IL VULTURE

 

IL DUOMO DI ACERENZA

Vi sono dei luoghi che sono anche più remoti del posto dove si trovano, colpiti, si direbbe, da quello stesso fato che decretò il sotterramento di città e paesi, che in questo caso non maturò del tutto, rimanendo il luogo come seppellito nella memoria. Tale è Acerenza, il cui nome è di un’essenza antica, la cui postura, e proprio perché costituisce un’acropoli, è più antica della sua antichità. Il fascino che sprigionava per me, era il fascino, appunto, di un’antichità perduta in se stessa, e così presto perduta, che il busto di Giuliano l’Apostata era diventato San Canio, ricondotto, come bendato, dall’apostasia all’ecumene cattolico. E codesto busto l’avevano messo in cima alla facciata della Cattedrale, quella stessa che è ragione valida per attraversare uno dei luoghi più sconsolati d’Italia, l’alta valle del Bradano.

Avvertiva all’inizio del nostro secolo uno dei pionieri degli studi artistici della Bassa Italia, come allora con malcelato spregio si chiamava, che per andare da Venosa ad Acerenza occorreva poco meno di una giornata a cavallo. L’unità di misura indicata dal Bertaux era certamente l’unica appropriata per quel viaggio: oso dire che ancor oggi, se non l’unica sarebbe la più adatta, dato lo stato dell’ultimo tratto di strada, a chi vuol giungere ad Acerenza sia da Gravina sia da Venosa. Io ci arrivavo da Gravina, determinato, questa volta, a non lasciarmi sfuggire un così nobile monumento, di quelli che veramente sembrano caduti come un aereolite, nei luoghi più impensati. Che abbiano a che fare, infatti, Sant’Antimo presso Montalcino, Acerenza, Venosa, Aversa non è più ricostruibile su dati storici: ma le chiese di questi luoghi, Sant’Antimo, il Duomo di Acerenza, la Trinità di Venosa, il Duomo di Aversa, hanno la stessa caratteristica di una singolare disposizione tutta francese del coro solennissimo, con ampio deambulatorio e cappelle radiali. Insomma in epoca che va dal secolo XII (e potrebbe incominciare anche prima) all’inizio del XIII, dei frati benedettini, generalmente, introdussero queste predilezioni francesi, e ciò, se non fa meraviglia nel reame dei Normanni, non illumina affatto sulla ragione intrinseca di una predilezione architettonica così complicata e costosa, che per di più non doveva attecchire nello spiegamento tutto frontale del rito religioso in Italia.

Ma, oltre al Duomo, Acerenza offriva a me un’altra ragione di attesa, di introdurmi al Vulture, questa, fra le poche regioni d’Italia, che ancora mi era rimasta ignota, visto che bisogna andarsela a cercare e, per caso, non ci si passa davvero. È del resto, la Basilicata, se si toglie l’isola così attraente di Matera, una terra bruciata dal sole, toppata di giallo e di arido verde, scoscesa, taciturna: il Vulture, come vulcano spento, vestito selvaggiamente d’alberi coriacei e compatti, dovrebbe allora esserne la capelluta testa; e così me lo immaginavo a ristoro dell’arsura della Valle del Bradano, quando, venendo da Palazzo San Gervasio, lo vidi salire all’orizzonte ma piuttosto coricato che erto, un po’ come una figura etrusca diruta sul sarcofago delle colline gialle e rattoppate. Una punta fingeva da ginocchio sollevato, e l’altra cima, tondeggiante, consentiva di raffigurare le spalle: ma la testa propriamente detta non c’è. Azzurro, come solo sanno esserlo i monti del Meridione, simile anche all’Amiata, simile anche all’Epomeo, meno al Vesuvio, si dichiarava nella sua nobile prosapia di vulcano, e stava là all’orizzonte, dietro quel baluardo di terra arida, come se nessuno, pena la morte, dovesse avvicinarsi. La morte, a dir vero, c’è stata spesso, con dei terremoti spaventosi, ultimo quello del 1850, che fece quasi piazza pulita: e le città ne risentono ancora, generiche per quanto dovevano essere caratterizzate, queste antichissime città normanne. Solo alcuni monumenti sopravvissero alle furie ormai solo intestine del vulcano.

