Quando avevo saputo che l’escursione al Sinai era possibile, nessuno mi tenne più. E accettai tutto, perfino di andare in una comitiva composta interamente di italiani. Di italiani, intendo dire, benestanti, superficiali, chiacchieroni, preoccupati solo della pastasciutta.
Veramente l’interrogativo me l’ero posto subito: che diavolo ci va a fare tanta gente al convento di Santa Caterina, affrontando un viaggio così scomodo, nel deserto, quasi tutto senza strade, e per vedere delle icone che, nel mondo, sarà grassa se interesseranno veramente a cento studiosi? Certo, io ci andavo per quello, e non mi immaginavo potesse esserci altro motivo. Forse il deserto? Ma non si va nel deserto, per andare nel deserto: al massimo ci si va, o meglio ci si andava, per far penitenza, non certo per il gusto di stare nel deserto. E allora, per le Tavole della Legge, la manna e via dicendo? Ma che si può fare un viaggio per vedere delle cose invisibili? Insomma non mi raccapezzavo come di colpo, al Cairo, tutti gli italiani fossero diventati bizantinisti.
La comitiva era per lo più di italiani cairoti, ma da capo fungeva un addetto della nostra Ambasciata, con figlio e consorte. Prima del Cairo erano stati in Somalia, e la Somalia restava ancora come il loro eterno orizzonte vitale. Parlavano della Somalia a ogni piè sospinto, come fosse stato, che so io l’India, la Cina, invece di un povero paese che ci costò prima, ci costò dopo, ci costa ancora, e quelle quattro banane che ci spedisce, fra tutte le banane del mondo, sono le più verdi e insipide, pura cellulosa.
I taxi erano due, e uno guidato da un greco, Pericle di nome neanche a dirlo. In quello stava il professore con la sua famiglia e gli ospiti: nell’altro, guidato da un arabo che fingeva di non capire l’italiano, stavo io. Erano persone come tante altre, che ora non riconoscerei per la strada. Mi avevano avvisato di non portare cibi perché ci pensavano loro, e poi si sarebbe fatti i conti. Così fu, e mi stette bene perché mangiai pochissimo. Ma andremo per ordine.
Lo schema del viaggio era il seguente: arrivati a Suez, di lì sul traghetto, si passava nella penisola del Sinai. Una strada esisteva fino ad Abu Rudeis dove si trova il Campo del petrolio, e lì ci si fermava per la notte. Ad Abu Rudeis si era come di casa, perché il campo è per metà dell’Eni. Si mangiava, si dormiva – c’era tutto! mi assicurarono esultanti, anche il cinematografo – e la mattina si ripartirebbe all’alba per il convento di Santa Caterina. La notte al convento, dove c’è una foresteria, e poi nel pomeriggio del giorno successivo si tornerebbe al campo. Nuova sosta – e sempre ospiti! non c’era da pagare nulla! – il giorno dopo rieccoci a Suez e al Cairo. Per tutto ciò occorrevano quattro giorni e un permesso, né solo per il convento, perché il Sinai è zona militare, piena di controlli: un permesso con fotografia, e, manca poco, le impronte digitali. Per me aveva provveduto il Consolato e, poiché era scritto in arabo, non capii il contenuto del foglietto.
Dunque ci si trovò la mattina alle otto, e il tempo, in Egitto, non dà mai preoccupazioni. Un mattino di novembre che pareva maggio. Fatte le presentazioni, ammirato il genere di costumi, con cui tutti avevano creduto di mascherarsi, cominciai il sondaggio per rendermi conto di questo straordinario interesse per le icone bizantine. “Le icone?” mi chiesero. “E cosa sono?” Si comincia bene, pensai fra me. E spiegato che l’ebbi: “Ah papà,” esplose il ragazzotto, figlio del professore addetto, “pensa che c’è pure qualcosa da vedere al convento!”. Così arrivammo a Suez, e non mi ero riavuto ancora dallo stupore. Fermati che ci si fu a Suez, seppi il resto. Non potevo credere infatti che facessero il viaggio per le Tavole della Legge, la manna, il Vitello d’oro, tutte cose che, per vederle, non c’è bisogno di muoversi da una poltrona e basta sognare a occhi aperti. La Bibbia essendo pressoché preclusa ai cattolici, d’altronde svogliatissimi anche d’ogni catechismo o vangelo, ci doveva essere una diversa ragione. E infatti c’era. Avevano visto il film dei Dieci comandamenti, che fu girato al convento di Santa Caterina, e volevano vedere il luogo dove quest’ultimo evento, davvero basilare per la storia della civiltà, s’era prodotto. Le Tavole della Legge, dunque, ma quelle del film, non quelle di Mosè.
Successivamente i miei compagni mi informarono che era diventata assai di moda, al Cairo, questa escursione al Sinai, e che, per scomoda che fosse, in compenso, dava molto “tono” il fatto d’averla compiuta. Tutti ne ritornavano giubilanti (anche senza icone e senza mosaico giustinianeo). Eppoi c’era il Campo: due notti al Campo, e il cinematografo nel deserto!
Quando s’arrivò al Campo di Abu Rudeis era notte da un pezzo. La strada da Suez non offre panorami, non ha di caratteristico che la misera oasi di Ayun Moussa, le cosiddette Fonti di Mosè, che poi sono dei pozzi: ma non ci fermammo. D’altronde la sosta per il traghetto era stata così lunga che buona parte della strada si dové fare al buio, e, quando si arrivò, dopo due minuziosi controlli, senza contare quelli che si era avuti di qua e di là al traghetto di Suez, non si capiva dove si fosse, perché c’era il mare, e quasi sembrava d’essere in un’isola: si vedeva da tutte le parti, nero come pece. Il Campo simile a un lazzaretto, con tante ma tante lucide case di legno, e una fila di neri camion Ford che stavano allineati come cavalli alla stanga. L’accoglienza fu gentile quasi affettuosa da parte di gente ignota, giovane, robusta, in calzoni corti, assai pittoresca, veramente da western. Per farla breve, fu lì che ci si accorse che il mio permesso scadeva un giorno prima di quello degli altri.
