E anche la primavera tornò. Acida, con le nuvolaglie stracciate, come per far credere che non dipendeva da lei, tutto quel disastro. Ma l’orrenda coltre bianca, il velo nuziale avvelenato, era sceso con l’ingiustizia della folgore, che lì appena brucia un sopracciglio e accanto uccide un uomo. Da una parte e dall’altra della strada, si vedeva questa discriminazione assurda. A sinistra, le viti come rosticci, non avevano neanche qualche po’ di cernecchi redini: a destra, appena due pampani, per ogni germoglio, apparivano rattrappiti avvampati ai bordi, e più da una fiamma, che dal gelo. Le piccole zocche, gremite, e strette, come fatte di minuscole perline di vetro o d’ova d’aringhe, resistevano al patto, dicevano che, sì, erano vive, ancora vive: si drizzavano al sole, imbarazzato fra gli stracci di nuvole.
S’era sulla terra, oscura, perfida, carica di demoni, negletta e imperturbabile: si era su una terra con i sassi scheggiati come ossa rotte di esseri sovrumani e insensibili, frantumati, messi in polvere, ma una polvere che per noi, creati, cresciuti ad altro modesto formato, erano massi, ciottoli almeno. E questa terra che l’eterno sposo celeste aveva baciata col gelo, aveva fatto abortire crudelmente, stava lì ancora premuta di notturni inobliati piaceri, già immemore, e fioriva di margheritoni gialli e di astuti rosolacci. Sgrullavano le chiome grigie gli ulivi tiepidi, come a rassettarle, nel fiato leggero, sereno, acidulo di un vento che neppure c’era ma si intercettava fra foglia e foglia, entrava dagli occhielli della camicia e aderiva alla pelle, quest’altra sordida terra, pronta a raccapricciare, a rabbrividire, subito percorsa di protesi gaudi, repressi.
Ora il sole, fra quegli stracci di nuvole, infilava delle dita sottili come lingue di fuoco ma un fuoco giovane, inesperto, che faceva più solletico che calore. E tutto tornava in ordine, e le viti bruciate gemevano delle lacrimucce verdi qui e là dal fianco scuro, che non avrebbe, che non dovrebbe aver foglie: ma come foglie illegittime, e ora ammesse, emergevano quelle. Subito ardenti, virulente; aggressive come le unghie d’una donna gelosa. Io le sentivo su di me, prima prudenti, poi decise, come scorrevo con la mano cauta quei tronchi nerastri, carbonizzati e tuttavia viventi in un’indomabile ripresa d’amore.
Lontano, il mare di Taranto appena sfumava all’orizzonte, come l’alito dell’acqua che sta per bollire: e rimaneva il cielo, quasi una lavagna da cui si cancella appena il gesso co’ una manica sbadata. Così, in un colpo solo avrebbe dovuto scomparire l’orrenda brinata, l’atto di brigantaggio di una natura feroce. Ma straziavano quei campi di tizzoni spenti: che erano state viti.
Taranto è quella città accantonata, senza bellezza, che s’è detto, seppure bagnata da un mare di pervinche, tenero come un giulebbe. Sta lì, sembra morto, sembra un gatto che dorme. La gente passa, è scura di pelle, giovane, terribilmente mescolata di marinai, di biciclette primordiali, di ragazzine acerbe coi limoncini sbarrati dalle magliette come foruncoli dai cerotti. E un odore acre, buono e cattivo, di mare, salpa dalle rive. Il ponte girevole che non gira quasi mai, rifatto nuovo ma subito vecchio stravecchio, è, col binocolo rovesciato, l’ininterrotto ponte di Gàlata, dove il flusso non s’arresta, dove la gente è sempre come allo sfollarsi di uno stadio, per una partita persa in casa, senza festa e senza fretta.
Solo i carri carichi di insalate gigantesche, come cespugli, dall’alto delle ruote transitano sulle teste dei pedoni: è un fastoso ingresso di vittime verdi, seguite da cumuli di agli, da sacchi di piselli. Quei piselli, Dio li perdoni, che sono ceci, confetti di gesso, pallini da cinghiale, ma in quanto a piselli sarebbe meglio lasciarli nelle piante: che sono belle, così senza frasche qui nel Sud, e si sparpagliano per terra, coi fiori, coi rampini, i baccelli gonfi, come piccole donne grasse, in chimono, che si levano la fascetta, e respirano in libertà, neppure lascive, tanto stanno bene; e non chiedono altro.
Queste terre rosse e granulose, fatte apposta per essere aride, quando, per quindici giorni, si vestono così di verde, è una festa, è come si sposassero. E poi il velo si ripone, torna la vita aspra del solstizio accecante.
S’era ormai passato l’inevitabile risucchio della città, e la strada, liscia, senza traffico, arrivava sino in fondo. Mai si potranno vedere altrove strade come queste di Puglia, abbastanza poco frequentate da non subire l’onta degli affissi pubblicitari, diritte come in Olanda, fiancheggiate di cipressi come portassero a un parco, a una villa: e a raso del suolo. Senza zanelle, senza scarpate, né più basse, né più alte della terra colle sue erbe a mezza gamba e le viti a pergola – i tendoni – che l’uva si coglie con le labbra, senza mani. E allora ho sentito, a un tratto, perché amo tanto queste strade di Puglia, perché è come sentirsi in una barca leggera, a pelo dell’acqua, il mare sta di qua e di là, seduto come noi, come a tavola insieme. Senza entrare, senza aprire col petto il grano alto, si è, in codeste strade, in mezzo al campo, con le spighe che arrivano alla gola: prima ancora del vento, è la folata delle cime tenere e aguzze che si riversa, si frange, ci oltrepassa.
Come un liquido tiepido, l’odore malato della camomilla si offre: e i mandorli, fra gli ulivi ancora stillanti di ombra notturna, presentano un verde nuovo, come verniciato (fra pochi giorni quel verde si sarà già attutito, e tenderà a prendere il grigio distinto degli ulivi: ma questi allora saranno coperti di trama, di fiori, come piccolissimo polline, e dal suolo si alzeranno vortici d’un calore denso, gremito come uno sciame).
Massafra, s’era arrivati a Massafra.
Perché poi andassi a Massafra, era per le cripte bizantine. Uno scopo ci vuole, per muoversi, e questo delle cripte è stato inesauribile. Subito acquistava una vicenda, abbozzava una commedia dell’arte. Il primo personaggio era la guardia civica. Il secondo, un ferocissimo cane da pastori. Il terzo ero io: con una lampadina e un libro, dove si leggevano tante cose e non se ne ritrovava mai neppure la metà.