Di questi, il Duomo di Acerenza, s’ebbe in soprappiù, per lo zelo sconsiderato di un vescovo, una specie di cupola-tiburio che rende ancora più problematico l’aspetto di un monumento già così fuori serie e fuori luogo, se non fuori epoca. Un tiburio vagamente lombardo sullo chevet francesissimo, che bel pasticcio, a onta delle archeggiature esterne, anch’esse, ma autenticamente, lombarde. Comunque da lontano, su quel colle altissimo, il tiburio falso sembra l’enorme fumaiolo di un transatlantico, arenato, guarda un po’, come l’arca sul monte Ararat. E insomma il profilo della città con i suoi spalti e il fumaiolo, o è bastimento o è treno: a una città vera e propria fa pensare poco. Io fantasticavo, allora che la strada si svolgeva fra imprevedibili curve e robusti sconquassi, se un bel lago potesse riempire fino all’orlo quella desolata Valle del Bradano, e sulle acque azzurre come il lago di Bolsena, Acerenza torreggiasse: mai lago si aspetterebbe e si benedirebbe di più che in quella terra, che invincibilmente si avverte come fosse un lago svuotato. L’acqua, una distesa d’acqua a confine della Puglia, quando il rigoglio che questa sembra ancora trarre dal mare, si dissecca nei burroni, nelle gravine con qualche pozzanghera al fondo.

Il sole aveva la forza indomita del deserto, ma non vi erano le lame d’aria fresca come nel deserto: l’arsura si sentiva nell’aria come la pula quando si trebbia; d’un colpo si ebbe la gola secca. Radi asinelli incontrammo, qualche contadino disteso in un margine d’ombra, stretto come un orlo a lutto. Finché, gira e svolta e sali, si arrivò alle prime case di Acerenza.

Sono case col solo piano terreno per lo più, e un alto camino che ti fa sentire come si sia in montagna, anche se il sole è quello della pianura. E di bello hanno spesso quel cornicione a più ordini di tegole murate, ancora un ricordo dell’uso arabo del cotto, ma ridotto al vernacolo delle tegole, invece dei complicati intagli e intarsi. Un’unica strada e tortuosa porta alla Cattedrale.

La piazza è piccola, il campanile reca incastonati pietre e rilievi e iscrizioni romane: la chiesa, all’interno, disinfettata dall’ultimo greve restauro, mantiene una struttura possente su pilastri che sembrano l’archeggiatura d’un acquedotto romano. Sia pure la nave più tardi – ma non ci giurerei – l’apertura degli spazi del coro è superba. Il ritmo è vasto, si dilata a onde sempre più larghe: e il segreto sta nell’ampiezza del deambulatorio, veramente capace come le volte d’un anfiteatro. Sempre Roma ritorna alla mente, ancor più del romanico francese: e la misura reciproca di questi vuoti che si saldano l’uno nell’altro è una misura di innegabile classicità. Non solo i marmi, le iscrizioni, i rilievi entrarono a far parte di questa chiesa: l’antica Acheruntium risorge in questi archi a pieno centro, in queste volte solide e aeree come volte di ponti. Un lento fiume d’aria e d’ombra scorre là sotto; l’orizzonte è di pietra.