Il problema era grave, a detta degli stessi petrolieri del Campo che se ne intendono, perché non si poteva assolutamente avere una proroga sul posto: solo il Cairo era autorizzato, il telefono non c’era, l’aereo era guasto, taxi neanche da pensarci… In breve si sarebbe dovuto rientrare un giorno prima. La cosa era possibile perché al ritorno dal Sinai, invece che al Campo si poteva benissimo arrivare e dormire a Suez. Ma il Campo era gratuito e le donne della compagnia apparivano eccitatissime all’idea di dormire quasi in una caserma, tutta di uomini soli, validi, per lo più giovanissimi. Mi trovai contro, con una grossolanità che non tentava neppure di velarsi, quasi tutti i componenti della banda: la cui villania toccò vette eccelse, quando feci osservare che, per quello che dovevano vedere loro, al Sinai, che non sapevano neppure perché ci andassero, si poteva ripartire un po’ prima: alla fine il solo a esserne danneggiato sarei stato io, che ero anche il solo che avesse, per lo studio delle icone, un interesse autentico. Fu a questo punto che la consorte dell’addetto pretese di essere stata offesa, perché, dal fatto che non s’intendesse di icone, inferì che avevo detto che non capiva nulla. Sarebbe stata la pura verità, ma invece non era possibile neppure un vago equivoco sulle mie parole. Il professore addetto, sentendo scattare la moglie, di cui pure conosceva bene le gagliarde capacità isteriche, invece di calmarla, la sostenne senza neanche sapere di quel che si trattava, il figlio si schierò… Non ci fu che uno dei passeggeri, di buon senso e cortese, che si prestò a chiarire l’insulso malinteso. Parlò con i dirigenti del Campo che subito, con una calma gentilezza, assicurarono che, al mio ritorno dal Sinai, un loro camion mi avrebbe accompagnato a Suez: gli altri sarebbero rimasti a godersi la notte ad Abu Rudeis. Così la faccenda parve risolta, ma l’episodio era stato troppo violento, e il comportamento di quella gentaglia troppo villano, perché l’ascesso potesse riassorbirsi subito, né il professore, il cui passato fascista era evidente, fece il gesto minimo di una scusa. Quindi, se si eccettua quell’unico difensore, mi trovavo costretto a vivere due giorni con persone alle quali rifiutavo di rivolgere la parola, e che, d’altra parte, detenevano le provviste fatte in comune.
Intanto il nostro arrivo per chi stava in quella specie di confino, era un avvenimento, ancorché le donne della nostra compagnia, accompagnate per di più dai mariti, non rifulgessero, e nelle camere disponibili rigorosamente ogni coppia ricostituisse il talamo. Ma come le donne erano pruriginose per la presenza di tanti uomini in castità forzata, costoro sentivano la donna come la primavera che arriva col vento, e nitrivano o qualcosa del genere quando ci vennero a chiamare per il pranzo, nel grande capannone lindo come una clinica e d’un amabile verde penicillina, la tavolata sembrava d’un convento di novizi, e il pranzo fu doviziosissimo, anche di roba fresca che giornalmente arrivava da Suez. Dopo pranzo il cinematografo all’aperto, con uno di quei film sciagurati, pieni di italiani ricattatori, parassiti o magnaccia, che sembravano fatti apposta per consolidare all’estero una fama largamente assisa.
Se il giorno era stato caldo, la notte in riva al mare faceva lietamente rabbrividire: dallo schermo, il volto scarruffato di Anna Magnani, che stava fra Cassandra e Medusa, non presagiva nulla di buono.
La mattina dopo, quando ci si alzò alle cinque e mezzo, si poté vedere in quale strana posizione si trovasse il Campo. Il mare lo circonda da tre parti e in fondo a quell’altra, che è quasi un peduncolo, si alza una catena di montagne. Di lì doveva nascere il sole, e il cielo davvero sembrava di porcellana: il mare, che, stante il nome, dovrebbe essere rosso, aveva l’azzurro dello Ionio, e contro la sabbia gialla di quella punta piuttosto sembrava scorresse, palpitando, come un fiume. Ma il Campo, con tutte le sue comodità, le casette uguali, le luci ancora accese, nell’alba manteneva la sua aria equivoca di recinto militaresco e di lazzaretto. Dove la punta si riattaccava alla terra una fiamma, la solita fiamma eterna che brucia i gas dannosi del petrolio, faceva da faro: luce che veramente assomiglia troppo alle fiamme che devono dare calore invece di luce, per avere bellezza: neanche di notte rifulge.
Ci si mise in moto, invece che alle sei, alle sette: tanto durò la colazione del mattino, con quella gentaglia che, pure benestante, sembrava fosse la prima volta che avesse a disposizione uova, burro, conserva, cacio e pane.
Dapprima continua la strada asfaltata che porta ai vari pozzi per me restati invisibili (sono quaranta e dovranno essere trecento), continua in un deserto polveroso e biancastro con irsute montagne all’orizzonte: sulla destra c’è il mare con quel suo calore intenso e cangiante. Poi si lascia insieme il mare e la strada, comincia la pista e si dirige verso le montagne. Io mi ripeto che quella è la strada di Mosè e non riesco ad aumentare di temperatura. La pista è abbastanza dura dapprima, ma poi, dato che corre lungo il letto dell’uadi, ha tratti sabbiosi, infidi. Le montagne di granito non sono lisce e coniche o piramidali come quelle dell’Egitto: ma come pieghettate, increspate, scavate di fitti canaloni, e sembrano veramente l’originale in natura di un paesaggio trecentesco. La vegetazione si riduce a ciuffi di cespugli strenuamente vivi, ma giallognoli, debellati in quel che c’era di appena edile da cammelli e pecore: non si incontra nessuno. Quando la valle si ristringe facciamo la prima sosta. È un piano chiuso, duro di fondo, con enormi corrucciati monti di sasso che nascono di colpo dal piano come si vede in Abruzzo: di colpo si ergono a spalliera impervia. Perciò questo deserto selvaticissimo assomiglia poco ai deserti prevalentemente piani e triturati di sassi. Qui il granito resiste anche al sole tropicale e non si scheggia, non si sfalda, rotola e si arrotonda.
