L’Egitto non è un paese, è un fiume. Chi arriva ad Alessandria e non percorre, per andare al Cairo, la strada del deserto, vede un paese fertile, ricco d’acque che si diramano in un reticolo di canali: vede i palmeti, gli aranceti, i bananeti; vede il cielo sereno o con nuvole di passaggio. Pensa che è un paese fortunato e felice.
Qui una lunga primavera è interrotta solo da una lunga estate, o, se volete, l’estate si trova fra due primavere. Arduo è infatti distinguere la primavera dall’autunno, in un paese dove non cadono le foglie dagli alberi, dove le colture si avvicendano senza sosta sulla stessa terra umida, e solo un agricoltore noterà allora se il granturco è basso o già con le pannocchie da cogliere, se le palme hanno le loro picce ancora acerbe o già pelate dei datteri. Ecco dunque l’eterna primavera, sostanzialmente, con l’estate, le due stagioni dell’Egitto: e già gli antichi egiziani da quattro avevano ridotto a tre. Ma questa immagine dell’Egitto è inadeguata senza essere falsa, superficiale senza essere menzognera. L’Egitto non è un paese, è un fiume: e da quel fiume dipende tutto, anche il clima, anche l’eterna primavera. Bastò che si rialzasse la diga di Assuan, perché a Luqsor la temperatura, qualche notte d’inverno, scenda ora fino a sfiorare lo zero. Piogge si videro, dove mai si era conosciuta la pioggia.
Il Nilo è tutto per l’Egitto, linfa vitale e strada consolare, unica via: tanto che ancor oggi non vi è strada che da Assuan conduca ad Abu Simbel, ancor oggi, come al tempo dei faraoni.
Per questa immensa distesa, limacciosa e fulgente, gli egiziani conobbero allora le barche troppo prima delle ruote: conobbero le reti per i pesci e per gli uccelli prima dei carri e delle bighe: conobbero benessere e ricchezza, quando benessere e ricchezza venivano in primo luogo e direttamente dalla terra, come al bambino, nel latte, dalla madre.
Nella loro apertura sul meraviglioso e l’invisibile, pronti a fare d’ogni parola un’essenza, d’ogni essenza una divinità, tuttavia il solo che non deificarono fu il Nilo, da cui pure tutto dipendeva come ora dipende, ma che fu il “servitore degli dèi”, soltanto il servitore degli dèi. Forse la sua potenza spaventava senza una superiore regola o remora, sicché la divinità fu vista piuttosto nel sole a picco sulle sue acque, nello sparviero o nel falco che con lente rote vi si sospendono, nell’ariete che vi si abbevera e fin nella scimmia, nel coccodrillo, nel lupo, nella vacca. Restava il Nilo a causa e ragione di tutte le cose.
Il ciclo della fecondazione e della nascita, senza le ierogamie del cielo e della terra, là dove la pioggia era quasi sconosciuta, fu solamente collegato all’annua invasione delle acque. E mai forse, in nessuna altra civiltà antica, il mistero della vita e della fecondazione fu più assiduamente sveglio quanto negli egiziani, con quello straordinario spettacolo annuale della terra ricoperta dall’immenso liquido fecondatore. Donde l’arrivo del primo fiotto del Nilo Azzurro fu grande festa fin dai tempi più remoti.
Così fra due deserti di roccia e di sabbia, il Nilo stende due riviere verdissime, che anch’esse, come l’acqua lambisce le sponde, lambiscono e s’arrestano di colpo ai piedi della sabbia. La vegetazione non diviene infatti a poco a poco più rada, le foglie giallognole, e stenta l’erba: il verde finisce con un taglio secco, come nell’ammezzatura d’uno stemma.
Pure, un tale contrasto si avverte, ma non stride. Anzi nulla parrà più umanamente composto di questo paesaggio, dove sempre il deserto si affaccia, come un memento mori, eppure per niente inquietante. Così non vi è altro fiume che, al pari del Nilo, riesca a essere grande, largo, ma a farsi contenere nello sguardo con le proporzioni delle cose umane. Poiché serpeggia, però grandiosamente, non lo si vede mai lungo e diritto come un canale, ma d’ogni parte come ramo di lago: così il cielo non si unisce mai a esso. Il sole non vi tramonta, né vi nasce la luna, la notte, le stelle. Come queste brillano, il grande corpo è nero, lascivo, nudo. Come sorge la luna, un crespo tremulo lo copre, tutto scintille: la sua nudità giace al fondo, immersa come uno squalo.
Dove passa e perché passa, la terra esplode, lancia al cielo come fuochi di artificio le palme che s’aprono e con le lunghe rame ricadono, ma non si spengono come i bengala nella notte. Più simili a erbe gigantesche che ad alberi sono le palme, come una messe che non matura in una volta sola, ma ogni anno si rinnova nella virile e femminea turgescenza delle nappe dei datteri, gialli, rossi, marroni: mammelle gonfie, non frutti, mammelle della terra.
La bellezza d’Alessandria, l’unica bellezza, è proprio questa, delle palme. E io le rimpiango già, seguendo la strada del deserto, che si era presa invece di quella del Delta. Una laguna piena di canneti verdi, barche leggere come di carta: la salina con acque cianotiche come il cielo di Parigi, la notte.
E poi subito un deserto liscio, di sabbia trapunta di piccoli cespugli di un verde spento. La strada è come di nafta, liquida sembra fra le rive aridissime: non un cammello, non una persona, ma solo i piloni con un gran fascio di fili, e, a intervalli, bidoni vecchi con una striscia bianca, un po’ oltre i bordi della strada. Sono per la notte, per non uscire di carreggiata. La strada va diritta, ma non corre a perdita d’occhio: basta un leggero risalto del terreno per toglierla di vista.
Sola presenza, di tanto in tanto, i cartelloni altissimi della pubblicità. Prima di avvicinarcisi, da lontano, sembrano ora una casa ora una costruzione: quando a un tratto, nell’accelerazione della velocità dell’automobile, si rivelano, la loro volgarità urta ancor più che nelle nostre strade. Il deserto è qualcosa di incondito, è, resta, anteriore all’esistenza: la strada, come primo rudimento architettonico, lo distrugge come deserto, ma lo addebita come spazio abitato, lo predetermina all’architettura.
La strada, infatti, possiede, dell’architettura, i requisiti primari della spazialità: la strada non ha affatto una sola dimensione, ma è veramente spazio-che-si-penetra, lo spazio stesso che si rende praticabile: è esterna e interna a se stessa, contemporaneamente. Il cono ottico che, proiettata e rettilinea all’orizzonte, viene a determinare, non si limita a istituire una direttrice prospettica, ma si pone istantaneamente come coordinatore dello spazio circostante.
In questo senso, seppure la strada neutralizzi il deserto, ne opera la prima redenzione, la prima assimilazione all’uomo, con questo coordinamento primario. L’inserzione dell’affisso pubblicitario lo abolisce invece come prima espressione architettonica, costringendolo a divenire il luogo stesso, lo spazio vissuto, dell’esperienza quotidiana, in cui l’architettura è puramente utensile, e da cui esula la forma, che rappresenta, con la contemplazione a cui induce, un rallentamento, un ostacolo improduttivo. Ecco perché la pubblicità è ancora più insopportabile nel deserto che in un paesaggio già assoggettato dall’uomo e dunque ormai nella sua sfera pratica, esistenziale.
Intanto era sceso il crepuscolo e col crepuscolo i toni del cielo e della sabbia divennero d’una soavità ineffabile, quasi subito spenta nella caduta repentina della notte.
La strada sembrò allora che corresse fra due campi di neve: il colore notturno della sabbia, che è come di neve sporca o fangosa, non riesce a neutralizzare il richiamo, proprio per quel senso di soffice che la sabbia, al pari della neve, suggerisce. Soffice, opaca, la neve nella notte, soffice, opaca, la sabbia.
Ora la strada nera è come un cinghione di cuoio, e trascina la macchina: è la macchina che sta ferma, portata dal nastro della strada come in una catena di montaggio. Il sorpasso di un’altra macchina distrugge l’illusione, ma, passata quella, si riforma subito.
Quando si accentuano le gibbosità delle dune siamo vicini al Cairo. Arriveremo al Cairo dalla parte delle piramidi: se ci fosse la luna, vedrei per la prima volta le piramidi e al lume di luna. Ma la luna non c’è o ci sarà più tardi: il cielo è scuro e l’avrei pensato più luminoso qua in Egitto, senza vapori, con le stelle a nudo.