Ma l’esterno non è da meno dell’interno. E qui è impossibile, e proprio perché letteralmente il parallelo non regge, è impossibile, dico, non pensare alla tribuna di Santa Maria del Fiore. Nessuno mi leverà di mente che Arnolfo, architetto principe di Carlo d’Angiò, non abbia visto Acerenza, non abbia ammirato questo esterno di cui le cappelle sono esedre, in cui si attende, come una promessa, lo scatto conclusivo della cupola (non lo stupido tiburio). È stato detto: la tribuna di Santa Maria del Fiore s’ispira, per un misterioso ritorno, magari al San Lorenzo di Milano. Ma l’idea sovrana delle esedre da cui si innalza la cupola, è idea bizantina non romana. Ed è chiaro, allora, che un genio, meravigliosamente arcaizzante come Arnolfo, potesse recuperarla più facilmente, nell’étimo bizantino, per il tramite romanico, che dall’ultima classicità romana antecedente a Santa Sofia. E non è la pianta: è la possanza del cerchio absidale che ad Acerenza si impone in un modo che non è ammissibile associare a nessuna delle altre chiese, per quanto insigni, di Venosa o di Sant’Antimo o di Aversa. E quelle torri scalari, tonde come i contrafforti di Assisi o di Albi, ma tonde anche come le torri ravennati. La grandiosità di questo giro absidale di Acerenza appartiene alla più elevata architettura.

 

IL CAMPANILE DI MELFI

Il giro del Vulture è prima di tutto un incantamento di nomi. Questo Melfi, posto com’è fra Amalfi e Menfi, ha un periodo d’oscillazione che corre dall’Egitto alla costiera amalfitana. Niente di tutto questo è Melfi, anche se dovette essere una sede piccola però quasi regale. Melfi è una minuta città, ora, che i terremoti hanno tante volte falciato, sicché le sue case sono come l’erba di un prato stanco: piccole, modeste, acciaccate. Ciò che contrasta con la natura vigorosissima in cui Melfi si asside. Pensate la costa più bella del Vulture, com’è bella la supina anatomia dell’Epomeo, o quella, un tantino più erta, del Monte Capanne all’isola d’Elba. Il monte, verdissimo, sembra tosato a metà, come i cani barboni: e dove il vello è più fitto, s’incrina come s’incrina il vello delle pecore. Ma è verde con una intensità inorganica, verde come una pietra, e vivo come un manto animale. Così nessuno pensi alle Alpi, per amor del cielo: a quei sassi aguzzi, agli infelicissimi abeti: qui gli alberi sono vetusti anche quando son giovanissimi, appartengono alle razze che nascono vecchie, per durare in eterno, le querce, i cerri, i lecci. Allora, da lontano, fanno una massa piena, modellano il monte come se il monte al di sotto fosse nudo e sopra avesse infilato una pelliccia. Nudi i fianchi vulcanici si sentono, medicati col verde dal fuoco della lava.

Un’acqua si perdeva lungo la zanella della strada, all’arrivo a Melfi: un’acqua veracemente saltellante d’una fonte viva. Aveva uno scintillio scuro, quasi amaro, come se un’acqua che nasce dal territorio più arso, non possa essere dolce, ma ferrigna, limpida e oscura come gli occhi dei bambini.

Ed io, che venivo dalla combustione solare della Valle del Bradano, sentivo rimbalzare quel ruscello dentro di me, come se per gli occhi lo bevessi, o meglio l’ospitassi, traversato da quel fresco come da una corrente siderale. Ma il mangiare fu una delusione. Fra l’altro, avevo atteso questi vini del Vulture come una segreta scoperta: forse lo saranno, me l’auguro ancora. Ma questa volta non sono stato fortunato. Insomma, a ridosso di quel monte meraviglioso, si vorrebbe cibarsi ancora come al tempo di Roberto Guiscardo: che a qualcuno possa accadere, a me non è accaduto. Il Lenormant, in Lucania alla fine dell’Ottocento, mangiò piatti che al mio gusto sembra dovessero essere squisiti, a un francese come il Lenormant, viziato dalla cucina di casa, stupenda e marcescibile, parvero infami. La modestia della mia colazione impedisce invece di raccontarla. Ma soprattutto il vino mi deluse. Invoco qualche lettore del Vulture in possesso di conoscenze diverse dalle mie, di comunicarmele discretamente con gli indirizzi acconci: cambierò parere, lo giuro, non chiedo di meglio che di cambiar parere.