Ma, a Massafra, c’era più del doppio. No certo di pitture, ridotte anzi agli estremi, coi gomiti di fuori, i calcagni corrosi, senz’occhi, quasi sempre, senza bocca, senza testa: più del doppio c’era nel paesaggio, nella postura inaudita.
Quelle gravine sono letti di fiume abbandonati, tombe violate d’un’acqua scomparsa; geologiche e preistoriche, da non riuscire mai a combaciare col nostro usuale calendario. E quando i viadotti le scavalcano, è per fuggirle e non pensarci più.
Ma sono luoghi divinamente spolpati, e quel che vi è ricresciuto, siano erbe o alberi, è muffa, è violazione di domicilio. Dove anche la pietra è consunta, e sente la fatica d’essere ancora pietra, costì si legge nel passato come fosse il presente, si ascolta, s’interroga: in un silenzio di vetro.
Riposiamoci nello scheletro stesso della terra. Fossile, come un animale fossile, è questa pietra bucherellata, ma così parsimoniosamente, che, per salire alle cripte, a Massafra, come a Matera, non ci saranno scalini ma pedate nella pietra, pedate esatte e ansimanti, che permettono di tenersi sulla verticale, assai più dei gradini. Tanto sono naturali, che si possono salire senza accorgersene: si alza il piede e quello c’entra da sé, come in una ciabatta.
La cosa più strana a credersi è che i Bizantini non fossero dei Bizantini. Nel senso che è irrefrenabile pensarli o come Etruschi, o Assiri o Egiziani: ma non come persone che erano gli stessi Greci, erano gli stessi Romani, e divennero Bizantini. Essere Bizantini non può essere un modo di essere, ma di nascere. Non ci si può credere che non fosse così. Si resta in sospetto. Vivere in quelle caverne, e farci quelle pitture: ma come può venire in mente, quando non si era fra un’epoca glaciale e un’altra, e le case, ormai, le avevano inventate da un pezzo. Ma loro sapevano anche appollaiarsi su una colonna, e nessuno si sbracciava per farli scendere giù. Non c’era la folla in ansia, e il questurino che si raccomandava, e il telone dei pompieri: quella tredicesima ora, non era la tredicesima ora: ma un’ora eterna, illimitata, immobile, come un arco a una luce sola, dalla nascita alla morte. Non si può essere più Bizantini di così. E forse lo stilita è il primo stemma, e l’ultima impresa, per una civiltà che nasceva e per quella che ne usciva distrutta.
Così, dall’Aspromonte a Santa Maria di Leuca, fu tutta una Tebaide. Piangeva San Fantino, lacrimava e piangeva, il Santo Igumeno Fantino in visita pastorale, da Laura a Laura, da Cenobio a Cenobio, vedendo il santo fervore, le sante biblioteche, il santo splendore in penitenza e il santo rifulgere dell’immaginazione celeste. Piangeva il Santo e prevedeva giusto: stalle, cantine, stalle e cantine, sarebbero tornate quelle anticamere celesti, eremitiche grotte. Stalle e fienili, e anche peggio, sono tornate, San Fantino mio. Se mai c’è stato un profeta, fosti tu, col tuo bordone girovago fra queste impervie gravine, e, con tutta la tua santità, riconoscendo l’assurdo, il divino assurdo di questa vita. Altrimenti non avresti visto capre e asinelli al posto di quei barbuti anacoreti: né pregustato questo tremendo tanfo, al posto di quell’odore di santità…
Così io mi rimemoravo, stando bene attento a dove mettevo i piedi. E mi tornavano alla mente anche i santi trastulli, di codesti anacoreti: perché anacoreti erano, ma prima di tutto, Bizantini. E che valeva essere Bizantini se non avessero fatto questioni inutili, cerimonie inutili, e inutili interminabili galatei religiosi? Non è un caso, se proprio, fra quel poco che era avanzato dalla Tebaide calabro-pugliese, compariva, nel Tipicon del Monastero di Casole d’Otranto, una minutissima prescrizione dei cibi ammessi o non ammessi. Si è o non si è Bizantini: e, allora, o si descrivano le Cerimonie in otto libri, come Costantino Porfirogenito, o si compili la lista nera delle vigilie, come il monaco Nicola, fra l’imperatore e il monaco la differenza, per noi, nella gamma dell’inutile, non è neppure apprezzabile. Se invece non divenisse simbolico il fuoco della Biblioteca di Torino, che proprio anche quel manoscritto andò a danneggiare, e irreparabilmente. Le lacrime del Santo Igumeno avevano visto giusto.
Ma qui dovetti stropicciarmi gli occhi perché, quel che mi si parava davanti, davvero non era atteso. Infatti, arrivare a Massafra e pretendere di trovare subito le cripte, è come giungere a Barcellona e cercare il mare: tutto si trova, a Barcellona, carabinieri sempre, e fiori, e anche belle ragazze, e palme e tante altre cose, ma non il mare. Così a Massafra, con quelle case a un solo piano e a una sola stanza, e quelle strade a sterro. Si arrivò allora, con una presunta guida che c’eravamo portati dietro, a Santa Maria della Scala; e fu qui che mi sorpresi. Perché esistono scale e scalee, un po’ dappertutto, e per me che, oltre a venire da Roma, ho potuto vedere a Caltagirone quella scala di Giacobbe, che veramente porta più su che alla Presidenza del Consiglio, per chi c’è nato, o a Modica la stupenda scala di San Giorgio a tanti ripiani quanti gironi ha il Purgatorio dantesco, meravigliarmi di una scala, non parrebbe il caso. Eppure mi dovetti meravigliare, perché, con tutto quel gioco di confluenze delle varie rampe, di ripiani, di convogliamenti in un unico scalone e di nuove separazioni, era una scala da vedere solo dall’alto e che scompariva quando dal basso si guardava in alto. Né meno strano risultò che questo si capisse subito, e anche meglio, dal primo affaccio, senza attendere di essere scesi laggiù, nel fondo della gravina. Mi direte che a Villa d’Este, a Tivoli, è un po’ così: ma fino a un certo punto. E del resto non l’avevo mai avvertito a quel modo. Mi pare, a Villa d’Este, che la prospettiva all’ingiù sia subito rettificata, agevolata a risalire, per chi la guardi dall’alto, per dato e fatto del viale che prosegue in piano la spina dorsale che risolve in architettura il dislivello, cosicché non ci si avvede che introduce come una dimensione nuova al nostro spazio, la dimensione del baratro, eppure così ingentilita e manovrata da non fare avvertire il brivido. Ma lì, a Massafra, baratro è e rimane, con un suggerimento di corse pazze, d’inseguimenti scoppiettati, di feroci incubi, finché, arrivati al fondo, si stramazza, in un lago di sangue…
Alta si leva, convenientemente traforata di sante caverne, la parete di fronte alla scalea. Fichi d’India e fichi selvatici e arbusti magrolini e devoti ornano quelle rocce d’un grigio composto come un mezzo-lutto, ma per nulla funereo. Anzi, col sole fresco e guizzante della prima mattina, l’andirivieni della scala, le grotte fra la verzura, sembrava la scena per una caccia al tesoro, per uno svago quasi puerile.
