COME TUTTA UNA TERRA MURATA

 

IL CAFFÈ MAURO

Rabat, città qualsiasi, finché non si arrivi alla muraglia andalusa, quatta, rossa turrita senza arroganza. Allora è la medina, ed è come entrare nel formicaio. Ma anche in una città che è un racconto lasciato a mezzo, un manoscritto incompiuto. Dove ricomincia, è la città qualsiasi, dove si ferma, alle mura rosse, è uno squarcio d’un oriente, che poi qui è occidente, non ingarbugliato, dove gli strati del tempo sono come strati geologici. Ciò che è tanto più evidente quando si vada lungo la grande muraglia almohade, troppo più antica e imponente di quella dei profughi andalusi: le porte sono solenni e d’una castigata semplicità – erano dei puritani, gli almohadi, scatenati dal loro inflessibile santone El-Mahdi – erano puritani in religione e in architettura: volumi schietti, superfici appena rabescate nei punti giusti, come a formare inguini, dolcemente pelosi, nei pennacchi degli archi, e archi oltrepassati dalle ghiere larghe come la ruota che fa, con le penne, il pavone. Ma appena varcate quelle porte solenni, ecco il formicaio: qui però con un gusto vecchiotto da simil-moresco come c’è il similoro: le facciatine ripassate di bianco, i portoncini chiodati, e le verdure, le belle verdure dappertutto. Ma le nostre verdure, non quelle tropicali: carciofi aguzzi, piselli gonfi, attillati, baccelli ancora teneri, aranci rossi, come in Sicilia. Ogni straducola, così invasa dalle mostre di ortaggi, è come una piccola Spaccanapoli, ma quanto meno rumorosa. Gli asinelli, che non sono ferrati, a un tratto te li trovi col muso sulla schiena, passano come ombre di asinelli, così leggeri e discreti. E a un tratto vedi una libreria, con tre sporti coronati da ogive, e la guida ti dice che era una fonte. Ma guarda un po’, una fonte coperta e con tre archi, come Fontebranda, come Fonte Ovile, come le belle e uniche fonti senesi. Ebbene sì, in Marocco queste fonti coperte sono simili a quelle senesi, e probabilmente più antiche, e anche qui avevano un bacino scoperto, a lato, per abbeverare le bestie. Forse è solo qui che vi sono conservate, e, nel mondo arabo, erano diffuse: certo, che è difficile pensare a un contatto diretto, nel XIII secolo, fra il Marocco e Siena. Ma non ci furono i martiri francescani a Ceuta? Ceuta è Marocco, e i francescani, come tutti gli ordini religiosi, sono sempre stati un canale di scambio. Insomma le fonti merinidi in Marocco e le fonti senesi non sono, non possono essere una convergenza casuale.

Ma in cima alla medina, dopo tanto colore e tanti ortaggi, c’è una cosa unica, la Kasba dell’Udaia, con una porta d’ingresso che è un palazzo, anche se elaborata sul tipo antichissimo della porta scea, a gomito cioè, che dava infinite risorse alla difesa. Il prospetto è solenne come una cattedrale, con ornati semplici che fanno vedere la naturale e progressiva irrealizzazione dei racemi classici negli arabeschi. E dalla porta si passa in un grande ambiente a volta, e poi in un altro, con volta diversa, che dal quadrato passa al poligono senza pennacchi, ma con un taglio netto dell’angolo: vedi un po’, come farà il Borromini in una delle stanze di San Filippo Neri ai Filippini. Alla fine c’è, sulla destra, appunto ad angolo retto, la porta d’uscita di questa interminabile porta di entrata: un castello, un ribat a sé, piuttosto che una porta: si entra in quella che era la Kasba, il recinto fortificato, ora così cordiale, solatio, con tanti panni stesi e tanti bambini che non ti fanno respirare, perché ognuno ti vuol mostrare una cosa, che poi è per tutti la stessa cosa, la terrazza bellissima, dove ci si arriva anche a non volerci arrivare, a picco sul fiume, e con la veduta, davanti sull’altra riva, di Salè, la città dei pirati, ora un sobborgo di Rabat, prima temuto nido, con Mogador, dei famosi predoni che avvelenarono l’esistenza dei navigatori del Mediterraneo e dell’Atlantico. È un borgo stretto nelle sue mura, con i suoi minareti a torre, con tutti i suoi abitanti in gellàba per le strade. Il fuoco si è spento, i pirati sono passati, e le notti sono piene di stelle e di silenzio.

Per liberarmi dai bambini, spiriti-guida ossessivi, vado nel museo: è un museo che era una casa, dunque col patio, la grande sala col divano, e gli altri ambienti nei quali si entra sempre dal patio. È piccolo, per nulla sfarzoso, anche un po’ povero, se si vuole: ma pieno di appigli per la fantasia. Si inciampa a ogni passo in qualcosa che non si attendeva, a parte i tappeti, in genere mediocri, a parte i soliti ottoni e rami cesellati, ma non molto antichi, e non certo con le raffinate ageminature di Cordoba e di Damasco.

Ecco invece gli originali di questi strumenti trapassati dalla memoria, che vedete nelle mani degli Angeli nelle Assunzioni nel Trecento: l’antenato del violino, così striminzito e con l’arco così curvo che veramente potrebbe scoccare una freccia, è il rebec, ora con due, ora con quattro corde. E quei tamburi strani, a palla e a coppia, talora con una specie di gambo lungo, come le vecchie custodie dei calici per la messa. Ma quando sono tondi, come tazze smanicate, tesi di pergamena, come il ragazzo dei bar accanto porta i bicchieri del caffè coperti di carta: anche questi li abbiamo visti nel Trecento, e nelle Assunzioni, fissati alla cintura degli angeli come le giberne dei soldati. Allora ci si perde, ma, quando ci si ritrova, è per perdersi di nuovo nel Trecento, nei bordi dei manti delle Madonne a finte lettere cufiche: ecco gli splendidi Corani, dove, con meravigliosa calligrafia, senza pause, è come vedere un serpente che si inarca, si ridistende, si inarca ancora: nero e oro sulla faccia smunta della pergamena.

