghi dove è sacro non fare niente, e fanno credere nella vacanza anche alla fine della vita. Ma come sempre si partì, e incamminandoci verso i monti si vide il prospetto di Tripoli, con le case a contatto di gomito, alcune vecchie, altre nuove, alcune bianche, alcune a colori: insomma stavano lì impalate a farsi guardare.

La città non è grande e presto si fu nella campagna che è una sterminata uliveta. Sopra agli ulivi stavano le groppe potenti del Libano: ma non sale a picco, rimbalza piuttosto di gobba in gobba e sembra piuttosto una montagna atterrata: una montagna distesa, quasi dormisse sulla terra. Ma, per quanto distesa, è sempre una montagna, come un uomo continua ad avere le gambe e le braccia, il torace anche se è steso nel letto. La montagna aveva dunque le membra di una montagna che, se si alzasse in piedi, sarebbe la più alta del mondo. Così com’è distesa, gli ulivi la risalgono come se ci camminassero sopra, e dove per gli ulivi comincia a essere troppo alto cipressi, viti, meli. Finché la testa è calva, rossa e calva.

Iniziò dunque la salita per i lunghi andirivieni della strada e la vista verso il mare diveniva sempre più augusta. Qui i ricordi di Rodi e di Creta, della nostra Maremma e della Puglia, curiosamente s’inframmettevano l’uno nell’altro: ma il resultato non era ibrido, era quella immensa uliveta stesa al sole, il tappeto soffice d’una natura antica, umana negli alberi e nelle culture, come è umana nel cane da caccia, nel gatto che fa le fusa in grembo. Anche qui avrei voluto fermarmi invece che salire dove il monte si pelava a poco a poco.

La strada seguitava ad avvitarsi su se stessa, poi a dipanarsi, poi a ricominciare i serpeggiamenti. Quello che prima pareva un burrone folto, ma come tanti altri, ora diventava sempre più alto, più folto nel fondo. Le pareti avevano i colori focati delle rocce dell’Amalfitano, quel grigio di piombo antico, e improvvise piaghe rosee, coi ciuffi di un verde cupo. Il sole già basso irrorava la parete di fronte come con una sistola di luce; sembrava ne gocciolasse, la roccia antica, e poi subito s’aggrumasse in rivoli densi. Ma sul precipitoso burrone, che andava via via restringendosi, troneggiava la gobba rossa del Makhmal, che è già montagna rossastra del deserto e al cui fondo, come un inguine scuro, c’è il triangolo nero dei Cedri.

Prima di arrivarci, dopo averli visti da lontano, a quasi duemila metri si hanno i soliti dispiaceri paesistici: oltre agli alberghi, non ci si trova forse tutta una fila di case che non si sa bene come definire? Non sono capanne perché di pietra, non sono case perché fanno accampamento, non sono neanche villini perché a un sol piano e tutte uguali. Sono il capolavoro di un pastore protestante benevolmente protetto dagli inglesi, e che davvero violano pedestremente un luogo alto e sereno.

I Cedri, un poco più in là del triste accampamento di pietra, sono, come ho detto, come in un inguine del monte. Nascono all’improvviso, senza alberelli. o arbusti che li precedano né li accompagnino. Nascono di pietra dalla pietra. Né mai ho visto alberi meno vegetali di codesti, più vicini alle forme per sempre identiche dei fossili e così ben conservati come questi.

I loro rami giustificano il nome di palchi, perché veramente sono come piani d’una casa senza pareti, piattaforme aeree, tagliate nel diaspro scuro. Questi alberi sono tristi, come fatti di un’ombra che non si dirada al sole, e a vederli, quando tornai a vederli, sotto la luna, nell’aria leggera e fredda come a mettere una guancia contro un vetro, parevano davvero dei giganti del regno vegetale incatenati al monte. Prendessero la via della valle, stendendo fra i rivoli dell’acqua le radici nodose e sentendo crescere dalla terra umida come una festa di erbe giovani, di arbusti teneri come bambini, coi primi frutti acerbi, bacche verdi come l’occhio dei gatti.

Allora gli uccelli, le lepri, le volpi circolerebbero sotto le grandi tettoie dei rami, e un murmure fatto di tanti fruscii diversi che non si confondono fra loro, direbbe qui l’uccello che vola, là il serpe che striscia, e il razzolare, il rodere. Alberi da paradiso terrestre, ora deserti come il paradiso terrestre, oggetto di culto e simbolo, ma alberi in remoto esilio, alberi senza vita, affondati con le radici nei secoli. Sono il passato di un tempo che non ha più presente, di un tempo che si è chiuso, e dopo n’è cominciato un altro. Dimenticati nell’inguine del monte, succhiano la pietra, lentamente si caricano di pietra, come d’alcool il sangue di un ubriaco: perderanno a poco a poco le gambe, il fusto, le braccia, risaliti dalla silice, come Socrate dalla cicuta: di pietra, abiteranno il nostro presente.

