IL RICHIAMO DELL’ISOLA

 

PROCIDA

Procida, per la prima volta, sillabando l’Eneide, l’avevo conosciuta in Virgilio, né allora, nei banchi della scuola, mi aveva interessato più che tanto. Più tardi, molto più tardi, l’avevo incontrata nella flebile novella di Lamartine, che la celebrò indirettamente con la troppo famosa Graziella. E poi, a Napoli, tutti i napoletani dovevano parlarmi male di questo isolotto abitatissimo, sinistramente dominato dal penitenziario. Ecco quel che fu Procida per me, prima di sbarcare alla Marina grande, per condiscendenza a un amico che vi aveva quasi avuto i natali. Era l’anno prima di quest’ultima guerra.

Tale premessa valga a dare il giusto valore a quel che segue. In realtà la Procida d’allora ha ben poco a che fare con la Procida di ora, e questi vent’anni sono stati rivoluzionari. Ricca lo era sempre stata, ma ci teneva a sembrar povera: a non dividere mai le eredità che procedevano indivise di generazione in generazione; a non edificare case nuove ammucchiandosi in quelle vecchie; e non ammetteva nessuna novità di usanze. Al punto che, sebbene a due passi da Napoli, ancora io ho visto per certe cerimonie, un battesimo per essere preciso, usare i meravigliosi costumi femminili: dei costumi che se si trovassero in una isola che fu di dominazione turca, non meraviglierebbero. Ma qui, a Procida, i turchi non ci sono mai stati: un po’ di incursioni saracene, se mai, e queste certamente lasciarono più tracce nel sangue che nei costumi. A vedere il tipo procidano, infatti, ci sarebbe da giurare che gli arabi ci stettero più che in Sicilia. Invece ci stettero poco, ma fecero le cose in fretta: e il risultato furono quegli occhi ombrosi, quelle membra lunghe e ossute, quella pelle che non ha bisogno di sole per essere nera. Cosicché vien fatto di pensare che San Michele, il patrono dell’isola e il nemico delle incursioni saracene, non fu così drastico con gli invasori.

Ma in quanto al costume delle donne, con quella specie di lunga princesse di raso rosso ricamato d’oro e d’argento, il grembiule di seta paonazza ricamato anch’esso, e, come mi si assicura, i calzoni di mussolina bianca rigonfi alla caviglia; il costume era turco spiccicato. Ora, questi splendidi e costosissimi costumi – credo che costerebbero come una divisa d’ambasciatore – sono a consumazione: si vestono per quella festa paesana, rumorosa e di poca consistenza, che è l’elezione della Graziella: l’aspirante Graziella si deve ammaiare a quel modo. E naturalmente passando attraverso il tempo, il costume si è ristretto anche di capi, e come ha perso i calzoni, così ha sostituito il copricapo con uno scialletto moderno e inequivocabilmente stonato. Ciò non toglie che sia rimasto un costume grazioso, che dona soprattutto alle more, e, per l’oro e i lustrini, si mette in gara con gli occhioni scuri.

Allora, quando arrivai a Procida, le donne, se non erano vecchie e chiuse negli sciamanni neri, non si vedevano che per la festa della Graziella e per le processioni. Compunte, col nastro celeste delle Figlie di Maria, bisognava vedere come procedevano a passettini. E invece non mi risulta che siano tanto compunte quando non vanno in processione. Ora tuttavia si vedono anche per strada, e almeno dal primo al venti agosto fanno pure il bagno di mare, e perfino, qualcuna, col bichini. I futuri mariti le guardano a vista: poveri ragazzi che per nove mesi dell’anno sono in mare e per nove mesi sognano l’isola, la ragazza, la pastasciutta casalinga, e accumulano soldi su soldi, senza spendere un centesimo, prima per far sposare le sorelle, e una volta finalmente accasate loro, solo allora la fidanzata in attesa, che in loro assenza non si fa vedere per strada, sorvegliata speciale di due madri, la sua e la futura suocera, sarà soddisfatta. Nel frattempo accumula il corredo. Ed esistono ancora, qua a Procida, corredi che mi sembrano favolosi, al giorno d’oggi: cinquanta, cinquanta, cinquanta. Di tutto cinquanta, dai lenzuoli alle camicie da notte. E se poi passassero di moda? Non significa la moda, significa di poter aprire i cassetti e i bauli e farli vedere stracolmi. Poi magari per l’uso quotidiano si adopera altra roba, e il corredo passerà alle figlie e così via. Non è da credere che le cose sian tanto cambiate, in questo settore: la storia delle cinquanta paia di lenzuoli dura ancora, e anche delle camicie. Mentre il marito navigatore sogna l’isola e il letto con cinquanta lenzuoli e cinquanta camicie.

Il gusto di narrare queste sopravvivenze arcaiche, di una società decisamente arcaica, mi ha fatto ritardare di descrivere Procida, o meglio di motivarla: perché non metterebbe conto di parlarne solo per quanto si è detto.

Ora, Procida, è tutta in quell’arrivo che si fa a Marina grande, venendo da Napoli o da Pozzuoli; e che mi lasciò senza fiato. Perché da lontano, tanto è schiacciata l’isola quasi non si vede, o sembra la predella di quel grande altare che è Ischia. Procida, la predella d’Ischia, non ci godrebbero affatto i procidani, che amano solo se stessi e neppure vogliono sentire dire che sono napoletani; ma l’immagine vale nella prospettiva del golfo, dove Procida, se non si sa com’è fatta, non si distingue da Ischia, sembra una propaggine d’Ischia. Per questo la sorpresa si ha tutta insieme. Ed ecco la sorpresa. Un allineamento di case di tutti i colori, strette come una barricata, con tante arcate chiuse a mezzo, come strizzassero un occhio. E sopra un verde intenso, prepotente, quasi selvaggio, tanta è la forza dei getti e dei tralci: viti e limoni. Vi posso assicurare che Procida è tutta qui, e nell’interno, e fino all’altro capo del paese la Chiaiolella, ripete lo stesso spettacolo. Ma è impossibile stancarsene. Perché, almeno fino a qualche anno fa, niente era più autentico della palazzata senza palazzi, della barricata di case che sembra sbarrare l’ingresso a chi sbarca, al forestiero.

La seconda volta che tornai a Procida, era di maggio. E l’incontro avvenne prima di sbarcare: fu l’odore dei limoni in fiore che avanzò gentilmente sul mare e si depositò a bordo, prima che calasse l’ancora. Come uno sciame di invisibili farfalle, che talvolta si incontrano sul mare, quel profumo era una presenza viva; era Procida. Poi scendendo a terra e andando in campagna, trovai una campagna quasi soffocata dalle viti altissime, e framezzo i limoni, e sotto i limoni le patate, e ai bordi di questi congestionati giardini, come non bastasse, la terra che si sfoga a produrre per conto suo ciuffi di margherite gialle e di odorosissima camomilla. Con quei fioretti che guardano, dalla pupilla gialla, la camomilla emana un profumo tenero come un guanto, dolce e un po’ colloso come il miele. Mentre l’odore del limone in fiore ti assorbe in una nuvola, quello della camomilla te lo senti addosso come un polline misto a rugiada. In nessun luogo mai Virgilio è più vicino che qui a primavera. E del resto, da lontano si vede Cuma, si vede dove s’infossa il lago d’Averno, si vede Capo Miseno: tutto il sesto libro dell’Eneide mormora nei profumi, si legge nei colori.

Ma Procida non è solo Virgilio, e i Campi Flegrei e il golfo di Napoli. Procida possiede ancora un’architettura, che se anche è pittoresca, è assai più che pittoresca, e che, per questo, esige rispetto e tutela anche da parte di chi non ci va con animo virgiliano e non si commuove a vedere la chiostra del golfo di Napoli, ancor oggi un luogo dell’anima più che della terra. Procida ha dunque questo, che di tutte le isole del Mediterraneo, che in parte recano normalmente le tracce di quello che senza ragione si intende per stile caprese, ha conservato gli esempi più puri e numerosi. Questo stile mediterraneo, tanto per intendersi, non è uno stile mediterraneo, ma niente meno che la propaggine rustica di un’architettura illustre, la tardoromana e bizantina, e, a Procida, con qualche infiltrazione di gusto arabo proveniente da Salerno. Così potete vedere almeno in tre case superstiti all’Olmo, l’arco col piedritto rialzato, come a Salerno, e spessissimo la colonna col capitello e il pulvino. Ma dove non si aspetterebbe sfociare un’architettura tutta di volumi e di colore come la bizantina, di cui, ripeto, quella di Procida è rustica progenie, è nel fatto di apparire come un’architettura estremamente plastica, quasi modellata dalla mano, invece che con la cazzuola: bisogna vedere la gradualità plastica degli sporti, gli spigoli tutti arrotondati come se fossero coperti da mosaici, le risoluzioni impensate liberissime degli archi e delle volte su cui girano le scale esterne. Insomma, entro la gravitazione di un’architettura basata esclusivamente sull’arco e sulla volta, la massima libertà di flessione plastica nei raccordi di una membratura con l’altra. Su questo che è il ceppo nobile dell’architettura procidana, e che in nessun altro luogo o isola è così ben conservato, ha accumulato il tempo le sue stratificazioni di comodo o popolaresche. È un impiego di comodo quello di avere tagliato l’arco di una terrazza a metà, per ricavarci una stanza e servirsi dell’altra metà come terrazza: è invece una popolarizzazione di questa architettura che doveva essere bianca, l’uso delle tinte, e che tinte soavi, rosa, celeste, giallo. Ma a questo doppio assalto dell’utile e del grazioso facile, l’architettura di Procida ha resistito: non è stata, insomma, sopraffatta. E a questo deve di non essere restata fossile, ma viva, prodigiosamente viva, dove non ci mette le mani l’architetto moderno: che allora rovina tutto. E tanto più rovina, se vuole riprendere lo stile abbellendolo, naturalmente, con piastrelle, ferri battuti e altre sconcezze. Vedete la nuova strada, troppo larga che sembra sganasciare l’isola: un’isola tanto piccola che il suo diametro massimo non fa tre chilometri. Codesta strada, che già allo sbocco sulla Marina ha infranto malamente la successione serrata delle case, è un campionario di brutti villini falsamente moderni, un campionario cioè di un gusto già attardato e contaminato da un repertorio insulso di stili che vanno dallo spagnuolesco al procidano di maniera: in fondo a questa strada fasulla, si alza la Terra murata con il suo carcere cupo, ma visualmente degno. Mentre, abbassando lo sguardo fra i pochi superstiti limoni, si ritrova la gazzarra dei villinetti, degli chalet pretenziosi con le scalinate fatte a ventaglio, che, cosa mai vista, cominciano strette e finiscono larghe; miserabile fiera paesana senza più il decoro di una povertà rispettabile e con la sfacciataggine dell’arricchito che ama solo il lustro e il nuovo.

Ancora resiste la vecchia Procida all’interno del paese, lungo la salita della Terra murata, con case bellissime dai colori rosati, acquei, paglierini: ma già la Terra murata, dove la gente non vuol più stare, è caduta in rovina, sbriciolata anzi, come accade in questi muri per metà impastati di fango, se fa tanto di scrostarsi l’intonaco. Pure mette il conto di salire alla Terra murata, perché il panorama è quanto di più ameno e variato: Procida è come un polpo, avanza i suoi tentacoli, e sono i verdi promontori di Pizzago, di Solchiaro, e dall’altro lato, verso Ischia, di Punta Serra, del Cottimo. Un fazzoletto di terra ma tutto tratagliato, e come se i crateri sprofondati che fanno baie di acqua tiepida e limpidissima, fossero piuttosto laghi in riva al mare, come laghi sono rimasti, quelli poco più lontani, sulla costa flegrea, dell’Averno e del Fusaro.

Poi, proprio sotto la Terra murata, il porticciolo della Corricella con le barche da pesca, come gli insetti neri che si vedono nelle acque morte, o come foglie secche, o come gusci vuoti: e la loro cava occhiaia quasi riproduce nell’acqua le cave occhiaie delle porte e delle finestre: di quelle case povere che si sovrammettono sulla riva, più scavate nella roccia che costruite. Un paese formicolante, una termitiera, eppure così umano, così umile e splendente, nella notte, coi suoi colori leggeri e stinti. Come sciacquati nel lume di luna.

