PERSIA MIRABILE

 

Mi è caro ricordare che in Iran è stata ed è presente l’Italia per lavori di restauro d’importanti opere d’arte, soprattutto a Isfahan e a Persepolis. L’Ismeo, diretto dal professor Giuseppe Tucci, un eccezionale orientalista, è stato presente nell’Iran dal 1964. Molti lavori sono ancora in corso e rappresentano quanto di meglio si sia fatto nel campo del restauro.

A Persepolis il dottor Alessandro Ricca fu guida preziosa ed esauriente, avendo collaborato ai restauri, assolutamente ineccepibili, del grande palazzo achemenide.

Un ringraziamento particolare anche alla dottoressa Gabriella Pasqualini, direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Teheran, e ai miei carissimi allievi e compagni di viaggio, dottoressa Maria Andaloro, dottoressa Rosalba Zuccaro, dottor Vittorio Rubiu, Giovanni Piccioni, ai quali devo anche alcune fotografie.

Infine mi è gradito rivelare il nome della graziosa bambina che fece il bagno a Mahabalipuram: Fabiana Sargentini, figlia di quel Fabio, gallerista romano d’avanguardia, a cui si deve l’organizzazione del viaggio in India, che lui conosce come le sue tasche.

TEHERAN

Cominciare con Atene è un brutto scherzo per la Grecia; dopo, anche con Olimpia, con Delfi ci sarà sempre qualcosa in meno. Viceversa a iniziare il viaggio in Persia con Teheran, si può essere sicuri che non si sfiora neppure quello che resta da vedere.

In realtà Teheran è una città ottocentesca, che di bello ha solo un impianto grandioso con strade larghissime bordate di file di platani enormi, ai cui piedi scorre acqua in continuazione: e quelli bevono felici e crescono sempre più. Si dà allora che la Pahlavi Avenue è una delle più belle strade che si possano vedere: leggermente in salita – è lunga chilometri e chilometri sembra arrivare ai piedi di montagne alte come le Alpi e coperte di neve. Questa neve scintillante in un sole che è già vampa tropicale, e solo mitigato dalla grande altezza – siamo a quasi mille e ottocento metri – dà un’aria festosa a tutta la città, che, a dire il vero, festosa non è, a parte il suo traffico caotico e intenso, degno in tutti i sensi di una capitale del petrolio. Dietro a quei monti impennati coperti di neve c’è il Caspio, ma il Caspio non lo vedremo.

Il piano di Teheran è, diciamo così, ippodameo, tutto ad angoli retti, eppure la città non è moderna, ancorché abbondi ora di edifici che sono la ripetizione di quelli europei, tipo grattacielo, per intendersi.

All’ingresso, venendo dall’aeroporto, c’è un monumento curioso, che fa come da porta o da arco di trionfo: comincia come la tour Eiffel, ma in muratura, e poi taglia corto come una casamatta. Fra noi nacque una discussione: a chi piaceva, a chi no. Io ero per il no, e un no deciso, pur riconoscendo che, in quello slargo con le sue cianche divaricate agguantava spazio: ma appunto, a parte la contraddizione formale di quello slancio che si chiudeva subito, come soffocato, si accampava nello spazio ma non creava spazialità. I soliti fiorellini, all’intorno, non ne aumentavano l’incesso.

Questo è l’eroico inizio di Teheran, poi cominciano i viali, continuano i viali, ma la solfa è sempre la stessa. La città insomma non ha carattere pur svolgendosi in questa cornice di monti, di neve, platani colossali. Così è una città che si vede in poco tempo. Ma ha un nucleo fortissimo, il Museo. Per quanto sia, ci si aspetta che il Museo sia sovrabbondante. Invece non lo è. È importante certo, ma uno si immagina che ci abbia tanta più roba, con tutti quei secoli che abbraccia. Si comincia dal Paleolitico e si arriva ai tappeti dell’Ottocento: achemenidi, parti, sassanidi, per non dire poi di arabi, mongoli, turchi di varie estrazioni. Chi non c’è stato in Persia? Come regione di transito fu uno sterminio, una storia lugubre di invasioni, di eccidi, di rovine.