 

TENTAZIONE NELLA QADISCIA

Et duxit illum diabolus in montem excelsum.
Luca, VI, 5

Bello in sì bella vista anco è l’orrore.
Tasso, Gerusalemme, XX, 30

Di questa escursione nella Qadiscia l’immagine si è subito curiosamente mescolata, come una discesa speleologica, un tuffo subacqueo, uno strano sogno d’incubo in cui non si riesce mai di districarsi da una interminabile situazione. Si capiva che, per avere servito da rifugio ai cristiani premuti dai musulmani, doveva essere un luogo impervio sul serio, ma per visitarlo sul serio ci vuole, in realtà, dei rocciatori e formare una cordata. Tutto questo ebbe un suo composito fascino agreste, avventuroso, missionario, e di più l’avrebbe avuto se io non fossi stato colpito da due miserabili inconvenienti, che si riportano direttamente al nostro progressivo meccanizzato viver civile. Poiché non c’era discussione che tutto il percorso doveva venir fatto a piedi, bisognava essersi attrezzati per camminare: perciò occorreva saperlo prima e non arrivarci con le scarpe che servono per camminare in piano, non in salita e in discesa, se c’è roccia, e neppure con la camicia di nailon, che servirà in viaggio a presentarsi sempre con la camicia pulita, ma che diviene istantaneamente una camicia di forza se ci si deve camminare al sole.

S’intende che ci si era levati prestissimo, ma non avevo messo in conto il rito della colazione. Mi convinco che non ci siamo rimasti che noi italiani a non mangiare la mattina, ed è certo che la mia irritazione cominciò di lì, d’essermi dovuto alzare tanto presto per poi partire a un’ora che è già quella canonica dell’ufficio. Ora la notte montana s’era offerta così fresca e accogliente lassù ai Cedri, nel letto caldo e chiuso come un uovo: non meritava di essere tagliata per metà da una levataccia, e per assistere a una claudicante colazione altrui, in cui si constata quanto sia arcaica e invereconda la funzione del masticare lentamente, inghiottire, masticare ancora.

Per farla breve, quando si arrivò al villaggetto maronita di Hadcit, che è sempre a una bella altezza, a quasi millecinquecento metri, erano già le otto. Ci accompagnava il giovane guardiano dello chalet, in cui avevamo dormito, e un volontario ancora più giovane e vestito come per la domenica, calzato con certe scarpe gialle a buchi che dovevano essere tutto il suo orgoglio di giovanissimo bullo montano, ma che avevano l’inestimabile pregio, seppure lo facevano sembrare una papera, di non farlo scivolare sui sassi umidi, avendo un suolo rugoso di para.

Hadcit si trova sull’orlo del burrone che già avevo ammirato andando ai Cedri, e ci sta così affacciato come col filo a piombo; la discesa perciò comincia subito, su un viottolo che è scala e viottolo, e con tante giravolte che sembra di fare un balletto. Subito un verde leggero, umido e intenso sale dal fondo, e le foglie, quasi bollicine d’aria, sono piene di luce dorata come globi: il sole è in alto, e loro salgono per la verticale, salgono e i rami danno certe bracciate come nuotassero. In un momento siamo se non proprio in fondo, almeno a un primo ripiano: la parete rocciosa, a voltarsi in su, scende come una mannaia.

Intanto s’incontrano due bambini con una gerla di uva e un somaro: con padronanza più che con autorità i nostri due rustici viatori affondano la mano nell’uva. I bambini sorridendo incitano a prendere altra uva: si sono fermati, così curvi sotto la gerla, come quando giocano alla bella insalatina e aspettano che il compagno saltando li scavalchi. Mi chiedo se avrebbero fatto lo stesso qualora, invece di trovarci in compagnia di due paesani, fossimo stati soli: o i loro occhietti non avessero invece lanciato un piccolo sguardo diffidente e orizzontale, come un colpo di tagliacarte. Quante volte ho sentito su di me quello sguardo, e così imbarazzante.

Che siamo nel fondo, e ancora all’inizio del burrone, lo dimostra l’acqua che a un tratto sgorga da tutte le parti per riunirsi nel fosso che saltella come una capra: ormai il cielo non si vede più, ma solo queste foglie che tornano trasparenti di luce, e come sospese, quasi natanti nell’aria così squisitamente verdognola: fa fresco e fa caldo, fa umido e fa secco, come se niente fosse ancora mescolato, ingredienti in cospetto ma non in composizione. Così mi sento nell’aria e nell’acqua, nel sole e nell’ombra, in terra e nel mare. Certo, la sensazione più vicina è quella subacquea, e i movimenti, che le asperità del suolo fanno lenti, sembrano lenti a causa d’una resistenza intermedia, come d’un liquido trasparente – è l’ombra, il verde delle foglie, la luce che cala dall’alto? – che leghi senza impedire, ritardi senza ostacolare.