Quando si riprende, si sa che ci fermeremo di nuovo all’oasi di Feiran. Ci si arriva dopo un’ora: comincia un’oasi modesta ai piedi di distrutti monasteri, c’è un monaco greco a guardia e, per la coltivazione, viene aiutato da beduini nerissimi, direi dei nubiani trapiantati là, piuttosto di valacchi ed egiziani che vi avrebbe trasportato Giustiniano e ancora si chiamano “servi del convento” (Sybaya El Dir). I bambini sono i più belli che abbia visto finora. Il giardino sembra lì lì per seccarsi: un filo d’acqua che si cerca di far circolare come il sangue, senza perderne una goccia. Ma c’è una novità: alcuni ulivi. Da quanto non si vedevano: fra mezzo agli ulivi un pergolato basso, in cui le colonne a rocchi derivano, con poche basi e capitelli, dalla chiesa del monastero: alcuni ruderi, instabili e corrosi, si vedono poco sopra. Le viti hanno pampani piccoli come le mani di un bambino. Ci si ferma un poco: prima di partire una signora del nostro scombiccherato convoglio regala un filone di pane ai bambini cenciosi e bellissimi, quello più grande sembra un paggetto d’una Cena del Veronese. Allora si avvicinano due giovani e chiedono timidamente se abbiamo dell’aspirina. Fra le piaghe dell’Egitto attuale ci sono giusto i medicinali. Per fortuna una delle signore ne ha tre o quattro pasticche. Si riparte e con sorpresa l’oasi che pareva ferma a quei tre o quattro ulivi, riprende con un codazzo di palme fitte, ma come bruciacchiate. Pare che prima, almeno due volte l’anno, piovesse e ora non piove più. Il piccolo ruscello non serve da solo ai bisogni delle piante. Vedere come se lo covano: neanche in un punto si riesce a intravedere l’acqua. Ci sono delle casupole in mezzo, e la valle che si è ristretta e riceve a piombo le pareti di granito rosa, diventa quasi un corridoio. Il luogo potrebbe essere assai bello senza tutto quel seccaticcio, i tronchi di palma come divelti, il disordine: in genere le oasi sembrano giardini pubblici, tanto sono linde e ben tenute. Quando l’oasi finisce e la valle si allarga, lo scenario delle montagne diviene grandiosissimo: dietro una specie di antemurale di tufo giallo, consunto in modo che si direbbe una volta avesse portato raffigurazioni scolpite, si alzano monti stupendi tutti d’un pezzo e color vinaccia: già quella vinaccia sembra sull’orlo di essere porfido o di diventarlo sotto i raggi di un sole ormai montano: la pista impercettibile ma senza sosta salendo. Da questo paesaggio grandioso e teatrale, con gli avancorpi gialli contro le montagne di vinaccia pietrificata, si entra nel massiccio sempre più arduo e stranissime groppe grigie attraversate da una cresta nera.È una cresta che corre sul crinale o, se volete, sta come la criniera a spazzola di un asino o di una zebra: così nera e quasi lucida perché di granito o forse di basalto. Talvolta, oltre alla cresta, i montarozzi recano una o due balze nere, come tracolle: mentre il piano comincia a costellarsi di ciottoli verdastri, quasi imbevuti di una ragia d’alghe. Così si giunge a una gola di grandiosissima presenza, che mi fa pensare alle strette del Taurus: è la Porta del Vento, ed è d’un granito che trascolora dal rosa al viola. Come si passa, finalmente il massiccio del Sinai si presenta, irto e scheggiato come una selce preistorica, nero, rossastro, azzurro a seconda della varia scaglionatura dei suoi picchi: quello più scuro, ma non il più alto, in mezzo, e acuto quasi come il Titano di San Marino, sarebbe il monte di Mosè, il gebel Moussa, quello delle Tavole della Legge. Intanto i luoghi biblici si infittiscono: dove siamo, è il piano in cui cadde la manna: dove arriviamo, stava l’accampamento degli ebrei, e, lì, su quel monticciolo, s’elevò il vitello d’oro. Se a questo punto sui ricordi remoti non si sovrapponesse la presenza del convento di Santa Caterina, collocato dentro una gola meravigliosa di alte e scoscesissime montagne di granito rosa, chiusa nel fondo da un monte che appare nero e verde come avesse alberi e prati, mentre è la pietra di quei colori. Il convento si trova in basso, e io che me lo immaginavo su una vetta. Un gran muro irregolare lo cinge, di pietra: cipressi si elevano e chiome nebulose di ulivi, un campanile, un minareto.
Così come si presenta il convento non è spettacolare, ma entro la sua cinta, sembra piuttosto il riassunto di una città antica, come le portavano in mano su un vassoio certi santi nel Medioevo.
Con quei fili d’acqua che raccoglie da simili monti di granito, e sembrerebbe non potessero darne neanche una goccia, ecco il miracolo di Mosè, l’orto del convento riesce a adornarsi a più di 1.500 metri di altezza di queste piante da noi comunissime e qui rare, da guardarsi come con la lente: ulivi, cipressi, qualche limone, qualche vite.
Siamo ai piedi dell’alto muro di cinta, e si vede sporgere in alto un casotto a bertesca da cui penzola una fune: era quello, una volta, l’unico accesso al convento, dentro una grande cesta come San Paolo quando si calò dalle mura di Damasco: il più antico ascensore, insomma, che, lo costateremo dopo, è mosso da un argano cui ci si avvolgeva la fune. Intanto ci sono venuti incontro monaci e beduini; ci ricevono festosamente.
Non mi scorderò quell’aria secca, che pareva asciugasse i polmoni: e il passaggio dal sole all’ombra, che era come entrare in una fonte. In fondo alla straordinaria gola rosa, d’un rosa come nelle fauci di un cane che ha sete, il convento è davvero asilo, rifugio, fortezza. Ma sulle prime, entrati che si è dentro, quel fitticchiaio di costruzioni caotiche, la nuova ala in cemento armato della biblioteca, imbarazzano, deludono. Si torna ad appuntare gli occhi sulle vette che sono al tempo stesso aguzze e smussate; e i massi che rotolarono in basso appaiono tondi e lisci come ginocchi.
Ci accompagnava un converso allegro e trasandato con una barbaccia rossastra, i capelli lunghi, Nicoforo era il suo nome. Parlava italiano, e diceva un gran bene degli italiani, con cui era stato in campo di concentramento, e lì aveva imparato la lingua. Ci annunzia senza ambagi, che avrebbe buttato la tonaca alle ortiche, e che voleva girare il mondo. Neanche per un attimo si illudeva che la gente s’interessasse a quel che mostrava: sapeva benissimo con chi aveva a che fare. Perciò la visita fu compiuta a un passo deciso, finché non si arrivò alla biblioteca, dove ci sono tesori, ma si sa che genere di tesori: illeggibili manoscritti, antichi e antichissimi, in siriaco, in copto, in ebraico. Faceva piacere vedere l’ordine e la pulizia del locale, le scaffalature di metallo: era una sorpresa, trovare quell’ordine e quel decoro al Sinai, che per tanto tempo servi al rifornimento dei ladri di icone e manoscritti. Il celebre Sinaiticus del British viene di là, rubato naturalmente. E le tre icone che si trovano a Kiev provengono dallo stesso fondo. Né io mi so capacitare di quanto fossero accorti quei ladri, di come seppero scegliere infallibilmente, quando soprattutto non c’era neanche uno studioso capace di datare quelle icone e comprenderne l’immenso interesse: tre delle più antiche, tre tesori.
I miei cari compagni trattenevano a stento gli sbadigli, ma non osarono chiedermi qualcosa sulle icone. Il gelo si era un po’ addolcito fra noi, qualcosa avevo pur dovuto mangiare insieme a loro: il meno che fosse possibile, ma uno scambio c’era stato. Guardavano allora queste tavolette nerastre dai soffocati bagliori d’oro, con lo stupore, a lor volta, che potessero indurre a un viaggio così scomodo. Ben altro spettava loro, le cime di Mosè e di Santa Caterina.
