AL DI LÀ DEL CANALE DI SICILIA

 

CARTAGINE

Diversi anni fa andai in Tunisia. Più che il passato romano e cristiano, era l’architettura araba che mi attirava. Più che l’architettura araba, il paesaggio. Non fui ripagato a dovere da nessuna di queste attese. Pure la Tunisia ha sedimentato bene nel ricordo, e ci tornerei volentieri. Qui dove gli uccelli vengono per svernare, ma poi nevica anche qui, seppure di rado, e quell’aprile – perché era aprile – faceva davvero fresco, più che in Sicilia. Da non crederci, se il concetto dell’Africa è quello che sia un forno, da cui soffia lo scirocco, e allora si sbuffa e si suda a Roma, si sciolgono le nevi, precipitano le valanghe.

Per me la Tunisia è un luogo fresco, col cielo che non è sempre sereno, e da vedere c’è tanto, ma non so perché, non sempre si ha voglia di ricordarlo, quando se ne è tornati.

E forse per questo: che nulla assomiglia all’Italia come la Tunisia. All’Italia del Sud, Puglia e Sicilia, ma anche alla Toscana: quei cipressi che accompagnano le figurazioni puniche, fin dal tempo più antico, e quei cipressi vivi e vecchi, col loro verde come cotto, o scurito dal tempo.

Tunisi è un po’ Taranto, col suo piccolo mare, el Bahirà, e il lago – mar grande e mar piccolo – ma a dire il vero, del mare a Tunisi ci se ne accorge poco, e per vederlo bisogna andare a Cartagine. È qui che l’incontro col nome più fosco della nostra storia antica – latino o non latino nelle scuole, Annibale, Cartagine e Scipione, Enea e Didone, sbarbateli se vi riesce – diviene sorprendente e tenerissimo. Perché il luogo, dove sorse Cartagine, è come vedere Napoli da Sorrento, e ci sta pure una specie di Vesuvio, seppure fenduto per la cima, come una coda di rondine.

Certamente il sito è incomparabile, adatto solo agli ozi, ozi sotto il sole, ozi sotto la luna, odorate notti di stelle e di luci sul mare. Né guerre, né commerci in tal luogo. E fidatevi delle apparenze. In queste apriche colline si sgozzavano bambini come agnelli; da questi modici sbalzi, Attilio Regolo rotolò nella sua botte foderata di chiodi. Lampeggia di sangue, un cielo tanto gentile; sangue rappreso è il colore della terra. Pure, si resta increduli. La realtà, di contro alla storia, ha una sua presenza insostituibile, e la campagna è quella che è, bucolica, degna più di Teocrito che dell’orrida Dea Tanit. Ma che gentile luna a falce inalberano le sue stele! È un Islam avanti lettera, qui davvero fatidico, questa falce di luna nascente, più simile a uno spicchio di popone che a una falce. E c’è perfino una stella, come nella bandiera della Tunisia e della Libia. Un Islam precostituito a Maometto.

Ma io mi esortavo: pensa a Salambò, pensa alle guerre puniche: furono la presa di coscienza di Roma su se stessa, anche se con tanta malafede: ogni sconfitta si doveva a qualche divinità scontenta, che non si sapeva quale fosse, che occorreva imparare dalle viscere degli animali uccisi, dalle frottole degli àuguri. Da tutto, pur di non ammettere che quel Console non ci sapeva fare. No, se perdeva era perché non aveva compiute le sue devozioni pubbliche, prima di prendere il comando. Questo era il suo torto, mica d’essere solo un rozzo spavaldo. E quando il Temporeggiatore glielo disse crudo, ai senatori, che più degli auspici valeva l’arte militare, la forza, il valore, non lo gradirono affatto. Bisognava credere alle frottole degli àuguri, e che Roma fosse invincibile anche quando perdeva: perché perdeva per l’intromissione d’un Dio scontento. Giove l’aveva promesso, come gli farà dire Virgilio nell’Eneide, che gli avrebbe dato l’impero del mondo, e Giove era ottimo e massimo. Alla fine deve avere ragione lui. Eppure con questa radicata superstizione, ce la fecero a distruggere Cartagine, e a invitare elegantemente le sue divinità a trasbordarsi sul Tevere.