Infatti si vede una grotta in alto: è lì che bisogna recarsi. A me sembra d’esser calzato di pattini, come quando si comincia a sciare e i capricciosi legni ti portano dove vogliono, il più spesso per terra: qui non cado sui sassi limacciosi, ma il senso di non spianare mai il piede, di barcollare di continuo, è quanto di più sgradevole possa intervenire in una escursione. E poi non sempre anche l’arbusto regge, la terra è umida, l’erba viene dietro alla mano con una docilità irritante. Tuttavia si arriva a issarsi, attraverso passaggi stretti quasi a picco; ma allora la mano di ferro di uno degli angeli custodi sta ferma nell’aria come in certe antiche iconografie la mano, in alto, di Dio. Su quella mano l’aria si solidifica, la terra si consolida, la misericordia si manifesta; si crede nella solidarietà umana e nella pace universale.

Gli affreschi… ebbene c’è ancora qualcosa, entro la spelonca metà scavata, metà costruita di mattoni crudi e intonacati, metà in piedi metà diruta. Questi poveri santi con un gran mento tondo – i parenti però li ritrovano in Italia, da Roma a Lucca, fra il Mille e il Dugento – hanno le loro scritte in siriaco; e quante cose non dicono, da una fede tanto tenace da parere rabbiosa, alla costanza che ancora fa maronita, dunque cristiana, anzi cattolica, tutta la valle.

Basterà appena accennare che scendere dalla grotta fu più difficile che arrivarci, ma se ne uscì, e in ricompensa, come prima s’era incontrato i bambini con l’uva, ora fu un fico a offrire i suoi frutti piccoli e quasi notturni in quell’ombra, ma dolci come una caramella. Così, con la bocca teneramente impiastricciata di fichi e di uva, mentre i due angeli saltellavano come se neppure toccassero terra, si riprese il cammino ma questa volta decisamente dentro il ruscello. Ormai, sentivo, non ci saremmo più liberati di quel fastidio dell’acqua che sgorgava da tutte le parti, come se tutto il fondo del burrone non fosse che un immenso giardino rinselvatichito, dove i giochi di acqua s’erano guastati, le condutture rotte e da quelle ferite l’acqua senza sprizzi si versasse, silenziosamente allagasse. Ma, finché l’ombra ci ricopriva, anche quel calore da serra si sopportava facilmente: senonché il burrone si allargò, e l’ipotetico sentiero, fra magre culture, cominciò a svolgersi al sole, l’ombra degnò sfiorarci per brevi tratti, come un colpo d’aspersorio.

Per rialzare le sorti dell’escursione che, al dilatarsi dalla forra, aveva subito posto problemi di orientamento anche agli angeli itineranti, mi si cominciò molto a vantare la qualità delle pitture che avremmo trovato nel prossimo santuario, e io sperai fermamente fosse vero e attesi fermamente di vederle. Ma attesi molto. Non che l’itinerario non avesse il suo diletto agreste: ma intanto era finito quel senso di camminare in fondo al mare che, sia pure col fastidio dell’acqua che sgorgava dovunque, rendeva così dolcemente assurdo il nostro cammino. Mentre l’acqua sgorgava ora in modo anche più proditorio, stava acquattata sotto le foglie: e io c’entrai fino alla caviglia e di colpo i mocassini si dilatarono, sicché per il resto dell’impresa dovevo stare attento a non perderli.

Via via che il burrone si allargava, cominciava qualche manifestazione stanziale di vita: povere case ma case, di tanto in tanto, povere culture; i fianchi a picco del burrone rimanevano splendidi. Qui accadde allora che decisamente si sbagliò strada. I nostri angeli alpestri ci mandarono più in su del dovuto, molto più in su: a un certo punto uno sprone di roccia tagliò il passo e bisognò discendere per aggirarlo. Ma il terreno non aveva previsto che si dovesse scendere di lì: il terreno era stato sistemato con muri a secco che reggevano terrazze magrissime con viti stente e qualche ulivo. Queste terrazze non si potevano tuttavia considerare dei gradini perché all’incirca alte due metri, e quindi cominciò il gusto più di calarsi, che di scendere. Fu un ottimo esercizio che dispiacque di non poter fare con l’eleganza leggera, col volteggio leggiadro dei due angeli ora davvero cangiati in caprioli. Come Dio volle – proprio ci voleva l’invocazione – anche lo sprone fu aggirato, e si ritrovò un sentiero: parve una strada asfaltata. Di poter camminare senza avere fisso l’occhio sul piede, lo sguardo a picco sul piede come il filo di una marionetta, mi sentii come rigenerato, anche i mocassini pareva che, asciugandosi, si fossero ristretti e non volessero abbandonarmi a ogni passo. Questa volta fu solo questione di un’oretta.

Una chiesola costruita, delle case, e il roccione a picco, a perdita d’occhio.

Erano ormai quattro ore, era mezzogiorno deciso, e la stretta valle fra le rocce conteneva il sole come nel cavo di una mano. Occorreva la chiave per la chiesa e la portò un ragazzetto bruno, tosto: era il figlio del prete. Fa sempre un certo effetto di sentir dire esplicitamente che uno è figlio di un prete. Ma lì non c’è malizia, perché i preti maroniti, come i greci uniti, possono sposarsi. “Anzi” mi disse l’Emiro “nelle parrocchie di campagna non vogliono curati scapoli, perché se no vanno dietro alle donne.”