Si rimase d’accordo che la mattina dopo, mentre gli altri sarebbero saliti al monte dei Comandamenti, al gebel Moussa, chi a piedi e chi sul cammello, io me ne sarei restato a studiare le icone. Per quel giorno era troppo tardi, e il monaco che doveva sorvegliarmi non aveva tempo: che altro avesse da fare, era un mistero. Si continuò dunque la visita: la chiesa, l’argano che tirava su la famosa cesta-ascensore, il cammino di ronda, e il Roveto ardente, un cespuglio di rovi, proprio quelli che fanno le more nelle nostre siepi. Di lì si andò al giardino, dove l’acqua è tanto poca e gli alberi che ci sono, sembrano non farcela più; restano vivi, ma come quei fiori che gli olandesi sanno seccare in forno tanto bene, e rimangono intatti, coi petali, le foglie, ma i colori hanno svaporato, ne resta quel poco, come il vino in fondo al bicchiere. In mezzo all’orto c’è l’ossario: e per quanti se ne sia visti, di ossari, questo è il più terribile. I teschi accostati come zucche gialle: di tanto in tanto sporge una mano disseccata. Rideva il monaco a vedere l’attitudine imbarazzata e un po’ sgomenta dei bravi turisti: e raccattò una mano che era caduta come una foglia secca, lanciandola sul mucchio dei crani. Fu un gesto terribile.
Si risalì che il sole era tramontato dietro la gola, ma non nel cielo, e la luce scendeva verticale dall’alto come una pioggia secca: tuttavia non riusciva ad arrivare fino a terra, restando come a galla sulle nostre teste e via via alzandosi sempre più in alto. Nel fondo dove ci si trovava, non c’era ombra, ma si stava come in un recipiente vuoto. Solo quando il sole tramontò davvero la notte calò ugualmente dall’alto, come prima pioveva la luce, e s’arrestò di botto, inchiodata da poche e luminosissime stelle.
Intanto nella cucina della foresteria fervevano le opere. Si traduceva in atto il secondo motivo dell’escursione della comitiva: poter dire di aver cotto la pastasciutta al convento del Sinai. Poter dire che neppure un giorno era passato senza pastasciutta. Nulla dies: e se per uno è linea la penna, per un altro è lo spaghetto.
Le camere erano poi più grandi che celle: un lettino, una specie di lavandino, i lenzuoli puliti. Tutto ciò costava una lira (sterlina). Nel ballatoio di legno, su cui davano le celle, si trovava la cannella; l’ansito del motore che, fino alle 10 di sera avrebbe dato la luce, arrivava attutito. C’era perfino una specie di salotto coi divani duri, e una stanza da pranzo. Come si fu seduti, l’aria entrava dalla porta, non come quando c’è il vento, ma silenziosamente, come il fumo quando un camino fa fumo; sembrava che, nella notte, l’aria già fina si raffinasse ancora, e gli sbuffi leggeri arrivavano sul viso come un fiato astrale.
Ma il mio vendicatore fu Pericle. Costui insinuò gradevolmente il sospetto che tornare al Cairo, e dire di aver visto il monte dei Dieci Comandamenti era troppo poco. E se gli domandassero se avevano visto i Quaranta Martiri, che avrebbero risposto? Avrebbero risposto di non averli visti. E l’oasi, quella bellissima oasi? Anche quella non l’avevano vista. L’oasi fece crollare le resistenze. Quasi non fossero state persone che vivevano in Egitto e di oasi ne vedevano quante ne volevano, a ogni piè sospinto. In quanto ai Quaranta Martiri nessuno ne sapeva nulla e nessuno ne seppe nulla perché Pericle non credé opportuno di dare spiegazioni. Si allungava un poco… aggiunse quasi pudicamente il greco. Ma – riprese subito – sarebbe stato ad attendere i gitanti con le automobili alla fine della discesa. Così avrebbero visto i Quaranta Martiri: e perché no, anche la vetta di Santa Caterina? Quella, sapete, del tutto impervia, su cui gli angeli trasportarono il corpo della martire, e non si sa come facessero i monaci ad accorgersene. Ma se ne accorsero quanti pittori hanno rappresentato in seguito quel primo dolcissimo viaggio aereo: basterebbero Masolino e il Luini. Librati nell’aria, i due angeli scendono alla verticale come un elicottero.
Ma per la gita sulla vetta di Santa Caterina ci volevano i rocciatori: solo l’aitante ragazzotto ce l’avrebbe fatta, che infatti rifiutò il cammello. E gli sembrò d’essere un eroe, a diciott’anni.
La mattina all’alba non sentii il suono fesso del cimandro di legno, che servì per tanti secoli da campana ai copti e agli ortodossi, né la flebile campana di quel campaniluzzo: ma il vociare sordo, per nulla festante, dei risvegliati che si preparavano al cimento. Gli scossoni del viaggio s’erano tutti immagazzinati nelle ossa, nei muscoli: la notte li aveva per così dire rinfrescati e a chi gli doleva questo a chi quello. Perciò le voci suonavano chiocce. Sembrava – a me disteso, a me nel letto caldo – di godere di chi sa quale guiderdone, per non dovermi alzare subito, per avere tutta la mattina aperta, silenziosa, per le mie icone.
Quando furono le sette ero pronto, ma non era pronto il monaco, almeno per venirmi a sorvegliare. Non dico che non abbiano ragione di farlo, dopo tanti furti. E io mi ricordai di quei giorni che passai a Patmos a studiare i manoscritti miniati del convento dell’Apocalisse. Anche allora il bravo igumeno con il suo bastone a stampella dall’impugnatura d’argento, si assideva sulla poltrona e stava lì senza far niente per ore e ore, senza neanche far finta di pregare: faceva passare il tempo, scorrere davanti a sé: e questo gli bastava.
Prima dunque andai nella chiesa, che mi dovetti convincere essere davvero giustinianea (fra il 561 e il 565), ma alla prima non ci si crede. La facciata finisce con un timpano così erto da parere armeno e di almeno cinque secoli più tardi. Ma poi tante altre cose convincono, la palme scolpite, i capitelli: alla fine insomma non rimane dubbio. La pianta dovette essere un po’ simile a quella di San Marco a Venezia, riguardo al narcete a “U”: l’avevo supposto che quello spazio aggirante aveva da esserci già in epoca giustinianea. Avevo avuto ragione. La porta di cedro scolpita, è anch’essa del VI secolo. È scolpita come gli avori copti, con una certa rudezza di scheggiatura, cioè, senza i meticolosi arrotondamenti dell’arte bizantina costantinopolitana. Quanto al mosaico absidale, con la Trasfigurazione, si vede malissimo, ma, per quel che arrivai a vedere, a furia di farmi solecchio con le mani, dubitai che potesse essere del VI secolo. Le figure esagitate degli apostoli in basso non sono ammissibili a quell’epoca. Infatti anche l’epigrafe greca e assolutamente autentica dà un’indizione che non rientra nel tempo di Giustiniano: forse il mosaico è del IX secolo, ma comunque un monumento di cospicuo interesse.
Purtroppo le colonne di granito della chiesa sono verniciate a olio, e così i capitelli, che sembrano, pari pari, per quanto più sintetici, quelli che si vedono nella Piazza di Ravenna, provenienti da un monumento giustinianeo. Hanno, cioè, le foglie di acanto voltate da una parte, come se tirasse vento. Torno torno alla chiesa e nelle cappelle c’è una serie sconfortante di icone. Ma in questa infinita legione il bravo Sotiriou ha fatto la sua scelta: e quel che c’è rimasto non richiede grande attenzione. Mi colpì invece la Tavola di Santa Caterina che un catalano, certo Dom Bernard, console dei Catalani a Damasco, regalò alla Chiesa nell’anno 1384. Mi colpì perché sembra assai poco catalana, e molto veneziana, da poterla addirittura mettere fra Lorenzo e Catarino. Purtroppo non c’era una scala a libro, che mi permettesse di vederla da vicino.