 

ISCHIA

A Ischia era andato dopo la fine della guerra, e ancora, Ischia, restava allo stato agreste. Pur la ricchezza di acque termali e fanghi, che aveva attirato fino all’Ottocento i visitatori, e alcuni illustri come Lamartine, non era riuscita a intaccarne l’aspetto campagnolo e paesano; sicché, a parte le poche distruzioni dei bombardamenti, si presentava con la freschezza spontanea e la naturale trascuratezza di un luogo lasciato fuori dalle correnti del traffico.

Sono passati vent’anni, e, a chi va a Ischia ora, sembrerà impossibile che così potesse essere fino a tanto pochi anni fa. La trasformazione di Viareggio, con le decine e decine di chilometri di spiaggia, è stata certo notevole: ma Viareggio esisteva anche prima dell’altra guerra, da quando la spiaggia soppiantò definitivamente lo scoglio. Ischia, invece, come luogo di bagni non esisteva proprio, e sono i bagni di mare, non i fanghi che l’hanno trasformata. Nessuno creda che in questa trasformazione si voglia inneggiare al progresso. Certo l’acqua corrente, le strade asfaltate sono una bella cosa: ma il resto? Il resto, come dice Figaro nel monologo famoso, il resto ciascuno lo sa. Quel che portano l’acqua corrente e le strade asfaltate. A Ischia ha significato la ricchezza, forse effimera, e un’invasione di potentati recenti, di ville pretenziose, dietro alle quali arretra la campagna di un tempo, le case rosa e celesti, luminose e trasandate, ridenti e miserabili, come in tutta la campagna vesuviana.

Ma Ischia era ed è un’isola grande, leggermente torpida, perché guardata dal suo grande Epomeo, un monte bello di nome e di fatto, un vulcano che fece i suoi disastri e che ora si limita a emettere acque calde e salutifere un po’ dappertutto lungo la sua base, come valvole che sfiatano il residuo vapore. Allora l’Epomeo, con il suo profilo di triangolo scaleno, come è di tutti i vulcani spenti, domina dal Golfo di Scauri a quello di Napoli, è azzurro, trasparente al tramonto come l’azzurro di una vetrata. Ed è un monte vestito di castagni, e, prima dei castagni, è coperto di viti fitte come la borraccina. Queste viti a terrazze, che, solo in qua e in là, sono punteggiate da case rosa e celesti, con una grande arcata. E nel silenzio caldo e aleggiato dal vento marino.

L’amenità dell’isola è tale che una sola domanda fa sorgere: come ci misero tanto a scoprirla? Avessero tardato un altro po’, sicché il turismo di massa avrebbe preso un’altra strada. Napoli, verso Gaeta è piena di spiagge, più belle come sabbia di quelle d’Ischia, e assai più comode per arrivarci, senza il viaggio per mare. Ma ora, per arrivare a Ischia, c’è solo l’imbarazzo della scelta, fra il battello e l’elicottero, il ferry boat per le automobili, l’aliscafo, le tartane attrezzate di fortuna per macchine e passeggeri. È un traffico continuo, molto festoso a vedersi dal mare o dal porto. Riversa fiumane di gente, inghiotte al ritorno fiumane di gente. Che resta, nell’isola, di tanta gente? Ho paura ben poco, se devo dar retta alle lamentele di tassinari e bottegai. Ma io non voglio unirmi a quelle lamentele. Perché l’amenità di Ischia è tale da superare anche il turismo di massa: purché si corra subito ai ripari. Certo, spesso l’uomo crede di far bene e invece sbaglia. L’esempio più penoso, per Ischia, è quello che è avvenuto a Sant’Angelo.

Era, Sant’Angelo, al sud dell’isola, la faccia africana dell’isola: alte balze bruciate dal sole, e solo sulla cresta spalmate di verde, ma per il resto la spiaggia dei Maronti correva liscia e disabitata, solo interrotta qua e là, nell’aspra parete di roccia che la difendeva a Settentrione, da grandi spaccature. E una di queste è Cava Scura, qualcosa che ben più del Bulicame viterbese fa pensare all’Inferno dantesco: un’acqua bollente che scorre fra due sponde di roccia, e dove sgorga, in alto, come un villaggio di cavernicoli, con le vasche scavate nella roccia. Anch’io ho fatto un bagno in una di quelle vasche leggermente viscide ma più che sterilizzate da un’acqua così bruciante; e fu un bagno come si poteva farne nell’età della pietra. Una tenda difende da sguardi estranei l’ingresso della grotta, una grossa bagnina lo difende ancor meglio. E a che cosa servano questi bagni non si sa: o meglio se ne dicono tante. Ad esempio, che siano contro la sterilità delle donne; e in un paese prolifico come il nostro, non si sa se siano da incoraggiare o da proibire. Ma niente è certo, anche se si raccontano episodi, che non si possono riferire, di mariti e di mogli che si recano a Cava Scura come in pellegrinaggio, e la moglie fa il bagno come se andasse a recitare una novena, e il marito aspetta che sia uscita dall’acqua… ma no, non si può raccontare e non la racconto. Quel che è sicuro, nessun paesaggio è più duro e infernale di questo, sicché il beneficio maggiore, quando se n’esce, è di ritrovare, a dieci minuti di cammino, il mare tenero percorso di venature viola e turchesi, il mare che fuma all’orizzonte, il mare del Sud, il mare più bello del mondo. E sulla destra si vede sorgere lo scoglio, che è come una piramide sbrecciata, spelacchiato e nudo, quasi un faraglione arenato alla riva: il Monte Sant’Angelo che unisce alla terra una lingua di sabbia così stretta da parere impossibile che le tempeste di scirocco non se la siano già mangiata. E invece resta, e, all’estremo opposto, il paese. Il paese, parlo non più di vent’anni fa ma di cinque, era ancora un paesino di dieci case, modeste, colorite, con un solo albergo e il miglior vino dell’isola. Veramente in quel paese sembrava di arrivare come a un’isola a sé, dopo giornate di mare. E dal mare, infatti, ci si arrivava. Al fatto di non avere strada si doveva il suo apparire intatto e la sua celebrità. Perché Sant’Angelo, una volta scoperto da una tedesca che sposò un giovanotto del posto, era diventato subito famoso, e d’altronde la via marina che si doveva fare per arrivarci, costeggiando l’isola dalla parte delle sue rocce più impervie, era tale una meraviglia, che quando a un tratto, come in un cambiamento di scena, appariva la spiaggia immacolata dei Maronti, e il sasso spicco col paesino di Sant’Angelo, era impossibile raffrenare un moto di stupore, di allegrezza e di espansione insieme. In un melodramma, quel momento sarebbe come l’esultate dell’Otello, o l’arrivo di Lohengrin col cigno.

Sant’Angelo perciò doveva rimanere a quel modo, come era San Fruttuoso. Un posto inaccessibile da terra, un luogo dove si è come all’indomani della Creazione. Invece hanno voluto la strada, le strade, anzi. Non che non capissero che le automobili non dovevano arrivare neppure alle porte del paese. La presenza delle automobili è come quella della processionaria in un bosco di pini: una stagione, e nulla è più come prima. Ogni casa del paese, magari col provvido aiuto della Soprintendenza, ha istantaneamente cominciato a proliferare: lì una sopraelevazione, là un bubbone, qui ancora di tre o quattro case se n’è fatta una, e con quella cura del pittoresco che è ancora più penoso del prefabbricato. In breve, il puro, il modesto paesino di Sant’Angelo è come esploso. Certo, non ci sono grattacieli: ma non sono i soli grattacieli a guastare il paesaggio. E qui, in questa campagna aspra e solenne, illuminata e sterile, basta un colore forzato, una serie di archi che propongono un ritmo troppo ribattuto e stentoreo, per creare un disagio e quasi un malessere fisico. Sant’Angelo sembra adesso una scenografia di Bakst, con quei viola sovraccarichi, i celesti che sono divenuti turchini e i rosa che son passati al rosso. Piacerà ancora, non dico, anche se mi risulta che la gente di un tempo ci va meno: ma quel che era una volta si è perduto. La spiaggia dei Maronti ora pullula di ombrelloni: le strade di accesso, quella che si ferma a Sant’Angelo, quella che si ferma ai Maronti, hanno sulla destra chilometri di automobili che si arroventano al sole; torpedoni, autobus fanno servizi regolari. E questo è il risultato della civiltà di massa: che di un luogo unico al mondo, che univa in una volta sola la solenne bellezza di un approdo omerico, la fumante epopea dantesca, e la grazia improvvisa, il candore ancor più della grazia, di un paesino vesuviano, se n’è fatto un luogo comune e sconsacrato, come un accampamento di zingari nelle rovine di un tempio romano.

E con ciò non si può accusare nessuno: tutti hanno cercato di fare del loro meglio, per il bene del paese, dell’isola, del popolo, del turismo.

Ma poi accade che il turismo si deteriora, e che per venire a Sant’Angelo i forestieri di una volta aspettino ora che la spiaggia dei Maronti si sia sfollata, aspettano settembre e ottobre. Così nella Riviera di Ponente vollero i palazzoni di cemento, distrussero i giardini, raffittirono le case come i denti del pettine fitto, e ora hanno un calo del trenta per cento di turisti, e ora piangono e danno la colpa al Governo. Certo anche il Governo ha le sue colpe, se avesse promulgato una legge severa di difesa del paesaggio, se avesse promulgato una legge urbanistica seria (e devono ancora venire tutte e due, e arriveranno quando non ci sarà più nulla di incontaminato): ma prima del Governo, ognuno dovrebbe essere il proprio governo, e amare il proprio paese, e avere quel tanto di buon senso per non pensare solo all’interesse di oggi e compromettere quello di domani. Il passato è irreversibile, e Sant’Angelo resterà quello che è. Valga il suo esempio almeno a salvare quel che resta. E a Ischia resta molto, resta il grosso direi. Ma perché gli zelatori del turismo male inteso, i fautori dei juke-box e delle villette di cartone hanno lasciato che il Castello di Ischia diventasse quella rovina che è? Rappresentava un richiamo, una specie di città morta medioevale, barocca, risorgimentale con un panorama che non ha eguali. A cominciare da quella tagliata greca, che è di una solennità mai vista, da fare impallidire anche Cuma. E tutti i ricordi, le cripte medioevali, con degli affreschi importanti, il Castello aragonese dove fu Vittoria Colonna, la bella cupola barocca, le carceri risorgimentali, e la straordinaria paurosa cripta di un convento di monache, dove su alti seggi scavati nella roccia e dotati di un foro come quelli delle seggette, mettevano le monache a “scolare”. Terribile verbo, a cui corrispondeva una naturale mummificazione. E io ancora ne ho visto uno di codesti cadaveri, vestito di brandelli di un saio indecifrabile; mi ci portò un fanciullo con una candelina accesa, e per lui era uno spettacolo familiare, per nulla funereo anzi redditizio.

Ma gli affacci che si godono da questi spalti sgretolati, da queste chiese dirute, sono da levare il fiato. Davanti, le isole del Vivaro e di Procida, verdi e tenere pel fiato azzurro del mare, a destra la meravigliosa baia di Cartaromano, con la collina quasi a picco di Campagnano, folta come di una chioma lanosa: e l’acqua di Cartaromano è ora del colore dell’acciaio, ora quasi non ha colore tanto è trasparente, ora rivendica il suo turchino come spiegasse una bandiera. La vegetazione selvaggia che spacca le ultime murature, l’alito del mare che intorno al blocco del sasso sale a spirale e sembra d’aria colorata, t’investe di un fiotto d’azzurro che non sai più se è mare o cielo… Perché lasciare nella paurosa rovina in cui si trova questo luogo straordinario? Ma non c’è stato verso: non ci sono stati appelli che siano valsi a far capire che quello, oltre tutto, era uno dei punti di forza delle attrattive dell’isola. Certo, non dico che ci si dovesse andare in torpedone, o che le monache scolate dovessero fare da controfondo a una ballèra.

C’è proprio bisogno di arrivare a questo, o all’altro eccesso, già ventilato e poi rientrato per l’orrore ecclesiastico, di impiantarvi un casinò da giuoco? Ma il castello di Ischia, che sembra sorgere minaccioso dal mare quando la luna nasce e lo fa avanzare nero e corposo verso le casette di Ponte, il Castello d’Ischia, che fu la cittadina trecentesca, dopo la tremenda colata lavica su cui sorge la pineta, il Castello d’Ischia, che doveva essere per Ischia quel che Ravello è per Amalfi, si sgretolerà fino all’ultima pietra. Ma intanto ai suoi piedi c’è un night.