L’arrivo al Cairo è l’arrivo a una città che sorge in fretta, s’espande in fretta, con un’edilizia sconnessa. Il deserto è senza età, il Cairo, fin dai sobborghi nuovi, è il presente che passa, e subito è come una cosa usata, sudicia, in cui la traccia della vita non riesce a divenire storia, ma è usura, sporcizia: decade senza riuscire a invecchiare.
Dalla enorme autostrada si arriva di colpo, in macchina, alla base della piramide di Cheops, la maggiore. C’è un’altra automobile ferma. I fari non riescono ad arrivare alla parete che non è liscia e dritta, ma adagiata. Si innalza sfuggendo, appena si stacca dal cielo. È muta più di una montagna: non è inerte, è muta perché si ritrae a vista, si chiude nella sua forma pura. La qualità della sua “presenza” è che non avanza, arretra. E quantunque se ne veda un lato solo, non è vuota superficie, ma si pone impenetrabile, asserendosi come volume che occupa spazio ed è soprattutto spessore. Non poteva esserci una porta, nelle piramidi: ancor più che per i ladri, doveva essere dissimulata, perché restasse se stessa, la piramide, un blocco intero, un cristallo.
Nel buio, e quasi fantomatica, senza netti contorni, restava un elemento primordiale, intimava distanza. E c’erano le automobili, il presuntuoso villino di Faruk a due passi, poco più sotto il Mena Hôtel.
Un incontro che prima disorienta, poi avvilisce.
Quella sera stessa servizievoli amici mi portarono al Mokàttan. Avevo una confusione in testa; non riuscivo a prender contatto con la città. Il Nilo che si passa e ripassa, e qua è largo, qui è stretto, i grattacieli, le strade né antiche né nuove, la folla, ma, a parte pochi camicioni arabi, una folla qualunque di una città qualunque, in cui le costruzioni recenti appaiono come mostruosi neoplasmi, tumori. Per rimediarvi, di fronte al mio scarso entusiasmo, un’iniezione di minareti, la cittadella, e la vista dall’alto, da quella specie di nudo calvario, prima covo di malavita, ora illuminato, riscattato, sorvegliato da guardie bianche, e col casinò in vetta. Di lassù si vede uno sciame di lucciole, ed è tutto.
Gli amici distinguevano questo e quest’altro, vedevano perfino il Nilo: per me non erano che luci, anzi fori luminosi, una parodia del cielo.
La mattina, quando mi alzai e apersi la finestra, il giardino pubblico con gli alberi, il Teatro dell’Opera, in sé non erano gran cosa: ma sopra a quegli alberi, sopra all’Opera, il cielo volava. Una luce che insieme aveva lo sfavillio di Roma, i dardi cristallini di Cagliari, la mitezza lunare di Pisa: una stagione che non si sapeva cosa fosse, se estate, se autunno, se primavera. E la luce era fresca, come venisse da una sorgente diversa da quella che dava il calore, e dunque, luce, vento, calore, ognuno arrivasse per suo conto. Di botto mi sentii in una città che avrei conosciuto: non mi sarebbe passata accanto come un treno in partenza. A onta del suo modernismo incontinente e sguaiato, stava entro uno scrigno di cristallo come la barca dentro la bottiglia. Fu così che mi trovai pronto, radicalmente mutato dalla sera prima.
Si doveva andare a Saqqara, passate le visite di obbligo che sono il pedaggio fastidioso di questi viaggi.
Saqqara non è che la necropoli dell’antica Memphis, le città egiziane essendo sopravvissute solo nelle tombe e nei templi. I palazzi, le case borghesi come i villaggi operai, erano in mattoni crudi: le piene del Nilo li hanno disfatti. Ma la vita d’oltretomba, e dunque le divinità e i resti mortali, in nessun luogo, come in Egitto, ebbero dimore tanto massicce e durature. L’interesse che offre Saqqara è ancora più accentuato, per il fatto che l’immensa necropoli appartiene al Regno Antico, e, in quell’ambito, fa assistere al subitaneo insorgere di una civiltà che è subito quasi perfetta, in poco si perfeziona del tutto, e di lì durerà per millenni. Ossia, dopo la prima straordinaria impennata, si stabilirà come in un moto rettilineo uniforme. Di qui a configurare la civiltà egiziana come mossa da una sorta di predestinazione formale, alla guisa di quella che ha retto, nelle successive fasi della evoluzione, le varie razze animali fino all’estinzione o alla conformazione odierna, può non sentirsi che un passo. E nulla potrebbe convalidare meglio questa ipotesi che la genesi della piramide, come si vedrà. La convaliderebbero ancora certi fatti sorprendenti non solo della storia dell’arte, ma anche della storia della tecnica, delle scienze, per cui a un certo punto si assiste come a un inspiegabile arresto nell’inventiva e nel ragionamento: incapacità alla sintesi, incapacità alla astrazione, incapacità alla deduzione razionale. Arresto e incapacità che tanto più vien fatto di assimilare ai limiti invalicabili di un istinto o a una misteriosa e prestabilita linea evolutiva. È incomprensibile, sulle basi offerte dall’intelletto, che si inventi la ruota ma non la si applichi come veicolo: è incomprensibile che per millenni, e pur con lo stimolo aguzzato dal gusto del colossale e degli immani blocchi da muovere, la meccanica non facesse un passo più in su del piano inclinato e della treggia, poiché i rulli, checché ne dicano i fanatici, non si trovano mai rappresentati né comunque sicuramente documentati. Ancor più incomprensibile è che la matematica non progredisse per la mancanza di un simbolo per ogni numero, dove proprio tutto si esprimeva per simboli. Ecco allora nascere l’immagine di una civiltà predestinata che la mente egiziana applicava più che creasse, nel limite di un ne varietur. Naturalmente questo modo di raffigurare la civiltà egiziana è falso, approfondendolo si dissolve: ma valeva prospettarlo, perché è il primo e spontaneo modo di configurarsela nelle sue contraddizioni interne come nella sua fissità.
Si prenda appunto, e ne è paradigma, la genesi della piramide. Tutti sanno che ne esistono di varie forme, e particolarmente a gradini, a romboide e finalmente a prisma regolare. In questo caso verrebbe spontaneo di pensare che la configurazione più semplice, quella a prisma, fosse la più antica e che le altre rappresentino la degenerazione di un’intuizione purissima. Sembrerebbe confortare questa tesi il fatto che si possa perfino invocare, un po’ ovunque nel territorio egiziano, la presenza di piramidi naturali, dalla cui regolarizzazione la mente egiziana poté ascendere facilmente al puro prisma. Soccorre allora una ceramica predinastica, detta di Nagada I, e ora nel Museo di Mosca, in cui è raffigurato un cacciatore con l’arco e con i cani a guinzaglio che cammina fra le colline: e le colline sono raffigurate come piramidi aguzze, quasi a punta di diamante.
Ebbene è vero proprio il rovescio. Dalla visione delle quasi piramidi naturali, quando comincia il lavorio culturale dell’Egitto storico, non discese piramide alcuna. La piramide fu una graduale conquista, e solo dopo che si arrivò alle piramidi di Snefru, anche le colline saranno apparse piramidi. Perciò appare chiaro che gli egiziani non edificarono le piramidi come un uccello fa il nido o le api l’alveare, ma che dovettero conquistarsi la forma pur quasi elementare della piramide, procedendo a tentoni, provando e riprovando, perfino per quanto riguarda le proporzioni, se è vero che, alle ricerche sistematiche, nessuna delle grandi piramidi né la prima di Giosèr né quelle di Cheops e di Kephren risultarono impiantate alla prima con le proporzioni definitive: ciò che non si dovette solo alla volontà di potenza, di sempre maggiore potenza, dei rispettivi faraoni. Ma proprio la volontà di potenza non si riteneva soddisfatta, in quanto che la piramide, dovendo elevarsi da un sito spoglio, dal deserto non qualificato e dilagante in dimensioni indefinite, a queste doveva imporsi, la piramide, e non risultarvi sperduta. Pertanto io cominciavo ad accorgermi che le dimensioni delle piramidi non sono un semplice dato quantitativo, ma determinano la qualità stessa del monumento. E in una tale trasformazione del dato empirico in attributo formale è già la genesi creativa d’un monumento, come la piramide, che, in quanto solido geometrico, non sembra richiedere un particolare processo creativo né, tanto meno, potere aspirare alla forma pura, proprio e in quanto limitato alla nuda conformazione di prisma.
Così andavo meditando, di fronte alla piramide a gradini di Giosèr, che, con le sue grandissime proporzioni, ancorché sbrecciata e in parte rovinosa, s’imponeva al deserto, lo impugnava, per così dire, per le briglie.