Saggezza antica dell’Oriente; l’osservazione mi colpì in quanto ovvia e cruda. Invece le pitture mi misero in furore. Per la storia, il piccolo santuario si chiama Deir Qannubin (ossia il cenobio) e ha delle pitture a olio, del genere abissino-carretto siciliano, che a farle proprio antiche rimontano al Settecento, né la foggia delle pianete e delle mitre lascia dubbio in proposito, “Tibi dabo…”. Per vedere quella “gloria illorum”, uno stitico documento etnografico, perché di pittura non c’è da parlare, si era fatta tanta strada: e ora ci toccava compiere il resto. Un’ascesa verticale di quasi ottocento metri, di tanto si scende, lungo il fianco assolato della roccia, e questo spasso fra il tocco e le due.

L’Ingegnere che era con noi aveva nel frattempo provveduto a ordinare una veloce colazione, più una merenda che una colazione: ma io non volevo, non volevo fermarmi. L’idea di fermarmi e di dover riprendere la strada con un sole ancora più meridiano non mi permetteva indugi: e in fondo ero io il solo a non aver mangiato, se togli quell’uva e quei fichi. Ma naturalmente occorse rassegnarsi. Ritornò il figlio del prete con un altro ragazzo, i cesti, e la brocca dell’acqua: c’erano pomodori grandissimi, pane e focaccia, uova sode e uva. Si sedé sotto un albero, si cominciò a masticare. L’acqua era fresca e pura: quel modo di bere a zampillo, quasi a garganella, irrora. Il figlio del prete sedeva composto: della sua nascita ecclesiastica non serbava che una piccolissima maggiore distinzione nel vestito. Per tutto il tempo io dibattei dentro di me la questione se è meglio o peggio che i preti si sposino: e costatavo ancora una volta quante convinzioni e reazioni si portano dentro di noi, che non sono nostre. L’avevo sentito allo stupore da cui ero stato colto a proposito delle popolazioni che preferiscono il parroco ammogliato: la mia reazione era quella, non mia, ma dell’ambiente dove ho vissuto, della campagna che conoscevo da piccolo, dove la maldicenza sulla serva del prete è stata sempre costante, appena arginata in famiglia dalla pietà delle zie, ma dovunque intensa fra i contadini e i villeggianti. Eppure se quei curati avessero sposato la serva, gettando la tonaca alle ortiche, tutti avrebbero gridato allo scandalo.

Lo spretato suona male, anche se è un uomo che si è accollato intera la responsabilità delle proprie azioni, invece che celarle sotto la tonaca. Con questo non dico di non conoscere dei religiosi che conducano una vita pura, ma anche tanti, troppi, di quell’altra specie. È dunque meglio il prete ammogliato. Ma non sapevo deciderlo. Sino a che punto reagivo alla maniera del clan, invece che alla maniera mia? Il figlio del prete era là, composto, per nulla segnato, né in bene né in male, da questa collusione del sacro e del profano. Ma è poi profana la generazione? Avevo toccato il punto: la sacralità della generazione appartiene a uno strato di civiltà che non è più il nostro, che non può tornare il nostro: come la prostituzione sacra. La ierogamia, nel diluvio con cui il cielo abbraccia e feconda la terra, impone una partecipazione all’essere della natura come manifestazione del divino, epifania in atto. Ma quando la ierogamia scende a fenomeno meteorologico, anche la generazione diviene un fatto naturale la cui misteriosa essenza non è più sacra, semmai metafisica. La sacralità, per salvarsi, come dimensione ineffabile della coscienza, non può regredire a stadi elementari, ma progredire verso forme più evolute. La sacralità del nostro vivere orrendamente profano non può recuperarsi che progredendo verso una coscienza, sempre più profonda, del nostro essere nel mondo. Non è solo coi preti che si otterrà questo: ma neppure coi preti sposati. Avevo deciso, e questa volta non mi lasciavo influenzare dall’antica parrocchia campagnola.

Così riprendemmo a salire: la camicia di forza divenne una lente, concentrava i raggi. Quando per ogni rampa ci si riposava un attimo, nel brevissimo ritaglio che offrivano le rocce alte come monoliti, che punteggiavano il cammino alpestre, in quella breve ombra la camicia s’incollava alla carne, appena al sole ritornava calda come un ferro da stiro. Io non potevo guardare in basso: vertiginosa, la parete di roccia. Era la tentazione sulla montagna.

 

MAOMETTANI E CRISTIANI

Come un uragano verrà dal Sud, cioè dal deserto, luogo spaventoso.