Ma anche Annibale, che, per un temporale, non occupa Roma, e dal dispetto saccheggia il tempio di Feronia, quello che è stato ritrovato ora, con le piccole basi di pietra, nella stipe votiva, da cui strapparono le statuette di bronzo e d’oro. È l’unica testimonianza verace del passaggio di Annibale in Italia, perché Canne, si sa, il sepolcreto di Canne è stato una fata morgana. Ossa, sia pure, ma ossa d’ogni tempo. Una seconda Canne, ma dell’archeologia.

Insomma ero in un luogo in cui non si riusciva a rilegare col passato: perfino le rovine della Basilica, viste da Cartagine, con le colonne mozze, sembravano una vigna, come si piantano ora, con le colonne di cemento. Va bene che quelle sono di marmo, ma da lontano l’effetto era lo stesso. Questa terra classica non è classica per nulla, è come se queste cose ce l’avessero riportate per un’esposizione universale.

Andando a Tunisi l’impressione è ancora più irrispettosa. È una città francese di provincia, dilagata intorno alla Medina, abbastanza trasandata e abbastanza grigia, dove la cosa che colpisce di più sono le donne velate, in quell’ambiente così europeo, anche se mid-classe. Così europeo, e loro, piccole e grassocce come in Sicilia, con la loro tendina fra gli occhi e il mento. Sono un involto bianco, sono al limite della maschera, se non fosse per quegli occhi che stanno in agguato sopra la tendina, un misto di fuoco acceso e di carbone spento, e la pelle, dove si veda (figurarsi se anche qui non si bara al gioco, e c’è chi non si mette la tendina, e si tinge le labbruzze, sfruttando il fascino dell’ovale da monaca) è una pelle più pallida che olivastra, una pelle che si è appena alzata dal letto.

Mi sa che i berberi, che qui formavano la base, non dovessero essere così dissimili dai sicani o dai siculi: un secolo e mezzo di dominio arabo (e sia pure che in Sicilia vennero proprio di qui le falangi che la tolsero ai bizantini) non spiegherebbe, senza un sostrato più profondo, tante affinità sconcertanti.

Con la sorpresa, sempre rinascente, di trovarmi, appena in campagna, per la gente in Sicilia, per la natura in Toscana. Sulla terra vedevo nascere le stesse erbe, neanche una un po’ più tropicale, delle prode della mia infanzia. Non è come in Egitto, dove non si conosce più un’erba, un albero, un uccello. Qui si capisce che ci vengono gli uccelli che da noi sopravvivono alla strage del passo: ritrovano l’Italia, ritrovano le bacche a cui sono abituati, i semi, i vermiciattoli, e non i fucili.

 

IL PARDO

In due cose non delude Tunisi: nel Museo del Pardo e nella medina, anche se questa sia abbastanza sfigurata: ma il carattere, come l’odore, questo sempiterno odore di arrostini, non l’ha perduto del tutto.

Il Museo è ricchissimo, soprattutto per i mosaici, ma non solo per quelli. Sono mosaici campagnoli, con raffigurazioni delle grandi fattorie romane; non i soliti soggetti mitologici, ma l’illustrazione di una vita agricola e ricca, fatta come se, in un disegno di un bambino, ci avesse fatto delle aggiunte un adulto. La stilizzazione infatti non è uniforme: gli animali provengono da bestiari ellenistici, sono anitre che starnazzano, oche che girano il collo, uccelli che volano, bestie di ogni genere. Poi, accanto, dei rigidi rametti di fiori e di frutta, intercalati come nei tappeti, e la grande fattoria tutta allineata su un rigo solo.

Più tardi la tecnica si perpetua nei mosaici cristiani, di derivazione bizantina, ma grezzi e grandiosi, con certe applicazioni che si vedono solo in Tunisia: le vasche a immersione per il Battesimo, le lastre sepolcrali: tutte a mosaico. Per quanto, per la religione cristiana, la Tunisia fosse non già periferica, ma uno dei focolai più attivi e virulenti – basterebbero Donato e Sant’Agostino – la provincia è palese nel trattamento imbarazzato degli stilemi bizantini, però con una rusticità e una freschezza davvero disarmanti.