E così volevo parlare di quel tanto che resta, a Ischia, se non trovassi sempre qualcosa da far esplodere il mio sdegno. Ma quel che resta, a Ischia, e la rende insostituibile, e accompagna materialmente il viaggio, e accompagna spiritualmente il ricordo, come il basso continuo di una musica antica, è proprio ciò che di Ischia è più ineffabile, e si capta come si respira, o in un volger d’occhio, in quel riposo che scende, anche se è pieno mezzogiorno, come il calare della luce alla sera. E ti avvolge, lentamente te ne senti penetrato e come disarmato. Perché nulla qui è aggressivo, nulla ti pone in ginocchio, se mai sei invitato a distenderti e a lasciarti imbevere da quella pace. Il mare non è mai così cupo e lampeggiante come a Capri o nello Ionio o nell’Egeo, ma neppure celeste come nella costa azzurra: è un mare che è come fosse già stato dipinto, e ha lasciato fuori della tela la iattanza dell’oggetto bruto, del colore ancora fresco. Lo vela una luce tiepida, e il tono della costa è ancora imprestato dalla pittura; sono quei tufi vulcanici quasi disintegrati, sull’orlo di ritornare polvere, ma che assorbono i raggi del sole come la carta sugante fa dell’inchiostro. Giallini, sporchi e pezzati, con le vaste sgorature di un’ondata di lapilli infissi dal calor bianco del vulcano. Salvator Rosa fu il primo a capire la venustà pittorica di quei tufi, e li espresse in chiave barocca, altisonante cioè, ma con l’accento giusto. Dopo di che vanno a sfrittellarsi nella pittura napoletana dell’Ottocento, una pittura che ha fatto più male a Napoli dei maccheroni mangiati con le mani. Ma la pittura dell’Ottocento ormai è nella naftalina e le coste d’Ischia non si presentano più come dei quadri mediocri del Pitloo o di Gigante: sono tornate, dove non ci sono le ville di cartone, pronte per un obbiettivo vergine, per un incontro desueto.

Della campagna ho già detto, ma non abbastanza, perché anche qui è la congruenza all’uomo che incanta: così fitta, così paziente sotto il sole. Ecco ora sono scomparsi gli asini, che stavano buoni dove si mettevano, ci fosse l’ombra o il sole: o tutt’al più ragliavano. I vigneti di Ischia mi ricordano quegli asinelli: stanno fermi sotto il sole, un po’ polverosi, ma tanto ricchi di pampani e di tralci. Stanno fermi e aspettano di maturare.

E questa rigogliosità fa sì che, anche vista dall’alto, tale campagna non è mai geografica; modulata, direi, e come se lentamente, nelle colate di verde, scendesse al piano, fino a intingersi nel mare, ma senza sfrigolii, ché non è ardente come lava, è fatta di erbe gentili, di zucche, di pomodori e di viti.

Poi all’interno dell’isola, quando si fa la strada per Testaccio e Porto, vedete pioppi, vedete salici, ma nella limpidezza dell’aria, foglia per foglia, come in un presepio. E di nuovo vi prende uno struggimento felice, un comporsi rasserenato della vostra segreta angoscia, e senza un perché, senza una parola. È bastata quella campagna vera, quell’aria diafana e quel sole che, per cocente che sia, sempre vi fa sentire il salso del mare.

E allora come si resiste a non arrabbiarsi con i bastardi che non sentono questo, e con un villino di cartone, con un juke-box, una motoretta rombante vi mandano a carte quarantotto questo paradiso modesto e pure inarrivabile, dove così umilmente si vorrebbe retrocedere a uno stato vegetale, o addirittura al felice incontro del mare sulla bàttima e assimilarsi a quello?

Ischia poteva e può restare tutto questo, tornando come una gioventù perenne, o, se anche è di un attimo, che sembri tale; e da portare chiusa nel ricordo come una foglia odorosa fra le pagine di un libro.

 

MOTYA

Per andare a Motya, da Palermo, se uno vuol fare una delle strade più belle del mondo, prende la costiera, che passa da Castellammare; e quel che vede, allora, è così multiplo e diverso, come se invece di percorrere quelle poche centinaia di chilometri, ne facesse migliaia, tanto, in poco spazio, il panorama è variato e il mare si offre in modi così differenti e tutti belli. Per di più la strada è ancora poco alterata da vezzosi edifici moderni, e sarà un male perché le case vecchie al di dentro sono catapecchie: ma lasciatemi dire che non si pagherebbe mai abbastanza per vedere questa costa che è certamente più bella della Riviera, ancora virginea e intatta come certo non è più la Riviera né a Levante né a Ponente.

Poi arrivate a Trapani; e Trapani, anche se fu una roccaforte della mafia (proprio la vorrei mettere al passato questa gloria) è città gentile, e si trova ai margini dello straordinario paesaggio delle Saline. Di lì a Marsala che ci vuole, un nulla: poiché la strada è liscia e il cielo s’abbassa sul piano premurosamente come se si richiudesse un coperchio, ma azzurro chiaro, ma limpido come in Africa. E ci sono muri coperti di fiori violacei quasi grondassero d’aceto, e palme con le dita aperte quasi aspettassero la manna dal cielo, e vigne, quelle vigne che fanno il marsala, un vino che fu celebre, un vino che è squisito, ma che non si riesce a farlo tornare di moda.

Quando si è a Marsala, praticamente si è già a Motya.

È Motya un’isola piccolissima e quasi tonda, al centro ideale, se non al centro geometrico, dello Stagnone di Marsala, e detto questo non crediamo di avere evocato nulla di particolarmente ameno. Lo Stagnone di Marsala non è famoso, ma se si aggiungerà che è come una laguna, una laguna con un cerchio di isole, e, in fondo, gli alti e bellissimi scogli di Favignana e Marettimo, più lontano ancora, di Erice, si potrà immaginare lo Stagnone di Marsala non più in termini approssimativi di laguna veneta, in quelli assai più fantastici quanto mai aderenti di Fata morgana. Sembra infatti, una volta su codeste sponde, di essere penetrati in uno degli impossibili specchi d’acqua che nel deserto si formano illusoriamente ai margini dell’orizzonte, e riflettono palme, cespugli, cammelli in un’acqua limpidissima che non esiste.

Conferisce a questo paesaggio, straordinariamente sereno, d’essere circondato da saline, e le saline sono ornate di mulini a vento, e di tetti di tegole che coprono i mucchi di sale: e quando il raccolto del sale è abbondante, non ci sono tegoli sufficienti, donde immacolate pendici di sale, come mucchi di neve.

In questo squisito miscuglio di laguna veneta, di sole africano, di mucchi di neve e di mulini a vento olandesi, Motya sta come un monumento velato prima della scopertura. E monumento è, solo che si ricordi che Motya fu città punica, il più importante forse, se non anche il primo, degli insediamenti punici in Sicilia: non diremo a un tiro di schioppo, ma certo assai vicino a Cartagine. I punici, e magari vi erano arrivati i fenici prima ancora di fondare Cartagine, scelsero questo luogo con perfetta tempestività tattica e strategica: solo che si pensi alle acque calme e basse di questa laguna a cui si arriva con burchielli e non con grandi navi, e dove dunque la difesa è più commisurata all’uomo singolo che alle moltitudini. Ma, una volta consolidati i primi insediamenti, dovettero risolversi a cingere l’intera isola di mura, per questo attraversando anche una necropoli più antica, i cui sepolcri si vedono, in parte tagliati lungo la cerchia.

Ora è difficile rappresentare il fascino di questi residui imponenti lambiti da un mare dolce e quasi casto, lungo la cui riva la vegetazione aggiunge altri elementi esotici a questo paese di Fata morgana; agavi del Kenia, così carnose, puntute e lussureggianti, e strane piante grasse ai piedi di ulivastri rasati dal vento.

La cinta poderosa aveva torri quadrate fittissime, e mura e torri dovettero possedere una merlatura con merli stondati, quali, in retaggio dai punici, ancora si vedono sulle mura delle medine anche in Tunisia. Poi, naturalmente, vi erano porte e scale per accedere all’interno. Una di queste porte, ben conservata ma anche ben restaurata, è addirittura così grandiosa da aver richiesto una chiusura triplice, in profondità, data proprio la luce vastissima della doppia porta. E le grandi torri che la fiancheggiano, sono convergenti al centro, particolare rarissimo, che quasi anticipa, senza ragione, le facce inclinate delle fortificazioni cinquecentesche, così disposte per la balistica delle armi da fuoco. E qui invece, la facciata concava che ne doveva risultare, suggerisce effetti anche più antichi, come quelli che si vedono nelle architetture neolitiche di Gozo a Malta.

Questa porta, con una specie di via trionfale, dà su una intricata pianta di santuari; ed è questo uno dei pochi luoghi scavati dell’isola che pure è il più raro degli insediamenti punici. Perché l’isola, tutta di proprietà privata, all’interno del bellissimo e pittoresco giro di mura, spalanca una distesa di vigne, e ciuffi di pini marittimi, oltre alla villa e al museo che il proprietario, Giuseppe Whittaker, vi costruì alla metà circa dell’Ottocento. E vi venne anche Garibaldi, come dice la lapide, dopo che ebbe pronunziato a Marsala le fatidiche parole: o Roma o morte. Venne e si riposò.

Ora dunque il dilemma più insidioso sembra porsi. Le vigne sono distese sugli insediamenti che, per quanto ormai ridotti a qualche palmo sopra il livello originario, restituirebbero sempre la testimonianza incalcolabile d’una città punica del V secolo. Una città, che si dice, dopo la distruzione di Dionisio di Siracusa, nel 397 a.C., non rifiorì più. Non rifiorì, ma deserta non restò di certo, perché la casa con il peristilio e i mosaici di sassolini bianchi e neri (quasi un unicum) non è di certo del V secolo; né a questo secolo, ma assai più tardi, risalgono altri frammenti recuperati sia di ceramica che di scultura fittile. Dunque un altro interrogativo, un’altra ricerca. Ed ecco che il dilemma, vigne o scavi, prende anche più forza.

Noi non vorremmo tagliare la questione brutalmente, e siamo d’opinione che, senza sconvolgere un insieme così ameno e consistente, potrebbero lo stesso compiersi saggi e ricerche, i cui ritrovamenti non dovrebbero più necessariamente restare tutti allo scoperto. Meglio assai vedere delle vigne ben tenute, che assistere all’inevitabile deterioramento di resti minimi di costruzioni, invasi dalla vita vegetativa dirompente in questa sfoglia di terra quasi galleggiante sull’acqua. Quello che sarebbe da augurarsi, è appunto una fondazione che fosse luogo di ricerca, di studi e di meditazione, una centrale degli studi punici, in cui via via fosse possibile attuare un piano di ricerca accurato senza divenire sconvolgente, scientifico, senza pretendere di ridurre questo luogo amenissimo a una radura invasa dalle erbacce. E, per essere ameno, questo luogo, non teme confronti. Proprio perché non vi è nulla di spettacolare, e anche le mura sono ridotte ad altezza tale da non imporre soggezione.

Quando poi si arriva al porticciolo, veramente si resta di stucco, che un simile rettangolo, come una piscina di uno stadio, con una imboccatura che è quasi stretta anche per un motoscafo, potesse servire a un popolo che veniva dall’Africa, e su che cosa, su delle piroghe? Ma appunto questa limitazione del fondo e delle opere portuali doveva dissuadere i nemici, mantenere l’accesso agli uomini e toglierlo alle flotte. E c’era anche un istmo artificiale, che ancora, con la bassa marea, fa come un’impuntura sdrucita da sotto il pelo dell’acqua. Sul cui azzurro non spenderemo neppure una parola, tanto è ovvio immaginarselo, ma con fondo vinoso, e in quanto alle coste delle isole e del continente (ossia dell’isola più grande, la Sicilia, in funzione di continente), per darne l’idea, dovremmo suggerire le rive dei laghi di Poussin, con quel verde quasi fosco, e i raggi di luce come dardi, le nuvole come di marmo, i particolari a distanza, precisi come visti con la lente.È un paesaggio che, a occhio nudo, si vede come col binocolo, lontano e vicino al tempo stesso. E allora non vi parrà retorico quel che volevamo dire fin da principio e tacemmo: questo è il luogo dove potremmo trovare Erminia fra i pastori: e nel fruscio del vento fra i pini udire il murmure delle ottave del Tasso.