Sebeos, Vita di Eraclio

Di Beirut conserverò il ricordo, non la memoria. All’arrivo, per dato e fatto di una persona d’alta classe e d’alta cultura, avevo visto il Libano tutto e Beirut in ispecie, sotto un aspetto più ampio di quello che, in realtà, gli spetta. Dopo il primo arrivo, dopo il viaggio in Giordania e in Siria, l’impressione generosa e subitanea si è frantumata in un numero indeterminato di richiami, di riscontri, di passaggi obbligati. Anche il Libano, certo, è un paese arabo: fin dal principio, oltre che saperlo, l’avevo avvertito. Ma se si crede di fare questa scoperta ovvia al modo che si dice, “Gratta il russo e troverai il cosacco”, si sbaglia di grosso. La situazione di fatto è assai più sottile, e non ci si può riferire alla base araba del paese, come se si trattasse di ritrovarla sotto una vernice di civiltà occidentale.

Da principio mi era parso che le cose stessero così e ora mi accorgo di avere sbagliato. Quel che inganna o quel che riscatta, o inganna o riscatta, è la tradizione cristiana; e questa non si può raffigurare neppure come la trama intessuta su un ordito arabo, perché, dove è davvero efficiente, dà, senza celarla, una struttura nuova alla base araba, non la ricopre o la mimetizza. Alla tradizione cristiana di così vecchia data, anteriore alle Crociate, deve il Libano l’immediato aspetto di civiltà occidentale, fino alla persistenza di scritte nel nostro alfabeto, ancorché la lingua e la scritta sacra dei maroniti cattolici sia tuttora il siriaco.

Ma ove questa lunga tradizione cristiana si affievolisca o risulti di data più recente, sovrapposta e non assimilata, torna l’aspetto duro, scostante del paese arabo in cui la gente araba si tiene per mano, si tiene allacciata, si abbraccia, ma pone un fermo, un’insofferenza decisa perfino per rispondere a una domanda. Che questo dipenda dal sottofondo arabo e non dalla uniforme degradazione turca, lo dimostra il fatto che la Grecia, per secoli non meno turchizzata nel viver civile, non meno ridotta al livello minimo di sussistenza economica, sotto la Turchia, dei paesi arabi, conserva una civiltà prenatale e cioè un’apertura verso lo straniero, che nessuno dei paesi arabi, non dico si sogna, ma neppure concepirebbe.

Io dunque mi domandavo in che consiste e da che derivi questa faccia dura, questa porta chiusa con cui si mostrano gli arabi. Me lo domandavo mentre per la prima volta da solo passeggiavo per Beirut e, sul punto di lasciarla, stavo riassumendomela, non fosse che in questo fenomeno di ricco urbanesimo con cui si squaderna come un bucato al sole. Già una doccia fredda l’avevo ricevuta la mattina quando qualcuno mi aveva informato – e lo ignoravo – che nella Beqa e sui monti vi sono larghissime coltivazioni di hascisc… Io che ancora dolcemente cullato dalle immense ulivete, dai bananeti, dai meleti, vedevo il paese tutto in chiave deplorevolmente georgica, sono stato richiamato a una realtà ben diversa. Dal nulla non si fa nulla, e con un po’ di mele e di banane, con un po’ d’olio, acido per giunta, non si crea una città di alberghi con l’aria condizionata. Contrabbando, stupefacenti e poi rimesse di emigranti, questa la floridezza del Libano; il resto, si sa bene come va il resto, e quanto può rendere la terra. Il che non diminuisce di un ette che il Libano sia il più gradevole, il più aperto, il più ospitale dei paesi arabi. Ma arabo resta.

Ora io mi chiedevo, appunto perché sentissi questa qualifica di arabo, non dirò certo come una condanna, ma come un muro chiuso, come un limite quasi invalicabile. Forse che mi metterei a credere alle razze e a discriminare le persone secondo il colore della pelle? Ma porre questo interrogativo era altresì tendere a se stesso un ricatto: il ricatto per cui, partendo da una generica quanto doverosa dichiarazione di principi, si volesse poi far tabula rasa della storia. Nessuno è meno razzista di me, ma non per questo potrei negare la realtà storica di un mondo arabo in cui prende consistenza anche la razza araba, non come sangue o colore della pelle, ma come facies culturale e dunque storica. Quello che connette e cementa gli arabi è la storia, non il sangue e nemmeno il colore, se è vero che per lo più negli arabi confluiscono tante specie, non meno che nei popoli europei, tolti i beduini, forse, che appunto per questo si trovano ancora allo stadio più basso della civiltà, a quello iniziale del nomadismo. Ciò che conta è la vicenda storica, negli arabi particolarmente intessuta da una speciale confessione religiosa che dà uno status comune, più forte e sentito, forse, che in qualsiasi altra fede o religione. Quindi, più che sull’essere arabo, la domanda va portata sull’essere maomettano.

Maometto cominciò per dare una coscienza religiosa agli arabi e finì per dargliene una politica. La tragedia del mondo arabo è tutta qui. Perché tragedia è e rimane, in atto come nessun’altra. Quella dei negri d’Africa e d’America non esiste, appetto agli arabi.