Dove di botto si passa dalla periferia al centro di irradiazione prima, alla Grecia, è nel gruppo di stupende sculture che dovevano essere a bordo di una nave, forse caricata da Silla in Attica e naufragata davanti a Mahdia. Codeste statue, soprattutto i due bronzi più grandi, non sono famose come meritano, naturalmente per la moda dell’arcaico e del deforme che le fa sembrare troppo venuste. Ma altro è vedere le sculture ellenistiche, quasi sempre repliche romane, che si trovano in Italia e fuori, altro questi originali, tanto timbrati e saporiti, da sembrare del Rinascimento. A un tratto si vede che bagliori seppe dare, ancora in un periodo di stanca, l’arte greca. Quel genio alato, efebo tenerissimo per cui sarebbe impazzito Donatello, è come rivestito di una calzamaglia di luce. Morbido come poteva modellarlo il Correggio, se avesse scolpito, indifferente ma presente come chi sa di esser bello, snodato come un serpente, avvolto nello spazio come se vi nuotasse, da ogni lato gira, da ogni lato porge profili armoniosi come disegnati a punta d’argento, melliflui chiaroscuri e trapassi vellutati d’ombre, lustri liquidi quanto quelli che vengono da un attrito lungo e dolce e ripetuto della mano. In nessun altro caso l’altezza formale e la lascivia procedurale dell’estrema maturazione dell’arte attica arriva all’altezza di questo stupendo efebo alato e dell’erma che gli sta accanto.

Ma è tempo di passare all’arte indigete, alla roba punica. Di tutte le civiltà mediterranee l’arte fenicia, con la sua sottospecie punica, è di gran lunga la più modesta. Grezzi furono e grezzi rimasero, tanto i fenici quanto i punici: tutto arriva di riflesso, ma come riflesso in uno specchio opaco e deformante.

Ora in Italia c’è una grande voga per gli scavi punici, in Sardegna e in Sicilia, e devo dire che i reperti non sono affatto più bassi di quelli tunisini. Poi sono oggetto di studio e di storia: alcuni luoghi, dove i punici approdarono, così Motia, sono addirittura edenici, ma le plastiche restano quello che sono: come le sculture che si fanno con la pasta del pane, che poi, a seconda del punto di lievitatura e di cottura, sfuggono al controllo della prima impronta.

Così non ho mai stimato molto i fenici, per la loro arte, dopo essere stato a Beirut, e ora stimo ancor meno i punici, dopo essere stato a Tunisi. Tutto ciò che è punico, è d’una mediocrità, d’un livello artigianale, che, in epoca così antica, e manualmente così allenata, sorprende. La scultura delle stele non va oltre all’intaglio, la scultura fittile, se si toglie certe maschere sguaiate e quasi quasi di una cultura Maya, è rozza, incespicante, maldestra. I grandi gruppi di Thinissut lo dicono a chiare note. In confronto viene alle labbra soprattutto per la raffigurazione etrusca del tipo Magna Mater, o Mater matuta che sia, la divinità femminile seduta col bambino in grembo, e la parallela divinità punica, col bambino, proprio quella che viene da Thinissut. Ora si sa che ci furono contatti diretti, a Pyrgi, fra etruschi e punici, ma non importa l’iconografia, è la rozzezza punica che è quasi imbarazzante. E non diciamo poi della dea con la testa leonina, che raggiunge il comico involontario. Ciò stupisce anche più, perché i fenici non erano ignari della grande arte egiziana e di quella assira. Ma con invincibile spregio di commercianti ridussero l’obelisco a una fetta, e in quanto ai sarcofaghi antropomorfi (di cui, con sorpresa, non ne ho visti neanche uno, né al Pardo né al Lavigerie di Cartagine) sembrano copiati con grossa calligrafia infantile dai venusti esemplari egiziani. Non ci resta che la faccenda dell’alfabeto: ma questa non è arte.