Imhotep si chiamava l’architetto che la costruì: prima costruzione in pietra, primo colossale monumento della storia egiziana. Imhotep è storico, ancorché in seguito divinizzato, e certo non fu un caso se il suo nome è fra i pochi nomi di artisti egiziani tramandati fino a noi. Imhotep, apparentemente, non fece che sovrapporre sei mastabe, ed ecco la piramide.
Mastabe si chiamano, con un nome arabo che significa banco, quelle prime costruzioni funebri che altro non erano se non un tumulo squadrato e regolarizzato, con una superficie piana e le pareti a scivolo in mattoni crudi. Poiché in Egitto non pioveva quasi mai, non era necessaria la forma conica del tumulo, e la stessa pendenza delle pareti, che fa assomigliare la mastaba a una piramide tronca, dové essere un relitto delle pendenze del tumulo primitivo, prima ancora di salire a valenza formale. Pure, da questa origine, mantenne la piramide un carattere strutturale indelebile: quello di essere una forma piena, un solido. La piramide è un solido che non si penetra, così come la mastaba primitiva non aveva che una specie di edicola sul davanti e per il resto era piena, soda. Poi l’edicola si articolò, penetrò, vuotò l’interno. Ciò non toglie che, di fuori, la mastaba restò senza aperture, né solo per evitare i ladri. Per essenza la mastaba era un solido, un corpo sodo, senza interno: per essenza la piramide era un solido senza interno. Cosicché, quando già la mastaba si era tutta pressoché vuotata e articolata in diversi vani, la piramide tornò a essere piena, con solo una piccola cella per il deposito funebre: cella, che, ove non sia scavata nella pietra, al di sotto della piramide, anche nell’interno di questa sembra scavata più che architettata, tanto è incongrua alla forma del solido, e ivi si affonda come nella roccia viva.
Così, a cominciare con la piramide primogenita, questa di Giosèr, non vi è cella che sotterranea: è proprio e solo come un enorme terrapieno a ripiani. Ma quel che rende ancora più prezioso il monumento, è il fatto di essere circondato dal témenos, seppure assai restaurato e rialzato con le pietre cadute. Ora proprio la possibilità di vedere la piramide nell’area prevista e nei limiti preconcetti, ancora più convince che il suo riporto era all’orizzonte del deserto e non nella specie di steccato che il témenos veniva a precisare all’intorno. Al centro di questo, la piramide, è un ingombro ingiustificato, opprime, non grandeggia: oltre al fatto che più si vede dappresso – ma questa è cosa contingente – più il suo sgretolamento s’avvicina alla maceria pura e semplice. Sui gradini risiede in permanenza un capezzale di sabbia, né vale levarla né vale al vento spazzarla via, perché per quella che leva altra ne riporta. Di nuovo, anche che fosse giorno, veniva da pensare alla neve.
Il cielo era tenue: nessuna gara di intensità fra sabbia e cielo, mi ritornava il ricordo di Palmira, per quella sabbia che anneriva rispetto al calcare chiarissimo, ma il contrasto risultava assai più dolce. Era un paesaggio in secondo piano, ancorché invece stesse alla ribalta. Ampie nuvole viaggiavano in cielo, ma non così bianche, seppure soffici. Le loro ombre formano stupende maculature sulla sabbia: cadono come una pioggia fine, si ha l’idea di ritrovarle, passata la nuvola, come se la sabbia fosse annaffiata, o come l’impronta molle lasciata da un gran corpo appena uscito dal mare. Non sono le ombre potenti e corrusche, che cadono sulle montagne scabre della Sicilia.
Ma la piramide di Giosèr riserva una sorpresa. A settentrione, ai piedi del monumento, c’è una piccola cappella, un casotto si direbbe; se vogliamo incrudelire, può addirittura parere o un luogo di decenza o una cabina di trasformazione. Ma nella parete di fronte ci sono due buchi che sembrano fatti per guardarci contro con tutti e due gli occhi e invece sono troppo distanti. Uno si avvicina e che vede? Il morto. Naturalmente è una statua, ed era anzi il calco di questo primo, prezioso incunabulo della grande statuaria funebre. Incunabulo fin che si vuole, ma c’è già tutta la statuaria futura, e non solo per la posa ieratica, la testa ornata del menés, ma proprio nell’imposto plastico, con la sua struttura per facce come un solido geometrico. Me la sono guardata tanto, in seguito, al Museo del Cairo. Ma certo lì, seduta in quella specie di gabinetto ai piedi della piramide, fa un curioso effetto. E poi quel senso sgradevole e lubrico di guardare dentro come per il buco della chiave, o come nei bordelli di Costantinopoli, che ci hanno uno spioncino del genere, e uno, prima di entrare, guarda e sa quello che trova. Qui c’è un faraone seduto e che, con quell’espediente, doveva parere quasi vivo: comunicare come lo shock della presenza diretta. Così anche in questo ingenuo trucco, si ritrova il doppio binario che rimase caratteristico della civiltà egiziana. Da un lato una severa riproduzione geometrica della conformazione, una tenuta stilistica senza indugi o sbavature, che stacca nettamente l’immagine dal suo prototipo naturale: dall’altro invece l’intento di costituire la rappresentazione come specifico “doppione” del naturale; forma perenne offerta al Ka del defunto per tornare in vita, donde la necessità della somiglianza. Ma la stessa somiglianza era poi simbolica perché, fosse pure morto a novant’anni – è il caso di Ramsete II che ne aveva novantadue –, la raffigurazione sarà arrestata sempre sull’orlo dell’adolescenza ancor più che della giovinezza. Occorrerà arrivare all’epoca saitica per accorgersi che anche in Egitto la gente invecchiava.
Così ecco Giosèr, col suo naso smangiato come dal lupus, con le grandi orecchie scimmiesche, ma, anche in questo stato, giovane, le gambe forti come colonne allenate dalle sabbie del deserto.
Pure la grande emozione di Saqqara è nella visione complessiva dei due gruppi più grandiosi di piramidi: alla sinistra di questa di Giosèr, s’apre la serie di Dahsciur, con la piramide romboidale e quella, alta quasi cento metri, di Snefru, dall’altra, sul filo di un orizzonte lontanissimo, le tre piramidi famose di Gisa. Ed è stato allora che ho avuto la rivelazione definitiva di ciò che è una piramide.
Trasparenti e diafane da lontano, quasi soltanto si rivelano nella faccia in ombra, un’ombra che è piuttosto un’impronta nel cielo: e anche una vela inclinata, piena di vento, sull’orlo del deserto.
A quella distanza, e sul punto di sciogliersi nel celeste pallido dell’orizzonte, quale imminenza ancora posseggono, come troneggiano: che senso nuovo, una volta scoperte al limite di una dissolvenza, davano a tutto quell’ondulare informe del deserto. Dopo averle centrate, era come quando, di giorno, si scorge la luna in cielo, sul punto di svanire, eppure nitida, pallida ma non sfocata. Ecco le proporzioni che divenivano realtà formale. Non già i grattacieli, ma le piramidi si pongono con la stessa forza incrollabile della natura: sono le montagne che può fare l’uomo. In questo assimilarsi alla natura, ma soggiogandola, rimanendo indelebile opera umana, la piramide è il massimo raggiungimento egiziano; da cui quella civiltà, né solo per l’enorme costo, lentamente recedé. Anche per una civiltà iterativa, come l’egiziana, era impossibile prescindere dalla onnipresenza delle piramidi di Gisa; e l’inutilità di ripetizioni sempre più piccole e meno costose dové finire per imporsi. D’altronde non avevan servito neanche quelle immense di Gisa, ad arrestare i ladri dei morti. Meglio andare a nascondere le mummie nelle viscere della terra. Così quando col Nuovo Regno si ha la vigorosa riassunzione delle glorie artistiche dell’Antico, in presa diretta assai più che come rinascimento, la piramide resterà la sola a non rivivere. La capitale tebana vedrà gli enormi piloni dei templi elevarsi come una fortezza dalla marea del verde.
Era con noi un egittologo egiziano, giusto specializzato nel Regno Antico, e a lui posi la domanda che mi bruciava. “Ma insomma, che rapporto c’è fra la piramide a gradini e lo ziggurat sumeriano?” “Nessun rapporto” mi rispose. Lo sapevo, che quella sarebbe stata la risposta. E non è una risposta. Per conto mio non crederò mai che due espressioni così similari e quasi coeve siano fra loro indipendenti. Ma, si dirà, troppe cose conoscevano già i sumeri, che gli egiziani non conobbero, o solo molto più tardi, a cominciare dal carro a ruote, che in Egitto lo introdussero solo gli hyksos, con il premio di quella lunga conquista del Delta. Se questo tipo di ragionamento proprio non andasse con gli egiziani.