Ma a Melfi, anche con le distruzioni dei terremoti e le rimpolpettature conseguenti, è rimasto un momento isolato e bellissimo: il Campanile della Cattedrale. Questo Campanile (1153) reca all’ultimo ordine in alto, due grandi tarsie di bestie fantastiche, leoni o grifi che siano, naturalmente quasi arabi. E subito ricordano quelli del manto regale di Ruggero, che Federigo II si portò in Germania per l’incoronazione imperiale e lì rimase (ora è a Vienna). La manifattura araba, nel regio Tiraz, creò quel capolavoro, a Palermo: a Melfi gli splendidi bestioni araldici bianchi e neri sull’alto del Campanile celebrano ancora una tradizione splendente e quel periodo fastoso, unico e fatale nella storia dolorosa di quello che doveva divenire il Regno delle Due Sicilie.

Perché Melfi fu capitale. Gli avventurieri normanni, – questi pezzenti ardimentosi senza un soldo e senza un principio morale, sbaragliato sotto Venosa l’esercito bizantino, si affezionarono a questo luogo montano, meno colpito dall’arsura, che a loro, per i recenti ricordi della natia Normandia, doveva offrire una riposante seppure diversa frescura. Era la prima generazione: alla seconda si pensò subito in modo diverso, così come accade per gli Italiani che vanno in America. Gli immigrati imparano faticosamente l’inglese (le donne appena le parole per fare la spesa), fanno i primi soldi, mettono insieme il gruzzolo: non pensano, non sognano che di ritornare al paesello calabro, lucano o siculo che sia, colla cravatta a draghi, la camicia forata fuori de’ calzoni e sbagliando altezzosamente fabbrica con fattoria (factory). I figli invece coltivano un solo e radicale proposito: non imparare neppure una parola di italiano, naturalizzarsi americani dal baseball alla Coca cola, dalla gomma da masticare ai bluejeans. Così accadde ai Normanni. La seconda generazione ne aveva abbastanza dei boschi di cerri del Vulture e delle tombe arcigne alla Trinità di Venosa: Palermo era là che li attendeva con il popol misto e i piaceri del Paradiso (in terra) di Maometto. Così a poco a poco, lo strano, imprevedibile prestigio di questa terra costiera al Vulture, decadde: e la Trinità di Venosa non fu mai compiuta.

Intanto però, a Melfi, era accaduto l’evento fatale per la storia d’Italia tutta, non solo per il Meridione: nel Sinodo tenuto a Melfi nel 1059, il papa Nicola II aveva attribuito a Roberto Guiscardo il titolo di duca d’Apulia.

Sembra incredibile che, di questo fatto, il Meridione in primo luogo e l’Italia subito dopo, debbano ancora registrare delle conseguenze. Eppure non è arbitrario fare risalire ancora a un tempo così lontano la situazione attuale del Meridione verso l’Italia e dell’Italia verso il mondo. Da allora il Meridione non fu più smembrato, ma da quell’unione che dovrebbe potersi configurare come un felice evento per lo sviluppo della cultura e della civiltà, il Mezzogiorno d’Italia invece è scivolato progressivamente verso una situazione coloniale, di cui, ancor oggi, è espressione politica, necessaria e inadeguata, la Cassa del Mezzogiorno. Non c’è dubbio che il più grande disastro della storia d’Italia, dopo la caduta dell’Impero romano, sia la morte di Federigo II: e subito dopo l’ingresso degli Angioini. Un Sacro Romano Impero di base italiana è un sogno storico da far venire le vertigini. Ce n’erano le premesse; il Papa che le aveva poste, fu anche quello che le distrusse.