Accadde così che il massimo interesse che mi procurasse l’arte punica, è di avermi sciolto l’enigma delle sculture libiche di Ghirza. Il discorso si farebbe lungo e tedioso, visto che, anche fra gli specialisti, pochi le conoscono. Sono tombe nel deserto libico, dove i romani ebbero un avamposto, e, dato il periodo tardo, intrigano per la reviviscenza di forme antichissime e d’altro lato preludenti al Medioevo. Ora che ho visto la tomba a campanile di Thugga, la quale altro non è che una torre coronata dalla piramide, ma la piramide è soltanto la punta finale dell’obelisco, non dubito più che quella mescolanza di Asia Minore e di tombe dei glossatori, come appunto si vede a Ghirza, altro non è che un’infiltrazione punica. Una reviviscenza. In epoca romana la cultura primitiva punica ebbe un soprassalto: le stele di Ghorfa, neo-puniche, e con scritture latine, lo dimostrano. Inoltre il monumento funebre di Thugga aveva un’iscrizione bilingue, ora al Museo britannico di Londra, in libico e in punico. Ecco dunque l’anello.

Certo, le tombe di Ghirza non hanno iscrizioni, e chi sa se neanche sapessero scrivere, quei libici romanizzati del deserto. Ma proprio questa vacanza immemore nel tempo concilia pure la diversità di data. Anche se Thugga non è datata, si può accettarla al I-II secolo a.C., mentre i monumenti di Ghirza, seppure adespoti, sono alla soglia bizantina, non fosse che per la raffigurazione del cammello che è introduzione tarda, in Africa. Ma dopo aver visto la rinascenza barbarica delle stele neo-puniche con iscrizioni latine, non può meravigliare la diffusione e la persistenza ancora più a Sud, in pieno deserto. E forse che l’arte egiziana non rivive a più di mille e cinquecento anni di distanza, nei bronzi del Benin?

 

EL DJEM

Dopo il bivio di Hammamet le viti scompaiono: era un prato, di qua e di là dalla strada, un prato di germogli teneri come manine puerili su avambracci neri, magri, nodosi. Insomma la vigna alla francese, ma fatta da coloni di Pantelleria, che ora, ho saputo, sono emigrati ad Anzio. E speriamo che lì restino, i bravi panteschi, visto che si rischia, con l’esodo dalle campagne, di rimanere senza roba fresca da mangiare e da bere.

Finiscono le vigne, ma cominciano gli ulivi: ben tenuti, potati come in Toscana, prima di questa nuova miracolante potatura Roventini, a quattro corna, per intendersi. A dir la verità, sono piuttosto spelati, questi ulivi tunisini: sarà, certo, l’asciuttore, ma, a volte, sono addirittura trasparenti. Scendo, per vedere se hanno la trama. Ce l’hanno, ma ancora minuta come confettini di zucchero, ova di bachi da seta. Anche per il clima non c’è, con l’Italia, questa differenza che si aspetterebbe.

La strada asfaltata è larga, ma più larga perché con due stradoni a sterro, di qua e di là, per i cammelli: e ancora più in là, ci sono tanti cercini spinosi, di quelle spine trafiggenti del deserto, che furono le stesse della corona di spine. Proteggono le pianticelle di eucaliptus, grandi come piante di basilico, dalle capre e dalle pecore o dai cammelli: ma forse solo dagli uomini.

Questo paesaggio d’una regolarità esasperante, senza una casa, e deserto di uomini, come lavorato di notte da geni schiavi delle Mille e una notte, e quasi senza un filo d’erba; questo paesaggio è una Puglia più povera, coi colori più tenui, e, magari, con gli ulivi tenuti meglio, ma così calvi, Dio buono, così accartocciati.

Finché si arriva proprio nella steppa: a due centimetri da terra, erbe come un’incinerazione della vita vegetale. E questo è il miracolo di El Djem.

Perché, da una tale steppa desertica, sorge l’anfiteatro di El Djem come una corona immensa posata su un suolo senza testa. Pensate pure alla corona ferrea di Monza, ma non al Colosseo, non all’anfiteatro di Pozzuoli, che certo sono più grandi, e di questo e solo di questo si preoccupa la propaganda turistica. In realtà niente può rivaleggiare con El Djem: né Nîmes, né Verona, né Pola. El Djem è la città di Gerico o la Gerusalemme celeste: ma non è, mai e poi mai, il Colosseo. Rozzo come un manufatto popolare, scandito in battute fra colonna e colonna, come occupate da una sola breve, dico una nota, ribattuta lungo tutta l’ellisse: questo sperduto Colosseo del deserto sveglia dal sonnifero viaggio come con la tromba, anzi con la grancassa del Giudizio.