Ma tutto sommato, cripte per me non ce n’erano, o appena una, accanto alla chiesa, con mediocri affreschi trecenteschi: e io invece cercavo quelli, in genere assai più brutti, più rozzi, più elementari, ma bizantini.
Così risalimmo e andammo in cerca di quell’altro burrone, o gravina, o baratro a ripiani, su cui, da un lato, si affaccia il paese, senza entusiasmo però, e fidandosi poco di quel dirupo. È la gravina di San Marco, e qui se ne trovano almeno due, di cripte da vedere: ce n’era anche una terza, ma risultò irreperibile. In quanto alla prima, non fu difficile: a un certo punto bastò farsi guidare da un tale fetore irresistibile, che, pur con la preoccupazione di scivolare su quelle feci, incitava a volare per la scaletta sbrecciata. Arrivati in fondo, le condizioni della cripta, vero recesso di comodo, non erano migliori: e gli affreschi – si trattava della cripta di San Marco – indomiti stracci crivellati di buchi, ne’ quali, il pietoso visitatore massafrino aveva avuta la gentilezza di infilare dei fioretti di campo… se mai può immaginarsi un intrigo più oscuro di rispetto e di licenza.
In quanto all’altra cripta, o della Candelora, qui cominciò il bello. E per una ragione inattesa, che si capì in seguito. Il nostro autista era una guardia comunale in divisa. Bastava si presentasse (e in genere preferivo si presentasse lui, dato che mi illudevo che parlasse in dialetto), perché nessuno sapesse più nulla. Ora, la guardia, non solo non parlava il dialetto, perché, secondo lui – s’offese anzi – a Lecce si parla senza accento (come a Parigi…), ma istantaneamente, nella disusata richiesta, di vedere le grotte, e nella figura del gendarme, il gentile cortesissimo pugliese subodorava non già lo zelo di uno studioso – che sarei stato io – ma l’indagine repentina e fiscale dell’agente, che, con quella scusa violava la soglia della masseria e della casa… È stato un errore, quello della guardia per autista. Ma quando me n’avvidi era troppo tardi. Così, a Massafra, allorché si trattò di trovare l’ingresso della grotta della Candelora – e s’era visto benissimo dove si trovasse dall’altra parte della gravina, quella beneficata dal pozzo-nero – questa divenne irreperibile. Il primo volenteroso ci assicurò che era murato. Un secondo volenteroso che, col suo solo innocente aspetto, aizzò tutti i cani del vicinato, ci portò lungo amene scoscese balze ai piedi di un muro che pareva una fortezza, e si sarebbe dovuto scalare… Ma il mio libro dava il nome del proprietario, che risultò ancora esistente. Donde s’andò a cercarlo in paese. S’arrivò alla casa: ci mandarono all’Ambulatorio. All’Ambulatorio era uscito, ma doveva tornare subito.
Ormai mi era scesa sulle spalle la rassegnazione dell’inevitabile, e non smontai neppure di macchina. La strada era limpida, nel sole, come una scodella. Davanti a me s’appoggiava al muro rosa una ragazzetta, e davanti a lei stava una bambina. Aveva un cespo d’insalata in mano, di lattuga romana, e ne spiccava via via una foglia, una per sé, una per la compagna: ambedue mettevano la foglia in bocca, per il gambo, e su su la mangiavano, a piccoli morsi, a passetti, come un coniglio. Io le guardavo trasognato: quegli incisivi veloci, quei labruzzi voraci, quell’impercettibile scricchiolio dello stocco dell’insalata, quella soave lietezza. Un’acqua pura non era così pura, una lucertola al sole non era così lucertola, come quelle ragazzette erano la primavera stessa, piccole Persefoni che tornavano su dall’Erebo, e mangiavano nel sole, senza mani, le foglie fresche dell’insalata…
Venne il dottore, piantò i clienti, infilò la vespa, e via a precederci come un motociclista il presidente della Repubblica. E davvero devo dire che non c’è gentilezza pari a quella del Salento: perché è così immediata, spontanea, senza il minimo sussiego. E con certi sorrisi e senza interrogatorio, e senza diffidenza, e senza untuosità.
Si rifece, dunque, la stessa strada di prima, e la porta non era murata, ma perfino si trovò la chiave, e subito, del lucchetto.
Eccoci allora a mezzo della gravina, su una specie di giardino pensile, con certe pianticelle, ancora fiorite, di ligustri. E dei gigli verdi, che mi stupirono. Erano verdi quasi come l’elleboro, e con i petali come denti di lupo: veramente fiori per anacoreti, fiori ma non troppo, più simili a foglie che a fiori. Ma in compenso erano stelle. Stelle verdognole come alla prima sera, che s’aprivano poco più su della terra, dall’ombra di questa, piccole stelle casalinghe e mortali.
Un po’ più in là erano gli affreschi: entro nicchie d’una bella architettura scavata nella roccia quasi tenera e color farina di granturco. Si vedevano gli avanzi delle figure invase da pustole, corrose da piccoli crateri orlati di bianco, marezzate da licheni e da muffe antiche, venerabili anch’esse.
Ma insomma c’erano ancora: qualcosa da salvare rimane.
La Madonna porta a spasso il Bambino, lo tiene per mano, sul bordo della nicchia. E questa figurazione, che è unica nella iconografia bizantina, non è unica, perché rifiorisce chi sa come, chi sa perché, a San Gimignano, almeno un secolo dopo, nel Trecento.
I colori appaiono offuscati come gli occhi velati dalle cateratte: dalla parete, crollata tanti anni addietro, il sole potrebbe entrare, e la pioggia, e le raffiche. Ora entrava a soffi l’odore dei ligustri e globi d’aria calda, portati dal vento nella grotta, come invisibili palloncini: si sentivano passare delicatamente sulle guance, e si cercavano invano, iridescenti come bolle di sapone.