A questo punto veramente viene voglia di dire, al diavolo i punici, se, per trovarne le vestigia, si dovesse buttare all’aria la calma, ineguagliabile bellezza della Motya attuale. Per fortuna chi cura le ricerche e gli scavi in quest’isola non è affatto insensibile alla crosta amena che cela le ossa puniche e i cocci punici. A vederlo, così massiccio, il Soprintendente Tusa, non si supporrebbe l’anima gentile che alberga. E invece l’alberga e ci va piano a fare gli scavi a Motya. Però li fa, e quest’anno, insieme con Moscati, hanno messo le mani in un luogo fortunato. In un batter d’occhio hanno trovato, oltre alle solite ossa di bambini – questo popolo, i punici, che per tutta la sua storia non ha fatto che stragi degli innocenti – alcune notevolissime teste femminili in cotto, teste arcaizzanti, sul gusto mezzo cipriota e mezzo egiziano, com’è appunto la scultura fenicia e quella punica. E una maschera, rarissima – anche a Tunisi ce ne sono ben poche – con quella specie di ghigno realistico e brutale, che poteva avere un popolo che sacrificava i bambini, come i greci i galli a Esculapio. Ma naturalmente non era crudeltà, era religione, e nei bambini sacrificati c’era nascosta la feracità della natura e tanti più bambini che nascessero, e da grandi ammazzassero tutti i romani. Invece non li ammazzarono tutti, e la ruota della fortuna girò all’incontrario, come si sa.

Ciò non toglie che i resti di questa civiltà punica, senza essere affascinanti, siano tuttavia eccitanti, anche non possedendo le ali di Flaubert. Sicché alla fine gli si perdona anche i bambini. Tanto da grandi sarebbero morti lo stesso. Ma questi bambini morti forse determinano un triste fato locale: io, un bambino mio, non ce lo porterei a Motya. O non è di ieri la spaventosa sciagura, di quella barca carica di bambini; come quando da ragazzi si giocava a “È arrivato un bastimento carico di…”: carica di bambini; e si capovolse, e il mare era quello che è sempre, macché un lago, addirittura un semicupio, e l’acqua era così alta, che dalla costa a Motya si può arrivare camminando con l’acqua alla vita, se c’è bassa marea. Solo un punto, per cento metri, fa canale, e l’acqua è più alta e proprio lì l’infausto barcone in disarmo, ma carico di bambini, si capovolse. E ci furono quelli che sapevano nuotare e ne salvarono alcuni e poi morirono anche loro: una nemesi misteriosa, incomprensibile, inverosimile. Eppure tutto questo è accaduto, e quanti morti. La nemesi dei bambini punici sacrificati, che hanno chiamato a sé i bambini di Marsala. No, non è prudente portare i bambini a Motya.

 

FORSE, L’ISOLA DELL’ODISSEA

Più di dieci anni or sono, agli albori della pesca subacquea, volli recarmi a Ponza e non c’ero più ritornato. A parte la pesca subacquea che capii subito non essere fatta per me, l’incontro con Ponza fu sincero e teatrale al tempo stesso. Sincero perché da parte mia mi presentavo senza riserve, per così dire con l’obbiettivo aperto e lastre impazienti d’essere impressionate, da parte di Ponza perché l’isola era allora vergine come quella di Robinson Crusoe. Per dare un’idea di questa verginità, che poi non risale a un secolo addietro, basti dire che non c’era locanda né trattoria: alla locanda sopperivano camere presso privati, qua e là, scintillanti di calce e con letti altissimi, alla trattoria un barbiere sulla passeggiata che faceva anche da mangiare. E devo aggiungere che non riuscii a mangiare che aguglie, le celebrate aragoste erano per l’esportazione. Solo in partenza, con tutti gli ingombri del subacqueo, mi ritrovai anche con una bella aragosta viva, impagliata e stretta come un bambino in fasce.

Questa dunque era la capacità d’accoglienza di Ponza per il forestiero appena o poco più di dieci anni fa; della sua fresca rusticità nessuno potrà dubitare. Per la teatralità, dipendeva non certo dagli abitanti, napoletani di Ischia e di Torre Annunziata trapiantati là e rinselvatichiti, ma dalla natura spettacolare, che, sebbene rocciosa e imminente, dà quasi l’impressione d’essere in movimento, come nei palcoscenici girevoli, tanto i mutamenti di scena sono repentini e travolgenti: ai quali si aggiunge il vento, anzi i venti di cui Ponza sembra essere l’origine piuttosto che il bersaglio, e questi venti con le loro gagliarde strappate, con gli schiaffoni sul volto come sulle vele, danno l’idea che Ponza intera stia movendosi nel mare come un bastimento. Non si muove per fortuna, ancorata com’è a un continente scomparso, di cui, con la Sardegna, la Corsica, l’Argentario e il Circeo, rappresenta i picchi terminali. La Tirrenide con tutti i suoi vulcani, doveva essere un po’ come la luna: ma, se poi i crateri della luna non sono di vulcani, almeno come la zona flegrea, tanto per intenderci. Però solo per un momento, perché in realtà Ponza non assomiglia per niente né alla costa da Pozzuoli a Cuma né a Ischia né a Procida. Non c’è, a Ponza, quella dolce sonnolenza o foschia dell’aria che ovatta d’azzurro le lontananze, invischia i profili come con una lenta lanugine: non c’è, a Ponza, la forza lussureggiante delle viti, il rigoglio prorompente d’una natura vegetale, che ha preso il sopravvento su quella geologica ormai ammansita. La natura geologica di Ponza è ostentata come quella di un minerale messo a fare da fermacarte: le rocce, meravigliosamente versicolori, quasi piumate, si presentano sul livello del mare, come se in quel momento sorgessero dalle acque, come se, invece di rappresentare le cime d’un continente sprofondato, stessero risalendo lentamente al sole. Appena sui dorsi, quasi che prima delle fiancate più a lungo fossero restati emersi, c’è allora una vegetazione grama e continuamente tarpata dai venti: quel tanto perché una parsimoniosa nota di verde si aggiunga allo sciorinio di colori inattesi e che sembrano instabili; tanto sono freschi e delicati.

Perché qui le rocce non hanno quella doppia tonalità grigia e arancione, come di cenere e di fuoco che cova sotto la cenere, che presentano a Capri o ad Amalfi, ma nella intatta stratificazione vulcanica di cui offrono sezioni nette e quasi palpitanti, come di un viscere di animale appena immolato, ecco che esibiscono gialli cremosi come grassi di bove, celestini diluiti come di pervinche sbiadite al sole, calcari calcinati o che sembrano tali, e pare debbano sfarinarsi da un momento all’altro. Poi vi sono pietre che il sole ha incrinato ma che non sono crollate, e fanno l’effetto di enormi mura pelasgiche, e di queste mura hanno anche il colore inaridito e disseccato, che neppure gli spruzzi marini riescono a far crescere di tono. Tutte queste pietre si pregiano di nomi o ameni o misteriosi, nomi coi quali il profano non le riconosce e non se le rappresenta: non sono tufi, graniti, o che so io: tutti ce li immaginiamo. Ma andate a rappresentarvi riolite, perlite, bentonite: tira via col caolino, perché a causa della porcellana, si associa col bianco. Tuttavia delle doti, spesso rare, di queste rocce, dal punto di vista minerario, sono un attestato le cave di perlite e di caolino, che, se continuano di questo passo, finiranno per mangiarsi metà dell’isola, e sarebbe un peccato: sicché, a un certo momento, per le sorti future, dovranno essere fatti i conti e vedere se, all’isola poverissima, rapportano più le miniere o il turismo. Perché codeste miniere sono comodissime per l’estrazione: tutte in superficie, ma appunto per questo i tagli che inferiscono a questa natura vergine, sono terribili, la sconvolgono con quegli strapiombi, quei ripiani geometrici che creano; dove invece tutto sale e scende, e tutto è come fermato, assiderato in atto, un magma che fu incandescente, e nei gorghi e crateri non conosce linea retta. Un taglio verticale è una rottura di ritmo irreparabile, perché si isola dal contesto. Così nello scenario superbo delle Forna, dove proprio l’isola attenua la sua durezza in un anfiteatro di vigne a scalini, ma vigne basse, che appunto fanno vedere più gli scalini, come in una cavea antica, che le viti, in quello scenario, i tagli scientifici della miniera di caolino sono atroci e irredimibili. Invano le casette sparse come dadi da gioco gettati sul tappeto verde, sviluppano quel pittoresco facile ma puntuale che è di tutte le isole mediterranee. Invano, perché la durezza tecnologica degli impianti della miniera riconducono alla realtà sprezzante e cinica che è il nostro tempo, coi tralicci tinti di minio, i capannoni coi tetti di lamiera. Lo sguardo s’appunta là e allora non vede più neanche il resto, o, se lo vede, è per sentire la dissonanza irreparabile, che non crea una tensione a cui sia possibile dare una risoluzione.

Non vorrei che si potesse credere a questo punto che l’aspetto geologico dell’isola abbia il sopravvento: certo ha il sopravvento sul pittoresco, e l’isola non è mai pittoresca, nel senso che anche lo squisito paesino di Ponza e quello di Santa Maria, così candidi, e appena qua e là toccati di rosa e di azzurro tenero, riescono a cambiare la sceneggiatura drammatica del paesaggio. Di questo paesaggio sorgente dall’acque. Sono, quelle case, certamente sposate al suolo, ma come se vi si fossero posate, come sulla costa si posano i gabbiani, quando si fermano. E trovano il posto adatto per emergere e al tempo stesso apparire come acroteri, spontanei terminali delle creste di roccia. Così le case di Ponza nel loro essere cubico, raramente forate dagli archi o stondate dalle cupolette ribassate, sono come dei gabbiani cubici, manufatti dall’uomo e sistemati sparsi o raggruppati, ma non mai riuniti in modo veramente architettonico, come accade a Procida o a Ponte d’Ischia. Eppure una sistemazione architettonica c’è, a Ponza, ed è il porto, realizzazione di un tal Carpi, alla fine del Settecento, quando i Borboni vollero ripopolare l’isola. Codesto porto è tanto più modesto e conveniente per l’uso, quanto più funzionale e stringato per la forma. Lungo la banchina corre un alto muro, perforato di fondachi e di botteghe, ma limitatamente, e sopra è allogata un’altra strada, una passeggiata rialzata, a cui, poi, dietro la cortina delle case, corrisponde una stradina, ancora a un altro piano, detta corridoio, e così, come a grandi gradinate, cresce a modica altezza il paese. La qualità rara di queste case è la parsimonia, la mancanza di vezzi, di ornamenti, di stucchi. La lindura dei volumi squadrati garantisce un tale felice incontro da far pensare con amarezza che solo la miseria può dare esiti così onesti e cristallini.