D’un bel colore di pane di grano duro, giallo cioè, e sotto di sé, tutto intorno quelle casucce bianche e celesti, basse come canili, inette, senza iniziativa, come uova nel nido della chioccia. E chioccia è El Djem, abbastanza bene conservato e abbastanza distrutto, per essere come lo spaccato di se stesso, l’alzato di se stesso, la campionatura di se stesso. Non manca nulla, così, anche se ne mancano varie parti: le sostruzioni non sono allo scoperto come nel Colosseo: le gradinate – campionate e, a dire il vero, per razza berbera, con le reni strette – e tutti quegli andirivieni di scale, corridoi, criptoportici, e arcate come sbadigli sventagliate circolarmente sulla rosa dei venti.

Con che è detto tutto, perché, per interessante che sia quel ritmo delle semicolonne che non lega con quello delle arcate – proprio la fermentazione in atto della classicità, il vino che diviene aceto – l’anfiteatro di El Djem è un carosello fermo. Via, via, più presto che sia possibile, a vedere la grande Moschea aglabita (se me la faranno vedere) di Sfax.

Ricominciano gli ulivi, ancora più divaricati, con la terra lavorata e sterile, e quelle chiome, invece, contate foglia per foglia. Sarà il tempo nuvoloso, il vento carico di sabbia tanto fina, che non offusca neanche l’aria, ma si deposita tutta nelle fossette lacrimali (e sembra, a un tratto di averci, non la cispa, ma i calcoli), ebbene questo paesaggio mediterraneo sembra un film in bianco e nero tratto dal vero paesaggio mediterraneo, dico la Puglia. La Puglia è a colori, la Tunisia in bianco e nero.

Ma eccoci a Sfax. Ebbene, si ha un bel riconoscere che la cinta della Medina è tutta ricucita da non essere più che un solo rammendo e mille toppe: l’impressione che fa è sempre grandiosa. È uno scrigno che conserva solo le impronte, come un astuccio, dei gioielli che vi furono.

Pure, un gioiello vi resta, ed è la grande Moschea aglabita-fatimita. In verità ero già rassegnato a non vederla che di fuori, girando in su e in giù come davanti al muro del pianto: però, mentre stavo sbirciando attraverso le porte della facciata monumentale – è quella facciata che mi ha fatto venire sin qua – un giovane arabo grasso e in ciabatte mi interpella: “Vuole vedere?” mi dice. “Fosse possibile” rispondo. “Venga” conclude. Ci si leva le scarpe e siamo dentro: nessuno, della poca gente, protesta. Eppure se c’è una faccia d’infedele è la mia. Sembrino pure, i tunisini, dei siciliani, con quella pelle che, più che olivastra, è la buccia stessa delle olive: ma io sono etrusco, toscano, inguaribilmente roseo. Proprio non gli assomiglio. Pure, nessuno mi disturba, giro sotto questi meravigliosi archi, che, in nessun posto, dopo Cordoba, sono così ansiosi, ogni volta, di attirare il cielo, di incatenarlo alla terra. Leggere travi di legno uniscono le campate: l’idea è bizantina, ma, in un diverso contesto, è come nuova. Colonne e capitelli sono di spolio, romani e bizantini cioè, ma lo spazio è richiamato in modo così aereo e trasparente, che davvero ci si sente come risucchiati in una serie di orbite stellari.

Gli archi sono appena oltrepassati, ma si reggono come in punta di piedi sul piedritto: non sono a ogiva, ma quasi delle meravigliose bolle di sapone che stiano per staccarsi dalla cannuccia svasata dei capitelli. Come mai potrò ringraziare l’anonimo e grassoccio arabetto che mi ha contrabbandato nel luogo dallo spazio più aereo che forse l’architettura conosca? Nessuno, allora, poteva entrare in questo geloso tempio, dove pure, per definizione, come nelle altre Moschee, il Dio è assente, e solo si prega guardando dentro una nicchia vuota.