Quindi i saccheggi non si contano, quindi, qua in Persia, ci sono restate le briciole. Per di più, dall’epoca dell’invasione araba in poi la produzione artistica subì un brusco arresto, perdendo di colpo plastica e pittura. Rinacque a poco a poco, con un accento figurativo che era diverso dall’Islam aniconico, ma di questa fioritura meravigliosa di miniature, rilegature, oggetti di gioielleria, ben poco è rimasto in Persia. In questo senso non credo che vi sia stata una regione più depredata. Anche per i tappeti, è un’amara sorpresa. Se si pensa agli stupendi tappeti che si vedono in Europa (e in America), da quello famoso, che proprio viene dalla Persia, di Ardabil, che è al British Museum ed è del Quattrocento, ma perfino qui in Italia, il tappeto di Santa Fina a San Gimignano, niente di paragonabile è rimasto in Persia. Dove i tappeti non si vedono neppure nelle moschee – ci si può quindi entrare con le scarpe – e quando si incontrano al Palazzo del Golestan, non sono tappeti che non si possano vedere in una dimora signorile europea.

Questo mi ha molto sorpreso, perché credevo che si avesse il culto del tappeto: ancora nell’Ottocento avrebbero potuto essere raccolti degli esemplari bellissimi. È destino che anche quello che c’è, i gioielli dello scià, dati in deposito alla Banca Melli (Nazionale) come corrispettivo di valuta aurea della moneta, ebbene questi gioielli sembrano paccottiglia. Si scandalizzi chi vuole, ma tutti quegli smeraldi cabochon, i brillanti, per non dire delle pietre minori, sembrano tanti culi di bicchieri.

Perché è il gioiello a fare la pietra preziosa. Ricordo la Schatz-Kammer a Vienna, con i gioielli della corona asburgica; quelli son gioielli. Anche i diamanti luccicano in modo diverso. Qui l’oro sembra ottone, le pietre sembrano vetro e via di questo passo.

La pesantezza, il gusto ingrato, del peggiore Ottocento toglie il respiro. Che cosa sono quelle corone, specie di budini di perle grosse come nocciole, festoni di brillanti, e infine l’asprit con un fermaglio di un brillante grosso come una noce. Ebbene dà solo un senso di nausea: toujours perdrix.

Naturalmente è ben altrimenti affollato che il museo: ma allora si rivaluta il museo nella sua relativa povertà. Basta l’unico piatto sassanide per stamparsi nella mente. Qui, cosa se ne riporta? La curiosità di certi manicotti che non si sa come ci ficcano dentro la mano: ma che erano se non servivano da manicotti? Oppure per quella specie di scodelline dalla larga tesa, che non si sa a cosa servissero: non erano copricapo, non erano scodelle. È quanto ho riportato da quella sarabanda di pietre preziose, che se poi si scivola nelle turchesi o nelle pietre dure, allora sembra di essere al bazar. Per finire dirò del trono del pavone, goffo fino al ridicolo, mezzo persiano e mezzo indiano ma soprattutto Luigi Filippo, tempestato di pietre preziose a caso, qua uno smeraldo, là un grosso rubino chiaro, e così via, tanto per ammazzarti con lo spreco. Io mi ero immaginato qualcosa come un’etimasia, un trono sacro costantiniano con le grandi gemme poste come tessere musive. E invece viene fuori una seggiola d’oro, che potrebbe anche contenere una seggetta, tanto è alto il tamburo fra il sedile e le gambe: sì, una seggetta, con un bel cantero di smeraldo per ricevere le sacre feci.

Ma, i mobili egiziani, che vengono fuori dalle tombe con le loro gambe secche e molleggiate, non già d’oro massiccio, ma dorati, non già di pietre adorni, ma del più squisito design della storia. È inutile, l’Ottocento è un secolo disgraziato per la mobilia, a cominciare da quella Impero, e chi non ci ha che quella, pietre o non pietre può andare a riporsi.

Infine va pur citato il mappamondo di smeraldo, – i mari di rubino – la terra, eccettuato l’Inghilterra, l’Iran e l’Asia del Sud in diamanti, Africa e Australia in zaffiri: si può immaginare una cosa più gratuita e assurda? Fu realizzato al solito nello stupido Ottocento, ed è difficile pensare a una fantasia più piatta e aberrante. Oltre tutto non ci si capisce nulla, i contorni dei continenti si sfanno nel luccichio sprecato di tanti preziosi.

Questa civiltà leziosa e provinciale dei Qadjar trova il suo modesto riscatto nel Museo messo su da poco in un palazzo che era della regina madre: un palazzo in mezzo a un bel giardino, un giardino molto europeo, e tenuto con impegno quasi eccessivo. Il Museo consiste in una raccolta di pitture di gusto turco, ossia oleose, un tantino losche, di personaggi vari, ma soprattutto di donne e di uomini barbuti. Tanto per averne un’idea, si può pensare a un precedente popolaresco da cui sia partita la fantasia di un Chagall, quello dei primi quadri assolutamente fantastici e agrammaticali. Ciò nel migliore dei casi: in quello corrente, è una serie di donne scure, dagli occhi pesantemente truccati e dipinti come per un calendario da fiera.È un populismo senza grazia, come spettava alla Turchia, segregata dal mondo occidentale, da cui riceveva solo dei bellissimi cristalli di Boemia, manufatti apposta per lei: candelieri a campana, bottiglie. Anche di questi cristalli ce n’è una bella collezione: appunto perché i Qadjar erano una dinastia turca e i turchi ci stavano da un pezzo in Iran: ancora oggi un terzo della popolazione parla turco.