Dopo questa cripta c’era quella della Trinità: ma si era nascosta così bene, che non fu possibile scovarla. Il padrone doveva essere cambiato, e come arrivai ai Santi Medici, domanda qui, domanda là, scendi e sali, rimase irreperibile. La nostra guida non se ne voleva dare per inteso. Ma era nuovo del posto: appena una volta c’era stato. La mia presenza in quella specie di vicolo, scala, pianerottolo, fra le casette candide e basse, era davvero un corpo estraneo: passavano dei bambini che tornavano da scuola, becchettavano dei polli, tutto si svolgeva secondo un ritmo usuale, connaturato alle cose, che la mia presenza rompeva, come un sasso in mezzo alla corrente. Finì per darmi un’insofferenza maggiore dell’attesa; perfino il riguardo con cui mi si trattava, senza neppure troppa insistenza negli sguardi interrogativi degli occhi neri, mi fece rompere gli indugi e risalire.
Per quella mattina non c’era altro da fare. Tornammo a Taranto.
Nel pomeriggio fu la volta di Mottola. Ma depositammo la nostra guida, e, tanto ormai la guardia a bordo ci si aveva, subito, appena a Mottola, ne cercammo un’altra. Per queste guardie era una occasione insperata nell’uniformità giornaliera: senza farsi pregare quella subito venne.
È, Mottola, su un’altura che non è un’altura, ma per le Puglie lo diventa: e si vede di lassù uno dei paesi più armoniosi che vi siano, con in fondo il mare. Armoniosa è infatti la discesa degli ulivi corvini, densi come gomitoli, nel pullulare del primo verde delle viti – dove non erano bruciate dalla brina – armoniosi grani fitti, arditi, rigidissimi, come capelli a spazzola, accanto ai ricciuti boccoli di verde opaco e gagliardo delle fave. Non mi stancavo di guardarlo, quel paese, così scoperto e largo e disteso, che il mare quasi pareva appena l’orice di tanta morbida ampiezza.
Invece bisognò staccarsi dal panorama e andare in cerca delle cripte. Naturalmente qui ce n’era un visibilio, volendo: ma a me interessava soprattutto quella di San Nicola, e speravo proprio, che, trovandosi in aperta campagna, bisognasse cercarsela a piedi, senza troppi sobbalzi automobilistici. Non fui deluso. A un certo punto si arrivò all’antico convento ridotto ad abbazia, e lì la strada campestre finiva. Ecco che incominciavano i viottoli fra i ciuffi di margherite, sotto gli ulivi, le capre, insomma la scena più antica e agreste. A volte dei corvi si alzavano, e perfino qualche tortora. La campagna era dolce, con dei massi qua e là, un po’ come in certe parti del Lazio.
Queste rocce con le cripte poi nascono all’improvviso: pochi passi prima non si direbbe neanche ci fossero le rocce, nonché le cripte. Sono gli ulivi che le dissimulano, è l’anatomia stessa del paese che intuitivamente si assimila: il fatto sta che anche qui, a un tratto, dalla uliveta irregolare dove ci si trovava, si giunse a dei bei massi arrotondati che facevano come un largo ingresso a una corta valletta.
Di colpo mi sentii in Anatolia. Ritrovai l’ingresso del tempio ittita di Jazilikaia a Bogazkoï, dove i rilievi furono scolpiti direttamente sulla roccia grigia marezzata di licheni.
La somiglianza era insolita, anche perché, diversamente dal resto dell’Anatolia, in quel punto ci sono un po’ d’alberi, e quei meravigliosi cespi di rose canine d’un giallo zolfo così intenso da parere dei fiori coltivati e non di campo. Qui le rose canine non c’erano, ma fiori tanti, e minuti e fitti.
Che cosa fa l’ambiente, la scena, se volete: erano proprio gli stessi fiori di campo, umili e vivaci, di poco prima, ma lì erano “montati a giorno”, messi in evidenza, come gioielli nell’astuccio, un astuccio di rocce e di muschio: di velluto.
Sembra, a volte, che le divisioni regionali dipendano solo da vicissitudini politiche, e che, insomma, non ci sia nessuna ragione vera perché la Toscana si arresti al Paglia, e la Puglia non comprenda, come una volta, anche Matera. Invece non è illusione che di qua dal Paglia la natura sia diversa, e il ruvido e dorato tufo del Lazio, torreggiante, appaia già a Proceno e più ad Acquapendente. Di là, invece, stanno i calvi ulivi delle crete che circondano l’Amiata.
Ora, andando verso Matera, appena la strada comincia ad alzarsi, cominciano anche dei verdi più uniti, meno punteggiati di alberi, e un certo che di sconsolato e riposto, nelle curve di colline sempre più spopolate. Finché gli alberi cessarono del tutto. Si era già in Basilicata, né valse a riportare il pensiero in Puglia, il fatto che, prima di arrivare a Matera, si spalanchi una di quelle cave di pietra tenera, come nel Salento. Una cava, dunque, tutta a scalini, con strane forme torreggianti, come fossero ossi della terra e spolpati: oppure sembrano simili a rovine di case, e, i cunicoli, a strade a vicoli a crepacci fra muri diruti. Paese che non è paese, ma così potentemente vicino a certi paesi di roccia abbandonati in talune isole dell’Egeo: sono la stessa roccia che la roccia su cui sorgono: non se ne distinguono e, in certo senso, se ne distinguono solo quel tanto da restituirci l’allegro memento di cripte e cimiteri: tu sarai come son io, io già fui quel che tu sei.
Quando si passa oltre e si vede allora Matera, sembra proprio che la funebre cava di pietra l’anticipi non so quanto nel futuro, se già tanto la città è un colombario di vivi, che vivono nei sepolcri di grotte murate appena da una facciatina modesta. E tanto se n’è sentito parlare, di questi Sassi di Matera, e a ogni campagna elettorale sembrava che la cosa fosse risolta. Poi si va là, come ho fatto io, e si sa da brava gente sul posto, da bocche per nulla sovversive, che non si è fatto nulla, che quel che si è fatto è un errore, anzi, un errore madornale. Perché quel villaggetto di settecento anime – nei Sassi ce ne sta più di diecimila – è un villaggetto senza senso, che allontana gli abitanti, che sono agricoltori, in un modo eccessivo dai luoghi da coltivare, e per di più li isola come in un lazzaretto.È un lazzaretto, un lebbrosario quel paesuccio: meglio ancora stare nei Sassi. Così dicono, e non sono sovversivi, non sono persone che sputano in faccia al parroco.