Si esce ed è per scendere nell’incantato giardino andaluso, che è recente, ma i giardini con i fiori sono tutti recenti, come Persefone rinascono a ogni stagione. E ora, oltre alle piante piccole e precoci, c’erano i grossi cespi delle dature, fitti di trombe bianche, come se, fra le loro foglie verdi si annidassero dei cherubini, quelli che hanno solo una testa e quattro ali, e sono bambini anche loro: anche nel loro paradiso avranno diritto a trombette di carnevale.

Ma queste trombe sparano profumo, un profumo che sembra ti riempia il naso da otturartelo, denso, squisito e un tantino nauseabondo, come la caccia quando è frolla, e quello è un profumo frollo, al limite: ma per questo squisito. Arrivava quel profumo, da fuori, anche quando ero nel patio – qui tutto è praticamente una propaggine andalusa – e nel mezzo del patio c’è una fontana, e, nel mezzo della fontana, una coppa di marmo che zampilla appena. Un bambino, coi libri di scuola, entra, si china sulla coppa, e lecca l’acqua, con la lingua, come un gatto. Alza la testa, vede che lo guardo, sorride e riprende senza vergogna a leccare l’acqua.

Poi il Caffè Mauro, accanto al Giardino andaluso, in una posizione senza pari, con un fiume che è un fiume all’incontrario, perché è risalito dall’Oceano invece di riversarvisi. Dall’altra parte c’è Salè, appunto la città dei pirati, ora tranquilla nelle sue mura, come entro la cintura quando si atterra.

Il cielo era di quel celeste tiepido che è dell’Africa, e il mare uguale, e il fiume uguale, e le ombre lo stesso, e tutti gli altri pochi colori, eccettuato l’oro fulvo delle fortificazioni almohadi e merinidi, come un denaro svalutato.

Bevevo il tè di menta, che mi piace solo quando sono disoccupato e come in una gentile quiescenza, non c’erano radio, né vicine né lontane – altra enorme civiltà del Marocco – niente di quei lamentosi melismi che ti disgustano per sempre della Siria. Il caffè non era molto popolato, qualche giovane tranquillo e con i libri: la terrazza aveva il sole per chi voleva il sole, l’ombra per chi preferiva l’ombra, e l’aria per tutti, un’aria come evaporata dal cielo, dal mare, e filtrata dalla luna, perché c’era anche la luna piena, così discreta, di giorno. Insomma il Caffè Mauro sul muraglione, a Rabat, in vista del fiume, in vista dell’oceano, in vista della città dei pirati, e il bambino che lappava l’acqua come un gatto. Un altro paese, ma non della mano sinistra, della destra.

 

DUE FACCE DI BERBERO

Ma a Rabat c’è anche il Museo Archeologico. Non ci va nessuno e per trovarlo è un affar serio: hai voglia a domandare, finché gira e rigira ecco un portone che sembra di un condominio ed è il Museo. Qui non molte cose, anche se c’è di tutto, dal paleolitico al tardo-romano: pure, una città romana, che non ho visto, Volubilis, con questo nome che starebbe bene all’epoca nostra, e quasi ogni cosa vien di là. Come in Tunisia, a un tratto, ti trovi di fronte a bronzi stupendi e conservatissimi, per nulla famosi, né so perché. Non dico dei piccoli bronzi, ma dei grandi. Intanto un efebo, che ancora discende, dopo tanti secoli, da Fidia, ma non è un falso antico, anzi uno splendido Antinoo retrodatato, riportato al tempo in cui anche Fidia amava i ragazzi. Così il nudo è più arcaico, non così pieno e molliccio a un tempo come nelle infinite statue gelide e impeccabili che gli fece erigere Adriano. Ma la testa, coronata da corimbi, è di un Antinoo dolce, suadente, morituro. E poi c’è un Catone uticense, freddo, parco, implacabile, e una testa di Juba, per cui darei metà di questi celebrati ritratti romani, soprattutto di quelli anteriori al III secolo. Con quale mano ferma i tratti grossi e barbarici del berbero sono stati cucinati alla romana: il naso da pugile, schiacciato ma non troppo, le grandi palpebre e le labbra turgide, ma come in Leonardo, che si sperdono nella peluria adolescente del suo Salaino. Che sicurezza di individuazione, da sfiorare il tipo e invece resta l’individuo, che piani larghi e compatti. Perché un ritratto del genere si cercherebbe invano nel Museo Nazionale romano? E non è forse romano? Qui neppure c’era il sostrato greco. Eppure questo ritratto è diverso e stupendo. Ma al piano terreno, dove non ci se l’aspetta, nel patio, con la solita acqua ferma e due pesci rossi che non si muovono, un’altra testa, di marmo, questa, che la didascalia dice ritratto di berbero. Ha ragione, è berbero, è di una razza che dové essere pura e fortissima, poi a furia di incroci con i negri e gli arabi, irrecuperabile come razza, tanto che si dice che il berbero è una lingua non una razza. Ed ecco qui l’illusione che la testa di berbero restituisca la razza, come era allora, nel II secolo, e magari non sarà stata più razza di quel che faccia razza greca il naso greco, un motivo formale certamente più che un attestato fisico. Ma anche qui è il naso che fa una razza a parte: e lo scultore modellò questa testa, con un gusto ellenistico ancora in epoca romana, e sembra preannunziare le teste di Michelangiolo: perché a Michelangiolo piacevano così, la volta della Sistina è piena di nasi leggermente camusi, di questi labbroni sensuali e silenziosi, attaccati al naso, non come quelli dei negri che sembrano salsicce, ma ben disegnati, lieviti al punto giusto. Dove dovevo trovare l’antenato di Cecchino, di Tommaso de’ Cavalieri, e di chi sa quanti altri. Ma l’antenato è lui, questa testa ignorata, che ha attraversato la terra, il mare, il tempo, e Michelangiolo se l’è ritrovata come un apporto, dentro di sé, ossia fuori di sé, ossia dentro e fuori, e dentro e fuori rimase, finché si va a Rabat, e vedi un po’ che incontro, il ragazzo segreto di Michelangiolo, una specie di efebo biondo dell’Acropoli, e invece al limite dell’olivastro, sicché anche nel marmo, al di dentro del marmo, c’è qualcosa come hanno i figli dei negri, quasi del tutto bianchi, eppure con quel crepuscolo sotto pelle, quel tenue viola che li rende come perle nere, cariche di luce spenta.