Mi aspettavo dunque, tornando a Ponza dopo più di dieci anni, che quella specie di tromba marina del turismo da cui è stata investita, l’avrebbe completamente trasformata e quindi rovinata. Con ansia attendevo l’arrivo, dopo che il battello era girato intorno a Gavi, alla punta estrema dell’isola, verso il Circeo. Venivo da Anzio, infatti: mentre l’altra volta mi ero imbarcato a Ischia, e si era partiti in ritardo, perché una tempesta violenta come un tornado si era scatenata la sera prima, e sembrava che neppure lasciasse ripartire la nave. Partì alle quattro di notte, infatti, invece che alle cinque di pomeriggio, e non arrivò ad Anzio che alle otto e mezzo. Si stava lì a un sole cocente, e senza alito, il mare come un cane stravaccato al sole, si stava lì e non si capiva, con quel mare, quel ritardo. Si capì dopo, perché, a metà del viaggio, e si vedeva già Ponza e già le case bianche delle Forna, cominciò il funesto levante, proprio come se fosse Ponza a generarlo, e nel suo raggio solo spirasse: sicché si arrivò gioiosamente rimbalzando sulle onde e fra spruzzi sufficienti a sbaragliare un comizio. Si arrivò, si entrò nel porto: e io constatai il miracolo di rivederlo tal quale l’avevo lasciato. Sì, qualche novità c’era, ma, ai margini, disseminata o dissimulata. Fui preso da una allegria incontenibile. Dunque non era vero che non si potesse conciliare autenticità e turismo, boom economico e aspetto riservato e modesto. Ora c’è un albergo (ce ne sono due, anzi) proprio sulla passeggiata, ma la scritta era così bene distribuita che da lontano non si vedeva. Il camposanto, che sembra una piccola città su un picco a picco sul mare, era restato quella adunata di piccole case più che cappelle; da farlo simile a un cimitero ortodosso: nessun cimitero è meno cimitero di quello di Ponza. Sono le case di riposo dei morti. Insomma dal cimitero alla spiaggia di S. Antonio, e da S. Antonio a S. Maria il paese è restato intatto. O delle nuove case, nel panorama generale, non ci se ne accorge. Per due motivi: il primo è che sono costruzioni modeste, in scala con quelle vecchie; il secondo è che l’architettura locale di Ponza, essendo assai meno caratterizzata di quella di Procida, di Ischia, di Capri, o delle Eolie, si presta a venire riprodotta senza essere falsificata. Poiché nel paese le poche case nuove non sono ville, ma case modeste, ecco che si sono inserite senza data nelle altre case egualmente modeste e civili. E tutte candide di calce come in un villaggio greco. Purtroppo, appena usciti dal paese, per andare all’altro versante dove c’è la stupenda, unica al mondo, Chiaia di Luna, le novità presuntuose vengono fuori. E c’è il nuovo albergo, che, al polo opposto del cimitero, sembra un altro cimitero ortodosso riadattato per i vivi, in celeste e in rosa e in giallo. Certo, il motivo era commendevole: si trattava di non imporre una massa troppo grande, dove tutto è architettonicamente misurato e modesto, e si trattava di frazionare questa massa. E, comunque, è sempre meno occlusivo e scostante dell’Hilton di Roma. Ma è pretenziosetto, ornamentato, ciarliero, dove bastava riproporre dei volumi cubici scalari, che riprendessero il motivo fondamentale dell’urbanistica settecentesca di Ponza. Se tuttavia dovesse restare solo quello, con le miniere, il guaio di Ponza, contentiamoci, dopo ciò che è accaduto a Ischia, a Capri, a Procida. Speriamo che non sia il principio della fine. A guardare il porticciolo squisito che aveva panfili e motoscafi su due file, c’era da temerlo. Dalla camera dell’albergo vedevo gli alti alberi dei panfili che oscillavano con il movimento inconfondibile, posato e esitante a un tempo, che è di quegli scafi affilati e veloci: e alla stessa altezza vedevo anche i cubetti soprammessi di S. Maria, come li avevo visti l’ultima volta. Perché l’una cosa dovrebbe distruggere l’altra? Eppure, accanto al miracolo di conservazione del paese, non potevo non ricordare il nuovo albergo e le villette che lo precedono, con gli archi falsamente storti, per parere fatti a mano, e si vede da lontano un miglio che sono centine truccate di cemento armato, e insomma tutto l’odioso pittoresco, pseudocaprese, in agguato. Anche le pergole, con le colonne bianche, qui dove, di antiche, non ce n’è neppure una, e, pour cause, dato che i venti non le lascerebbero in piedi, e le viti, per sopravvivere, stanno acquattate al suolo quasi come a Pantelleria, l’altra isola regina del vento. Speriamo solo che le autorità comunali si rendano conto che Ponza al turismo è piaciuta così e così deve restare, che è un’isola per coppie amorose e bellissime, come se ne vedeva passare sulla passeggiata; che i nights sono poco ricercati, anche se il porto pullula di panfili e dunque di gente ricca; che il silenzio esemplare deve restare esemplare. Perfino le luci sono discrete, senza neon, luci da paesino di pescatori dove ci si leva presto e non c’è bisogno di sfarzi notturni; e quelle botteghine senza vetrina, con una cauta esposizione di merce alla porta. Insomma un’isola che sembra toccata appena da un anno dal turismo e ha mantenuto l’abito di tutti i giorni invece di quello azzimato della domenica.

E che d’altronde il turismo, a Ponza, non possa essere transitorio, l’effetto di una moda repentina e fuggitiva, lo dimostra il genere di vita che vi si può fare e quello che non vi si può fare. Quello che si può fare, richiede degli amanti del mare, e non è necessario che siano amanti della pesca subacquea: basta amare il mare e la varietà, inconcepibile altrove, delle baie, delle spiaggette, delle grotte, dei bacini chiusi come piscine da cui s’esce, attraverso archi naturali bassi, sull’acqua, come lo sbocco di una cloaca, allo scintillio di un sole violento e di un mare che sembra di fonte e sempre e ovunque è, come la fonte oraziana, splendidior vitro.

E se l’isola è la madre dei venti, non c’è tuttavia vento che impedisca di fare il bagno in un’acqua che sia come quella di un bicchiere: perché se tira il levante c’è tutto il versante da Chiaia di Luna alle Forna che è tranquillissimo, e se spira il ponente o lo scirocco, ugualmente da quest’altro versante troverete il mare calmo e recessi e anfratti a non finire, dall’arco naturale che sembra un arco romano pensato nel gusto informale, al mezzo di una rada, agli scogli bellissimi della Cala d’Inferno, alla Spiaggia di Frontone. E dunque per chi ama il mare, nessuna isola lo offre più diverso e abbondante di Ponza. Codesta gente che ama il mare, avrà poca voglia, la sera, di juke-box e di ballare. Tanto, anche le belle straniere che frequentano Ponza o sono accompagnate o si accompagneranno: per questo basta un ritrovetto per la prima sera (come c’è in realtà), e poi è fatta.

Una cosa sola va decisamente male a Ponza: ed è la tutela archeologica. È una vergogna il modo con cui si è lasciato andare l’acquedotto forse più antico del Mediterraneo, quell’acquedotto che, notate bene, serve ancora, e che, se veramente ci furono i greci a Ponza, fu scavato dai greci e, da sotto il monte, con quattordici gallerie a cunicolo raccoglie l’acqua di infiltrazione, per portarla di qua e di là ai due versanti dell’isola. Ma con sommo dispetto ho trovato che dalla parte della Cala d’Inferno è stato occluso: e dove c’era il deposito dell’acqua, e ne usciva, quasi a livello del mare, dalla roccia viva e cilestrina con un filo d’acqua dolce che lasciava increduli e dissetava i naviganti, c’era, dentro la grotta, un gruppo di rossi vichinghi che si spogliavano. Insomma un luogo degradato: ed era cosa unica, credo bene, al mondo.

Sono voluto scendere all’altro capo dell’acquedotto, e qui le cose non andavano meglio. A parte l’indegna rabberciatura sotto l’arco che inizia la galleria sotterranea, c’era un tubo come una bocchetta per le sistole delle strade, ma invece di un coperchio o altra chiusura solida, un tappo di sughero, come a una bottiglia. Una bambina lo tolse, un bello zampillo ne venne fuori: la bambina riempì il secchio e stentò a rimettere il tappo per la pressione dell’acqua. Nafantava col tappo, la bambina, e rideva. E io non potevo non sdegnarmi, che lì, dove ancora fu ritrovato l’epistomium di bronzo che ora è al Museo Nazionale di Napoli, non si sia sentito il bisogno di una sistemazione più decorosa. Anche a costo – lo dice uno che è contrario alle copie – di fare eseguire una copia e di rimettercela, essendo cosa troppo eccezionale, di vedere un acquedotto greco-romano che ancora butta acqua. Ma a chiederne nell’isola nessuno lo sa, e, a parte la famosa piscina in grotta per le murene, che è facile a vedersi sotto lo scoglio della Madonna, all’ingresso del porto, dove e come riuscire a ritrovare, anche con la guida del Rev. Dies alla mano, che ti istruisce nello stile del Giannettino, il Mitreo, le cosiddette tombe greche scavate nella roccia, le cisterne, l’odeon? Non c’è un cartello, un’indicazione qualsiasi. E poi basta vedere come è tenuta la galleria sotto il monte, la cui romanità è accertata dall’opus reticolatum, e conduce al luogo supremo dell’isola, la Chiaia di Luna, vedere come è tenuta, come un letamaio, una fogna, e ora ci stanno facendo passare un tubo d’acquedotto, senza cura degli antichi livelli; è uno strazio tutto questo. Invece che vantarsi delle origini omeriche, sarebbe bene attenersi agli avanzi greci e romani e almeno non insudiciarsi davanti agli stranieri, se non abbiamo pietà di noi stessi.

 

LE EGADI

L’idea bislacca di qualche filologo che l’Odissea altro non sia che un viaggio di andata e ritorno da Trapani, se orna la città più di punta della Sicilia d’un presupposto addirittura nobiliare, non è che in sé convinca molto, e non è neppure che abbia scosso molto i trapanesi. Ma a quel vagare di Ulisse da isola a isola non c’è dubbio che la disposizione delle Egadi davanti a Trapani, le tre isole maggiori e le altre piccolette, impianta uno scenario degno del piccolo cabotaggio dell’eroe dell’Odissea: e a farsi a vela o a remi, quel piccolo cabotaggio, non è neppure troppo piccolo. Come che sia, per quanto le Egadi non si presentino così uscite dal sogno come le Eolie, sono sempre una meta, così a portata di mano, da Trapani, che sorprende come fino a pochi anni fa fossero ignote o quasi, non dico ai siciliani, ma anche ai trapanesi. Ma poi la Regione ha messo l’aliscafo, e questo sembra un giocattolo: ha fatto ritornare bambini anche le persone anziane. Tutti ora, da Trapani a Marsala, vogliono vedere le Egadi. A dire il vero l’aliscafo è certamente comodissimo, ma, per attraccare dove, come qua, non ci sono porti muniti, esige il mare come un olio: eppoi nell’aliscafo sembra d’essere in aeroplano, è una fusoliera, non dà quel senso aperto e ventilato che è pregio unico della navigazione. Per conto mio ho voluto almeno una volta usare l’antico battello, una navigazione che sembra di fare fra mezzo a grandi cetacei più che in un arcipelago. Così nette queste belle rocce, come grandi dorsi puliti, e l’epidermide è quella che si pensa, scabra ma non grinzosa, delle balene. Né il mare vi può deludere, alla punta della Sicilia, dove l’ultimo Tirreno si unisce al mare africano: azzurro dunque, con certi banchi violetti di alghe intricate e dense come la lana dei materassi.

Alle Egadi tuttavia non bisogna chiedere d’essere quel che non sono, ma apprezzarle in quello che hanno. In tal senso la regina delle Egadi è certamente Levanzo. In quanto a Favignana, la più grande, la più popolata, e anche moderatamente nota per la mattanza del tonno, ha un porticciolo con un ingenuo castello neogotico, una fabbrica per il tonno in scatola, e un aspetto lindo, alla mano. In nessun luogo mi ero sentito più alla deriva dal mondo che a Favignana, dove, per via della televisione, non funzionava nemmeno il cinematografo.

La Piazza della Matrice, raggruppa, come a convegno, i pochi alberi della zona, ed è una piazza occupata, fin all’orlo dei tetti, dal sole, con gli alberi e le persone lungo le pareti delle case. Gli uomini stanno lì, con una gamba a terra e un piede contro il muro. Non succede nulla: a un tratto sembra d’aver staccato la corrente dal resto della terra. C’è chi si sente sperduto, in questa specie di relegazione. Io mi trovavo benissimo.

La spiaggia di Favignana è come quella di Mondello, a Palermo, è cioè una spiaggia di conchiglie sbriciolate, una spiaggia dove non c’è rena, ma polvere di madreperla: così leggera, che sembra di camminare sulle piume, e non si infoca al sole. Il mare, alla bàttima, ne riceve riflessi fra la giada e la malachite.

Così è dunque Favignana, un posto per persone sane, schive, che amino il sole e il mare allo stato puro, come in provetta.

Si penserebbe dunque che questo è un luogo rimasto intatto, a parte la televisione. Ma così non è, perché hanno voluto piazzarci il solito presuntuoso grattacielo. Certo, si tratta di un edificio modesto; ma che bisogno c’era di farlo qui dove il terreno fabbricativo è a poco prezzo? Si è creduto forse di dotare il borgo piatto di Favignana di un monumento. Macché monumento: è solo un edificio pretenziosetto, che, all’arrivo a Favignana, rompe il profilo, modesto quanto si vuole, ma per nulla volgare di questo abitato candido, che sembra la medina di un paese arabo della vicina Tunisia. Ed è proprio su questo fatto che si voleva appuntare il dito.

Nel progressivo imbarbarimento di tutto il suolo italiane, e non solo della città, si spererebbe che almeno i posti più modesti restassero incontaminati, visto che non si sa o non si vuol difendere i luoghi eccezionali.