Precursori nell’età della pietra, segnarono il passo in quella del bronzo e in quella del ferro. Così, quando il bronzo già veniva usato in tutto il bacino del Mediterraneo, fra popoli sicuramente meno progrediti, gli egiziani continuarono a servirsi del rame, e col rame martellato, sembra incredibile, indurito sul macigno, riuscivano a foggiare gli scalpelli per estrarre il sidereo granito, la diorite inviolabile. Eppure non era un popolo chiuso nella valle del Nilo. Fra le scarse notizie che si sanno sul Regno Antico c’è questa, ad esempio, incisa nella Pietra di Palermo, per cui Snefru, all’inizio della IV dinastia, mandò una flotta di quaranta navi nel Libano per riportarne legname di cedro. Il reperimento della grande nave solare di Cheops, ha fatto vedere a che servisse. Ma come andavano a procurarsi il legno, potevano anche incettare altri metalli, non soltanto il rame del Sinai o l’oro della Nubia. Invece per molto tempo l’argento restò più prezioso dell’oro, e ancora è ignoto donde venisse quel po’ di stagno usato nei rari oggetti di bronzo. Per non dire che il ferro rimase sempre di uso così sporadico e lussuoso, che, nell’immenso corredo funebre di Tutankhamon, non si è trovato, di ferro, che un solo coltello.
Tutto ciò può parere inspiegabile, se perfino in epoca preistorica si incontrano ambre del Baltico o ossidiane di Stromboli nei luoghi più lontani e inattesi del Mediterraneo, e mentre l’esportazione di manufatti egiziani dovette essere intensa in tutto il mondo antico. Ma proprio per questo, dalle persistenti deficienze di speciali materie, come di usanze e tecniche più arcaiche, non si può inferire che gli egiziani non fossero in rapporto con le civiltà del bacino mesopotamico, e già fin dal periodo più antico.
Per l’architettura, ancor più della piramide a gradini che, per via della soprammissione delle mastabe, potrebbe (ma non ci credo) essere nata senza rapporto con lo ziggurat, è il tipo di paramento esterno a rientranze che offre un’analogia inspiegabile, dato che non è affatto una caratteristica deducibile dal genere di materiale, i mattoni crudi, impiegato qui come là. La colonna può essere nata senza rapporti reciproci in civiltà distanziate e dissimili, ma il paramento a rientranze rettangolari si vede solo fra i sumeri e gli egiziani. Dalle ricostruzioni che si sono tentate degli ziggurat può persino risalirsi a certi straordinari complessi egiziani, come i templi di Deir el Bahari. Ma di questo passo, si dirà, si arriva anche all’America precolombiana. Può darsi che in futuro non sembri un’idea così sballata.
Mentre rimuginavo questa e altre cose, si visitavano intanto una mastaba dietro l’altra. Se a tutte è da anteporre la tomba di Ti, per la finezza dei rilievi, non minore interesse destano quelle con le parti incompiute, sia che restassero solo disegnate o che si fossero incominciate a incidere e a liberare dal fondo. Si sa che le rappresentazioni si sovrappongono a registri come i righi della carta da musica, e c’è di tutto, ma in genere scene agricole, di impiego quotidiano, caste. Poi ci sono le offerte simboliche, di robe da mangiare, che riempiono pareti e pareti. La narrativa di queste scene è a dir vero molto ridotta: sono sequenze, litanie, enunciati. Anche qui c’è la sua ragione, ed è la ragione che sta alla base dell’arresto che subì la vita artistica e intellettuale egiziana: l’indeterminazione fra scrittura e rappresentazione. Ma il discorso si farebbe troppo lungo. Dicevo, allora, che le parti solo disegnate, di questi rilievi, hanno spesso maggiore interesse di quando sono finite. È stupefacente, in quelle, la sicurezza della delineazione, quasi eseguita con un pennino di acciaio: senza pentimenti, senza incertezze, le figure vivono entro un filo d’inchiostro sottile come un capello. Ma accanto a una tale sicurezza che abbaglia, si vede come questa sicurezza dovesse nascere più che dallo studio, da una ripetizione estenuante fino a divenire meccanica, un rictus della mano. Non solo ogni figura è tipica, ma perfino ogni più piccolo particolare è tipico, le mani, i piedi, gli occhi, le unghie, le ciglia: tutto è nomenclatura prima che disegno, tutto è geroglifico anche se vuole offrire un discorso diretto a figure invece che a parole. Una volta coniato il particolare, come un vocabolo, il particolare resta sempre quello, fisso come un sigillo.
Dopo questa prima delineazione, veniva a passare un’altra squadra che levava tutto intorno al disegno uno strato di calcare alto mezzo centimetro, e, una volta portato a questo punto, si ripassava stondando i margini e segnando i particolari interni. Qui allora la qualità artigianale del lavoro prendeva decisamente il sopravvento: la meccanicità dell’esecuzione, l’indifferenza, direi di più, non è abrogata dalla precisione e dalla minuzia. Questi procedimenti esecutivi, così precocemente “taylorizzati”, assicuravano lo standard, permettevano un’altissima media ma non l’eccezione; ed è l’eccezione che fa l’opera d’arte. Così quando nelle pareti della mastaba di Ti si assiste a tante faccende della vita giornaliera, passata la prima riconoscenza per tante informazioni di prima mano così esaurienti e minute, date con impeccabile urbanità di disegno, viene da pensare, dispiace dirlo, più al fumetto che al bassorilievo: i più antichi e organici fumetti del mondo.
Anche la tomba di Ti, che era un alto funzionario della fine della V dinastia, e aveva sposato una principessa, ha la sua sorpresa. In quel piccolo ripostiglio o recesso che viene chiamato serdab, in fondo al sacello, c’è la statua stante di Ti: si vede da una feritoia, e, al solito, sembra più che una statua, un fantasma solido, una persona fatta pietra. Seppure quella che si vede è un calco e l’originale si trova al Museo del Cairo. Certo, una statua notevole, ma un po’ artritica, come è della grande statuaria egiziana quando, sebbene eccellente, non sia eccezionale.
La visita finì in modo inopinato, perché, in quel deserto di tombe nascoste nella sabbia, non si pensava una casa per i vivi: e invece c’era, la casa dell’architetto. Sul ciglio del deserto, sul gebel a strapiombo: affacciata sul verde, come sul mare.
Dietro, il deserto senza mezzi termini, come una riserva inesauribile di fame, di sete, di morte: sotto, la piana verde, coi ciuffi delle palme, i canaletti, il fiume riposato, ancora più supino che disteso, e poi il verde dell’altra riva, e subito dopo, come un bastione, il gebel dell’altro deserto, quello arabico. Un bastione velato di azzurro e di malva, come d’estate a Napoli e nei Campi flegrei.
Questo affaccio che avveniva di sorpresa, mi fece sentire con una evidenza perentoria, che veramente il mito del Paradiso terrestre poteva essere nato solo nel deserto da chi è nato nel deserto. E poi, progredendo in tempi più storici, trasformarsi in quello della Terra promessa. Così io la vedevo dall’alto, stesa sotto di me, veramente promessa, offerta, desiderata. E così umana, intrisa di lavoro, di sudore, di sangue di schiavi; ieri come oggi. Eppure accogliente e serena, al punto che nulla ho mai desiderato tanto che abitare in quella casa, che si tiene alle spalle il deserto e davanti la primavera, il deserto come la morte che si lascia dietro di noi, la primavera come la vita che s’incontra. Ed è il contrario come si sa: ma io sentivo una promessa infinita, una speranza esaudita che continua a essere speranza, e al di là dell’esaudimento rinasce da se stessa come la fenice. Mi pareva anche che non in me solo ma in tutti si riflettesse la serenità spensierata di quel paesaggio illuminato, corridoio di vita fra due pareti di sabbia e di morte.
Bambini giocavano vicino alla casa dell’architetto, salutavano e ridevano: luccichio di denti fra la pelle nera, come si sgusciassero dei legumi: i denti, fra le labbra aperte, come pisellini nel baccello.
Fu allora che assaggiai la canna da zucchero. L’architetto se l’era fatta portare: grossa, nodosa, ma senza che i nodi sporgano. Fra nodo e nodo c’è come una focatura, però lilla, e d’un lilla rigato di verde, simile a quello del collarino degli asparagi. L’architetto tagliò la canna a metà d’un rocchio, e fino al nodo ne tolse torno torno la buccia: restò come un rocchetto di filo. Poi me l’offre pulitamente tagliandolo alla base, così che lo prenda senza che lui l’abbia a toccare. Lo metto in bocca: è carico di sugo come una spugna: se non sto attento, mi esce dagli angoli della bocca. È un sapore nuovo, appena dolciastro, e fresco, e intriso di fibre che seguitano a gemere umore più si masticano.