Lasciai il Museo con rammarico, ma anche col piacere di non essermi guastato la bocca con la miriade di opere mediocri che in genere si trova nei musei archeologici, e che non si può dire di no, certo, sta male, sarebbe come disertare, e io non diserto. Ma che noia, tutta questa romanità d’importazione, di dominazione, di propaganda. Esco e il cielo era sempre limpido e l’aria sempre fresca e il sole sempre splendente. Parrà una cartolina, ma era così. Sennonché, là, nella città nuova, tutta orlata di ficus beniamina come una città sicula, questo bel tempo faceva ancor più cartolina, e le case bianche, di finto moresco o anche vagamente moderne, che non ci si poteva scrivere dietro tanti saluti e poi imbucare. Rimanevano là, e io non sapevo più che fare, le moschee non si possono visitare, e allora mi incamminai verso quella, scoperchiata e immensa di cui la tour Hassan, che perfino a Roma è divenuta un night, era il minareto. Ma per arrivarci fu tutto un problema. Perché è tanto alta, che uno pensa di averla sempre davanti agli occhi, e invece scompare subito, appena si scenda dall’altura da cui si è avvistata.

Era domenica e qui non si sa se la festa è il venerdì o la domenica: ma certo lo è anche la domenica, e la gente cominciava a uscire, come dappertutto, e solo le donne, avvicinandosi ai quartieri abitati dagli indigeni, velate, al solito, e infagottate, da non desiderare proprio che si levino il velo e facciano vedere le gambe. Così andavo a caso, in una direzione che era abbastanza facile tenere, perché la città nuova è tagliata ad angoli retti o quasi, e, per quanto sembri strano, la tour Hassan si trova inclusa nella città nuova, fuori della cerchia più antica della medina. Ma è almohade, e, per quanto non finita, bellissima, così rossa, e con i suoi intrecci geometrici tanto vicini al paramento del Palazzo Ducale di Venezia. Al di sotto la moschea immensa è come una sparagiaia scapitozzata, o come un colossale tepidario delle terme, a cui sia stato tolto il pavimento: perché le colonne non erano d’un pezzo solo, ma fatte a fette sovrapposte, come le suspensurae, e lì si vede come la civiltà antica avesse subito un arresto, e come certe tecniche fossero dimenticate, così il cavare dalla pietra una colonna in una volta sola. Né c’erano, evidentemente, templi romani da saccheggiare: troppo tempo era già passato, e chi sa quanta calcina se n’era fatta.

Entro il recinto, che stanno sistemando alla meno peggio, i ragazzi correvano e giocavano a palla, il sole calava senza fasto, le mura della medina orlavano l’orizzonte, e fu all’improvviso, in un batter d’occhio, che calò la nebbia. Non mi pareva possibile, e soprattutto mi pareva ingiusto. Incredulo volli ugualmente salire sulla torre, la cui cima già scompariva nei vapori come fosse un campanile gotico, dove la nebbia è prevista, le nuvole sono di casa e le guglie le infilano come uno spiedo gli uccellini.

 

LA LUNA VERDE DI FEZ

Così il primo giorno di Fez è passato. Certo, arrivare a Fez, con un carico di attesa come di dinamite, e la miccia si spenge. Ma intanto la partenza. Ieri sera a un tratto, a Rabat, dopo quel bel sole di maggio romano, la nebbia, di colpo. Da quella nebbia improvvisa, dopo il bel sole di maggio, ero rimasto appannato. E forse avevo fatto male a salire lo stesso sulla tour Hassan: o per provare l’emozione, non già del paesaggio, ma della salita e della discesa, con quelle rampe su cui dovevano inerpicarsi muli e cavalli, ma che sono rigidamente a squadra, e a momenti era buio pesto. Ci pensavano i ragazzi a renderle un’avventura, scendendo a rotta di collo, con quelle virate ad angolo retto da scaraventarti in terra morto sul colpo. Facevano fantasia.

La mattina dovevo alzarmi presto per partire per Fez. Puntuale è venuto Arabit, quasi moro, con piccolo naso all’insù, grandi occhi di smalto, tanti denti, allegro, sicuro e svergognato. Guida come se ci fosse dentro di lui un’altra persona: quest’altra guida come un lampo, lui fa tutto quello che vuole, si gira, fuma, sputa dallo sportello: ma non apre la radio.

Il paesaggio non è un paesaggio, è la primavera. Rabat si tiene la nebbia, ecco il sereno, ecco il sole, i campi tutti verdi, i boschi di sughero, i boschi di eucaliptus, i prati di asfodeli, e le colline come fossero sgonfiate: non è piano, il suolo, e non è montuoso. Arabit, quello che guida, guida sempre più a razzo, quello che ride, accende una sigaretta dietro l’altra, sputa, racconta che è fidanzato, che ha nove fratelli, che non vuole avere figli, che non fa la preghiera, ma osserva il ramadan, e che durante il ramadan non si può fare all’amore. Ha cominciato a undici anni, ne ha ventuno. Nero, ridente e svergognato.