Finalmente il monaco-conservatore fu pronto e potei andare a studiarmi le icone. Queste sono messe su dei palchetti di legno torno torno a una stanza attigua alla biblioteca, e abbastanza in alto per non favorire colpi di mano. Ma ad aumentare le difficoltà del genere, sono anche legate, da dietro, col fil di ferro. Fu uno strazio, perché mi toccò di stare sempre arrampicato su una scala a pioli, e a scendere e a salire per prendere gli appunti. Ma quelle quattro ore che passai a tu per tu con le mie agognate icone resteranno indimenticabili. C’è il gruppo degli encausti, e per quelli in particolare ero andato, che si scala fra il VI e l’VIlI secolo, e sebbene nessuna di queste icone sia di un eccelso valore come l’icona di Santa Maria in Trastevere, il mio viaggio e i miei dispiaceri erano ampiamente ripagati. Né tenterò di farlo comprendere accendendo estasi e rapimenti come candele in chiesa. Né estasi né rapimenti, ma il gusto insostituibile che dà trovarsi per la prima volta davanti a un originale raro, ancora poco studiato: interrogarlo nella tecnica, nell’iconografia, riportarlo mentalmente a questa cosa e a quell’altra. Sta tutto qui, e può essere niente e può essere molto. Per me fu moltissimo.
Ad un certo momento il monaco, che s’era posto al di là degli eventi come l’igumeno di Patmos, mi fece capire che proprio doveva chiudere. Era passato mezzogiorno, e, stando ai programmi, quella cara gente doveva essere di ritorno. Invece seppi che era stata di ritorno, prima del previsto, solo la coppia del professore e della moglie, che non ce l’avevano fatta a salire per quei massi terribili. E la signora aveva i tacchi alti, come si conviene a una vera signora, e uno gli si era staccato, e aveva dovuto rifare la strada fino al cammello con un tacco sì e uno no. Quando la vidi, la mia sete di vendetta fu appagata. Quelle borse sotto gli occhi che tanto la illeggiadrivano, erano divenute enfie e bluastre, come riempite di pus. Finì per farmi pena, e stavo quasi per dirglielo, quando mi sovvenni che, a farla sentire più brutta del solito, l’avrei rinfocolata nella sua gradevolezza. Così nell’attesa dei cari gitanti, me ne ritornai in chiesa, e osservando quelle strane aperture nel tetto, su un lato, a forma del sole, della luna e delle stelle, mi domandavo a che servissero, e Nicoforo mi disse che erano studiate in modo che il giorno di festa della Santa vi passasse un raggio di sole, un raggio di luna, non so quali stelle. Ed ecco che finalmente mi spiegavo l’origine di una strana piccola rosa a giorno che si vede nella volta della antichissima chiesa di S. Leonardo a Siponto: messa per storto, è la formella traforata, e deve pure pioverci un poco. Che ci sta a fare? Un pellegrino reduce da Santa Caterina dové riportare a Siponto la curiosità di quel raggio captato per la festa del Santo. Non poteva esserci dubbio: anche se il soffitto attuale di Santa Caterina è moderno, ripete una caratteristica antica, sicuramente più antica di S. Leonardo, che è dell’XI secolo. Poi Nicoforo volle farmi vedere la cappella del Roveto ardente. Per entrarci bisogna levarsi le scarpe: come dové fare Mosè, quando dalla fiammata che non si spengeva sorse la voce: “Levati i calzari: è terra santa”. Così disse la terribile voce da dentro al cespuglio che bruciava senza consumarsi. E forse chissà, a questo si deve, anche nel rito musulmano, la prescrizione di togliersi le scarpe prima di entrare nella moschea: Maometto sarebbe stato nel Sinai, nelle sue peregrinazioni da cammelliere, e avrebbe ordinato speciali riguardi per i monaci che l’avevano ospitato. Ciò che non diminuì, a dir vero, le razzie dei beduini. Ora la cappelletta che avrebbe fatto costruire Sant’Elena, questa infaticabile pellegrina dei luoghi santi, è un minuscolo locale rivestito di grosse mattonelle di gusto persiano: niente di così terribile come il fuoco che non si consuma mai.
Ma i gitanti non tornavano, il tempo passava, e diminuiva la mia speranza di giungere prima di sera a Suez. Stavo in terrazza, al sole che sfiorava leggermente, come d’inverno, ma aveva una luce che trafiggeva quanto la fame.
Ed ecco un polverone, un ansito aspro: dal fondo della carreggiata salivano l’erta le automobili. Ne scesero i gitanti, così minutamente fracassati dall’escursione che parevano messi in pezzi, e ricuciti alla meglio: non si salvava che il ragazzotto, ma a mala pena.
E soprattutto si vedeva, in quegli occhi smarriti, l’angoscia di dovere rimontare in macchina, e rifare quella strada più interminabile che lunga, che non aveva neppure, ormai, il pregio della sorpresa. Ma ci rimontarono, né già in riguardo a me, ma per non pagare un giorno di più ai due tassinari. I patti erano stati espliciti, e Pericle aveva troppi altri impegni e troppi altri rivali, in queste gite al Sinai, per permettersi di perdere dei clienti. Le fragili signore, che si riposassero a sera nei letti della cittadella degli uomini, fra i vigorosi petrolieri: che le vedessero, così conciate, come estratte dal secchio della spazzatura.
La macchina era un grosso, lucido camioncino Ford, tarchiato, verrebbe da dire muscoloso. Montai accanto a quello che praticamente sarebbe stato il mio padrone, per tutto il viaggio: era festoso, l’arabo. Un arabo di una trentina di anni, piuttosto scuro: e credeva di parlare inglese. Subito ci si accorse che i nostri inglesi non combinavano, ma dato che lui soprattutto doveva parlare l’arabo e perorare, ci si poteva passar sopra.