Il trapasso da un acceso fanatismo religioso a una coscienza politica non avvenne cioè per lenta catarsi del sacro nel profano, per una progressiva presa di possesso dell’intelletto sul sentimento: semplicemente il trapasso non avvenne mai, perché sulla base del Corano lo Stato si pone di colpo come città di Dio. Ciò era molto più grave della riunione primitiva del potere civile e dell’autorità religiosa in una stessa persona, poiché stabiliva una continuità costante del cielo con la terra, e conferiva una colorazione religiosa a qualsiasi attività civile, così da dispensare l’Islam perfino da avere sacerdozio.

Il misero cammelliere che aveva migliorato la sua condizione sposando la matura vedova benestante, sortì senza dubbio natura di visionario e di poeta, nel senso che cadeva in quello che oggi si chiama stato teopatico, e tuttavia dové imparare ben presto, e senza dubbio nel periodo medinese, a dirigerlo nel senso voluto. La sua genialità fu quella dell’uomo in cui confluiscono e maturano i moti segreti e mescolati d’un popolo poverissimo e randagio. Vorrei dire che, a somiglianza di come nasce il pensiero greco in una visione indistinta e grandiosa dell’essere e del mondo, della mente e della natura, tutto parve potersi aggregare e sciogliere, in Maometto, nell’idea unica di un unico Iddio. A questo monoteismo assoluto vanno oggi gli ammirati riconoscimenti degli islamisti e degli storici della religione, che pare vogliano compensare l’Islam di secoli e secoli di confutazioni rivolte a quel che il Corano non conteneva. Ma il Dio di Maometto non nasceva da un’autonoma meditazione di Maometto, e tanto meno dalle sue cosiddette rivelazioni, per cui il Corano sarebbe opera di Dio e non di Maometto. Il Dio di Maometto nasce dallo Jahvè biblico e dal Padre Eterno cristiano, nella contaminazione che risulta dalla scarsa conoscenza dei testi e del pensiero connesso che Maometto poté averne.

Nel pensiero cristiano, attraverso l’elaborazione dei dogmi e il travaglio delle eresie, si coagulavano e si sublimavano tutti i tentativi di una religione della sacralità che si sono succeduti dall’origine della civiltà in poi. Religione della sacralità, di contro alla sacralità del profano, che individua certamente un punto di stazione proprio della mentalità primitiva, ma che via via e sempre più s’allontana dalla separazione della terra dalle acque, della luce dall’ombra, che l’intelletto, dunque la civiltà, non può fare a meno di operare in se stessa. Donde da Esiodo si passa a Omero, da Eschilo a Euripide, ma non può darsi il contrario. La rozza semplificazione di Maometto riportava tutta indietro di mille anni, riportava alla indistinzione di fato, potenza divina e volere umano, confondeva di nuovo la preghiera con le pratiche igieniche, la giustizia con la forza, la morale con il sesso, sicché si dice: non fornicare, ma si può avere quattro mogli e fare il proprio comodo con le schiave, purché si trattino dolcemente: e così si può uccidere. Che questa morale embrionale, questo diritto rude, questa acquiescenza totale al volere divino (è quanto significa la parola Islam) rappresentassero la sola istituzione possibile, la sola elevazione accettabile per un popolo barbaro come era l’arabo, si può concedere senza sforzo: che in ciò si possa vedere una sublimazione e un superamento della concezione cristiana, è assurdo.

Da questa retrocessione nel passato remoto della storia di quel che la storia offriva di più vivo e dibattuto, l’Islam formò a se stesso una facies indelebile, e che doveva sempre più pietrificarsi, via via che si chiudevano le cerniere di quella civiltà a cui primieramente aveva attinto. E cioè l’Islam non distrusse tutto in una volta, consunse. Come l’acqua di fusione del ghiaccio non è calda ma freddissima, così l’acqua di fusione delle civiltà manomesse dall’Islam si manifestò con una temperatura, che solo a poco a poco discese alla temperatura ambiente, e finì per risultare di poco superiore a quella araba pre-maomettana. Poterono fiorire allora anche le arti, continuando delle manifestazioni di civiltà, nell’architettura, nella musica, nella poesia, nelle scienze. Ma fu un’estate di San Martino. Perché l’Islam si ponga come civiltà deve rinunciare a se stesso come Islam, rinunciare all’indistinzione di sacro e di profano, di Stato e di religione: questo stadio aveva potuto favorire il terribile moto di espansione e di conquista, ma espansione e conquista era un modo di richiudersi non di aprirsi. Come l’essenziale dell’Islam non è di credere a un solo Dio ma a un solo Dio dell’Islam, così la massima apertura dell’Islam è la tolleranza, e la civiltà in quell’ambito non può rimanere che data una volta per sempre, per sempre identica a se stessa. Lo dice la riluttanza di quei fedeli che, alla morte di Maometto, non volevano che si scrivessero le “sure”, fino allora soltanto mandate a memoria, del Corano, e questo perché Maometto non aveva sentito la necessità di farle scrivere. Sembrava un modo di sostituirsi alla volontà divina che si era manifestata in Maometto. In un tal mondo sclerotico non esiste, allora, progressione ma neppure dimostrazione. L’Islam si risolve nella speculare contemplazione di se stesso. Per cui può assorbire tutto, dalla radio alla pipe-line, dall’elicottero alla bomba atomica, ma la distanza che separerà l’Islam dall’Occidente rimarrà infinitamente più grande di quanto divide l’America dalla Russia, il comunismo dal capitalismo; perché nulla può rimuovere e nulla può colmare il dislivello fra una concezione religiosa e una concezione economica della vita. Il dislivello è di secoli, perché l’Islam appartiene, come nella stratificazione della crosta terrestre, a uno strato fossile della civiltà, e come non è possibile far tornare mammuth un elefante, non è possibile far coincidere la volontà sommessa ad Allah con il libero arbitrio e con l’ordine sociale moderno, che sia espresso nelle democrazie parlamentari o nel comunismo integrale.