Si vede Teknes all’orizzonte, ci si avvicina, e la stupenda porta appare. È delle città marocchine la prerogativa di ingressi solenni, monumentali come archi di trionfo. Sono porte romane e archi di trionfo, dovevano imporre rispetto, soggezione e stupore. Ma, dietro, la medina, era la congestione, il formicaio, con il reticolo di straduzze per un uomo alla volta o quasi.

Finché si arriva a Fez. E quando si vede la grande cinta di mura con le torri, il pensiero corre a Costantinopoli, allorché si giunga dal mare. Fez sale e scende, rossa, in parte ancora merlata e turrita: di dentro i tetti a piramide di tegole verdi delle Moschee del Palazzo Reale, e i minareti come campanili, scintillanti di maioliche.

Il paesaggio me l’aspettavo un’oasi. Non è un’oasi, anzi piuttosto brulle e rossastre le montagne e non molto il verde. Ma l’albergo, sull’orlo della medina, è una sorpresa: intanto si entra scendendo, è scuro, come un suk, e poi il giardino, un giardino tutto d’alberi, e fontanelle e terrazze e scale e ancora fontane. Era il palazzo di un vizir. Le palme sono immense, così al riparo, e anche le piante di banane e perfino un pitosforo che sembra una quercia. Quando mi portano alla mia camera, per linee esterne, e anche questo è un fascino, c’è un riquadro tutto pieno di mammole, bianche e lilla, e profumano, così di giorno, come facessero un assolo, profumano in modo subdolo, perché nessuno ha mai sentito profumare le mammole fuori che, colte, in un vaso o sul petto di una dama della belle époque. Invece a Fez le mammole profumano come se si immolassero, segretamente, appena occhieggiando fra le foglie verdissime.

Poi, tenti di fare un primo giro, non guidato, nella medina. Capisco subito che è impossibile: come evitare i piccioni in Piazza San Marco. L’unica scelta è o la guida d’albergo o il mocciosetto che ti si mette alle costole pas pour l’argent, mais pour l’amitié!… – e gli daresti dodici anni e dice che ne ha diciotto. Che è pure possibile, con la denutrizione che, però, non comprime le loro capacità fertilizzanti…

Ora, la medina di Fez è la cosa più conservata che esista al mondo, praticamente intatta, se non fosse per qualche braccio collaterale dei suk, in cemento, con serrande metalliche, invece delle belle porte lignee a pannelli, con la pensilina di legno traforato. In questa medina è impossibile orientarsi: ma una volta che hai dovuto subire il ragazzo psicopompo, gli altri ti lasciano stare, limitandosi a strizzar l’occhio. Ma sapranno subito tutto: di dove vieni, dove abiti, di che razza. E appena ti scoprono solo, è un miracolo che non ti chiamino per nome: ma perché non lo sanno. Italiano, ti chiamano, Milano, Torino: allora devi dire, è impulsivo, no Roma. Sei fritto, non te li leverai più dai piedi.

Bisognerà ritornare in albergo e domani affidarsi di nuovo a uno solo e non illudersi di potere girare per proprio conto.

Ma stasera c’è la luna, e per quanto volgarizzata dalle imprese pubblicistiche americane, in questo cielo, che è una volta solida, di notte, e, prima che lei nascesse, con certe stelle grosse come comete, lucenti come zaffiri, e quasi staccate dal cielo, invece di perforarlo, codesta luna è nata verde, una luna di giada, meravigliosamente inverosimile, lei che, da queste parti lunatiche – che, dai fenici in poi, l’hanno sullo stemma – dovrebbe essere rossa come gli aranci di Sicilia. E invece era verde.

Se ne era andata la luce elettrica, tutto il giardino e la sala da pranzo erano cosparsi di candele. Quale felice infortunio, la scarsa luce che si aggiunge al silenzio. E la luna era verde, teneramente vegetale, alterata dal ricordo, attivata dal ricordo: sapore d’erba, un filo fra i denti in primavera, occhi che si alzano da una stretta notturna e le membra ora rabbrividiscono: la luna è verde, pronuba, regina degli umori e dei profumi. Allora capisci quel profumo che nella penombra saliva dalle mammole, erano le mammole della luna, la dea che non si deve avvicinare o se ne sa meno di prima.

Le palme enormi non sono alberi ma grandissime felci, un fiore mostruoso, un fuoco di artificio congelato nel cielo, subiscono il lume di luna come se fosse un suffumigio, una cosa che fa bene e non si sa perché: il tè di menta, l’infuso di tiglio, la camomilla. E c’è anche i gatti in amore, ma più discreti, non rispondono se chiamati in francese. Sentono solo la parola del profeta. E la luna.

Fez è una conca che la medina riempie a tenuta stagna, non ha terrazze chiare stese come lenzuola ad asciugare. È scura, impastata di cenere e di terra, e fitta, dura, senza un vuoto, senza verde. Non ci sono che queste palme smisurate del vecchio giardino del vizir e le palme stanno ferme come se fossero fossili, e questo lume di luna agisce come uno scavo: ricompaiono dal fondo dei secoli e nessun vento le smuove, incorruttibili ormai e sciolte dal tempo. L’edera veste i loro tronchi, un’edera grassa come la pelle dei serpenti, ricca come le cose che si sprecano, verde come un simbolo: le palme restano immobili contro il cielo notturno, che ha l’azzurro senza sole delle vetrate francesi, cupo, denso, più simile a una pasta vitrea che al cielo.