Ora, dunque, io ero curiosissimo di vedere questi Sassi, quasi non avevo occhi per il resto della città, per cui invece bisogna averli, che è un paesino con cento cose graziose, e una superba, la Cattedrale. Un felice pasticcio di ricordi pisani, come nella Capitanata, e il ragù di draghi, mostri, fiori e lucertole delle Cattedrali più pugliesi, sul tipo di Ruvo e di Bitonto. Ma poi c’entrano anche delle insinuazioni nordiche, e insomma è un bel bisticcio, un bell’esempio di meticciato artistico, d’una vitalità sanguigna e asprigna e montanara. Ma la piazza è genuina, e l’ingresso, di sotto l’arco con un bel palazzone a fianco, la custodisce con amore.
Proprio allora, dalla piazzetta davanti alla facciata della chiesa ci si affaccia sul Sasso barisano. E, a chi non lo sa, il segreto di quelle segrete cantine umide e buie, che s’incuneano nella roccia, proprio non appare. Tanto che, vedendolo di lassù, il Sasso barisano, fa pensare molto più a certe scoscese vie di città come Siena o Perugia, che a una serie di abitazioni cavernicole. Perché per lo più, davanti alle caverne, sono state costruite delle case, e, dall’alto si vedono tetti e terrazze, e quasi neanche più un pezzo di roccia. Ma questo digradare e sovrapporsi di case e casette, è solo apparentemente caotico, perché poi risulta costruito con molti accorgimenti e riguardi alla configurazione dello scosceso canalone di pietra, che, appunto, costituisce tanto il Sasso barisano, quanto, all’altro capo della cittadina, il Sasso caveoso.
Quando allora si fu scesi nel Sasso caveoso, l’accento medioevale che l’aggregato faceva avvertire dall’alto, si accrebbe e si precisò. Davvero rimasi sorpreso della bellezza e della nobiltà antica di questo antico aggregato edilizio, fra i più antichi e meglio conservati di tutta l’Italia. Non sogghigni alcuno: il Sasso caveoso è altrettanto bello e nobile del quartiere di San Pellegrino a Viterbo; e cioè si tratta di un quartiere per lo più composto di edifici gotici, con scale esterne di pietra, strutture lievemente aggettanti su corte mensole, archi acuti, volte. Dietro a queste piccole case, in fondo alla stanza, si aprono poi, nella roccia, altre stanze, buie, fetide, senza luce e senz’aria, che non siano l’aria e la luce ricolata da quella prima stanza esterna. È ammissibile che della gente viva là dentro? Non è ammissibile. Ma è ammissibile che questo straordinario, e quasi intatto esempio di urbanistica medioevale, di architettura umile ma autenticissima, possa distruggersi? Anche questo non può essere ammissibile. E fra le tante persone che mi avevano parlato dei Sassi come di una vergogna nazionale, ce ne fosse stata almeno una che ponesse questo dilemma, perché dilemma c’è, e chi non se ne accorge è un asino, quanto più vuole fare il demagogo e il filantropo. Perché distruggere la cultura è distruggere l’anima, se si vogliono parole di quelle che capiscono tutti: e come non si vive di solo pane, non si vive solo nelle case di cemento armato.
Il Sasso caveoso è costruito con l’accortezza di canalizzazione di una rete di fossi in campagna, non ha fogne, eppure, per torrentizie che siano le piogge, non s’ingorga. E insomma la sua conservazione, e al tempo stesso la sua redenzione, secondo me, non è né più difficile né più costosa della costruzione di nuove case. Ma ognuno di questi Sassi dovrebbe essere espropriato, e, murandosi le caverne, bonificate le stanze costruite, e di tre case farne una, magari: ma, cercando di alterare il meno possibile l’esterno, un po’ alla volta si arriverebbe a salvare questo straordinario nucleo medioevale e a non renderlo meno malsano di qualsiasi altro abitato di città vecchie. Ma l’idea di spopolarlo e di distruggerlo ripugna a qualsiasi mente sennata, e così va detto e ripetuto e inculcato, al di là delle propagande elettorali.
Questo sconcio nazionale dei Sassi non si risolve distruggendo i Sassi, sanando uno sconcio igienico con uno sconcio storico. Certamente, vi sono, tutto intorno alla città, altre caverne abitate, e non solo caverne, ma come le grotte eremitiche, come le cripte che andavo cercando: e per queste non c’è nulla da salvare. Invece il Sasso caveoso e il Sasso barisano vanno solamente risanati, ma non al modo con cui si risanò il centro di Firenze: distruggendo, cioè. Certo, Firenze, per quanto grave fosse l’offesa, aveva troppe altre corde al suo violino. Matera potrà essere domani qualcosa da avvicinarsi ai nuclei medioevali di Viterbo o San Gimignano o Assisi, e senza tutti quei dannati ferri battuti, che hanno ridotto le vie di Assisi come una donna vecchia e artefatta, con pochi cernecchi e molti bigudì.
La ricerca delle cripte basiliane doveva avere un secondo turno: mi restava una specie di sciavero della Puglia, a contatto con la Basilicata. E capitò che era la fine di giugno: dunque l’estate. In genere preferisco sempre farmi portare il più vicino possibile dal treno, se c’è il treno. Ma qui era il caso di girare in automobile: il viaggio cominciò da Salerno. Da quella parte la Campania s’intromette a poco a poco nella Lucania: non c’è rarefazione improvvisa, magra e disarmante spelatura, come a passare dal tarentino a Matera. Anzi tutta la campagna restava, anche dopo Eboli, d’un verde acceso, nutrito di piogge: e, dato che si sale subito in alto, le coltivazioni apparivano addietro rispetto alla valle del Sele coi grani croccanti, in piena segatura. Qui, il grano era verde ancora, e i prati al primo taglio. Ma soprattutto le ginestre e il caprifoglio riempivano la strada: sembrava fosse sempre il primo mattino, sembrava che, per il fatto del traffico quasi nullo, nella strada quel profumo si depositasse a strati come la polvere nelle stanze disabitate. Ed è il profumo più sano e giovareccio che, in qualsiasi stagione, produca la campagna: sa di bucato, di sapone e d’acqua corrente; sembra che si sviluppi da solo, con un leggero tremolio dell’aria, come fa l’aria riscaldata dal sole. Passando nella strada, pareva di aprircisi un varco, di dovere vedere la scia di profumo che si richiudeva dietro di noi.