Ma l’attrattiva vera delle Egadi è Levanzo: e il viaggio da Favignana a Levanzo è proprio quello che si fa volentieri quando si è in vacanza, e a fare il bagno sempre nel solito posto ci si annoia. Con l’aliscafo ci si arriva in pochi minuti.

Levanzo non è che uno scoglio, ma uno scoglio erto, bellissimo. La crosta grigia della pietra scopre qua e là le focature come di brace sotto la cenere, filari di fichi d’india e di agavi aggiungono una tinta così sommessa di verde che è appena un tono sopra al grigio della pietra. Il porticciolo è solo un’insenatura, ma in quell’insenatura sotto un arco c’è una sorgente d’acqua dolce, a pelo del mare. La sorgente sarà pure piccola, ma l’abitato è piccolo, e, caso strano, per quanto quasi tutto rifatto per una ragione o per l’altra, quanto mai garbato e accogliente. Su quelle case strette a ridosso della roccia, come un borgo ligure, c’è anche qualche albero di un giardino, come un’aiuola d’alberi, più che un giardino: ma che effetto sfolgorante fa in tutta quella roccia grigia. A Favignana quasi ce l’hanno con Levanzo per quel ciuffo birichino di verde: ma soprattutto per la sorgente. A Favignana, se si scorda di piovere, i pozzi restano asciutti e bisogna tirare avanti con la nave cisterna. Invece a Levanzo c’è l’acqua corrente.

Ma non c’è solo l’acqua corrente: e intanto ci sono due cose da fare: i bagni, naturalmente, in un’acqua limpida e, in contrasto col sole rovente, un po’ freddina: la gita alla grotta con le incisioni e le pitture preistoriche. Per questa grotta ci sarà sempre qualcuno che visiterà Levanzo, e io mi auguro, dato che si è ancora in tempo, che venga usata, per le costruzioni future dell’isola, la stessa precauzione meticolosa che la Sopraintendenza alle Antichità ha imposto e, caso straordinario, riesce a far rispettare per la visita alla grotta.

Si sa che di queste grotte preistoriche non ce n’è molte in Italia, la grotta Romanelli in Puglia, il riparo dell’Addaura del Monte Pellegrino a Palermo, e poco più. Questa di Levanzo, è stata una scoperta recente, e avvenne per l’intraprendenza di una professoressa che bravamente si fece legare e si calò nel foro che si apriva in fondo a una vasta grotta sul mare.

Da quel foro la professoressa non usciva più, fra l’emozione dei compagni: finalmente uscì e raccontò quel che aveva visto, fece vedere quel che aveva disegnato. Ora, quei graffiti e quei disegni sono stati pubblicati dal Graziosi, appartengono alla scienza e alla storia dell’arte. E se anche non saranno così spettacolari come le pitture di Altamira, i graffiti almeno sono squisiti, non inferiori a quelli bellissimi dell’Addaura, come scorrevolezza di disegno e vivacità nella presa di immagine.

Alla grotta si va in due modi, o per terra o per mare. Per terra si tratta di superare una bella pettata e poi ridiscendere dall’altra parte dell’isola. Sarà certo interessante, ma troppo più fascinosa è la gita per mare. Le coste di questo scoglio sono varie, piene di motivi inattesi, e c’è anche un faraglione, meno grande di quelli di Capri, ma sempre un bello spunzone di roccia come una piramide sbriciolata.

Il più difficile, una volta deciso il mezzo per arrivare alla grotta, è quello di recuperare il guardiano. Non c’è molta gente a Levanzo, fa trecento abitanti o giù di lì, ma il tempo in queste isole è come un oblio prolungato. Non so come facciano a tenere a mente il calendario.

Si trovò infine il guardiano e la barca a motore: si iniziò il periplo. Da una parte stava Favignana, col colore fulvo e il pelame corto di un cane da lepre, in fondo si vedeva uno scoglio ancora più erto di Levanzo, Marettimo, addirittura una cattedrale gotica senza le guglie, e a destra il nostro roccione quasi a perpendicolo. Chi è stato alle Eolie può averne un’idea con le coste di Panarea, Strombolicchio, Salina. Ma veramente queste isole non sono mai le stesse, e, per quanto si assomiglino, hanno poi sempre un fascino particolare e inconsueto. In questo caso era il fatto che, ancora più delle Eolie, su Levanzo, se si toglie il gruppo di case al piccolo porto, sembra che non ci sia stata orma umana. E invece sono stati prima qui che in Val Padana, i nostri lontanissimi antenati. I miei cortesi pescatori intanto mi informano che presto sarà fatta una strada, per recarsi dal borgo alla grotta. E qui bisogna far voti perché questa stupidissima strada non venga mai fatta, dove la via del mare è così bella e suadente, dove il sentiero di terra, seppure faticoso, non è poi da fare in cordata.

Un borgo di così poche anime, che, grazie a Dio, non può permettersi neanche un micromotore, dato che strade non ci sono, dovrebbe avere una strada che porta a una grotta, dove non si entra più di due alla volta, e dove aguzzando gli occhi si vedono, alla fin fine, ben poche cose, per quelle che s’aspetterebbe il turista col torpedone. Il turista in barca, il turista appiedato sa quel che trova, ed è contento di quel che trova. Ma chi arrivasse in automobile, direbbe: tutto qui? E la bellezza aspra e selvatica, virginea di questa costa sassosa, con il taglio della strada, sarebbe distrutta. Come si arriva al luogo della grotta la costa si addolcisce, e, per gli scogli, si formano delle piccole darsene, dove si può mettere la barca. Quando arrivammo, con un motoscafo erano giunti altri turisti, e salimmo la china sassosa che porta alla grotta insieme a una strana compagnia che sapeva poco di speleologia: ragazze in bichini e via dicendo. Per la china si trovavano acanti giganteschi e cespuglietti con tele di ragno attraverso che sembravano in plastica tanto erano spesse, e bisognava romperle col bastone. Giunti alla spicciolata fino alla grotta, il guardiano impose gli ordini; si fece la fila. A due a due ci facemmo inghiottire dalla bassa apertura.

Ma non è angosciosa. Subito si può rettificare la posizione e si comincia a salire. I graffiti, la gazzella, il bovide, l’onagro, sono meno profondamente incisi che all’Addaura, ma con quale spigliatezza vennero disegnati; quel pregio di non prendere come un’istantanea sull’animale in moto, ma di ricostruirlo in modo che il moto sembra scorrere lungo il profilo come una linfa. Che occhi sereni, che cuore limpido ebbero codesti progenitori. Io non so se cotali incisioni le facessero per magia o per religione, per le sorti della caccia o per la riproduzione delle specie animali: le teorie, sempre ipotetiche, sono ora anche più in discussione.

Ma di fronte a quegli animali, che una lunga pazienza incise sulla roccia, e in questa lunga pazienza mantennero il guizzo spontaneo, quasi irripetibile di una pittura Zen, è impossibile non lasciarsi sdrucciolare nell’età dell’oro e nel buon selvaggio. Ci sono allora i disegni a nerofumo a ritrarci su. Tanto più tardi, certamente già dell’età del bronzo, con quelle daghe, ma così schematici come nel migliore neolitico: e fanno tanto Capogrossi e Music.

Non è un caso fortuito, come si sa.

Quando si esce dalla grotta, il contatto con quelle testimonianze così antiche di uomini che furono come noi, ma a un’epoca che non si può calcolare che sugli incerti e disuguali referti del Carbonio 14, non sfuma per il risorgere, dopo le tenebre, d’un paesaggio orgiastico, seppure selvatico, di mare, di piante, di sole. Almeno a me, la presa diretta sulla preistoria, e cioè non attraverso i vetri delle bacheche di musei, produce una scossa, come un avvertimento misterioso. E ritorno sempre al mistero di quelle figurazioni, soprattutto di quelle più antiche: perché la magia o la religione vanno bene, ma la venustà dei tracciati non si spiega né con la magia né con la religione, e, in quanto all’arte, sembra un po’ prematuro di mettercela. Pure, con quale altro nome chiamarlo quel naturalismo così candido ma insieme audace, per nulla pedissequo, che è come una parola onomatopeica inserita in un verso, dove vale altrimenti che per la riproduzione di un suono. È come assistere a una nascita, che so io, all’aurora, a Venere che emerge dalle spume del mare: si sente l’umanità che sorge, in quei graffiti, con il meglio di quel che fa uomo l’uomo. La contemplazione, la capacità simbolica, l’immobilizzazione d’un attimo e la sua rifusione sintetica, il piacere di un lavoro pulito, ordinato, la chiarezza di un pensiero cesellato in un’immagine.

È innegabile che tutto ciò tornerebbe molto meglio se l’uomo fosse stato modellato, in un colpo solo, con la creta, che a farlo venir fuori dai mostri pelosi quali furono gli uomini di Neanderthal. Il salto qualitativo è troppo grosso dalla selce scheggiata a queste amabili sagome sfuggenti. Ed è così che lo spiritualismo è sempre in agguato.

 

PANTELLERIA

Quando dal mare si comincia a vedere all’orizzonte, e come in trasparenza, l’isola di Pantelleria, il ricordo di Ischia o dell’Elba sorge subito, perché il profilo è quello di un vulcano: anche se un po’ meno alto, rispetto all’Epomeo o al Monte Capanne che incombe su Marciana Marina. L’avvicinamento avviene con estrema lentezza, come con una barca a remi. Così da Trapani a Pantelleria sono otto ore di mare, quando, con l’aereo, ci si mette appena un po’ più di venti minuti. Ma l’arrivo a un’isola, almeno il primo, deve essere dal mare, e non ci si può rifiutare, per pigrizia o insofferenza, l’approdo quale fu nei tempi antichi, da parte della popolazione misteriosa a cui si devono i Sesi, e dei fenici, dei cartaginesi, dei romani. Né, d’altronde, questo arrivo dal mare delude. L’isola, che non è grandissima (il suo periplo marino arriva sì e no a 36 chilometri) è abbastanza grande per apparire come distesa sull’acqua; distesa per intendersi, come le statue dei sarcofaghi etruschi, rialzate su un braccio: e quella punta della spalla è il Gibelé grande. Poi, uno s’aspetta di trovare un enorme sasso con qualche valletta verde, e invece tutta l’isola è verde e nera, come dipinta di verde su un fondo di lavagna: ma più nera della lavagna, perché oltre alle lave dall’aspetto del carbon fossile, ci sono le stupende ossidiane, i blocchi di vetro vulcanico le cui facce sciabolano riflessi torvi come mannaie.

E, per dire la verità, proprio Pantelleria non assomiglia a nessun’altra isola, e il riferimento a Ischia e all’Elba s’è fatto solo per far vedere subito che era un’isola vulcanica, ma poi il paragone si ferma lì. E neppure il verde, che è il verde delle viti e dei capperi, assomiglia al verde dei vigneti di Ischia, perché a Ischia, le viti, anche dove sono basse, alla francese, troppo più si rimpennacchiano di tralci, e il verde è meno fosforescente di quello che sbandiera lo zibibbo di Pantelleria, dove, dopo una prima ramatura, quasi non c’è bisogno di dargliene altre, e rimane un verde come sbucciato, senza riflessi turchini.