Eppure è cielo, e ti solleva dall’angoscia come se ti sentissi stappato, e, dal collo della bottiglia, dal tuo collo, buttassi bava e bava: sei vuoto ormai, non hai neppure fondata, perché la schiuma la portò via. Sei vuoto, e non hai più nulla, né bene né male, né gioia né dolore, solo una coltre di melanconia, come un telo che si stende sulle poltrone al teatro, dopo che andarono via gli spettatori, perché non ci cada la polvere, e qui, che cosa, un filo di speranza, la cenere delle stelle.

 

L’ARRIVO A MARRAKESC

L’arrivo a Marrakesc, se non si venga dal cielo, perché allora non si vede che la solita carta geografica, ma col treno, o meglio, in automobile è l’arrivo alla città di Dite trasformata in Gerusalemme celeste. Prima c’è un lungo pianeggiare, ora verdissimo, senza quasi case e quelle che si vedono, davvero africane, a raso terra, poi un bosco di eucaliptus, poi colline spelate, poi una distesa di palme: in fondo alle palme c’è Marrakesc, chiusa nelle sue mura rosse, con la grande torre della Cutúbia al centro, e dietro le montagne coperte di neve. Non sempre si vedono, ma quando si vedono sono scintillanti, aguzze come denti di lupo, con un cielo che ha l’azzurro denso di uno smalto, non così tenue come in Africa. Sembrerà poco, e invece è moltissimo: l’impressione di quelle mura rosse ed estesissime, con quei monti nevosi non si cancella.

I francesi ebbero il buon gusto di costruire la città nuova fuori dai piedi di quella vecchia: una città piena di alberi, dalle strade larghissime e diritte, che, se non si vuol vedere, non c’è affatto bisogno di andarvi. La medina, la città vecchia cioè, sta nelle sue mura come nel suo letto, e ha dentro giardini stupendi, anche se dietro muraglie altissime come i giardini delle monache. Né le strade della medina sono così strette come a Fez, ci passa, in talune, anche le automobili, ma poche, perché è tanta la calca, e stranamente tanto il silenzio. Non ci si crederebbe, quando si conosca il fracasso e il vocio delle altre città arabe: qui non una radio, né da fermo né sui taxi, e anche in quella grande piazza a sterro, la Jemas, quasi davanti alla Cutúbia, che è sempre gremita, non c’è chiasso affatto. La gente è molto gentile ed è tutta in costume come per far piacere al forestiero: invece lo è con pacata fierezza. E poi, a parte quello delle donne, è un costume comodissimo.

Perché il Marocco è come una lingua che non ha certi tempi del verbo: il siciliano, ad esempio, non ha il passato prossimo e mette tutto al passato remoto. Il Marocco ha coagulato tutti i tempi del verbo, compreso il futuro, in un unico intemporale presente. Così i costumi correnti non sono arcaici, stanno nel presente con tutta naturalezza, ma sono quelli che hanno dato il modello al saio dei frati e alla cornetta delle monache. L’unisex, qui, vive più che da dieci secoli: c’è, è vero, la tendina per le donne, ma bisogna anche dire che, prima, era degli uomini. Gli Almoravidi, quando vennero dal Senegal, e non capivano, o a stento, l’arabo, avevano la faccia velata, come ancora i Tuareg, che sono gli unici discendenti puri di quella fortissima razza. Avevano la faccia velata, e disprezzavano gli uomini che l’esponevano alle mosche. Ora invece si velano le donne, ma la gellàba è la stessa, e solo le donne, con il cappuccio, si confezionano una specie di cornetta. O se volete, quel velo che si vede sulla testa delle Marie in Roger Van der Weyden.

Insomma l’antichità di questi costumi e la disinvoltura con cui sono portati ha qualcosa di sconcertante. Ma bisogna vedere questa Piazza Jemas, piena di gente, dalla terrazza del Caffè Glacier: mi sembrò di essere dentro un quadro di Gentile Bellini. Tutti quei bei tonaconi di vario colore, come si portarono in Italia nella seconda metà del Quattrocento, e la fila delle baracche, e le palme che vengono fuori dai muri dei giardini, finché, nel fondo, la stupenda torre almohade, la Cutúbia. Ha due sorelle, la Giralda di Siviglia e la tour Hassan a Rabat. Ma la Cutúbia è forse la più bella, nitida come un cristallo, con quell’ultimo piano ad archi intrecciati, che sembra, a piacer vostro, o il Palazzo dei Papi di Viterbo o il loggiato del Palazzo Ducale di Venezia. E siamo ancora nel XII secolo.

Dicevo della gentilezza dei marocchini: si pensi a una persona che alza gli occhi cercando, invano, il nome di una strada, con la guida in mano, sperduta, e subito viene soccorsa, senza che apra bocca. Un romano, vorrei vedere, che così si precipiti verso il pedone: perché, se è in automobile, è altra cosa. Allora c’è la classe, a cui tutti si sentono di appartenere in potenza, per cui non ci vuole nascita, ma solo soldi o debiti, la classe dell’automobile, il quinto stato: allora, per un automobilista imbarazzato, pure un romano si muove. Ma per un pedone… “nun me va de parlà” mi disse un quirite senza il minimo imbarazzo, quando gli chiedevo una strada. “Nun me va de parlà” e proprio non me lo disse, il caro quirite. Eppure l’amo questa città, ma i difetti che ha sono una soma e mezzo. Mentre i marocchini, che, quando furono in Italia per la guerra fecero pure coniare un verbo nuovo, marocchinare che soprattutto si coniugava al passivo, sono un popolo civilissimo, educato, gentile, a casa loro.

Ma i marocchini sono berberi, non sono arabi, per lo più, anche se parlano tutti l’arabo. I berberi furono nomadi, poi sedentari e hanno conservato del nomadismo il gusto di stare in casa come sotto la tenda, e dell’esser divenuti sedentari il fatto di essere arrivati alla civiltà prima degli arabi. Già all’epoca romana erano civili. E di questa civiltà la traccia più inattesa è nella cucina: raffinatissima, delicata, segreta.