Certamente mi si può opporre che, se il male più grande del nostro tempo è d’avere ricacciato la sacralità nell’inconscio, invero questa sacralità, ancora indivisa nell’Islam, cerca di riaffiorare nel moto d’appropriazione che lo Stato, l’economia, la gerarchia sociale tenta di compiere ai danni della religione, donde l’unione del monarca col pontefice massimo ricompare nel Re d’Inghilterra non meno che nel Presidente degli Stati Uniti, in Stalin più che nel Papa. Ma proprio questa trasposizione dimostra quanto sia diverso il caso dell’Islam. Qui non è il politico che si arroga il sacro, come l’arredo sacro immesso nel vivere laico, né il sacro che si arroga il politico, come nel potere temporale dei Papi; ma la retrocessione del politico al sacro, che è l’abiura della civiltà, come storia stessa della libertà. Nasser scompare di fronte a Seud, perché l’Islam è Seud, e l’Egitto potrà diventare la Russia, ma, su questa strada, non diverrà mai l’Islam, né Nasser il suo vero campione.

Insomma l’Islam è una sopravvivenza arcaica, una presenza cieca e ostacolante, un processo di retrocessione in atto del mondo moderno a forme sacrali, mentali, sociali oltrepassate: sopravvivenza, presenza, retrocessione che è assurdo credere di poter sincronizzare col Sol dell’Avvenire, la dittatura del proletariato e, soprattutto, con la eliminazione della sacralità nel dovere quotidiano statalizzato, che è l’imperativo categorico del mondo moderno.

L’originaria democraticità del Corano, con il riconoscimento di eguaglianza fra i fedeli, non eliminava per altro la differenza e la varietà delle strutture classiste, né l’ineguaglianza fondamentale nella distribuzione della ricchezza; tanto meno eliminava la schiavitù, del resto ancora in auge nell’Arabia felice.

Certo, l’assorbimento della civiltà bizantina e sassanide, in chi non ne aveva nessuna, avvenne in un modo veloce e prodigioso: ma oggi come allora potrà esservi un Averroè che farà il gran commento, questa volta di Marx: sarà il commento di Marx, non il commento marxista del Corano. Certo, Alberto Magno insegnava a Parigi vestito da arabo, e San Tommaso fu suo allievo: la mediazione araba fu importantissima per l’istituzione della nostra civiltà, dalle macerie dei barbari, ma in quanto mediazione non in quanto linea di pensiero autonomo. Donde il pensiero di San Tommaso è passato per la trafila di Averroè, e il nostro dal suo; ma proprio in questa opera di mediazione si estingueva virtualmente il ruolo attivo della cultura araba rispetto alla civiltà moderna. L’Islam non può esistere nel nostro mondo se non assorbendolo o distruggendolo: nulla ha da sostituire, nulla da imprestare se non una forma arcaica della sacralità. Ed è significativo che, proprio quando l’inserzione della cultura araba fu determinante, e cioè nel Medio Evo, per la filosofia di San Tommaso fosse il concetto della visione beatifica, che gli autori arabi avevano elaborato dal Corano, a passare nella Summa donde si sublimò nella Divina Commedia.

Quanto di autonomo poteva dare l’Islam al pensiero occidentale era una testimonianza teopatica, visionaria, dove cioè il pensiero si porta al confine di se stesso giungendo alla mistica, non alla metafisica.

Se ci si volge all’arte, in quello che fu il momento cruciale dell’Islam rispetto all’Occidente, s’incappa nel corollario medesimo della mediazione e successiva stasi dell’Islam.