Altissimi monti, rocciosi, vestiti fino a mezza gamba di un verde cupo, si alzavano sulla destra: era una muraglia ma anche uno scenario e così seghettato da fare un incastro netto col cielo, azzurrissimo dove quelle cime arrivavano. Elisa aveva voluto cogliere il caprifoglio, la madreselva come lei la chiama, e giudiziosamente succhiava a uno a uno i calici dei fiori. Era un’ape, e nello stesso tempo ci si riconosceva la bambina che aveva strappato le ali alle farfalle, con un rimorso grandissimo, un delizioso orrore per se stessa. Io glielo dissi, ma lei continuò a succhiare i calici sottili, indispettita solo se un’ape vera c’era passata prima di lei. “Allora viene su l’aria” diceva “invece del nettare, ed è come quando si è finita una bibita con la cannuccia…”
In quanto a Elio, doveva sentirsi sull’otto volante, tanto si sbrigliava su quelle curve a gomito, e con quella strada sgombra.
Ma quando si arrivò alla Valle del Bradano le cose cambiarono. L’aria si conservava ancora fresca, però la campagna si diradò, le pezze di colore si cucirono fra loro a piatto, come quando si vedono dall’aereo, ed erano già d’un colore bruciacchiato o consunto: quella po’ d’acqua nel fondo stentava a riflettere un quartino di cielo.
Ora un profumo secco, non più di ginestre, ma d’erba sugata dal sole, e quello polveroso delle prime stoppie, riempiva l’aria di un sonno tiepido come un infuso. Avvicinandosi a Gravina, quasi sotto ogni albero lungo la strada – alberi cresciuti a stento, come quelle erbe che non fanno a tempo a allungare lo stelo e mettono subito il fiore – c’era un contadino o un operaio che dormiva, contenuto a misura nell’ombra, come in una cuccetta. E qualcuno dormiva che già il sole s’era girato: il suo corpo continuava a disegnare nel sole la forma dell’ombra.
Quella era veramente la Lucania povera, a un palmo da terra, come si rasano i galeotti. Così si attaccava alla Puglia. Vidi le prime case calcinate di Gravina: ferme sull’orlo d’un incerto crinale; fra i filoni di pietra grigia, ora affioranti, e qualche cava abbandonata.
L’ingresso in città offre una strada larga, con gli alberi in mezzo: la Villa, come la chiamano pomposamente. E infatti c’è un monumento, una fontana senz’acqua, una strana torre dell’orologio, come se si fosse in Turchia. Ma soprattutto c’è il semaforo. Mi dovetti accorgere che era, questo semaforo, il primo cittadino di Gravina: sempre che si domandasse come fare ad andare qui o là, era il semaforo a cui con malcelato orgoglio, ci rimandavano anche se non aveva nulla a che fare con la direzione da prendere.
“Vada al semaforo… Sa dov’è il semaforo… Dal semaforo a destra, a sinistra, a dritto…” Il semaforo veniva sempre a galla. Funzione analoga doveva averla avuta in origine l’orologio: una torre neogotica del 1892, e quasi pre-liberty, con la straordinaria idea di un orologio a tre facce. Per intendersi, non è che queste tre facce guardino da tre lati differenti: ma sono composte in facciata come l’occhio prismatico di una mosca… È solo nel tergo della torre che c’è una quarta mostra, offerta in commiserazione, e senza gotiche bellurie, agli abitanti della città vecchia.
Ma Gravina oltre alla torre dell’orologio e al semaforo, ha un albergo, e una trattoria, bolognese per giunta. Insomma c’è di che viverci.
Tuttavia la città vera comincia dove finisce l’altra: sui fianchi ripidi della gravina, a cui si deve il nome stesso, per antonomasia, del luogo, e che, per quanto assomigli a Massafra, ha di particolare la confluenza di due grandiosi baratri in uno, e a questa confluenza sta l’abitato. Il quale allora ricorda più i Sassi di Matera, che le altre gravine pugliesi, generalmente poco abitate lungo i fianchi. Invece a Gravina la città vecchia scende a balze lungo i fianchi, con solide case di pietra, scalette di pietra, balconi di pietra. Si tratta, come a Matera, di case molto antiche, generalmente d’impronta gotica, e che si scalano una sull’altra dando una configurazione magnifica di città mezzo gotica e mezzo araba. Anzi, con i Sassi di Matera, è, questo abitato di Gravina, un esempio raro di urbanistica medioevale, raro quanto sconosciuto. Naturalmente non arriva fino in fondo al baratro, dove ci sono dei piccoli specchi d’acqua, come vetri rotti. Ma ci arrivano i cipressi e gli ortolani: verde è allora il fondo, e affacciarcisi ristora, soprattutto dopo la visita alla chiesa rupestre di San Michele dei Grotti.
È codesta cripta, a cinque navate tutte scavate nella roccia, fredda e nera, illuminata come una prigione. Gli affreschi, che dovettero essere notevoli, sono ridotti alle tre teste di una Deesis: per caso raro, ovvero per l’umidità ascendente, è perito il resto e sono rimaste le teste. E in quel buio e in quell’umido, quasi sembra che galleggino. Ma l’incontro inatteso si ha nel fondo, dove un usciolo di rete metallica sembra immettere nel gallinaio, e invece fa vedere, in un successivo recesso, un orrido mucchio di ossa. Almeno fossero composte come negli ossari del Seicento, in guisa ornamentale: sarebbero meno macabre. E invece sono un mucchio caotico di femori e di tibie, e, in cima al mucchio, una fila di teschi. Tale, pensai, dovette apparire al padre Teilhard de Chardin, la grotta vicino a Pechino, dove trovò le vestigia di quello spaventoso nostro antenato, che risponde al nome di Sinanthropus pechinensis. Tanti bei teschi in fila, e le vestigia del fuoco, con che si era sicuri che non si trattava di scimpanzé, ma del nonno antropofago.
Qui una falsa pietà aveva allineato i teschi, quasi come una rèsta di cipolle. Sono martiri – dice la lapide – delle invasioni saracene.
Ma la donna che ci accompagnava e che aveva ormai l’orrore cicatrizzato dall’abitudine, non si sentì paga, se non ci fece vedere l’ulteriore meraviglia di un nuovo deposito di ossa, al piano superiore, ossia in una grotta scavata sulla cripta. E qui non c’era neppure la rete da polli a evitare il contatto diretto con le ossa. Anzi trionfalmente la donna prese in mano una mano mummificata e la mostrò, quasi ce la mise sotto il naso. Stornare lo sguardo, e, mirando in basso, incontrare quel po’ di verde e di cielo in pezzi, non mi fece sentire neppure l’apprensione del vuoto a picco.
Risalendo, l’abitato sembrava ricresciuto sulla cavea d’un teatro antico: e c’erano i soliti bambini col vocio delle rondini a farci dimenticare l’orrida offerta della mano mummificata.