Qui, dove non furono mai i turchi, si capisce meglio come fossero diverse le basi di una civiltà che i turchi hanno livellato a partire dai sostrati più vari: come la Grecia, l’Egitto, l’Asia Minore. In Marocco la civiltà araba è venuta dalla Spagna e si è sovrammessa ancora allo strato di tradizione romana. È così che, al disotto della civiltà arabo-spagnola, si recupera qualcosa che non è arabo e che non si è conservato che lì; come il ci aspirato dei toscani è etrusco, la cucina marocchina è berbera, dei berberi che si erano fermati e coltivavano, come coltivano ancora e così bene, la terra. Ed ecco tutta una serie di piatti dai sapori macerati e indefinibili, in cui aromi inattesi si stemperano nei colori e nei sapori più teneri. Hanno un modo di preparare i limoni sotto sale che è come estrarne un elisir: il limone così conciato e che sembra venire da lontano, quasi dalla memoria, si lega allora allo zafferano e forma un sapore suadente e nascosto, perché non si sente il limone e non si sente lo zafferano. Questi umidi straordinari si chiamano tagina: dopo le opere d’arte, resteranno per me il ricordo più intenso del Marocco.

 

L’AGDAL

Marrakesc non ha mare, non ha fiumi, ma tre grandissimi bacini. Non si possono chiamare fontane, perché in genere la fontana si pensa con zampilli, cascatelle. Qui l’acqua è piana come una tavola, liscia come il volto di un bambino che dorme; giace sotto il cielo, a specchio del cielo. E poiché il cielo non ha una nuvola, neanche l’acqua ha una nuvola. Certo, se la brezza la sfiora, leggermente l’increspa, ma è come un caso, non sembra previsto, come non è previsto lo scolorarsi d’un bel viso e, se avviene, è per un’emozione. Naturalmente quest’acqua è calma, serena, come quella delle saline: che però s’intorbida, quasi avesse le cateratte, e qui no, non s’intorbida, e neppure è trasparente da vedersi il fondo, come un occhio limpido, che non ci si vede mica attraverso il cervello.

Certo, questi straordinari bacini avevano in fondo un padiglione, o magari due, ma non sembra che lo scopo precipuo fosse di farli specchiare: lo scopo è quello, il più disinteressato possibile, d’essere un quadrato, un rettangolo di cielo, e d’un cielo liquido, da potercisi anche dissetare con il cavo della mano.

E non sono in città. Entro le mura della medina se ne vede uno solo, al centro del grande cortile di El Badi: ma non è il più grande, e il fatto di averci le massicce e spoglie mura all’intorno lo dimensiona. Certo, il luogo è grandioso: l’unico paragone è con l’ingresso a Villa Adriana, quel gran muraglione, e poi come una misura nuova della grandezza: per i piccoli il doppio decimetro, per i grandi, gli imperatori, lo stadio. Anche questi sultani erano imperatori e pensavano in grande. El Badi, l’incomparabile cioè, fu tutto spogliato, alla fine del Seicento, da un altro sovrano, alauita, questo, che trasportò marmi e quel che si poteva trasportare, alla nuova capitale Meknes, donde qui rimasero i muri. Ma è impossibile, di fronte a queste muraglie gregge, rossastre e magnifiche, rimpiangere gli ornati saadiani, già così insistiti e decadenti, anche dove sono intatti, come nelle tombe saadiane: le trine di gesso, i coriandoli delle mattonelle.

Qui tutto è puro e grezzo, e l’unico ornamento erano, in alto, due nidi di cicogna con la cicogna in piedi e su una gamba sola, come quella di Chichibio.

Vicino c’è ora il palazzo reale, e quello non si vede. Si andò allora all’Agdal, che è il luogo dove sono appunto due dei tre grandi bacini; il terzo, la Menara, è più piccolo e andrebbe veduto prima, non dopo. Perché lì, purtroppo, convergono alcune costruzioni moderne e queste incrinano irremissibilmente il paesaggio; sospendono quel rapimento estatico che dà, in mezzo alla distesa degli ulivi, e con le lunghe gambe delle palme, lo specchio di acqua nudo.

Perché l’impressione, che sta alla base di tutto, è che quest’acqua è nuda.

L’arrivo è convenientemente preparato. Bisogna andarci in carrozza, non in automobile: si guasterebbe tutto. In carrozza si passa attraverso una sterminata oliveta, con ulivi grandi e folti come querci: troppo folti, infatti, per essere ulivi da olive, ma quanto belli a vedersi. Il loro fogliame oscuro è come di nuvole temporalesche abbassate a sfiorare la terra, ma invece il cielo è limpidissimo e queste nuvole vegetali, trattenute come palloni frenati dai tronchi rugosi, riflettono ombre ferme sull’erba, dove non l’hanno ancor fatta ed è verdissima, o sulla terra che è bella, rossastra; è il rosso del mattone, il rosso delle mura, il rosso che, dopo un poco, sembra di averlo come un sapore anche in bocca. Piantati regolari e a notevole distanza, questo scacchiere immenso continua ad allargarsi e a richiudersi come un ventaglio di qua e di là dalla strada. E qui veramente ci si accorge come cose simili possono non assomigliarsi affatto. Né questa uliveta fa pensare alla Tunisia, dove gli ulivi sono potati e sfoltiti in modo utilitario e sapiente, né alla Puglia, così diversi gli ulivi della Puglia, anche se per il colore quasi uguali; più nerboruti, più tozzi, risentono dell’asciuttore implacabile della regione, la loro sopravvivenza è stata una lotta, vittoriosa, ma una lotta, e il vento li torse e li inclinò. Qui, all’Agdal, c’è invece l’acqua, e irrigua è la pianura che si dilata a perdita d’occhio, sicché gli ulivi sono cresciuti senza soffrire, senza torcersi come Niobi disperate con le braccia nodose al cielo. È davvero un tiepido giardino di ulivi.