Del resto l’unica parte dell’isola, che può deludere, è proprio e solo il paese di Pantelleria, perché la guerra lo distrusse, e quello nuovo che è venuto fuori con le ricostruzioni, dispiace dirlo ma non ha né capo né coda: e tuttavia non manca di pretese, come in quell’albergo a celle sporgenti della Regione siciliana. Comunque Pantelleria sarà inevitabilmente scoperta dal turismo, e sarebbe bene pensarci fin d’ora, in modo che questa isola bellissima e intatta non venga ancora scempiata. Con l’aggregato urbano di Pantelleria lo scempio è ormai compiuto, ma per fortuna, basta appena muoversi cento metri dall’abitato, che tutto torna come era prima della guerra. Si constata allora che il contrasto continuo con cui l’isola si presenta sta alla base del suo fascino, e che questo suo fascino s’accresce piuttosto che ottundersi via via che ci diviene più familiare. Il fascino si basa infatti sull’aspetto infernale dell’isola, con le sue lave, appetto alle quali quelle di Catania sono di carbon dolce, e qui invece sembra di udirle sibilare immergendosi in mare, e si sfrangiano in un modo così inatteso che licheni immensi sembrano, o strani fichi d’India carbonizzati e contorti e sforacchiati dai fulmini e dai venti. Su questo aspetto infernale il sudore di millenni: il lavoro tenace e ossessivo come solo si può pensare il lavoro coatto, si è fissato con un’opera più di giardinaggio che di agricoltura, in cui l’iterazione di uno stesso motivo, il cespuglio basso della vite e dei capperi, non ingenera mai noia o sazietà, ma diviene l’espressione più elementare, e schietta e semplice e georgica di una natura umanizzata. Niente è più sereno e raccolto di queste lente pendici corse da muretti come se questi muretti realizzassero le curve di livello, e dentro i muretti, a riparo dei venti, le viti con le zocche gonfie di zibibbo come mammelle verdi. Niente è più ameno di queste casette o rosa o bianche o anche nere, ma con le cupolette affioranti, sempre in ordine sparso, anche dove fanno paese ma non s’ammucchiano, e ognuna respira da tutte le parti e ha il gelso a fianco, la palma, la pergola: oppure una specie di nurago, e invece non è che un muro tondo e inclinato a tronco di cono, dove, nell’interno sta chiuso, come il minotauro nel labirinto, un limone o un arancio. Qui dove tutto è naturale e nello stesso tempo tutto è artificiale, dove la terra, la poca terra, è rastrellata da sotto i massi, liberata da questi massi, che non sono le leggere pietre bianche della Puglia, ma blocchi pesanti di lava, di basalto, di ossidiana. E se ne fanno quelli che ho chiamato muretti, che sembrano muretti, da lontano, e quando si vedono da vicino, appaiono come bastioni: al cui riparo le viti maturano, e i capperi fioriscono con quei fiocchi di luce ancora più aerei dei fiori di papaveri.

Che cosa è costata di sudore e d’amore, questa campagna; e poi dopo la guerra ha conosciuto la filossera e dovette essere ripiantata, ancora si ripianta con le viti americane, a cinquantamila barbatelle per anno. Ma naturalmente anche a Pantelleria i giovani disertano la campagna, emigrano, e come l’isola non ha quasi più asini, prima era famosa anche per questi, ora ha una percentuale di automobili come Torino. Duemila, su novemila abitanti. Allora stanno bene, l’agricoltura frutta, là almeno?Non bisogna dirglielo. È tutta roba a rate: automobili, televisori, radio, frigoriferi. Sarà a rate, ma a due passi dalla Sicilia, nessun luogo campestre mi è parso più lieto e benestante di Pantelleria. Che è poi di gradevolissimo commercio e di sane abitudini. Ero sulla nave quando un giovane pantesco (personaggio della commedia antica, perché affiancato da un gemello identico, con cui si scambia un documento unico) mi disse, per spiegarmi, vantandola, l’onestà degli abitanti dell’isola, che, se si lascia due recipienti, uno pieno e uno vuoto, magari non si ritrova quello vuoto, ma mai e poi mai mancherà quello pieno. Ciò che dice tutto sulla civiltà campestre dell’isola, con la cupidigia dei contadini per tutto ciò che serva a contenere canestri o balle o secchi, ma con l’assoluto rispetto per ogni altro bene che non sia come un guscio vuoto. Ed è quanto succede anche in mare, dove le barche sono affidate all’onestà e al rispetto dei pescatori.

Così in questa isola, sana, pulita, onesta ci si sente come a riparo, come a tavola apparecchiata, e invasi da una quieta gioia di vivere, che il mare e il sole incandescente alimentano. Ma appunto è una quieta gioia, perché il lato infernale dell’isola, col suo vulcano che non è del tutto spento, con le sue lave orride e stupende, è sempre presente; non si può mai dimenticare. Sicché sembra che l’isola sia affiorata con Persefone dall’Ade, ma portando alla luce del sole anche il suolo dell’Ade: inferno dunque e primavera insieme, nel verde più tenero e più verde che io conosca. Ma basta questa immagine di Persefone e dell’Ade, per far capire come ineluttabilmente l’oggi si leghi al passato antichissimo dell’isola: anche se di questo passato non si sa quasi nulla, e se, quel che si sa, lo ricolleghi magari ai sacrifici umani dei cartaginesi piuttosto che alla grande Madre mediterranea, che è Demetra e Persefone in una volta sola. Tanto più con la vicinanza con cui ci troviamo dalla Sicilia. Pure qui, dove il laghetto dell’acqua calda, assai più del lago di Pergusa fa pensare alla bocca dell’Ade, non mi risulta che aleggino ricordi o leggende. Qui dove ovunque acque calde e vapori delle favare ricordano agli immemori le fiamme dell’inferno.

Ma Proserpina, la greca Persefone, aleggia ugualmente in questa straordinaria natura infernale, in questi campicelli come fazzoletti, trapunti di piante a ciuffo come, un po’, le nappine che fissano la lana dei materassi. Così digradando, come per scalee infinite, si rimbalza alle rive frastagliate, dove il mare è fin troppo trasparente e nulla lascia ai misteri del fondo.

Se poi queste terrazze le guardate dal basso, da Gadir, per esempio, allora quell’immagine di cui mi sono servito per comodo, delle curve di livello materializzate nei muretti, va sostituita con una molto più verace ed efficace: la filigrana di una carta in trasparenza, tanto l’aria è luminosa e, anche in ombra, le pendici trafitte dai riflessi marini, traspariscono smaterializzate, come filtrassero, attraverso i loro muretti di lava bruciata e di ossidiana.

Di Pantelleria si può fare il giro in due maniere: per mare o per terra. Ma veramente inatteso è come, da questi due percorsi, l’isola risulti diversa: in nessun modo con l’uno ci si risparmia l’altro. Né si può dire, appunto perché così differenti, quale sia più consigliabile o più bello.

Quando si fa il periplo marino, è spontanea l’impressione di sorprendere l’isola poco dopo un’eruzione vulcanica. Né vale ricordare che l’ultima, marina, avvenne nel 1904, ormai sessant’anni fa.

Appena usciti dal porto, comincia la costa irta, slabbrata, ribollente con miriadi di creste carbonizzate. Certo, al di sopra tranquillizza, ormai innocua, con il cratere riempito, come con la bocca piena, la cima tondeggiante della Montagna grande, e il suo vello è verde, ma un po’ rognosetto, come il vello delle pecore tosate. Poi sotto, le gradinate di muri a secco, coi cespugli delle vigne e dei capperi. Ma solo in qualche punto questo spettacolo armonioso, questi anfiteatri vegetali, prendono il sopravvento sulle coste occidentali, dove le colate del magma, sovrapponendosi a colate precedenti, a strati geologici più antichi violentemente riemersi, sembrano talora enormi arcate cieche, con grotte meravigliose dove l’arcata tocchi il mare. Qui più che gli effetti da grotta azzurra, sorprende la cavità lucida e sonora come il bronzo di una campana, e l’acqua che è acqua distillata su un fondo bianco, casto. Anche talvolta in un contiguo recesso c’è una polla di acqua calda, curativa forse, ma quasi mai solforosa. Così nella grotta del Capo Fram, dove il Comune ha fatto anche una piattaforma da ballo, e una scala d’accesso. C’è l’aria calda e umida delle stufe. Un’altra di queste grotte s’incontra a Nicà, ma prima di Nicà s’apre il golfo di Scauri, con uno di quegli anfiteatri di vigne che si diceva e le casette bianche e rosa del villaggio in alto. È lì, che di colpo, la costa cambia configurazione, con un alto balzo, quasi alto come a Capri; ma se quello di Capri è fatto di una roccia color della brace e della cenere, questo continua con ciclopiche stratificazioni nerastre dove, come vene, affiorano strati giallini di zolfo o rossastri di sangue cagliato, e anche pietroni verdi, come ne vidi nel deserto del Sinai.

Questo spettacolo, se non c’è il sole, nella sua grandiosità, sembra che manchi di colori, ma come una fotografia in bianco e nero, nel senso, cioè, che appena torna il sole e tornano i colori, non un nero è uguale all’altro, e i grigi svariano e quei gialli e quei rossi che si diceva, appaiono a lampi e a chiazze anche nel mare profondo, ancor più profondo di colore che di profondità effettiva. La barchetta, passando sotto a quei balzi immani è veramente un guscio, ma burchiello di carta: sgomenta, è impossibile che tenga.

I Faraglioni sono meno alti di quelli di Capri, e più simili a quelli di Aci Trezza: questo, per dar l’idea, perché nella realtà viva sono anzi diversi, e la parete di roccia che sta dietro, a piombo, non assomiglia a nulla.

Da una barca un subacqueo si calò in mare col fucile, e di lì a poco un nuvolo di gabbiani venne a posarsi sugli scogli. Mi disse il barcaiolo che, avendo visto la barca, si aspettavano l’immancabile bomba che avrebbe fatto strage dei pesci: pronti per la loro parte. Così, da questa irrefutabile testimonianza, il barbaro uso che lo Stato italiano non riesce a estirpare (ma ci provasse, almeno) e che ha spopolato tutti i nostri mari.

Aspettavano i gabbiani, e per una volta aspettarono invano.

Dopo i Faraglioni viene lo spettacolo più rinomato, l’elefante cioè, che la solita fantasia popolare dice di vederci perfettamente, in un roccione, ed è un po’ come Caino nella luna. Quando avvengono simili identificazioni (e così quella del profilo di Napoleone nelle montagne) io mi domando sempre perché mai, le stesse persone non riescono a vedere nulla nell’arte astratta. Non c’è di più, nella luna, Caino o il Bacio, di quanto non si ravveda la Scuola d’Atene in un quadro di Pollock. Così per l’elefante di Pantelleria. Ma dietro l’elefante c’è l’arco naturale, sotto cui si passa con la barca, e che dà accesso a una costa del tutto diversa, come a voltar pagina, non più a picco, ma tutta corsa, nella pendice solatia, di viti, di case, di frutti: e in cima, ahimè, la boscaglia bruciata. Ma così ridente, tuttavia. E quando, prima di passare sotto il ciclopico arco (quello di Ponza è un giocattolo, al confronto) si scorge la pendice verdissima e assolata sul mare che da nero è tornato azzurro, si giurerebbe di non aver mai visto nulla di più solenne e al tempo stesso sereno.

Eppure c’è un punto della costa che coglie ancora più di sorpresa, e quasi allucinante; la Baia dei Cinque Denti, dove il promontorio è in metallo fuso, e sembra antimonio venato di cinabro, svaporando nelle creste più aeree: come sentire un soprano-coloritura di pelle nera. E tanto è viva l’impressione di una trasposizione dall’acustico al visivo, che vien fatto di tendere l’orecchio per cogliere qualche eco, riflesso, rimando superstite: o almeno il canto di un uccello marino, visto che le sirene, pur avendo la loro grotta, sono verosimilmente altrove. Con ciò io credo che basterebbe alla fortuna dell’isola questo periplo marino, se non ci fosse anche il rovescio della medaglia, il giro terrestre. Qui pure, ovviamente si rincontrano i campi di lava, ma come un accidente passeggero. La lava, che c’è ovunque, appare domata, riassorbita, triturata, rientra nel mosaico dei muretti, materia le cose; il paesaggio è umano, e la furia del vulcano è passata per sempre.

Pensate pure che fu un cratere, il Bagno dell’acqua calda: ora è un laghetto, sul tipo di Albano, ma tanto più piccolo, come una grande fontana. Il verde lo chiude all’intorno, e riflettendosi rende le acque scure, come fuse: la Montagna grande, quasi supina, all’indietro, fa il pediluvio. E torno torno le sorgenti di acqua calda, lisciviosa, con quelle bavette di ruggine, che è quanto resta della rabbia del vulcano. Qui dovrebbero esserci i resti di un santuario cartaginese, di quelli orridi, pieni di ossa di bambini: ma nessuno seppe indicarmelo. Ciò che non si scorda del lago è il suo aspetto bucolico, il senso di un tramonto lungo che avviene lontano, e di vita calma, assettata, immemore, finita la guerra degli elementi.