Tutta questa misera paccottiglia è sistemata con un incredibile amore, assolutamente europeo; ma vedi un po’ gli effetti dell’eccessivo riguardo. Per farla figurare in qualche modo, il Museo è sistemato lussuosamente come da un vetrinista. È il gusto del vetrinista che rilancia i fondi, intercala strisce di vetro colorato, azzima tende e luci: un risultato gradevolissimo, indubbiamente, con un materiale di quint’ordine. Ne valeva la pena? Perché non contribuisce neppure a far rinascere sotto occhio l’epoca Qadjar, epoca graveolenta e crassa, che è assai più triviale e veritiera al Golestan: qui, la raffinatezza è tutta nel modo di porgere, e allora accade di vedersi presentare una pietanza poco raccomandabile in un piatto d’oro. Resta l’ambiente fresco, il bel giardino e l’aria pulita.

Accadde che per finire in gloria con l’epoca Qadjar e il gusto persiano, si volle andare a mangiare il gelato di rose. Codesto, che è autentico persiano, bisogna guadagnarselo nei quartieri poveri, perché in quelli ricchi non c’è, per mangiare, che l’eterno Kabab e uno smorto gelato di crema. Il gelato di rose si chiama Bastiani e bastò dirlo al conducente del taxi perché ci portasse ai margini di un suk dove c’era un esercizio, chiamiamolo così, volto allo scopo. L’esercizio non aveva l’aspetto entusiasmante, ma c’eravamo già preparati e dunque entrammo. Chiesto il Bastiani si ebbe il Bastiani. Oh, vero sapore della Persia, nel bene e nel male. Infatti il Bastiani è un gelato di latte cosparso di mandorle e qui sta il bene, ma assai vischioso, e qui sta il male, e il male e il bene insieme compare unito nell’odore di rosa. Vera rosa, non saponetta, che con quel sapore di latte e i gradevoli frammenti di mandorle attenua la vischiosità della pasta dolcissima: ma viva la faccia del Bastiani, questa era Persia, ci si poteva giurare.

 

LA CICOGNA DI PASARGADE

Una piana sconfinata e brulla fino a un orizzonte bordato di monti spelati fra il fulvo e la cenere, e un sole immenso senza neanche le minute ombre dei ciottoli: al centro, come un omphalos gigantesco, il sepolcro di Ciro il grande. Un sepolcro che più semplice, in apparenza, non potrebbe essere, ma alla cui semplicità hanno collaborato tanti secoli e tante civiltà. Come su un catafalco, innalzato su sei gradini, sta in cima, squadrato come un monolite, il sarcofago a capanna; ma è piuttosto una piccola casa, che, dentro conteneva il sarcofago di oro massiccio. I gradini enormi suggeriscono subito un’affinità con i lontani ziggurat sumeri e babilonesi, ma questi, come si sa, avevano un significato astrologico, erano i cieli dei sette pianeti sovrapposti, in cima ai quali avveniva la jerogamia fertilizzante del cielo e della terra. Se qui i gradini non fossero sette, ma sei, e tre più grandi, di macigni squadrati enormi, e tre più piccoli della stessa pietra. Il significato astrologico è quindi dubbio, e resta la voluta asimmetria dei tre gradini più grandi e tre più piccoli. Abbia allora qualche lontana relazione con le piramidi a gradini egiziane? Resta il fatto che, tra le tante differenze, i gradini della piramide di Giosèr erano tutti uguali, e che la camera sepolcrale si trovava in basso, non al fastigio, come qui.

Si verrebbe allora nella china di attribuire la diversità delle misure dei gradini a una specie di veduta prospettica in nuce, che, diminuendo le altezze dei tre ultimi gradini, mirasse a un acceleramento della visione dal basso – l’unica possibile, del resto – così da accentuare l’idea dell’ascesa del morto verso il cielo: idea, che, per altro, non si sa affatto se preesistesse nella teologia dell’ambito di Ciro il grande, che lavorò per la terra più che per il cielo.