Così si arriva al primo grande bacino, con l’isolotto in mezzo, ma questo non è il più grande, né il più antico. Il più antico, il più grande, è l’altro, che era almohade, pensate, del XII secolo. Ed è questo che involve un senso di assoluto, ed è questo che nella sua nudità è indimenticabile.

Certo io pensavo che così, sebbene con un bacino meno grande, doveva essere a Palermo, la Zisa: l’architetto arabo che la costrusse, l’aveva pensata a specchio di una acqua, forse altrettanto ferma che questa, ancorché all’interno dell’atrio scorresse il filo d’acqua della fontanella, che non doveva certo perdersi sotto terra.

Ma qui, fossero o non fossero così belli come era la Zisa, i padiglioni almohadi, e intanto non avevano certo i mosaici, il protagonista è il bacino, non il padiglione.

Solo alla volgarità dell’Ottocento poteva venire l’idea di andarci in barca, in questo luogo intangibile: il barcone, a motore per di più, e fatto a Parigi, si trova ora in una rimessa, per fortuna. Perché davvero non c’è che da sedere e mirare, come nell’Infinito di Leopardi.

Da un lato sorgono le montagne dell’Atlante coi picchi nevosi, in fondo si vedono affiorare dagli ulivi le mura di Marrakesc e la Cutúbia. Non altro. E questo tanto che si vede, così uguale a se stesso come se si rispecchiasse in se stesso, è il silenzio fatto luce e colore, è il silenzio divenuto estensione, e l’estensione è allora come una nota tenuta che non si sente e invece si vede, una nota che non si spenge, perché è spenta, e quel che resta, è trapassato in vita anonima, accanto all’acqua distesa sotto il cielo, e paga, senza sapere di che, ma di tutto, del sole, dell’aria, della luce. Come se lentamente questa dolcissima morte salisse a livello, stagnando attorno.

 

IL PIC-NIC

Non so perché, ma questa gita a Urika, coll’annesso di un pic-nic, non mi aveva entusiasmato. Sarà per il fatto che a me le montagne piacciono all’orizzonte, e niente allora è più splendido e splendente della loro casacca di neve; sarà per il fatto che, camminare mi piace, ma i pic-nic li odio. Stare sull’erba, freddina in questa stagione, seduti con le ginocchia contro lo stomaco, intenti a sovvenire allo stomaco con un uovo sodo duro come un sasso. “Anacreonte sei vecchio” mi dicevo per punirmi, ma l’umore non migliorava. Eppure era giusto essere usciti dalla città, se anche sia una città dove si ambienterebbero senza fatica le Mille e una notte: era giusto vedere, oltre la piana di Marrakesc, come fosse la campagna senza sfarzo, la terra umile e sudata della montagna, udire in questa terra ai cui margini sta in agguato il deserto, lo scroscio di acque limpide che vengono da quelle nevi. E la scena fu esattamente questa, campagna povera ma verzicante, e di erbe per niente strane, proprio come da noi, il radicchio, i pisciacani, le margheritine, e le acque limpide e veloci che neppure ti guardano: scorrevano via più rapide di quelle di Eraclito, in cui non ci si poteva bagnare due volte. Veloci e fredde non ci si doveva bagnare neanche una volta. Invece si scoperse che il concetto era quello: il pic-nic contava sul guado. Ma che bisogno c’è di andare tre metri più in là, quando lo spettacolo è lo stesso? Evidentemente il guado aggiungeva qualcosa al paesaggio, il quale, diciamolo una volta per sempre, non aveva altra bellezza che di essere in primavera, con l’erba bassa e brillante e qualche albero da frutto fiorito: il sole, naturalmente, ma anche un venticello spietato che ancora non s’era levato di dosso il fresco di quella neve là in fondo, di cui era l’alito.

Allora avevo capito perché John avesse messo nella sporta una salvietta a spugna: diavolo, m’ero detto, come siamo puliti: avremo anche il lavabo sul prato per mangiare l’uovo sodo completamente asettico. Non mi aspettavo certo che invece fosse per asciugarsi i piedi. Ma io non intendevo mettere neanche il solo alluce nell’acqua di fusione di quel torrentello sdegnoso: avevo da fare il viaggio di ritorno in aereo, e un’infreddatura sull’aereo è, per me, fatale. Niente guado, io starò di qua e parleremo attraverso il fiume. Intanto c’era chi già sguazzava, ma gente del Nord, da cui viene il freddo: e per un russo cosa volevate che fosse un torrente marocchino, sia pure di neve fusa? Non si era contato, per altro, sulle risorse della fantasia di Gilalì: il quale ebbe il lampo di genio di cercare un asino dal contadino non molto distante. E là in montagna un asino c’è sempre: eccolo infatti con l’asino che aveva un basto tondo come un barile. Oh, miei lontani tempi, quando andavo a cavallo, saltavo gli ostacoli e montavo in appoggio! Anche questa crudele riprova dovevo avere: Anacreonte, sei vecchissimo, decrepito, fuori del commercio umano. E quando Anacreonte fu sull’asino, le cose non erano migliorate affatto. Perché su quel basto tondo non si sapeva come e dove reggersi, senza staffe e senza arcione: e non facevi il galoppo di scuola, Anacreonte? Non esibivi il tuo bel galoppo senza staffe, incollato alla sella? Eccolo su quel miserabile ciuco, che inciampa a ogni passo e minaccia di scaraventare la sua soma, non più col solo piede, ma con tutto il corpo, nell’acqua gelida. Chiare, fresche e dolci acque… Perché poi, c’era il ritorno, e una volta che uno aveva rimesso i piedi sulla terra, ecco la prospettiva di risalire sul ciuco e di sobbalzare a ogni passo incerto dell’animale, a cui il padrone, tenendolo per la coda, e un altro per una specie di cavezza, rivolgevano delle vocali gutturali, niente altro che vocali, per una lingua che neppure le scrive. Inoltre c’era anche chi prendeva delle fotografie.