Si risale e, per andare a Gadir, passando sopra la Baia dei Cinque Denti, quasi non si riconosce, se non allo splendido promontorio di antimonio. Tutte le creste e le lingue di lava si sono appiattite, rinfoderate in se stesse. Ma di lì comincia una zona stupenda, che sta fra il giardino giapponese e il paesaggio di Poussin. Mi spiego: del giardino giapponese ha le rocce usate come personaggio principale e le piante come personaggio secondario. E in più, le piante sono domate, per sfuggire alla furia distruttiva dei venti, domate in modo che gli ulivi, che già ricordava Edrisi, non sono mica in piedi, ma distesi, coi loro vecchi tronchi rugosi, obbligati a serpeggiare per terra, sicché le chiome cariche di olive sembrano cespugli, e io li avevo presi per ulivastri, per la macchia mediterranea. Invece sono ulivi domestici dalle grosse olive, e si acquattano al riparo delle rocce. Eretti, non sono qui che i fichi e i gelsi; perché loro perdono le foglie d’inverno e il vento, per furioso che sia, passa fra i rami spogli come fra le dita e non li abbatte. Il tono ombroso delle rocce coperte di licheni, il verde soffocato degli ulivi, quel po’ di lentischi più scuri, il declivio, è come un pezzo di un paesaggio di Poussin, dove riesce a ritrovare le Georgiche nella paludata Eneide che ama dipingere. Per il tono soprattutto, che sempre in Poussin sente il piombo, e non ha mai il color d’oro di Tiziano, da cui pure attinge a piene mani.

La strada continua a correre a mezza altezza, fra il mare e la Montagna grande, ed è sempre in cospetto del mare e della montagna. Senza le leziosaggini delle strade panoramiche artificiate coi fiorellini ai lati, questa strada, che è strada utilitaria, è poi meravigliosamente panoramica e meravigliosamente aprica. Di tanto in tanto attraversa un paese, Khamma ad esempio o Scauri: ma dovunque è lo stesso, non c’è l’infittirsi delle case e non c’è la folla di oziosi, sia pure oziosi forzati, come nei paesi dell’interno della Sicilia. La strada corre con una casa di qua, un orticello, un’altra casa, poi un’altra casa ancora. C’è infine come una piazza, e anche da quello slargo si vede il mare. Per ora nessuna di quelle pretenziose architetture che sono il disdoro del centro di Pantelleria.

Io non vorrei parere troppo idillico, ma se un colore è il celeste, non s’ha a dire che è celeste? E se è rosa, che è rosa? Dove c’è il nero, l’ho detto: e insomma Pantelleria è così.

Ma cosa dev’essere con l’uva matura, con le zocche di zibibbo stese nei campicelli al sole, e dovunque l’alito greve ed esaltante del mosto. Chi sa se allora, dove tutto è così quieto, il pantesco s’esalta e canta. Io non ho sentito cantare. Ma invece dei canti ho rinvenuto una preghiera antica, proprio scolpita in una pietra dal vinaio dove andai a comprare il barilotto di zibibbo, un vino dolce col fondo amaro e il profumo come di certi legni vecchi, spaccati dal sole. Dice la preghiera, ed è sentenza datata 1520, forse il più antico documento di dialetto pantesco: cui teni fidi a diu no peri mai.

Ma a Pantelleria non c’è solo il giro della costa, le passeggiate all’interno come se si camminasse su un’enorme, infinita terrazza: a Pantelleria c’è un’antichità unica, una antichità che è anche una saporita curiosità: i Sesi, questo nome strano. E sono i Sesi che per primi attirarono l’attenzione sull’isola. Fu circa un secolo fa, e, avanti che si scoprissero i Sesi – si credettero, allora, abitazioni preistoriche – di Pantelleria ben poco si parlava; se non per ricordare che i greci la chiamavano Cossyra; col nome fenicio, cioè, che sembra voglia dire o isola dei figli o isola della vittoria. Infine fu riesumato il ricordo dell’arabo Edrisi che la dice fertile, ricca di ulivi e di capre selvatiche. La sua storia, dopo che i romani la tolsero ai cartaginesi, dopo che Ruggero la tolse agli arabi, rientra ai margini della storia della Sicilia. Così sperduta com’è nel canale di Sicilia, e ancora più vicina alla Tunisia, in un mare stupendo ma piuttosto mosso, ebbe sempre scarsi visitatori; inoltre, per quanto la sua posizione remota potesse spingere gli abitanti a navigare, i panteschi non sono né navigatori né pescatori: vignaroli, e come bravi. Oppure emigrano.

Quando dunque nel 1898 vi giunse Paolo Orsi, benemerito se mai ce ne fu dell’archeologia meridionale, quel poco che si sapeva sui Sesi e sulla preistoria dell’isola era tutto sbagliato. L’Orsi ci stette più di un mese e del suo probo resoconto di scavi pubblicato dai Lincei ancora oggi si fa il dovuto conto: né saprei indicare qualcosa di rilevante venuto dopo, ancorché l’importanza, per la preistoria, di Pantelleria, non sia da barattarsi, ad esempio, nemmeno con quella delle Eolie.

In Italia, infatti, al di fuori dei pochi dolmen e menhir della Puglia, e soprattutto dei Nuraghi della Sardegna (che però, stante i ritrovamenti dei bronzi, hanno da essere meno antichi) non c’è nulla che possa stare a pari di questi stranissimi, funebri e affascinanti Sesi. Attirato anche dal nome, che è ancora quello con cui i nativi denotano i monumenti in parola, l’Orsi, che non vi riconosceva una radice semita, tentò di avvicinarlo alla bassa latinità (Sedes, Sesses, Sessa). La cosa è dubbia, anche se il dialetto pantesco mantiene delle parole più vicine al latino che il siciliano puro (ecclesia, domus), ma a noi conviene attenersi alla parola come è, che alla fine non è più eccezionale di quello che la parola connota. Non minore eccezionalità, per tali monumenti, è data poi dal fatto che non ci se ne accorge finché non si è fatto l’occhio a riconoscerli: e se si pensa che si tratta di tumuli o di tronchi di cono che in genere non hanno meno di tre o quattro metri di diametro, e quattro di altezza, questa specie di naturale mimetizzazione si capirà come rientri nell’eccitamento della scoperta, che, i Sesi, come se ogni volta fosse la prima volta, invariabilmente comunicano.

La regione in cui si trovano, di tante che si possono qualificare come infernali, a Pantelleria, a buon diritto mena il vanto: e il contrasto con il sole tropicale e il mare che fa appassire le parole con cui si dovrebbe evocare – o azzurro, o turchino, o cobalto o turchese – non fa che rafforzare il senso di qualcosa di emerso dall’inferno.

Le lave spugnose, le ossidiane scintillanti, appena in qualche punto danno dei riflessi rossastri, dal colore soffocato di cinabro, donde il nome, per il luogo, delle Cuddie rosse. Ma quella specie di avvallamento delle Cimelíe, dove si trovano i Sesi, è proprio un campo sconvolto di lava, con tante varietà di neri lucidi e opachi, che, se Burri un giorno lo vedrà, si sentirà un plagiario di quel che non aveva mai visto né conosciuto. Tutto ciò è a poca distanza da Pantelleria, e io mi ci recavo a piedi, il tempo permettendolo, con un ventolino che era marino, ma non sapeva di mare, in questo mare privo di alghe. La strada era ottima, e tutta la rete di strade di Pantelleria, in grazia delle sue duemila automobili, è ottima. Si sapeva che la passeggiata era breve, neanche due chilometri; ma questi due chilometri avevano la coda lunga: per quanto si guardasse, muri, muretti, muraglioni, tutti fatti come con grossi pani di antracite, ma Sesi non se ne vedevano. Naturalmente si continuava a camminare, finché si giunse a un luogo dove costruivano una casa, e si seppe che era un villaggio turistico. Anche, ci dissero, che si era oltrepassata la zona dei Sesi; in una parola non si erano visti. L’imprenditore del villaggio turistico (Dio ce la mandi buona, in quest’isola ancora intatta, meravigliosamente sana nella sua architettura bizantino-araba delle tante casette sparse) ci fece montare in macchina e ci riaccompagnò alla zona dei Sesi. In un momento si arrivò ai piedi del Sese grande.

È codesto un monumento che grosso modo può parere una pagnotta di carbone, su base ellittica di diciotto metri di diametro, alto cinque o sei. E quando si è vicini, si capisce perché dalla strada quasi non ci se ne accorge. Nella tenace, toccante, (ma, ho paura, distruttiva per i Sesi) lotta dei nativi per conquistare un fazzoletto di terra, la regione delle Cimelíe, ancor più del resto dell’isola, è una rete quasi invalicabile di muri a secco eseguiti con lo stesso materiale dei Sesi. È il materiale che è sul posto e dunque la confusione è massima. Ma poi si guarda meglio, e ci si accorge che la maniera di impiegare quei massi è diversa. Nei Sesi, per lo meno in quelli che ho visto io, la cortina esteriore è ottima, pur senza una lavorazione delle pietre naturali, essendosi mirato a commetterle in modo poligonale, con l’uso minore del pietrame di riempimento, e non per assise regolari, ma con tecnica, come dire, stellare. La copertura convessa del Sese grande, dove è conservata, è davvero preziosa in questa composizione di poligoni irregolari. Qualcosa come le mura di Alatri, i resti delle mura di Spoleto, tanto per intendersi. Ma con un sapore ancora più antico, com’è giusto per un luogo dove proprio i metalli non si conobbero. E ammettendo pure che questa civiltà si protrasse nel tempo, perché mai, se importarono dalla Sicilia delle pietre che lì non si trovavano e la creta per i vasi, che neppure quella si trova a Pantelleria, perché mai non importarono anche i metalli? Fino a prova in contrario mi sembra ancora valida l’asserzione dell’Orsi che il popolo dei Sesi fu veramente e solamente neolitico.

Alla base del Sese grande, che risulta come un bastione a scarpata, ci sono i vari ingressi alle piccole celle funebri: anguste, ma costruite con una tecnica di copertura che ricorda quella delle tholos e cioè con la volta ingegnosamente ottenuta con anelli di pietre sporgenti che via via si restringono verso l’alto. Dentro queste celle, in un Sese semidistrutto dal di fuori, che l’Orsi scavò e trovò intatto all’interno, stavano cadaveri rannicchiati con poco e rozzo vasellame d’impasto, senza traccia di tornio. Lo stesso vasellame trovò poco sopra, l’Orsi, nel villaggio fortificato di Mursia, di cui dunque i Sesi rappresentano verosimilmente la necropoli.

Ai musei di Palermo e di Siracusa, chi si interessa di preistoria, potrà vedere le ossidiane, i nuclei, i pezzi semilavorati, i frammenti di ceramica di questa oscura civiltà. Oscura ma non così isolata come sembra sulle prime, e appartenente a una razza che vuolsi, o volevasi, africana (ma non camitica), e di lì dilagata nelle coste mediterranee, altrimenti detta ibero-ligure. E pare che la forma del cranio coincida, per Pantelleria, come per la Tunisia, la Spagna. Comunque, per quel che riguarda Pantelleria, il villaggio fortificato, di cui resta un aggere di pietre quasi largo come quello della cinta, detta serviana, di Roma, ci dice che la vita, per quegli industri selvaggi, non era più di tutto riposo, e avevano da difendersi da nemici gagliardi. E forse chi sa, era quell’ossidiana che offerse i primi rasoi più taglienti delle selci e che lì si trovava a ogni piè sospinto, a rendere la vita così difficile agli abitatori che ne facevano commercio. Di che vivessero poi, in un paese di lava, verosimilmente senza agricoltura e non c’era di certo lo zibibbo, è un altro mistero. Ossa di animali furono bensì trovate dall’Orsi: saranno state dei progenitori di quelle capre selvatiche che Edrisi rammenta, e che con il muso mefistofelico sembrano, assai più degli asini, una volta famosi, dell’isola, adatte al suo meraviglioso paesaggio infernale.

Quanto ci sarebbe ancora da dire su Pantelleria: e la limpidezza incredibile dell’acqua, che è come bagnarsi nell’aria liquida; e la dolcezza delle sere in cui veramente il cielo avvolge da tutte le parti. Le cene all’aperto a Gadir, con quel pésto rosso, che è la specialità di Pantelleria, e seppure è una specialità recente, visto che è fatto col pomodoro, quasi quasi, tanto è rude e autentico, si penserebbe neolitico come i Sesi.

Ora c’è solo da raccomandarsi che il turismo non rovini Pantelleria, che non comincino a costruirci i grattacieli, che non s’industrino a raffittire l’ordine sparso delle case e a promuovere insediamenti di massa. Tanto la massa, a Pantelleria, non ci verrà mai, anche con l’aliscafo e l’aeroplano. Che sappia mantenersi com’è ora, l’isola infernale e verde, che non ha avuto un poeta bucolico che l’abbia cantata. E se lo meriterebbe ancora.