 

SBEÏTLA

Da Sfax a Sbeïtla la strada è come una fiumara secca, in mezzo a sterminate ulivete. Non sono ulivi molto vecchi, forse non hanno un secolo: vennero posti a notevole distanza l’uno dall’altro, assai più di quanto si sia soliti vederli: il calore violento, la terra non molto ricca deve avere suggerito questo accorgimento. Rialzi bassi, di terra battuta, chiudono dei vasti bacini intorno al pedano, come in Calabria: per trattenere l’acqua preziosa, quando venga dal cielo.

Questa vegetazione uguale, con gli alberi potati allo stesso livello (assai ben tenuti), e così a perdita d’occhio in un terreno piano e praticamente senz’erba, assomiglia il meno possibile al regno vegetale. Non sapevo spiegarmelo, ma era come se gli ulivi non fossero alberi veri, ma delle colossali pedine arboree su uno scacchiere senza fine.

Ad un certo punto, mi era stato detto, neanche a venti chilometri da Sfax, c’era un belvedere, un rialzo da cui si godeva una vista incomparabile. Mi ero talmente assuefatto a quella rotazione di ulivi di qua e di là dalla strada, che non riuscivo a immaginare perché la vista dei medesimi ulivi sarebbe stata incomparabile a pochi metri al di sopra del suolo. E quando si arrivò alla svolta e si vide il monticello, che dire modesto è ancora poco, quasi non avevo voglia di salirci sopra. Se ci andai, fu perché il conducente, che parlava tre lingue e non ne capiva nessuna, non capì, né in francese né in italiano, che era meglio lasciar perdere. Così si arrivò in cima: in cima per modo di dire.

Orbene, mi toccò a ricredermi. Da quella modicissima altezza si scopriva un orizzonte esattamente circolare, come se la terra fosse una tavola rotonda sospesa nello spazio, e, su quel modesto cocuzzolo, ci se ne stesse esattamente al centro. Mi sembrava di trovarmi al pernio delle lancette di un orologio: girandosi pareva che con gli occhi si toccasse l’orizzonte, proprio come se lo sguardo si allungasse fino alla circonferenza. Mai avevo provato una cosa simile: neanche in mezzo al mare. Gli ulivi trapungevano il pianoro sterminato, ora in un verso, ora in un altro, e i vari appezzamenti, sembrava, girando gli occhi, che lentamente evolvessero per mettersi in riga lungo i raggi che uscivano dal centro, proprio con il moto impercettibile delle sfere di un orologio. Rivolgendosi di scatto, veramente non parevano allo stesso punto di prima. È stato, questo spettacolo, nella sua illusività puramente mentale, quanto di più inatteso potesse fornire il paesaggio più uniforme che esista.

Scesi di là, la strada pareva non avesse mai fine. Non si incontrava nessuno, non si trovava una casa, il nastro asfaltato si appuntava e finiva all’orizzonte. Finché gli ulivi si diradarono ancora, cessarono. Apparvero delle immense chiazze bianche, come distese di sale, cespugli bassi e duri, come foruncoli della terra, cammelli stracciati, e, in fondo, una catena di monti brulli ma teneramente viola.

Improvvisamente da terra l’acquedotto rimontò sopraterra, e in quell’arida steppa ecco apparire belle lame d’acqua, come per una pioggia recente e limitata a quel solo punto. Ma ci si stava ormai avvicinando a Sbeïtla, che fu l’antica Sufetula romana, ed era ed è ricca di sorgenti. Ricominciò l’orzo in erba, e poi gli ulivi e i mandorli, apparvero le masse sempre un po’ confuse degli eucaliptus.

Sbeïtla è un piccolo paese, quasi tutto nuovo e bianco, dove durante la guerra ultima furono internati ad arrostire gli italiani: in quanto agli avanzi romani, assai belli e grandiosi, la strada gli corre accanto, e, dall’altra parte, le balze dell’uadi.

L’arco di Diocleziano, restaurato, ma meno peggio di quanto sembra sulle prime, iniziava la via principale, che però non dovette mai essere porticata, ancorché lo si potesse supporre in questa città, che è una città alle soglie del deserto e dunque carovaniera. L’arco è di pietra cotta al sole come in una fornace, quasi rossa: ha un grande fornice, proporzioni rurali ma equilibratissime. La via è lastricata da grandi e lunghi parallelepipedi, assai inusitati; non il solito basolato romano. Di qua e di là si alzano delle pietre verticali, come erme scapitozzate, riempite, framezzo, di una muratura irregolare. Forse appartengono tutte alla tarda sistemazione bizantina.