Proprio nell’arte si assiste, infatti, a questo moto combinatorio di civiltà figurative diverse, che si isterilisce via via in una ripetizione inerte. Se mai si giustificasse la concezione di uno stile come di una lingua, e codesto esterno alla creazione individuale, sarebbe lo stile islamico. Ciò che va inteso con prudenza, naturalmente, perché anche la sclerotica facies culturale araba doveva, ogni tanto, ammettere o subire delle iniezioni o contaminazioni. Chiuso, con l’ostracismo dato alla rappresentazione oggettiva, il campo delle arti più propriamente decorative, rimase in piedi l’architettura. Ora è bene ricordarsi sempre che gli arabi non inventarono nulla: bizantini al tempo degli omayadi, si iranizzano con gli abbassidi, e allora dai sassanidi tirano fuori tutto, dall’ogiva ai trafori di stucco. Ben poco, infatti, durò l’attitudine spartana di Omar che, entrato da trionfatore a Gerusalemme, ma coperto di stracci, non accettò dal patriarca Sofronio neppure una camicia e un vestito di ricambio, ma solo di indossarli finché quelli che aveva indosso fossero lavati. Divenuti ricchi e potenti, la civiltà li vinse. Senonché nell’Islam si ricominciava sempre da capo, e la serie delle invasioni a getto continuo riproponeva ogni volta un’acclimazione, un assorbimento, una progressiva risalita al livello di civiltà che i primitivi arabi avevano accettato dai bizantini, e cioè dalla civiltà del mondo classico. Così cristallizzava una civiltà senza sviluppi interiori, si trasferiva nel tempo come un fidecommesso.

La fusione, nell’Islam, dell’arte bizantina con quella sassanide finiva per rivelare il retroscena di un’osmosi che Bisanzio aveva subito, come lentamente mitridatizzandosi a quegli squisiti veleni.

I lieviti iranici dell’arte bizantina con la vulgata araba si trovano messi a nudo, posti in evidenza, come tolti dall’astuccio: e ciò poté avere conseguenze incalcolabili per il mondo europeo che, ormai, di quel retroterra mesopotamico, non aveva più cognizione diretta. In questo senso non si esagererà mai l’importanza enorme che, soprattutto nello sviluppo dell’architettura, poté avere l’architettura araba per il mondo europeo.

A San Pietro a Tuscania, già nel X secolo, come a Moissac, si trovano vestigia immediate e sincrone, ciò che fa più meditare, con l’architettura araba soprattutto dell’A-frica settentrionale.

Ma, appunto, le conseguenze furono immense nel mondo europeo: per gli arabi non si trattò che di ridurre a sistema, via via di svuotare nella ripetizione prammatica, le prime combinazioni nate dalla reazione diretta di due civiltà che, fino ad allora, avevano scambiato infiltrazioni guardinghe, quasi informazioni segrete. In seguito, raffreddatasi la prima grande colata di lava, solo di tanto in tanto si darà qualche spirito elevato, come Sinan che, di fronte alla grandezza superstite di alcuni monumenti bizantini, si caricherà di un nuovo magnetismo verso la forma: si darà poi la mescolanza, non la fusione, di rococò e stile islamico, di rococò e lacche cinesi, nel Settecento, in sé prodotto marginale, variante sul confine popolaresco, come ben dimostrano, accanto alle chinoiseries europee, i rivestimenti laccati di Damasco. Ma nel secolo XI ormai l’Islam artistico è stabilizzato, che è come dire mummificato, nel rictus delle stalattiti, nel puzzle degli entreclas, nel moto sterilmente combinatorio, aggregante e non collegante, di maioliche, vetri colorati, stucchi, dorature. L’iniziale assorbimento della spazialità del vuoto, dall’arte bizantina, si perde in enunciati generici, che non implicano il benché minimo sviluppo formale né in una direzione né in un’altra. È come un altro Corano.

E se si vuole, di questa tragica sorte dell’Islam, un po’ simile a quella di Mida, di fermare il flusso vitale delle cose che tocca, una dimostrazione per assurdo è anche Beirut, dove tutto, dalle automobili agli alberghi, dal genere di vita e dei divertimenti al cosmopolitismo, si esemplifica sull’Occidente, ma il cui disordine edilizio, l’aspetto ubiquitario da magazzino di cose bell’e fatte, non può non colpire come colpiva alla Fiera Internazionale di Damasco la sfarzosa parata occidentale al fumo degli arrostini di montone e al suono dei gargarismi della radio araba.

Può darsi che, se il Libano riuscirà a mantenere le proporzioni attuali fra cristiani e maomettani, si produca un ulteriore approfondimento dei suoi rapporti con l’Occidente e dell’integrazione alla civiltà moderna, rafforzando una testa di ponte essenziale verso il retroterra puramente islamico. Ma avrà la possibilità di sottrarsi agli appetiti e alle calamitazioni di una federazione araba tra Siria e Irak, e magari anche più vasta?

La mia impressione è che l’Islam non potrà mai dissolversi al contatto della civiltà cristiana che è civiltà dell’individuo, del libero arbitrio, della personalità. Dei due rami in cui questa si è scissa, potrà piuttosto soccombere alla pianificazione russa, che innalzarsi alla presa di coscienza individuale, contro cui la mette in guardia l’ancestrale censura dell’Islam, mentre nella pianificazione statale, in quanto lo Stato è di Dio, può rientrare anche la presunzione della volontà di Allah.

Ancora una volta l’arabo sarà allora passato da uno stadio all’altro di civiltà, senza transitare per quelle forme intermedie che nella storia si giustificano e alla storia danno la sua irreversibile struttura di realtà, ben altrimenti che con la repentina sostituzione della pianificazione al destino, dello Stato onnipotente a un Dio di carità e d’amore.