Che cosa manca a questo sapore, che, senza deludermi, non m’incanta? Non è un sapore della mia infanzia, mentre è un sapore d’infanzia, come le more, le gazzarole, le albatrelle, che dopo, da grandi, si rimangiano per quel che ci si trovava da bambini.
La canna da zucchero, avrei dovuto averla succhiata, e magari colta di nascosto mezza verde, che sapesse ancora di più d’erba, come le mandorle acerbe, che si mangiano col mallo e si chiamano càtere. Da bambino, dovevo incontrarla, che mettevo tutto in bocca, e di tutte le erbe della mia campagna, da allora, conosco il sapore.
Era invece un sapore che arrivava troppo tardi, non mi c’entrava il gusto: come a infilarsi in un vestito sfuggito.
Si finì con il tè alla menta: un’altra di quelle cose che, fra gli arabi, non si può rifiutare: e farà pure bene, non dico di no.
Si scese dal gebel, si entrò nel Paradiso terrestre. Ma se si toglie le colture come il granturco, i pomodori, i poponi, il ricino, per quel che era delle altre piante, degli alberi soprattutto, non conoscevo nulla. In Egitto, tutto è diverso: ti pare un pioppo, e invece ti accorgi che è un ficus; ti pare una tamerice e invece è un gazuarino: qualcosa di simile, ma assai più peloso e pendulo. Chiedevo dei sicomori: nessuno me li sapeva insegnare.
Avere lasciato il deserto senza una stilla, trovarsi di colpo non già in un’oasi, ma in un terreno che rigurgita d’acqua come una risaia, è un salto di continente, fu un salto di stagione. Ibis bianchi si vedono con le zampe di fil di ferro, in solchi bagnati: piccioni calano a stormi come nelle nostre piazze, e qui molto più a proposito. C’è una tenerezza agreste che sembra quasi dormiveglia, incantesimo.
Allora su questo verde di alberi dalle foglie lucide e capillari come le felci, si levano le piramidi di Gisa. La loro presenza è vicina e lontana: possono stare all’orizzonte senza rimpiccolirsi, e salgono al cielo, non con pareti impervie, ma con quelle facce adagiate che fanno scivolare la luce come se ci scorresse sopra un liquido, un velo. Il cielo non si lacera su di esse, come sui picchi delle montagne, l’ombra non è mai tale che le sottragga da un lato, come nelle sue fasi la luna: ma sempre un lume misto d’ombra, come tessuti nello stesso telaio.
Né la Sfinge, grosso cane da guardia, differisce sostanzialmente: non già perché le piramidi siano in qualche modo antropomorfiche, ma perché, al limite estremo dell’architettura e della geometria, sono scultura.
Partimmo per Luqsor, con un vagone-letto fragoroso e col dispiacere di non poter vedere nulla di quel che sarebbe passato tramezzo al Cairo e l’antica Tebe.
Ma la mattina presto, quando mi svegliai e tirai su la tendina, la campagna allagata si stendeva di qua e di là dalla ferrovia. Tante campagne ho visto sotto la piena, e tutte denunziano l’indesiderabilità di quello stato di cose: le piante, non meno delle case, stanno dentro l’acqua in una posa scomoda, si tirano su come ne avessero ribrezzo. Invece la campagna allagata dal Nilo rideva di felicità: le capanne di mattoni crudi si trovavano tutte a un’altezza giusta per essere appena lambite dallo stagno limaccioso, e delle palme avanzava ancora tanto gambo al di sopra dell’acqua. Perfino le acacie, fonte di giallo e similissime a mimose, si richiudevano sullo specchio immobile come fanno i gatti quando si arrotolano: l’acqua era l’ospite gradita, attesa. I neri fellah che vi sguazzavano, quasi nudi, con uno straccio alla vita e uno straccio attorcigliato in testa, si trovavano nel loro elemento, il fango neppure tingendo una pelle così scura.
Alla laguna forse, più che a una piena, faceva pensare quella campagna: anche per il colore, che seppure non è verdastro come quello della laguna veneta, resta un celeste avaro che l’acqua del Nilo, qui addirittura marroncina come una cioccolata al latte, stenta a derivare dal cielo. Ma dove la laguna comunica un languore malinconico su cui si scivola come scivola la gondola, qui lo specchio d’acqua era come corso da un senso di festa, col sole che sciabolava e un vento fresco che non si sapeva da che parte venisse, quasi il sole, dall’alto, rimestasse con invisibili pale l’aria accesa, l’acqua che, dove rifletteva la luce, la rifletteva come bruciasse. Guardando allora dall’altra parte di quel lago in fiamme, ecco la tersa immagine, dove ogni albero, ogni palma, quetamente si rifletteva raddoppiandosi. E io a tu per tu con quello spettacolo che era così poco spettacolo, scena vuota l’avresti detto, mi sentivo invece come se alla fine fossi riuscito in un disegno impossibile, in una impresa che sempre svanisce a metà strada. Mi sembrava di essere entrato in un miraggio, quando all’orlo del deserto improvvisamente si allaga il piano e quel che c’è, siano una fila di cammelli, o cespugli o macigni, appare riflesso, come alzato di livello: ed è visione calma e refrigerante quello stagno biancastro e più liquido dell’acqua vera. Chi allora non ha desiderato avvicinarsi all’improvviso stagno, né per sete, ma perché la sua apparizione subitanea sa di miracolo, di dono segreto, d’occasione unica e preferenziale. Chi non ha visto allora, continuando il cammino, sparire di colpo senza lasciar traccia quell’acqua benefica e burlona. Restano i cammelli, restano i cespugli, i macigni, e a malapena li riconosci, perché sono e non sono gli stessi: e sono intanto la metà di se stessi, dato che si vedevano raddoppiati. Ora in questo paese lacustre improvvisamente sorto nel deserto, io ero entrato, vi procedevo col treno, e come si dissolveva, restava quieto, liquido e luminoso.
Ero entrato nel miraggio, possedevo la fata Morgana.
Codesto doveva essere il miglior preludio a Luqsor, un luogo che per vantato che sia, riuscirà sempre a porsi un gradino più in su dell’attesa. Forse con nuove costruzioni, con grattacieli irriverenti e altre sconcezze moderne, riusciranno a neutralizzarne la bellezza, a farlo come vergognare di se stesso. Quante di queste infamie abbiamo già commesso in Italia. Ma io vedevo Luqsor ancora e soltanto con gli alberghi vittoriani o liberty, e questi, non che sian belli o abbiano comunque un tenore d’arte superiore ai grattacieli, anzi persino appaiono pomposi e scenografici, ma per pomposi e scenografici che siano, non si contrappongono all’ambiente in cui si inseriscono, con la violenza e il sopruso dell’architettura moderna prefabbricata; quella, cioè, che si trasferisce, anche se costruita sul posto, con le medesime caratteristiche da New York a Rio de Janeiro, da Milano alla riva campestre dell’Adriatico.
Dal terrazzino dell’albergo, che era d’un albergo, una volta, colmo nell’inverno di inglesi tagliuzzate di grinze e di cani in gualdrappe, io avevo davanti a me, sotto di me, un paesaggio semplice e immenso.
Il Nilo, fiume supremo, con quelle sue acque lutulente e qui veloci, cangianti quasi come nello stretto di Messina. La catena libica, dove sono le Valli dei Re e delle Regine, si riflette nell’acqua e vi si disfà come un volto: non è la montagna rossa del deserto, è rosa e giallognola, con ombre azzurre e tiepide, che scendono come sorgenti. Sul pelo dell’acqua il verde intenso del granturco in erba, che sembra dover tingere le dita a toccarlo, e, sopra, i ciuffi densi delle palme, che hanno il verde azzurrognolo e cinereo delle carciofaie. Grandi vele passano, su un fianco, velocissime: il vento soffia continuo e leggero, come entrasse da una sdrucitura nel cielo.
Sia detto senza scandalo che l’emozione del luogo dove sorge Luqsor, dove sorse Tebe, non aumenta per i templi famosi, troppo famosi, per le tombe celebrate fin dal tempo di Erodoto, e fin dal tempo di Erodoto violate. Non aumenta, codesta emozione, che per chi accetta nel colossale una ragione plausibile di ammirazione, e per chi prende per buona qualsiasi cosa viene dal passato: qui, poi, da un passato talmente passato da essere due volte esotico, oltre che passato.