La sosta al primo posto di polizia, quello che sta nel Campo, non dette luogo a contestazioni: era naturale del resto. Così eccoci sulla strada, e subito a grande velocità. Conosceva la strada, l’arabo, come le sue tasche, volava. Relativamente presto si giunse quindi al primo importante posto di blocco, ad Abu Zenima: il solito paesino terra terra, dove, in una casa con una veranda, è appostato il controllo. L’avevamo visto all’andata, un impareggiabile maresciallo in pigiama, in servizio e in pigiama. Me l’auguravo, come più indicato a farmi passare a scapaccioni e invece apparve un soldato dal volto grassoccio e quasi cinese. Non capivo quel che diceva al mio arabo, ma dalle mosse avrei giurato che esternava meraviglia, sospetto, incredulità, come dicesse: erano dieci, più due autisti, più due grosse macchine, e tutto questo si riduce a uno solo? Che c’è sotto? Chi ci crede alla storia del permesso che scade un giorno prima? Si degnò finalmente di mettersi a leggere il foglio, ma si sa che impresa è per un arabo leggere una calligrafia diversa dalla sua. Subito venne in suo aiuto un superiore, e su tutto continuava a versare il suo torrente di parole il mio arabo, ogni tanto voltandosi, e io sentendo concentrarsi i fuochi di tre sguardi sul mio volto innocente, ma col timore di non apparirlo abbastanza. Alla fine ecco la soluzione inaspettata: mi chiese di caricare sulla nostra macchina due arabi cenciosi con immensi fagotti e un soldato col mitra che venne a sedere accanto a me. Era il dito del cielo; quale migliore salvacondotto che la presenza di un soldato col mitra? Riprendemmo il viaggio, e io mi sentivo proprio sollevato. In quanto all’arabo, ebbi l’impressione che la presenza del milite svegliasse in lui anche più indomite virtù di guida: prese una velocità che a me, data la strada, parve francamente spaventosa. Ma aveva promesso di farmi passare prima delle 10, ed eravamo partiti alle 7 e mezzo. Il pericolo della strada del deserto, è la facilità di uscirne: quel nero nastro fra l’infida, incerta distesa giallognola: se poi la sabbia si era sovrapposta, e a tratti succede, allora non c’è nulla di meglio per slittare e capovolgersi: all’andata i nostri taxi erano stati prudentissimi. L’arabo guidava invece spavaldo, e vedevo bene che si passava i cento all’ora: non c’era cunetta o schiena d’asino che fosse degna della sua pietà. E la strada vista con i fari, radenti, sembrava il plastico di una regione montana. Quando il contraccolpo di una cunetta ci inviava colla testa al soffitto, l’arabo mi guardava compiaciuto e il soldato rideva: è il nostro tempo. Ormai provato dalla sorte, mi concessi anche di chiudere gli occhi, quando di colpo mi venne il dubbio: e se venisse sonno anche all’arabo? Per quanto inutilmente, li riapersi subito.
Passò un’altra ora, si videro e scomparvero pochi lumi che avevo preso per avvisaglie di Suez, la strada era più dritta e il camion era ancora più lanciato. Fu un attimo, ma lo vissi col rallentatore. Con un orrendo sobbalzo si scavalcò una specie di parapetto, si procede a rimbalzi su una piazzola in cemento semidistrutta, prodigiosamente ci si arrestò sull’orlo di capovolgersi con un crepitio di ferraglie. “Sorry”, mi disse l’arabo, e fu tutto. Appena scesi, il soldato, senza parlare, in un attimo si mise sul ciglio del cono di luce dei fari e orinò. Accovato in terra, anche uno dei cenciosi arabi orinò, l’altro si guardava alla luce il ginocchio nero con due occhielli da cui il sangue sembrava uscisse come il sugo di una melagrana.
Si era salvi, ma l’ordigno non si sarebbe più mosso. La distanza era variabile, a seconda che la si giudicasse per davvero o per illudermi. Me la sentivo di mettermi in viaggio a piedi, verso Suez? Erano esattamente le nove e mezzo: potevano esserci, disse l’arabo, otto chilometri. Mi faceva vedere una luce lontana, come nelle novelle. Ma io tutto avrei potuto sopportare, fuori che restare nel camion. Dopo mi hanno detto che ho corso rischi gravissimi. Ma io valutai tre cose: che eravamo in cinque, che non si poteva sbagliare strada, quella essendo l’unica, e che c’era con noi un soldato col mitra e le cartucce. A un certo momento fra i timori postumi c’era stato anche quello: e se il mitra nei sobbalzi cominciava a sparare? Poi mi dissi che la realtà era stata abbastanza dura per aggiungere altre ipotesi gradevoli.
Eccoci dunque, di notte, su una strada in mezzo al deserto. Il passo che staccarono gli arabi mi dette un attimo di sgomento. Il soldato, soprattutto, che impose il suo ritmo diabolico a tutti, sembrava che trovasse, per i suoi piedi, respingente il contatto con la terra. Anteo ci si rinfocolava. Egli respingeva decisamente quel contatto, sottile, diritto, come l’aliscafo non tocca il mare che con la punta delle pinne, così egli non toccava la terra che con la punta delle scarpe: a guardarlo raso terra, fra lui e la strada si sarebbe visto uno strato neutro, come il sole prima che tocchi l’orizzonte. L’unico sintomo a cui si accusava la fatica di quella andatura, era il veloce scambio, di tanto in tanto, del mitra da una mano all’altra: e poi sputava. Perché l’andatura veloce gli stimolasse la salivazione invece che seccargliela, come in genere accade, è rimasto un punto oscuro. Tutti dovemmo attenerci a quell’andatura, e, devo dire, che, preso il ritmo, non mi richiese troppo sforzo.
Era notte, era fresco, la strada aveva un fondo discreto e quasi sempre in piano. Così andò la prima ora, e se fossero stati otto chilometri, con quel passo, se ne doveva aver fatti almeno sei: a rigore le prime luci di Suez si sarebbero dovute vedere: luci si vedevano infatti, ma non contava nulla, perché la strada correva ora parallela al canale, ed erano luci alla spicciolata, non erano le luci attendibili della testa di ponte tanto agognata quanto temuta, dove si sarebbe trovato il controllo e io forse la prigione. Intanto si profilarono di qua e di là baracche scure e basse di un villaggio e non so più i cani che presero a latrare. L’arabo si fermò e cominciò a chiamare con quella voce di falsetto e quelle aspirate, che hanno gli arabi: e pareva abbaiasse e si divertisse ad aizzare i cani. Tanto che dovetti domandarglielo: allora lui mi disse che, con quegli strilli, intendeva chiedere se ci fosse un taxi: un taxi in un paese miserrimo e a quell’ora! Del resto nessuno rispose. Ma, fatti pochi metri, si vide invece un cartello con i chilometri: c’era scritto diciannove. Un furore freddo mi prese. L’arabo fu subito pronto a imbrogliare: diciannove erano per il ponte sul Canale, ma noi non andare ponte, noi andare traghetto: dunque sei chilometri.
Quei sei chilometri ebbero la coda lunga: a un bel momento se ne vede un altro, di contachilometri, e ormai all’attaccatura delle gambe cominciava un indolenzimento di cattivo augurio: erano le undici e mezzo. Il cartello segnava dieci chilometri. Quasi non credevo ai miei occhi: nove chilometri si erano fatti, oltre ai precedenti. “Now, only two” disse l’arabo. Ma crederci. Del resto c’era poco da fare: ormai bisognava procedere. Non volevo neppure fermarmi e sedermi, perché so come poi, a riprendere, rotto il fiato, sia peggio. Ma l’arabo credendo non volessi sedermi per non insudiciare l’abito – quale pensiero gentile – si levò il basco e lo spiaccicò su una pietra. Dovetti sedermi. Sedersi e vedere davanti la strada come una fogna nera, subito oltre il deserto, ora divenuto d’un giallore cadaverico, fu assai più sinistro che camminare. La luna s’era levata, infatti, e superate le nuvole, ora proiettava le nostre lunghissime ombre, che mai furono più ombre, funebri ombre, che su quelle sabbie e con quella luce.