La visione di Dante era giusta, anche se, inspiegabilmente, trattò così male Federigo II. E così aveva ragione Benda a suggerire che la storia tutta d’Europa si facesse dall’opposto punto di vista: che costantemente mettesse l’accento sal danno incalcolabile del fallimento di un’idea unitaria rispetto alle insorgenze nazionali.

Ora che si vuol fare questa impossibile Europa unita, ci se ne accorge a che punto stiamo. Insieme non si può stare: isolati non ci si salva.

L’Europa morì, prima di nascere, a Castel fiorentino e fu sotterrata a Tagliacozzo. Quella d’oggi dovrebbe essere una specie di Lega lombarda, un mercato generale e la pacifica ricreazione dei due mondi, Russia e America: qualcosa di mezzo fra l’Upim, il giardino pubblico e la Legione straniera. Beato chi ci crede.

 

LA TRINITÀ DI VENOSA

Ora mi toccava Venosa. Di tutti i poeti latini quello che più avevo amato, a scuola e dopo scuola, era stato Orazio: poi lentamente, dalle limpide acque del lago d’Averno è tornato verso di me Virgilio; e non m’abbandonerà più. Ma Orazio resta fra i miei genitori, fra i miei lari: è il più grande letterato che sia mai esistito. E in fondo tutta la prosa francese, la spiritualità francese, la misura francese nascono da Orazio come il pulcino dall’uovo. In Italia ha fruttato meno: ed è stato un peccato. Un po’ più di Orazio e un po’ meno di Cicerone. Quanto sarebbe più divertente la letteratura italiana.

Così, di andare nella sua patria, mi dava un gusto leggermente acidulo e retroattivo. Ma che ci ha a che fare Venosa con Orazio? Giusto quel monumento che sta in una piazza, e sta lì come starebbe in qualsiasi parte, senza necessità.

Non che Venosa sia un postaccio: anzi il castello nobilissimo – questi castelli svevi fatti di blocchi squadrati, lucidi, che fanno pregustare Piero della Francesca – e poi alcune chiese, quantunque i terremoti non abbiano trascurato neanche Venosa: e soprattutto la Trinità, questo monumento incomparabile.

Dall’alto, Venosa, quando si scendeva tortuosamente da Melfi, compare già nel piano assolato, come una città della Puglia. Il terreno accidentato, vulcanico, finisce: s’apre un piano, sorge Venosa. E Venosa si sente pugliese, vorrebbe andar con Bari, invece che stare con Potenza. E si capisce: ma non la spunterà mai. Ci sta fra mezzo tanta storia, secca come la polvere dei morti, ma tanta storia, che è impossibile staccare Venosa dalla Basilicata.

Or dunque, la Trinità si trova, ancora, fuori dall’abitato: i suoi ruderi, che poi sono ruderi di costruzione che non fu mai finita, sono forse i più belli che si possano incontrare, appunto perché senza rampicanti edere e salici piangenti. Sono ruderi sani e vegeti, di cosa che non fu finita e che dunque non è smozzicata. Le pietre bellissime, eterne, dell’Anfiteatro romano servirono egregiamente per lo straordinario monumento. Per parte mia non ritengo affatto impossibile che debba ancora attribuirsi al secolo XI, nella parte più antica, che è quella che si direbbe absidale, mentre la chiesa sconquassata e ancora in uso sia invece ancora più antica e preesistesse all’epoca normanna: il Lenormant lo sostenne, il Bertaux lo negò, e tutti gli altri dopo di lui. Una chiesa così grande e così complessa come quella iniziata, disse il Bertaux, neppure in Francia avrebbe potuto costruirsi a metà del secolo XI: non è una considerazione inoppugnabile. Mentre la chiesa che dovrebbe essere quella di Roberto Guiscardo, così immensa com’è, non ha proprio niente che la ponga ineccepibilmente alla metà del secolo XI. Quando finalmente potrà essere intrapreso un restauro e uno studio di quel singolare e rimaneggiatissimo edificio, si vedrà chi ha ragione: allo stato attuale non convince la tesi che verrebbe a porre il nuovo e incompiuto edificio della chiesa attigua al tempo in cui i Normanni praticamente s’erano riversati sulla Sicilia, Melfi non era più capitale, e la Trinità di Venosa non rappresentava più il Pantheon normanno ma solo quello dei figli di Tancredi di Altavilla. Anche Boemondo non fu seppellito a Venosa ma a Canosa: la Trinità era buona ormai per sua madre, per la moglie ripudiata di Roberto Guiscardo. E solo la sua tomba resta, col curioso distico in versi leonini:

Guiscardi coniux Aberada hac conditur arca
si genitum quaeres hunc canusinus habet.

Il genitum è appunto il grande Boemondo.

Quando dall’impasticciata chiesa attuale, popolata da Santi vestiti di seta nelle urne fatte come armadi a specchio – questo triste spettacolo d’una pietà religiosa decaduta al rango dei feticci – si passa nella grande cinta della incompiuta Trinità, siamo in un orto, in un giardino senza pretese, ma accogliente, dove le colonne superstiti e i pilastri e le mura sono benignamente sopportati dalla botanica. Così la chiesa incompiuta gode d’una cordialità, che mai cambierei con uno stretto rigoroso rispetto archeologico.

Con quanto la chiesa sia generalmente ritenuta il modello per quella di Acerenza, il suo pur bellissimo deambulatorio con le cappelle radiali è lungi da avere la grandiosità ineguagliabile di quello di Acerenza: né solo perché lo si vide così scoperchiato. È certo bellissimo, che sembra costruito a secco come un muro greco, tanto è preciso, netto, rifilato, nei suoi conci lindi, patinati come l’argento. E il sole faceva il resto: una luce così calda, su quel grigio meravigliosamente cinereo, dava un senso di festa, come uno scampanio. E appunto non c’era niente di feriale, o di scaduto in quegli augusti avanzi, e l’incompiutezza stessa sembrava come una sfida a chi sapesse meglio andare oltre nell’impresa. Dall’essere rimasta a mezzo, la chiesa superba, toglieva una segreta perfezione di cosa preconcetta e preformata, invisibile solo al profano.

Da un luogo simile ci si ritrae a malincuore. Gli attimi che ci si passano, sono di quelli che tornano indietro come uccelli che risalgono al nido. Sembrano perduti e te li ritrovi più vivi nella memoria, con quella forzatura di tono, di colore, di luce, che la memoria dona alle cose che vuol trattenere, e ne fa come delle pietre montate a giorno.

Venendo via da Venosa il mio compagno di viaggio mi ragguagliò esattamente su quel che i Venosini pensavano di un loro connazionale che aveva l’onore di far parte di un ministero: quasi un capo divisione. Le lodi erano piovute: a Venosa si è profeti in patria. Il mio compagno conosceva tutto il ministero, dagli uscieri ai direttori generali, e di tutti sapeva il luogo di nascita: sembrava di tirare su i numeri dalla tombola, da Gravina a Palazzo San Gervasio, da Rapolla a Melfi, e ora a Venosa, non c’era posto per quanto piccolo della ferace Lucania che non avesse espresso da sé almeno un usciere o un alunno d’ordine. E alla lunga, a sentire emergere questi nomi di uscieri dall’urna, veniva proprio da piangere su questa vocazione burocratica del Sud, a cui l’astringe non solo la miseria, ma la relegazione periferica, il senso che davvero Cristo s’è fermato a Eboli. Per me s’è fermato anche più in su, ma è certo che ce ne vorrà di Cassa del Mezzogiorno, per votare i ministeri, per non dovere affidare la memoria di luoghi un di famosi come Melfi e Venosa, al nome di un capufficio, all’accento rivelatore di un poliziotto in borghese.