Il discorso sull’architettura egiziana durerebbe a lungo, ma sempre si risolverebbe in una inchiesta sulla vera facies della civiltà egiziana: perché la civiltà egiziana non divenne ecumenica? Perché siamo ancora costretti a foggiare le nostre nuove parole dal greco, e non dall’egiziano? Perché questa civiltà, come già la lingua, morì in se stessa, senza riuscire a comunicare, germinare, espandersi, imporsi per la forza stessa della sua innegabile compiutezza, anche se confrontata alle civiltà coeve? Perché non riusciva a penetrare più di quel che non riuscisse a essere penetrata dalle civiltà che l’attorniavano? Al punto che, perfino quello che riuscì a dare, o regrediva subito a espressioni informi, se è vero che gli obelischi stanno all’origine dei menhir e non l’inverso, oppure entrava in circolazione, si disgelava al punto da non essere più riconoscibile, da potere essere revocata in dubbio, anche se riconosciuta? È il caso della scultura arcaica greca, a cui ancora tenacemente viene negata un’ascendenza egiziana, che per me è indubitabile come lo è per quella fenicia e cipriota. Ma anche l’inverso risultava impossibile. Che cosa avvenne con Alessandro e la penetrazione della civiltà greca? L’arte si contaminò ma resistette. Ancora Traiano edificherà in Egitto in stile egiziano, e l’Egitto sarà il solo paese dell’orbita romana che, se si eccettua Alessandria, città greca e quindi non predeterminata dallo stile faraonico, non assumerà aspetto, verrebbe fatto di dire, europeo, ossia greco, greco-romano, latino. Finché divenuta la roccaforte dell’Ellenismo, anche Alessandria cederà; cederà al Cristianesimo, all’arte bizantina, e in quel momento seppure i copti vedranno e valorizzeranno nel simbolo egiziano della vita, la Croce, e ancora si serviranno di qualche altro simbolo faraonico, la civiltà egiziana, che morta era, verrà seppellita per sempre.
La lingua, abbandonati i geroglifici, assunto l’alfabeto greco, con qualche aggiunta di ripiego, per i suoni non contemplati dal greco, diverrà il copto e decadrà a rango di dialetto o di lingua di minoranza, sparendo definitivamente alla metà del Cinquecento. Morirà dunque anch’essa, ma anchilosata, senza trascorrere in una specie di lingua romanza, in una specie di demotichí, come avveniva per il latino e per il greco. Morirà come moriva senza scuse la civiltà di quasi quattro millenni. E con la civiltà scomparivano, perfino dalla natura, quelle piante che la caratterizzarono per sempre, il loto e il papiro. Per rimettere il papiro, e un papiro stento, svogliatissimo, nella fontana davanti al Museo del Cairo, l’hanno dovuto far venire da Siracusa, dove, ma quello e soltanto quello, l’aveva portato dall’Egitto Dionigi il tiranno.
Che cosa dunque avanza nella nostra civiltà dell’Egitto antico? Gli obelischi, i flabelli di struzzo del Papa, e, una volta, la magia. Ben poca cosa, direi quasi nulla, se si pensa che ancora ci serviamo di invenzioni dell’età della pietra, e che giornalmente pensiamo con Platone e con Aristotele, anche se non ce n’accorgiamo.
Su questi temi non potevo fare a meno di rimuginare, girando nel tempio di Luqsor, fra le enormi culatte delle colonne, la cui inutilità è così palese, il cui ingombro è così ingiustificato, la cui forma, soprattutto, resta così tenacemente una conformazione che non sviluppa una sua propria spazialità, ma l’occupa come una chioccia che cova le uova.
Per la prima volta dovevo riconoscere alle spontanee reazioni del buon senso un’origine più profonda, una giustificazione in sede d’estetica, che generalmente non posseggono mai. Ma, se non ci si arresta al “cosa fatta capo ha”, è impossibile accettare come realtà formale, ad esempio, quel fitticchiaio di colonne e di colossi, come nella grande corte antistante all’ipostila. È impossibile individuare il “tema” trattato da questa architettura, in cui esterno e interno non stanno nel rapporto di dimensioni proprie dell’immagine architettonica, ma promiscuamente l’interno è esterno e l’esterno è interno, indifferentemente, come per un albero, una palma o un macigno. Fu allora che capii perché gli egiziani, forse primi e ultimi fra i popoli antichi, furono sensibili al paesaggio come luogo dove inserire le proprie costruzioni, come contenente che ha forma a sé o almeno definisce un determinato invaso d’aria e di luce.
Quel che mi piaceva era altra cosa dall’architettura: i raggi del sole come zagaglie che sembravano scheggiare la pietra arrostita, dolcemente cotta e ricotta e poi mielata. Entravano dai muri in rovina, non erano previsti, quei raggi. E portavano un calore secco nell’aria fresca e umidiccia, come una cauterizzazione, dove toccavano. Ma l’aria continuava a essere come la mattina presto in primavera, da noi, e l’erba era bagnata, e dove dai muri squarciati si vedeva il fiume, le palme, i monti, che rapina ci si sentiva dentro, che voglia subito di abbandonare le colonne bulbacee, i rilievi infinitamente ripetuti, e andare sul Nilo, prendere una feluca, lasciarsi portare lontano dai templi, lontano dalle civiltà morte, lontano, naturalmente, da se stessi: perché, ecco che tornava il senso della vacanza, la gita fuori porta, il primo giorno primaverile… Essere in Egitto, è davvero come marinare la scuola.
“In arabia,” disse Viviane “andremo a Karnak in arabia.” L’arabia non è che la botticella romana, la carrozza lemme lemme, che ti fa godere di tutto, dell’aria, del sole, dell’ombra, del paesaggio, delle chiacchiere, e con abbastanza scomodità di sedili per non farti prendere dalla sonnolenza.
Due sono le strade da Luqsor a Karnak, una lungo il fiume, ed è quella moderna, un’altra nell’entroterra, ed è quella antica, faraonica. Sono ugualmente belle e non si saprebbe quale scegliere. Certo, costeggiare il Nilo, un fiume così grande, colmo e a portata di mano, e vederlo da sotto gli alberi che sono come quelli dei passeggi di Messina o di Palermo, infonde una tale quieta delizia che si pensa subito sia quella la strada più bella: ma poi al ritorno si fa quell’altra, e la traversata delle palme, con quegli improvvisi spiazzi verdi, come a essere in alta Italia, s’avvera una bellissima passeggiata, e quando dalle palme si vede la cima dei piloni di un tempio o la punta di un obelisco, il nesso fra tali cose e le palme si palesa così stretto e naturale, quasi diresti allora che, in fondo, passeggiate lungo un fiume ce ne sono tante, mentre…
Ma non c’è bisogno di scegliere, dato che a Karnak non si può rimanere, a Luqsor si deve tornare, e allora è una bellezza che si possa cambiare strada.
Per l’andata si fece dunque la via lungo il fiume, che in fine ha una svolta a destra e conduce all’ingresso, naturalmente colossale, del tempio. È a questo ingresso che è rimasta la famosissima serie di arieti accovacciati, per lo più di tarda redazione, che della mania iterativa egiziana sono un esempio magniloquente scenografico e fastidioso. Naturalmente, poiché nulla in Egitto venne coltivato per solo ornamento, anche questi ingressi fiancheggiati di sfingi saranno dovuti a ragioni rituali, ma il rito e le cerimonie non avrebbero impedito un effettivo coordinamento architettonico, lo sottofondavano anzi, costituendolo nella funzionalità propria e indispensabile dell’architettura. Invece, quanto a collaborare o a collaudare la spazialità propria dei templi, neanche a pensarci. Il tempio egiziano – da quello del Regno Antico, caratterizzato dal tempio della Sfinge, a quello del Nuovo Regno come è Karnak – non ha esterno: aveva un recinto, molti recinti, altissime mura, e l’ingresso, al mezzo dei piloni, è veramente come la chiusa aperta in una diga. Insomma l’esterno di un tempio egiziano è quello di un recinto, di una muraglia: e che fosse questo, e apparisse questo anche in antico, è dimostrato dall’appellativo di Omero, proprio per Tebe, come Tebe dalle cento porte: le cento porte non erano della città, ma erano i piloni dei templi e gli ingressi del recinto sacro. L’impressione di entrare in una città invece che in un tempio, l’ebbero dunque anche gli antichi, quando i templi erano tuttora in piedi e non si avevano quelle brecce che possono ora indurre in errore.