Si arriva infine alla cinta del Capitolium, ancora ben conservato, con i tre templi.

Vien fatto di pensare a Baalbek, per quanto l’insieme non sia così imponente. L’ingresso è un altro arco trionfale, di Antonino Pio, questo, e veramente il recinto-portico con le scalinate dei tre templi corinzi si pone fra le reliquie più suadenti e solenni della romanità. Proprio perché non è esorbitante, non schiaccia né sorprende il tapino, ma sembra la scena solida di un teatro del Rinascimento o lo sfondo di un dipinto di Poussin: e poi quel colore così acceso, contro un cielo quasi di montagna.

Ci sono molti altri monumenti a Sbeïtla, le terme, il teatro, una immensa cisterna, e le basiliche cristiane: ma l’impressione di quell’augusto recinto con i tre templi fa impallidire il resto. Certo, c’è il battistero a immersione del VI secolo, a mosaico come quello ricostruito al Pardo, e con strane forme arrotondate, quasi preislamiche. Poi un architrave con la non consueta iscrizione, per l’epoca bizantina, “hic domus orationis”. Tante altre cose notevoli, dalle piante delle basiliche con doppia abside, alla chiara e conservata urbanistica della città. Sta il fatto che quei tre templi non escono di mente.

Il paese, per quanto così remoto, è civilissimo: gode del raro elemento, l’acqua che affiora, l’acqua che fa nascere il grano e l’insalata: quest’acqua, che, non so perché, non sembra venire dalla terra, ma essere scesa come la rugiada di notte, dal cielo sereno.

 

KAIROUAN

Sono stato in tanti altri posti, dopo Sbeïtla, e soprattutto a Kairouan, a Soussa. Il viaggio si svolgeva su un fondo melanconico: era un viaggio fatto al passato. Ma certo, Kairouan è una tappa da non confondersi. Né solo perché è una delle città sante dell’Islam, e, la sua moschea rappresenta un monumento capitale, il più antico di Tunisia, uno dei più antichi, subito dopo Gerusalemme e Damasco, Samarra e Cordoba.

Caso curioso, la Moschea di Kairouan, per quanto sia la più illustre dell’Africa, la più santa, era aperta ai visitatori, senza bisogno di sotterfugi. Ma anche il paese è stupendo, entro le sue mura, battuto alla base dall’erba verde, come da una silenziosa riviera. Lo si vede tutto dall’alto del minareto della Moschea, ed è uno spettacolo come di un’alba in cui non si levi mai il sole. Che c’è, naturalmente, e sfavillante, ma il bianco di quelle case, delle terrazze, delle cupole ha una sua luce che trattiene quella del sole da farla da padrone. Ed è una luce d’alba, perché non scende, s’irradia, il cielo appena la contiene: donde quella del sole si ostina a fustigare pareti e tetti, a tagliare ombre azzurre come sciaveri di cielo. La luce d’alba subisce, ma non si spenge, non si fonde: scorre lungo le pareti come un leggerissimo velo d’acqua, o come fosse una pruina, o come se ci fosse una mano invisibile che la spalma e la ripassa. Così l’interno della stupenda Moschea è simile a un fondo marino, in cui i bagliori metallici del famoso mihrab inseriscono riflessi caldi, lampeggianti, in un silenzio che è come un vaso sigillato, per cui la voce si spenge nella gola. Ma il respiro è lieve, l’aria secca del deserto arriva con un alito nuovo nei polmoni, come nella respirazione bocca a bocca. Qual è il nostro tempo, quale è l’ora nostra che non fugga e si fermi, accanto, dietro a noi, come la nostra ombra? Ecco mi precede, il sole che tramonta l’allunga davanti a me come se dovesse stendermi su tutta questa terra, e la mia ombra fosse una presa di possesso, e il mio passo un lento accomiatarmi da me stesso. Il sole è caduto, il crepuscolo sarà breve, ma la luce dell’alba sale dalle mura come le bollicine dell’acqua e queste bollicine arrivano alle stelle. Eccola divenuta stella, la luce dell’alba, e al fondo sta la città santa chiusa dentro il cielo senza uscita, senza scampo, senza speranza.