La parte superiore della città vecchia contiene una piazza garbatissima, manovrata da edifici equilibrati, e uno quasi simile a una chiesa, che è la Biblioteca settecentesca. Ma veramente inatteso, il Duomo, d’un Rinascimento così ibrido e insensato da parere messo insieme a tasto, da un cieco. La facciata svela lo zampino d’un veneto, e l’interno traduce, con larghissimi valichi fra colonna e colonna, l’interno delle Cattedrali normanne. Come divario offre una finestra a piano terra con l’affaccio sull’altra gravina: e questa sarebbe una veduta ancor più solenne, se già non si assistesse, per il comodo degli abitanti e la rovina di questa antichissima Tebaide, all’avanzata delle case dell’Inacase, sorde e ostili al luogo dove crescono e che pure avrebbero potuto benissimo essere costruite altrove. Invece hanno voluto lo spettacolo della città antica, e al tempo stesso non si peritavano di rovinarlo. Mica si sono degnate di adeguarsi al suolo fatto di pietra, alle forme consunte di questa pietra lavorata dalle acque e dai venti come dalla subbia di uno scultore. Squadrate coi loro balconcini pretenziosi a bagnarola, stanno come giocattoli di cartone, così poco legate al sito che sembra debbano essere spazzate via da una folata di vento. Una di queste case, più audace delle altre, si è spinta a picco sul baratro, e perciò si è dovuto murare la cripta che stava sotto: era una di quelle che dovevo vedere e ormai se ne riparla al Giudizio Universale.
Quasi per indennizzarmi, mi portarono allora a vedere un’altra cripta scoperta da poco sotto il piano stradale, ma già ostruita di letame e di spazzatura.
Non ne rimaneva che una da quell’altra parte, e, posta la vaghezza con cui era definita l’ubicazione, si dava per la più difficile. Bisognava attraversare l’antico viadotto che porta alla fonte e al lavatoio. E veramente quell’acqua che quasi sprizza dalla pietra aveva un aspetto biblico. La fonte era piena di donne e di bambini: correva l’acqua tra i sassi, e l’odore del sapone diveniva vegetale, quasi un odore della terra. Lavavano la lana: stracciata, pendeva dai fili, antica, giallognola, infeltrita: anch’essa aveva l’età della Bibbia.
Quando si fu in cima trovammo il pianoro, dove, con mille contraddizioni, ci avevano indicato l’eventuale imbocco della cripta. Da un lato c’era il grano, poi affiorava la pietra grigia e allora finiva il grano. Ma non le erbe: e qui si dettero erbe basse e fonte: fiorite e profumate. Una sapeva di menta e di timo, un odore che, annusato, faceva fresco come ad averlo in bocca. Si scioglieva, era una pasticca, un gelato povero, l’alito fragrante della terra. La pietra grigia fra quelle erbe era come quando non si è finita di sciogliere la neve: e solo che la neve è bianca, e la pietra era grigia. Ma si diramava capricciosamente come fa la neve, fra l’erba.
Si trovò la cripta. Era una laura, un conventino cioè, e si riconoscevano, più o meno franate, le celle degli eremiti. La cripta reca ancora un po’ di laceri affreschi, e assai più firme e tanti cuori trafitti. Altro che cuori, in quel delizioso prato solitario: altro che cuori. La sanno lunga, in fatto di eufemismi, gli innamorati.
La sera, dopo una banda che sembrava sonasse con le cazzeruole, si andò a vedere la Luna. Era cresciuta nel cielo e guardava all’ingiù: si pensava che il baratro della gravina dovesse essere colmo di quella luce diaccia, come un’acqua cresciuta nella notte. Invece la luce non ci arrivava, restava un fosso nero. Ci si volta e si vede come una specie di torre incendiata: fumigava, la luce era rossa, sapeva tanto di palcoscenico e di Tetralogia.
Pensai dovesse essere una calcara, ma l’evidenza era diversa. Quei fianchi salienti e quella luce roca, che sembrava consumasse dei cadaveri, si poneva come un’enorme pira pagana: sinistramente bruciava nel passato, bruciava al tempo di quei teschi, si riverberava dalla storia più tenebrosa.
Cheti e scontrosi tornammo all’albergo.
La mattina dopo toccavamo le cripte più lontane, e prima di mettersi in moto, mentre si va a prendere un caffè, ecco un bel cavallo sauro, col solito basto di legno e sopra un bambino nudo. Poteva avere due o tre anni, non di più, ed era nudo in un modo non provvisorio, nel senso che nel colore già abbronzato, e ugualmente abbronzato in tutta la pelle, attestava che quello era uno stato di presentazione abituale. Forte, grassoccio come deve essere un putto, si teneva eretto, sicuro di sé, afferrando bene l’arcione. E non che il cavallo fosse fermo: andava al passo, certo, ma con un passo vispo: e l’eroico putto incurante, nel suo alone di sole.
Era un’apparizione, era un’impresa araldica, una offerta propiziatoria. Forse il bambino scontava su di sé una specie di contrappasso, o il voto della madre, fungeva da Lady Godiva rusticana: e d’altronde non si capiva come, chi possedesse un cavallo, non avesse almeno uno straccio da coprire un corpicciolino simile. Ma non si trattava di miseria, si vedeva bene; era una cavalcata fastosa di salute e di buona razza, un incitamento al coraggio, degno di Sparta. Scomparve fra la gente del mercato.
Seguì la ricerca della cripta di San Vito Vecchio. E questa era data come rinchiusa in un orto e che vi si accedesse dall’alto. Un bambino fu messo a farci da guida, e questo era vestito e consumava anche la prima colazione, una bella fetta di pane con i semi di pomodoro sopra: e si dice semi, perché non c’era molto di più. Il bambino si chiamava Michele, aggrediva lentamente la fetta con i suoi denti forti, come, invece di essere pane, fosse un animale. Era fresco e belluino, Michele, era nero e lampeggiante in quell’angoletto di bianco che le pupille scurissime lasciavano libero agli occhi. A un certo punto si fermò. E c’era un masso alto, con una voragine accanto, dove era stata tagliata tutta la pietra che avevano trovato utile di estrarre. Risultò che quello era l’orto, ridotto a una latomia. E per entrare nella cripta invece di scendere convenne salire: il caso era degno di nota. Ma salire non fu facile, perché proprio la parete era stata tagliata a piombo e bisognò servirsi di labili tacche nella pietra per arrampicarsi. Arrivati in cima, ecco, che si scopre l’orifizio, che, quando, invece di esserci un baratro, lì c’era un orto, dava un accesso dal soffitto. Era la volta di calarsi. E sotto i nostri piedi rotolarono le pietre che dovevano servire a scendere. Io pensavo amaramente a chi s’illude di farci del turismo, con codeste cripte, e vorrebbe lasciare i dipinti sul posto. Questa di San Vito, che da cripta sotto terra era diventata uno spezzone di sasso da arrampicarcisi come su una parete di montagna, non si sa a chi potesse essere dedicata, se agli studiosi o ai rocciatori.