Di fronte a questa alta muraglia, che è se non una cinta con cui materialmente si divide una porzione di spazio da un’altra, è vano invocare una speciale creazione di spazialità: la quale si pronuncia in un sol punto, nella fuga all’infinito che si apre dall’immensa porta del primo pilone: per centinaia e centinaia di metri, il cannocchiale procede fino a dove quasi si abolisce per convergenza prospettica.È uno spettacolo senza dubbio di alta qualità formale: senza dubbio quel grandiosissimo imposto, tagliato irregolarmente da zone in luce e zone in ombra, trasforma ed esalta lo spazio naturale allungandolo all’infinito. Ma a che serva far precedere questa fuga sorprendente, interiore fino al punto da costituire in interno anche le corti immense, non si riesce a capire, se non, giusto, per ragioni di puro rito che non si sono ingranate alla visione, la quale, se qui è prospettica, lo è solo in quanto realizzazione spaziale di un interno, ma non nel senso di convogliare su una direttrice prospettica tutto lo spazio circostante. Perciò la magniloquente serie degli arieti e, agli altri ingressi, delle sfingi di qua e di là dalle porte, resta pomposa ed esterna, e nonché preparare, soprattutto attenua la novità di quella straordinaria successione dell’ingresso principale, che si produce e si esalta all’interno. Per dare un esempio di altrettale errore, si prenda la doppia serie degli obelischi di Via della Conciliazione, che, senza preparare Piazza San Pietro, la correggono stoltamente con la sostituzione di una unica prospettiva dove la struttura dello spazio era biassiale.
L’emozione che provoca l’ingresso del primo pilone è certo un’emozione che si innesta sul riconoscimento di un imposto formale: duole che, appena dentro la prima corte, si dissolva. Non è che si voglia misurare questa architettura col metro greco o con quello del Rinascimento, ma qui subito si è in balia del colossale, e la prima delusione è la riconferma di quel che si era già visto a Luqsor: non vi è l’intuizione di un tema dell’interno come tema proprio di questa architettura. Siamo in uno spazio circondato da mura e da colonne, ma in cui i raccordi stessi fra le varie parti sono di una sensibilità stupefacente. È stupefacente che l’innesto del portico sulla parete a scivolo del pilone non abbia fatto avvertire la viziosità del nesso; praticamente non vi è soluzione: il pilone taglia malamente il portico, ecco tutto.
L’ipostila tanto celebrata, quando era tutta coperta e funzionava la regia delle luci, sicuramente coltivata nella penombra quel senso di incomoda sospensione, di insicurezza e di larvato terrore, che dà il sentirsi nelle viscere della terra, in un’enorme spelonca, con enormi stalattiti, o sopra terra, in una sterminata foresta. Anche i gotici sicuramente sfruttarono un presupposto analogo. Ma le spaventose proporzioni dell’ipostila danno solo orgasmo. Non si sa di dove guardarla. Se ci si contenta della direttrice principale l’assiepamento delle smisurate colonne attenua qualsiasi senso spaziale: se si tenta una visione di squincio, ancor più colpisce il senso di occupazione e non di creazione spaziale. Si pensi a un plotone di soldati fermi sull’attenti: è un blocco che abolisce fin la fisionomia degli uomini. Le colonne dell’ipostila sono un plotone di colonne che formano un blocco, in cui, fra colonna e colonna, ci si può insinuare come un gatto fra le gambe dei soldati: e tuttavia contano come blocco: si forma insomma quell’individuazione del volume come impenetrabilità che sta alla base della scultura e dell’architettura egiziana. L’ipostila è un blocco visto dall’interno, in cui è secondario entrare, mentre primario è il riempimento operato dalle colonne, sicché resti suggerito ancora come blocco impenetrabile: il pieno deve di gran lunga valere più del vuoto. Talché non vi è intuizione più felice, per l’arte egiziana, di quella sprizzata per spiegare l’inspiegabile cilindro che le statue virili stanti tengono nel pugno chiuso. Inspiegabile, bene inteso, perché l’egittologo si parte dal giusto concetto che tutto in Egitto antico ha un significato e una corrispondenza; pertanto, se quel cilindro fosse un oggetto, si dovrebbe sapere cos’è e averne ritrovato un esemplare almeno in qualcuna delle numerose tombe intatte che sono state scavate. Mentre non n’è mai venuto fuori alcuno. La spiegazione ingegnosa è dunque questa: che quel cilindro non rappresenti un cilindro, ma il vuoto interno del pugno: ossia il vuoto interno sarebbe rappresentato all’esterno col suo inverso, da concavo, convesso, e invece che vuoto, pieno. Anche se in seguito si dimostrasse che ciò non corrisponde a verità, l’intuizione resta, perché è l’intuizione del modo originale e originario con cui la civiltà egiziana ha posto, per le arti plastiche, il volume come un pieno, e ha cercato al massimo di trasformare anche il vuoto in qualcosa di assolutamente compatto come il pieno. Donde il senso del rilievo schiacciato, quando addirittura non è ricavato dal vivo dello spessore, non consiste tanto nell’intento di non alterare la superficie del muro – che, sia detto fra parentesi, superficie resta e non un piano – quanto per non creare addentellati fra il pieno della parete e il vuoto dell’ambiente, sicché il vuoto si commettesse al pieno, liscio e monolitico come il pieno.
Già immagino lo sdegno, lo scoramento o il sarcasmo che queste note sulla non-architettura egiziana mi procureranno. Non so che farci. Fu una civiltà contraddittoria, che non sempre eccelse dove credé maggiormente in se stessa. Non se ne nega la grandezza anche se se ne limita taluni risultati.
Che poi stare là dentro, a Karnak, in una peregrinazione che non ha mai fine, ti scuota come un terremoto, questo è indubbio. Alla fine della prima lunghissima visita tramontava il sole, e io quasi mi trascinai, ma più per lo stordimento che per la stanchezza, quasi mi trascinai sul fastigio del primo pilone, che è una piattaforma larga come una strada. E là mi sedetti, affranto, esaltato, ma convinto che, quella, architettura non era, e che dal tempio di Ammone al Partenone c’è più distanza che fra la terra e la luna. Costei c’era in effetti e in gran bellezza, come un sorriso appena dischiuso di una bocca giovanile, al primo quarto: fulgente, inclinava verso un tramonto velocissimo, giallo e rosso come un tuorlo gallato. Il tempio di lassù è ancora più sterminato, le palme fittissime ancor più simili a erbe gigantesche, a cardi sovrumani. Il Nilo restava un fiume ma di luce, come fatto di fibre di seta, sciolto come una chioma, fluente come se infinitamente al di sotto si accarezzasse.
Rimasi lassù finché potei: mi vennero a prendere con una lampadina.
Per andare alla Valle delle Regine, da Luqsor, bisogna traghettare il Nilo. L’ altra sponda era la sponda dei morti e contiene vestigia formidabili: non solo le tombe sotterranee dei re e delle regine, ma anche grandi templi, quali il tempio di Gurnah e il Ramesseum, diruto e accavallato quasi come un tempio di Selinunte, e, fra le due valli, a monte, i due templi di straordinario impianto di Deir el Bahari, che insistentemente mi fanno pensare alla disposizione scenografica, a terrazze digradanti, del tempio della Fortuna a Palestrina.
L’ingresso trionfale a questa immensa necropoli è dato dai due famosi colossi di Memnone, che rappresentano invece Amenophis III, e furono già fra le cose più celebri dei tempi antichi: ma soprattutto perché, l’uno dei due, essendo caduto in pezzi, da quei pezzi, enormi macigni giacenti, sprigionava all’alba il lamento che era d’obbligo udire per tutti i viaggiatori dell’antichità. Le iscrizioni greche e latine che s’infittiscono sulla parte inferiore dei colossi, attestano la realtà del fenomeno: “audi” oppure “audimus Memnonem”. Anche Adriano venne ad ascoltare questa voce di pietra, e un’iscrizione in greco lo esprime come farebbe un annunciatore della radio: la statua gli disse “buongiorno”. È curioso che il lamento non ci fosse stato sempre, ma avesse cominciato dopo il terremoto dell’anno 27, che fece crollare metà della statua di destra. Lo zelo di Settimio Severo rovinò tutto: ricollocati al loro posto, i macigni ammutolirono.