Nel frattempo l’unico duraturo sollievo era stato offerto dalla presenza del soldato col mitra. Quando arriveremo al posto di controllo – mi ripetevo come se prendessi a dosi un calmante – la storia del camion uscito di strada sarà autorevolmente attestata dal soldato, e sarà più facile fare inghiottire anche il resto, il mio distaccarsi dalla compagnia per un quasi incredibile ossequio alla scadenza del lasciapassare. Ormai certo la mezzanotte era andata, perché sapevo bene la stima da fare dei due chilometri dell’arabo. Ma è un fatto che i lumi brillavano davvero più da vicino, e una nave che passava per il canale, con le luci rosse, si vide abbastanza chiaramente. Con altrettale chiarezza l’arabo proprio allora mi disse che, al bivio, dove cioè dovevamo prendere la strada del traghetto, il soldato avrebbe proseguito per la parte opposta. Fu un colpo rude e ormai inatteso. Dunque la iettatura continuava insoddisfatta e implacabile: ah, brutta strega con le borse di pus sotto gli occhi! Soltanto che la realtà della situazione non concedeva tregua: bisognava camminare. Finché si arrivò a una casetta e al bivio: ora i lumi erano vicini per davvero. Esattamente faceva mezzanotte e mezzo. Nella casetta c’era una finestra illuminata. L’arabo bussò. Dopo un certo trambusto, la porta si aprì, apparve un soldato. Era il controllo: era un controllo diverso dall’andata. Il soldato aveva sonno: sbirciò la mia famosa carta, l’arabo parlava come una radio a pieno volume. Fu tutto. Poi, come nelle novelle, il soldato coi due arabi portapesi prese a destra, noi a sinistra. Fu allora che apparve un camion. L’arabo lo fece fermare, salimmo. Il camion ci portò avanti fino al secondo posto di blocco: si sarà fatto sì e no due chilometri. Una volta scesi, col piacere che si ha a levarsi la crosta da una ferita e farsi male, mi dissi che ora sarebbe venuto quello che attendevo da tre giorni. Fermato, interrogato: la notte sotto la tenda con un soldato di qua e uno di là… L’arabo entrò sotto la tenda: alla debole luce della mia lampadina vidi il soldato sbirciare il foglio e ributtarsi in branda. Era finito.
Due passi più in là si trovò un piccolo imbarcadero, il canale, la libertà. L’arabo chiamò in due direzioni: ormai era l’una. Il canale brillava, poteva essere largo, in quel punto, come il Canal Grande a Venezia: e separava due continenti, era la pietra anzi l’acqua della discordia, che cosa non era quel dannato canale di Suez. E io sulla sponda come un contrabbandiere. L’arabo a cadenza ripeteva i suoi gridi. Dopo una diecina di minuti una barchetta dall’altra riva si mosse. “Sono rimasto senza sigarette”, disse l’arabo accorato. Io non fumo e lui lo sapeva. Ma ora appena cinquanta metri ci separavano dalla sordida Suez, dove, pure a quell’ora, tutto sarebbe aperto di sicuro. La barchetta era arrivata: scendemmo. Si era appena a bordo che un altro mezzo, a motore questo, si mosse. Inspiegabilmente l’arabo pretese che la barchetta ci accompagnasse al nuovo battello: e quasi si era a mezzo del canale, mentre quello aveva appena attraccato all’imbarcadero. Ci trasbordammo, e che si vede? Qualcosa di inequivocabile: una cinquantina e più di pacchetti di sigarette americane che frettolosamente venivano sistemati in posti vari. Poco prima sulla riva opposta, dall’alto di un traliccio metallico, un riflettore aveva spazzato il canale e l’avevo visto chiaramente posarsi sul battello che ora riconoscevo essere quello su cui ci trovavamo. Il contrabbando: il dannato arabo, non contento di essere uscito di strada, di avermi fatto fare venti chilometri a piedi, e quasi di corsa, ora mi voleva mescolare anche al contrabbando di sigarette, per il suo porco vizio, per non sapere resistere neanche dieci minuti. D’un colpo i miei timori rinacquero e tutti insieme come ripescati dal pericolo nuovo. Uno dei contrabbandieri intanto salì svelto la scaletta con un gruzzolo di pacchetti e scomparì verso le tende di controllo. Anche questo fu chiaro. E così via via si schiariva ogni cosa. Sbarcammo all’altra riva, alla dogana. La mia valigetta fu frugata con diligenza: un’altra guardia ci tastò da tutte le parti, per le armi credo. Ma era finito davvero. Passammo la porta. C’era un taxi pronto. Ed ero vivo, ero vivo: vivo e libero. Non ero stanco, quasi neppure avevo sete: ero vivo, ero libero.
Ma vita e libertà che sono tanto, non sono tutto. Scaricato all’albergo, l’unico possibile a Suez, appresi che non c’era posto, o per meglio dire, c’era solo un letto in una camera che ne aveva quattro: e uno era già occupato. “Da un italiano” mi informò, per incoraggiarmi, il direttore. Del resto non rimaneva da scegliere, a quell’ora, con i patemi d’animo e la marcia forzata di tre ore. Mi rappresentai gli accidenti che mi avrebbe mandato l’inquilino che andavo a svegliare nel cuore della notte. Si entra, dopo aver bussato simbolicamente, e, accesa la luce, il camerone si vede parato di panni: si sarebbero detti ad asciugare: qua una camicia a braccia aperte, su uno dei letti i pantaloni a gambe larghe, e maglie e indumenti vari sulle spalliere delle seggiole. Il brav’uomo, poiché era veramente un brav’uomo, risultò già sveglio: non si scompose, accese una sigaretta e subito iniziò a raccontarmi la sua personale avventura. Aveva avuto infatti la singolarissima sorte, tornando dal Cairo in automobile per imbarcarsi a Suez, di capitare proprio in un terribile nubifragio, che, in quelle regioni, sarebbe come dire da noi l’aurora boreale o il raggio verde. L’acqua aveva traboccato dal gebel come una cascata: l’automobile era stata quasi sommersa, avevano dovuto faticare a tirarla fuori, bagnandosi fino alla vita. Ecco il mistero dei panni tesi nella camera. Per fortuna la valigia di pelle verde – me la mostrò – s’era salvata, ma poi, come non bastasse, o non s’era offerto, un compagno di viaggio, di vendergli un paio di scarpe? Le sue erano bagnate, aveva accettato. Ed ecco la fregatura: non so quanto di più, uno sproposito, gli avevano calcolato nel cambio le lire egiziane. Oh, farabutto: domattina andrebbe a ricercano. Perché non aveva mica da distribuire regali agli arabi: doveva rifarsi il gruzzolo, il brav’uomo. I soldi se l’era tutti spesi per il matrimonio della figlia a Monopoli. E così aveva dovuto imbarcarsi di nuovo, alla sua età. Però, che matrimonio: volevo vedere le fotografie? E subito il vecchietto salta dal letto in mutande e fruga nella valigia. Alle due e mezzo di notte, inchiodato dalla stanchezza, dovetti guardare e ammirare la torta a tre piani, la parentela nera e paffuta stipata in chiesa, stipata a tavola, stipata per la strada. “Un torpedone, capisce? Un torpedone mi toccò a noleggiare per tutti gli invitati.” In conseguenza dodici mesi di mare doveva farsi ora il povero Nicola, marito e padre italiano, anzi barese, uomo probo all’antica: e quell’arabo che, appena salvato dalle acque, non aveva atteso a farlo fesso, proprio a lui, Imparato Nicola!