Le pitture si trovano in uno stato miserabile, e l’isolamento fittizio della roccia non è stato di nessun giovamento, tutt’altro. Perché ora le infiltrazioni d’acqua avvengono anche dai lati oltre che dall’alto, e lo dimostrano le bave appiccicose e biancastre che uscivano, come resti di sapone da barba, dai bordi delle vecchie cadute dell’affresco e ne avrebbero prodotto di nuove, mentre lo strato già vetrino del carbonato fa vedere ormai quel che resta da sotto una pellicola opaca.
Risalire fu più difficile che scendere: occorse formare pazientemente la pila delle pietre, e quelle rotolavano, si rimettevano su e cascavano di nuovo. Ma alla difficoltà dell’accesso si dové almeno di non trovare, come sempre, la cripta ridotta a gabinetto di decenza.
Fu poi la volta di un’altra cripta, e occorse come guida un secondo bambino. Questa volta la cripta serviva da cantina, umidissima, gocciolante e piena, oltre che di botti muffate, di fascine: così non riuscii a vedere che la canna del naso del Cristo di una Deesis. E anche questa valga per chi vuole conservare a ogni costo le cose dove stanno, per i romantici dei ragnateli e del letame.
Ormai per Gravina, le cripte erano esaurite, almeno quelle note. E fu la volta di Altamura. Quante volte avevo fantasticato su questo bellissimo nome e su certi particolari della Cattedrale. Ma fu una visita deludente. Per quanto antica, Altamura, non è fra le città belle della Puglia, e la sua Cattedrale è talmente rimaneggiata, sia di dentro che di fuori, da frenare ogni entusiasmo. Non c’è ambiente: le case, le vie, soffrono l’anonimato della città decaduta, di solerti terremoti; in quanto all’interno della Cattedrale, in falso gotico, da parere una di quelle mascherate che talora si vedono in Francia, innervosisce, è il meno che si possa dire. Per l’appunto si mise anche a piovere, come fosse autunno invece che estate e con una persistenza rabbiosa, con l’inevitabile interruzione di corrente, e la benedetta noia d’un erudito del luogo che, per quanto sapesse tante cose spicciole, ignorava quelle essenziali.
Quando spiovve, fece anche più effetto la figurazione del Diluvio Universale, in cui ci si imbatte sul portale dell’altra notevole facciata di San Niccolò dei Greci. È una figurazione rara, sotto l’ombra di due dita dell’Eterno, che sembrano correggiati per il grano. C’è l’arca sotto la pioggia: ossia in cielo si vedono tre sacchi gonfi, come otri di cornamusa, e dai sacchi s’irraggiano tre nappe a doccia di fili durissimi, che sarebbe la pioggia. Per quanto estremamente popolaresco, è forse il più bel Diluvio in atto della storia dell’arte. Poi c’è l’Arca ferma sul Monte Ararat: e questo è forse il paesaggio più antico che esista in scultura. Sodo e rozzo, fa rimpiangere che un’idea simile non sia venuta a chi scolpì gli esagoni del Campanile di Giotto. Sarebbe divenuto un capolavoro. Così come è, ad Altamura, potrebbe anche essere stata fatta colla pasta di pane: quasi non ha epoca, o ha tutte le epoche, come i disegni dell’infanzia.
Riprese a piovere e bisognò tornare il giorno dopo.
In località Jesce, diceva la notizia. Si apriva, verso Santéramo, una campagna ondulata, che non è pianura, nel senso che si sente, in modo indefinibile, che siamo su un altipiano. E quando ci si mise in cammino era già un po’ tardi, e tornavano i carri in città. Perché queste minori città pugliesi non sono per lo più che agglomerati di contadini che posseggono carri altissimi, con ruote dipinte, quasi come i carretti siciliani. E i cavalli, o muli, o asini, hanno un basto fatto a punta, azzurro come i coni delle fate, e su c’è le lettere, in ferro o in argento, del proprietario. Sotto il carro trotterella un cane, volpino o pomero, un botoletto bastardo, che corre in continuazione, come i soldati in coda a una colonna. E perché mai non lo tirino su, quella povera bestiola, non son riuscito a capire. Che ci fa, là sotto? Che difende? Io non sono uno di quelli che hanno più pietà per le bestie che per gli uomini, ma trovavo lo stesso che era insensato far fare a piedi la strada a un povero cane, tanto più povero e miserabile, perché legato, e fra le ruote altissime, quasi che di notte si trasformasse in fanalino.
Di qua e di là, il grano quasi ovunque già secco, e con le reste nere, del grano duro: dappertutto pozzanghere, e, a un palmo della testa, nuvoloni pesanti, foschi, come pieni di vermi. Sotto quell’ammasso minaccioso le masserie, bianche di calce, sembravano più che bianche, livide, uscivano dal paesaggio. E sono, se sono antiche, per lo più bellissime, acquattate, a un solo piano: circondate di mura come un convento, con qualche alto camino, che, qui in Puglia, si protendono dal muro, fanno costruzione a sé, a pianta quadrata, e ci si deve star dentro in venti. Mi facevano provare un desiderio vago, una nostalgia di cose vissute in un’altra vita, quelle masserie: l’orizzonte lontano e basso, le vaste estensioni senz’alberi, le pecore, i cavalli.
Jesce ci apparve, grande convento abbandonato, e a fianco una di quelle masserie bianche e basse. Tanto c’era voluto a trovarla, tanto poco occorse per il resto. Il padrone, arrivava anche lui in quel momento, in macchina. Scese, ci venne incontro, ci portò alla cripta, che è la meno antica, con un ingresso ad arco acuto, e in fondo gli affreschi, già trecenteschi, fra cui una bella Madonna in trono, e San Ludovico di Tolosa.
La cripta sta lì, aperta, vuota, sotto l’antico monastero, ora masseria anch’esso. E ormai s’era al tramonto: la luce, gialla di zafferano, si vedeva da sotto le nuvole e quasi di sotto una porta. La giornata finiva così, dentro la terra come nelle coltri di un letto.