Non solo muti, ma quasi amorfi li vedevo ora io, tanto le spaccature e la consunzione della pietra ne allontanano l’antica conformazione, via via che ci si avvicina. La cosa che tuttavia più colpisce è la congruenza con lo scenario roccioso che, a notevole distanza, li controfonda. Si percepisce che le proporzioni eccezionali (più di quindici metri di altezza) non sono affatto smisurate, anzi indubbiamente calcolate e connesse alla stupenda muraglia di roccia che, per grandi esedre, si stende di qua e di là dai colossi. Per di più li vedevo circondati d’acqua, che la piena del Nilo ancora si indugiava nelle parti più basse, e quel che n’emergeva, oltre i colossi mutili, era un boschetto di acacie, con le capre nere, i pastori, un’erba d’un verde quasi irriverente. È qui che è stata rialzata la grande stele di Amenophis III che celebra la consacrazione del tempio di Ammone, di cui i due colossi precedevano l’ingresso: del tempio ben poco resta. Ma noi tralasciammo i templi, perché si trattava di visitare la tomba della regina Nefertari, la più bella delle mogli di Ramsete II: e forse la sua è la più bella delle tombe, ma certamente la più danneggiata di tutte. In un paese dove piove così poco, che sia proprio a causa delle infiltrazioni della pioggia, sembra impossibile. Ma è la situazione della tomba, al centro di un displuvio di alte pareti di calcare, che favorì il rigurgito delle acque, e, una volta che la tomba fu violata, probabilmente anche periodici allagamenti. Per di più il calcare nel quale fu scavata non era così compatto come quello della Valle dei Re, né si prestava a ricevere le figurazioni scolpite a bassorilievi. Fu per questo che le figure e i geroglifici furono modellati su uno strato spesso di intonaco, la cui composizione stranamente miscelata e terribilmente igroscopica risucchiava come una spugna l’umidore che attraverso le fessure della roccia arrivava in superficie. Quando allora nel 1904 lo Schiapparelli scoperse questa tomba, trovò già i suoi bassorilievi in gran parte sollevati e distaccati dalla roccia. Vi rimediò con un restauro, ma era chiaramente una situazione che doveva peggiorare invece che migliorare. Dentro la tomba fa più caldo che fuori, c’è più umidità che fuori, e dunque l’apertura della porta istituisce, con le fessure della roccia, una specie di sistema a sifone, esattamente come avviene nelle tombe etrusche di Tarquinia. Infatti le altre tombe, dove la roccia è compatta e non si produce questa correlazione viziosa, sono conservatissime. Il fatto sta che le condizioni sono andate di male in peggio, sicché la tomba è chiusa e da più di dieci anni nessuno ha potuto visitarla. Veniva riaperta ora, per vedere cosa si potesse fare.
Il contrasto fra l’ottima conservazione dei colori e lo stato pauroso, convulso, rigonfio, spaccato degli intonaci è veramente inatteso. Le decorazioni risultano ancora bellissime, d’una freschezza inconsueta; pur nel repertorio consueto. Nefertari dové essere veramente la prediletta del suo poligamo sposo. Appare sempre vestita di una tunica bianca altocinta e trasparente, guidata da dèi e da dee di questo curiosissimo Pantheon egiziano, in cui un medesimo fenomeno naturale dava luogo a plurime incarnazioni. Questa serie di figurazioni, che si ricollegano al cap. XVII del Libro dei Morti, dette lo spunto allo Schiapparelli per una teoria sulla religione egiziana che non ha avuto fortuna con i suoi colleghi, ma che almeno cercava di dare un senso storico alla confusione di questa stranissima mitologia. Per la quale è tutto spiegato se si dice che la facies della civiltà egiziana, sorda all’astrazione, si rivolgeva dal lato opposto della raffigurazione, e istantaneamente animizzava. Così il sole era Ra, ma quando nasceva era Horus dell’orizzonte, e a mezzogiorno diveniva Horus dei due orizzonti, e, quando tramontava, Aton, il disco: e queste quattro ipostasi erano e non erano la stessa deità. Finché, unendosi alla mitologia eliopolitana, quella di Abidos, ci si intrometteva Osiride che a un tempo rinasceva nel suo figlio Horus: un pasticcio, su cui è impossibile ora dilungarsi, ma che valeva accennare almeno di sfuggita per sottolineare uno dei lati veramente costitutivi della civiltà egiziana, la ripugnanza all’astrazione e alla sintesi. Che è quello poi, che ha impedito il progresso, lo sviluppo, l’espansione di una civiltà per altro così sorprendente, nata adulta completa e armata come Minerva. Ed è proprio la religione a darcene allora la riprova, così come il modo di reagire ai comuni miti indoeuropei caratterizza la facies della civiltà romana rispetto a quella greca. A Roma il mito fa il cammino opposto a quello che è solito percorrere il mito, che, generalmente, muove dal fatto storico per una ricreazione simbolica e fantastica, ciò che è appunto il mito. A Roma il mito ridiscende a storia, è forzato a rientrare nella storia.
In Grecia il mito è poesia, non ridiscende nella storia neanche sotto forma di eroi che si vogliono storici, vissuti, come Muzio Scevola o gli Orazi e i Curiazi. Eracle, ossia l’invasione dei dori, è un semidio, ma resta simbolo: la storia sono le Termopili o Salamina. Di qui il mito ascende alla poesia, dove trova il suo cielo adatto: né solo con Pindaro.
Ma, per gli egiziani, non si tratta difatti lontani della loro storia, che sostanziano la biografia di una divinità come Eracle, e non si tratta neppure di miti che si costringe a scendere nel razionale della storia, come la lupa, o Muzio Scevola. Gli egiziani ebbero scarso senso della storia, ma intensissimo della natura, sicché è la vicenda del giorno che inizia e conclude il loro ciclo storico, il loro eterno ritorno. Di qui la personalità attribuita alla nascita e al tramonto del sole, il sole benefico e fonte di vita, ma anche di morte (ed allora è Set), di qui la montagna d’occidente dietro cui tramonta e dove c’è a un tempo l’abisso celeste o il grembo della terra madre. E neppure c’è bisogno di scegliere fra queste due ipotesi, perché ambedue, per quanto contraddittorie, sono tenute in vita nelle deità di Nut (abisso celeste), Hathor (dimora di Horus), Ament (montagna d’occidente), e allo stesso modo che Osiride è re della montagna di occidente, dio dei morti e delle viscere della terra, il morire è scendere in quelle viscere ma anche affacciarsi sul giorno eterno dell’abisso celeste, tanto che la morte era Peremhru, ossia l’uscire al giorno, al giorno perenne: e dunque si va contemporaneamente nel sole e sotto terra. Non fa meraviglia allora che la dicotomia di anima e corpo diventi triade nella mente sincretistica egiziana. C’è il corpo, ed è quello che muore, c’è l’anima, e quella va nel giorno perenne: ma c’è il cibo che fa vivere ed ecco il cibo personificarsi e divenire il Ka: diviene la personalità del morto, rimane ad abitare nella tomba, ha a sua volta bisogno di cibo come ha bisogno delle fattezze della statua che riproduca il vivente, per continuare a vivere, senza corpo e senz’anima. A volere dare un’interpretazione psicoanalitica avanti lettera, si direbbe che il corpo è l’es, l’anima il superego, e il Ka è l’ego: e si direbbe una sciocchezza. L’incongruenza di questa triade non è che l’incongruenza di non sapere decidersi se il sole scendeva di notte nell’abisso celeste o si concava in seno alla terra, se rinasceva un altro o era lo stesso: era l’incongruenza della molteplicità delle ipostasi di uno stesso fenomeno. Era, come si diceva, l’incapacità di ascendere dall’immagine al concetto: l’incapacità a pensare, in una parola. E per questo la civiltà egiziana ha tramandato immagini, spesso sublimi, ma non si è trasmessa come civiltà e cultura, consegnandosi nei sottoprodotti paralleli delle cerimonie e della magia.
E forse è vero che tutte le incoronazioni e i giubilei provengono dall’Egitto, per la regina d’Inghilterra come per il Papa. E il Papa ha addirittura la tiara bianca dell’alto Egitto, i flabelli di penne di struzzo, e apre e chiude la bocca ai cardinali: che è ancora un’eredità tipica egiziana. Ma scarna eredità.
I fotografi che erano con noi per iniziare la nuova serie di documentazioni, dardeggiavano con i fari d’una luce bianca che rendeva tutto incandescente e teatrale come la maschera di un clown. Da sotto i veli trasparenti sembrava di vedere rinvenire, a quella luce, le lunghe gambe laminate della regina: rinvenire come la rosa di Gerico. La dea Neit, la dea Selk, con i seni di fuori e casti si staccavano dal fondo, inguainate nelle tuniche strette come un braccio in un guanto da sera.
E il tuo Ka giocava a scacchi, ancora sulla parete, o Nefertari. “La nobile di schiatta, la grande dei favori, signora di bontà, di dolcezza e di amore, la sovrana del Sud e del Nord, la defunta consorte legittima, regina delle due terre, Nefertari Mirinmut, giusta di voce presso il Dio grande.”