Avevo sperato di poter essere al Cairo la mattina stessa del 4, ma l’inatteso nubifragio s’era accanito sradicando i binari e interrompendo la strada. Dai giornali si doveva poi sapere il panico dei villaggi, che sono i più all’asciutto dell’Egitto, per quell’improvviso biblico diluvio, e invece la gioia dei beduini sul gebel che vedevano già il deserto lussureggiare di erbe per i loro pecoroni neri. Avevano immolato agnelli facendo fantasia, come ai tempi dei faraoni.
A me, comunque, toccava allungare la strada, attendendo che si arrivasse a cinque per riempire un taxi. Si sarebbe passati da Ismailia. Le quattro persone ci volle un po’ a radunarle: fino alle due non si partì. Devo dire che dopo le vicissitudini passate, questo contentino del diluvio e delle strade interrotte, non ebbe tuttavia il vanto di farmi impennare contro la mia sorte. Ben altro mi sarebbe potuto succedere; l’aggressione dei beduini, per esempio, o che il camion si fosse capovolto. Ero vivo invece, e questa certezza continuava a scorrermi nelle vene come un sangue fresco, più rosso del vino.
Del resto non ebbi a dolermi della strada allagata. Quella è d’una monotonia arida, scorre tutta nel deserto. Invece da Suez al bivio di Ismailia, è come un documentario sull’Egitto. Intanto, costeggiare il canale, che neppure si vede, o assai di rado, dietro le dune di sabbia, dà la sorpresa di accompagnarsi a ciminiere e alberi di battelli che fendono piacevolmente l’arena. E poi, sulla sinistra, gli splendidi pennacchi delle palme non mancano quasi mai. Dove c’era il lago salato, e ora fa da canale, l’acqua si presentava con un meraviglioso azzurro turchese. Non ci fosse stata la radio araba accesa mi sentivo felice. Vivo e felice. Al bivio di Ismailia, il paesaggio cambia quasi di colpo. Si costeggia un largo, colmo, canale del Nilo: la strada è alberata e sollevata perché corre sull’argine. Di qua e di là una rigogliosa campagna si stende, piana, alberata, verde, popolosa. Sembra l’Olanda. Un’Olanda trasportata al Sud, e che subito, con il tempismo olandese, si è messa a piantare palme e gazuarini e acacie invece di querci e rododendri. Bestie paciose al pascolo, prati verdi e umidi, e culture verdi e umide, riquadrate di canali e canaletti: larghe chiazze d’acqua, e vele altissime, gonfie e silenziose che passavano come bandiere in testa a una processione. Perfino il cielo, che in genere è così terso in Egitto, recava fardelli di nuvole che lanciavano ombre vaste e mobili come un aeroplano che sta per atterrare. Per la strada era un fervore e una confusione indescrivibile di camion, asini, carretti. E poi i controlli. Non sono riuscito a contare quanti ce ne fossero. A noi, che passavamo a radio spiegata come una fanfara, ci facevano un segno di benedizione e via: ma spesso c’era una coda di camion carichi, e bisognava aspettare. Eppure la sorpresa di quella campagna ricca, nordica e equatoriale, non mi faceva rimpiangere il tempo perduto. Ora fitte siepi di gazuarini, questi parenti poveri dei cipressi, inclinati tutti dalla parte del vento, e serrati come i pettini dei cipressi in Provenza, racchiudevano aranceti cupi e lucidi: ora immense cupole di manghi creavano un bosco fitto di un verde che sembra sempre stare all’ombra. Hanno, i manghi, foglie lunghe e disposte a stella: sembrano usciti da un quadro del Doganiere Rousseau. Sono alberi naturalmente esotici e generosi: non so quel che pagherei per averli in Italia. Ma non tutto riuscivo a riconoscere cosa fosse: certe foglie enormi, ad esempio, coltivate fitte e con estrema cura, che sembravano di piante ornamentali. E dopo, con l’incallita ignoranza dei cittadini, nessun egiziano ha saputo dirmi cosa siano e a che servano. Per sapere che era soia ho dovuto impararlo dall’Enciclopedia italiana.
Accanto alle solite basse case di terra si levano spesso alte piccionaie bianche, coniche come i trulli pugliesi: piccioni o ibis, bianchi come le piccionaie, s’appuntavano nel verde come spilli dalla grossa capocchia, e i bindoli, qui dotati di una ruota metallica ma ugualmente girati dalle vacche, facevano sentire, alle soste dei controlli, un soffocato cigolio.
Splendida campagna: immensa si stendeva di qua e di là nella purezza dell’aria, rimandata direi come da un gioco di specchi, dalle file di palme, sempre più lontane all’orizzonte. Io pensavo agli stupendi paesaggi del Koninck, e quel che avrebbe potuto trarne, se tanto ha tratto dal verde quasi monocromo dell’Olanda. Qui, sebbene tutti i toni di colore abbiano, sopra, una leggera pruina che li spenge delicatamente, ogni verde è un verde diverso, come in Italia. E la terra arsa, umida, appiccicaticcia pone a tutti i colori come una base invalicabile: non potranno brillare più che a quel modo. Perché, mi chiedevo di nuovo, l’Egitto non ha avuto almeno un Teocrito?
In tutta la strada, una sola villa ho veduto con le scalinate che davano sul canale, e quasi sotterrata da manghi enormi, accoccolati e tondi come chiocce. Fuori di questa villa, pur con la meraviglia di una tale natura su cui non scende l’inverno e il sole sembra starci sempre sopra come su una meridiana, non c’è altre case che quelle vili, di terra, dei fellah.
Veramente sentivo come esistano due Egitti: la città e la campagna. Sentivo fra i due un’unione artificiale, una contiguità più che un’unione. Le città subito proterve, ciecamente moderne, ubiquitarie, ignare del clima: la campagna, che è quella e nessun’altra, con le fasi come la luna, con le fasi della luna, le ore del sole e delle stelle, e le sue tre stagioni con cui fa corpo, in cui continuamente rinasce, senza mai morire.