Quando finalmente si fu tutti radunati sull’isola incantata, da cui si vedevano esattamente le stesse cose che dall’altra sponda, neppure con diversa angolazione, iniziò il pic-nic, e di certo, dopo l’onta del guado, furono rose e fiori. Ma nelle valli il sole se ne va presto, e quella era una gola, non una valle, da servire per la Carmen, nella scena con i contrabbandieri. Il sole se ne andò, il vento si rafforzò, e si fu di nuovo al guado. E bisognava vedere, perché si prese da un altro punto più breve ma più profondo, i ciuffi d’acqua che si formavano intorno alle pietre, e mi ricordavano certi disegni di Leonardo in cui l’acqua diviene un cespo di fiori, una fiammata con le lingue che guizzano, tutto fuor che un liquido evanescente; ma questa era acqua freddissima, e se ci cadi, povero Anacreonte, sei fritto: altro che raffreddore, una polmonite non te la leva nessuno. Poi potrai fare la convalescenza al sole di Marrakesc… Non accadde nulla, tuttavia, l’asinello così validamente aizzato con vocali aguzze come pungoli, giunse e mi scaricò all’altra riva. E fu allora che si scoperse la molla segreta: eccolo il piccolo Gilalì, nero e dentato come una ruota, piccolo e forzuto, piccolo e ardente, che dribblando il ciuco, prende nelle sue braccia Claude, la bionda Claude, la francesina fatale, la fatina beat del pic-nic, e con quel carico corroborante – non è per cavalleria ma per rispetto del vero – giunge il più lentamente possibile all’altra sponda. Povero Gilalì: io lo vedevo la sera, nelle lunghe e casalinghe serate di Marrakesc, ballare come un folletto, leggero come una foglia mossa dal vento, con tutti quei gesti che hanno solo vent’anni, neanche uno di più. E li faceva così bene, così convinto, davanti al suo idolo francese, biondo per giunta, e aveva sempre più denti da mostrare e solo i capelli neri non gli si scomponevano, perché attaccati alla testa come trucioli di legno. Ballavano, ballavano, ma questi balli moderni, alla distanza, in cui ci si eccita senza soddisfarsi, in cui ci si stanca senza spengersi, in cui ci si soddisfa solo nella stanchezza. E ora finalmente l’aveva stretta nelle sue braccia magre e nere, e lei rideva, soddisfatta come una donna che si fa rapire, né altro chiede, anche oggi, una donna, né c’è bisogno di diventare un toro e di farci salire sopra Europa.

Era l’ultima sera, domani Claude sarebbe partita. E partì. La tristezza di Gilalì era degna di De Musset. Sembrava un fiammifero spento, il povero Gilalì: parlava a monosillabi, non parlava affatto. Sarebbe rimasto solo, nella grande casa dove aveva portato due ricci, e ci si divertiva come un bambino, ed era riuscito perfino a farci amicizia: li prendeva in mano e quelli non si appallottolavano del tutto. Per la prima volta avevo visto così il muso porcino d’un riccio, del colore che ha il maiale quando è cotto, e con quelle piccole narici quasi immonde. Ora sarebbe restato silenzioso con i suoi ricci silenziosi, mentre Claude andava ad Agadir con il russo, a prendere il sole, a diventare nera, mentre lui, Gilalì, era nero di fuori e di dentro.

 

CONGEDO

Siamo alla fine, il Marocco è dietro alle mie spalle, davanti a me, questo abitato immenso a macchia d’olio, anonimo, se non fosse per le palme che ti fanno ancora assaporare il sole. Ma il sole non c’è più, grandi nuvoloni atlantici contraddicono a quell’idea edenica del Marocco, che è inevitabile portare in sé e che ti ha accompagnato alle soglie di Casablanca. Arrivare qui è come essere già partito: è come una stazione di testa, in cui tutti i treni fermano, in cui si scende solo per risalire. E forse non c’è sensazione più malinconica che sentirsi formare il passato dentro il presente, come una digestione difficile. Perché il Marocco è questo, da un lato ti riporta velocemente all’indietro, non all’infanzia, ma a un passato che non è il tuo e che convive con quanto, del presente, è più comune e anonimo, sicché neppure ci se ne accorge. Dall’altro, alimenta in modo nascosto e quasi subdolo, il senso della favola: che si possa vivere una favola modesta, dove il cielo è sempre sereno, dove le persone sono tutte gentili, dove c’è insieme la neve, il sole, le palme, l’inverno e l’estate. Certo, è un paese della vacanza, non si può lavorare in Marocco, non si può che uscire, passeggiare, prendere una carrozzella. Dopo di che verrà a noia, ma prima che venga a noia, uno sta bene. E la cattiva coscienza, di non volere ricordarsi che è un paese povero, dai disastri annuali, terremoti o alluvioni? Purtroppo è una vacanza dalla coscienza, che si cerca qua; ma ogni vacanza è vacanza dalla coscienza.

Comunque, il colloquio che avvia con se stessi, una vacanza del genere, non è ozioso, non è irresponsabile.

La serenità non è solo del cielo, è un modo di potere accogliere anche le nuvole, anche le tempeste, e di disperderle: allora ci si siede e si guarda con un occhio nuovo, con una mestizia tranquilla che non è amara ma il modo di consentirsi di vivere.