Quel che è certo, il monumento così come si presenta ora nella spianata senza fine, anche senza essere di proporzioni colossali – non certo della altezza delle piramidi egiziane o di uno ziggurat – scatena una profonda emozione: vortici di secoli che si sono avvicendati sulla sua cima quasi a punta di diamante, vortici di popoli, – la Persia essendo uno dei carrefours più transitati da orde d’invasione che divennero stanziali, e finalmente, e su tutto, il senso di una morte perenne e di una vita perenne che si intrecciano inscindibilmente e di cui questo monumento ombelicale sembra un cardine che non si sradica e che si offre a testimonianza illimitata.

Ma ecco che al piede, nell’ordine inferiore dei gradini, si scorgono alcuni minuscoli graffiti; oh, non iscrizioni, per fortuna, sul tipo di quelle che ci affiggono e ci insudiciano in tutta Italia, ma bestioline quasi preistoriche, caprette con corna gettate all’indietro, il corpo filiforme, le quattro zampette magre. Ma non ignobili pupazzetti, anzi nobili e fermi come incisioni rupestri, quasi che gli enormi pietroni del basamento, squadrati con tanta greca cura, li avessero portati in sé e siano da ritenersi anteriori alloro taglio. Ipotesi assurda, evidentemente, ma che l’eleganza del segno, che ricorda animali preittiti, oltre che generici disegni paleolitici, accattiva e induce a fantasticare sui ricorsi della vita, di un battito del cuore figurativo nei preistorici come nei moderni. Il piccolo pastore, Giotto senza saperlo, aveva graffito le imponenti bozze del tremendo sacello di Ciro, come l’affiorare stesso della vita a primavera, che ormai scoppia senza riguardo se l’interstizio in cui la pianticella crescerà è fra due pietre di un campo o di un monumento sepolcrale. Ugualmente lecita e ugualmente significante, come lettura rinnovata di un testo ormai incomprensibile. Lettura di vita, sovrapposta alla storia.

Non sapevo staccare gli occhi da quei miseri pitoti, pitoti come quelli della Val Camonica, cronaca di un gregge, di una giornata di sole all’ombra, a ridosso del superbo catafalco sulla cui transitorietà nel mondo e nei secoli, non c’è dubbio che Ciro o chi lo fece costruire non ebbero il minimo dubbio. Diceva la scritta, secondo Plutarco:

O Viandante, chiunque tu sia e da qualsiasi parte del mondo tu venga, poiché so che passerai, io sono Ciro, fondatore del dominio persiano, non m’invidiare per questa poca terra che racchiude il mio corpo.

E Alessandro Magno, che vi fu e vinse i discendenti di Ciro il grande, volle farla tradurre in greco, questa scritta meravigliosa, degna dell’antologia palatina.

Si dava dunque che i poveri pitoti, invece di distrarre e di attentare alla maestà del monumento, riconducessero l’attenzione ai cicli alterni di vita e di morte, di speranza e di resurrezione, di vita giornaliera e di eternità, di cui il monumento è una specie di thesaurus inesauribile, la presenza stessa dell’eternità della storia.

Poco lontano dalla tomba di Ciro il grande, ma abbastanza lontano perché i frammenti riportati in luce non turbino o si sovrappongano alla suprema mole del monumento, vi sono gli avanzi del palazzo che precedé quello di Persepoli. Sono avanzi modesti, ma sempre illuminanti. In quella che dovette essere l’apadana, o sala di ricevimento, piantata di colonne a distanza regolare, vi sono le basi delle colonne che chiaramente parlano greco; sono quasi basi ioniche che da nessun altro luogo e da nessun altra cultura potevano venire. Anche questa, che non è una novità, induce alla meditazione; così nemici, anzi antagonisti per la vita, come Persia e Attica, non potevano non sentire l’attrazione e la repulsione di due civiltà più complementari che antitetiche.

Certo, noi si sta dalla parte greca, – e come non starci? – quando i nostri giovani anni furono afflitti e illuminati dalla stupenda descrizione della disfatta di Salamina, che si legge nei Persiani di Eschilo. Tradurlo era arduo, in quei pomeriggi afosi di Viareggio, nei quali ostinatamente, per non perdere il salto dell’anno, né la vacanza estiva, invece di riposarmi, percorrevo il testo immortale. Ma come doveva apparire misteriosa e grandiosa questa vita persiana, al piccolo cabotaggio della vita greca, in cui, per votare ci si serviva dei cocci rotti delle anfore o delle patere. Tanta miseria e tanta nobiltà. Ora i nostri ostrakon non sono di coccio, ma di plastica, versicolori, divergono subito, appena gettati a terra, delle offese che dànno disagio, mentre i coccetti, gettati a terra, tornano terra, o addirittura la scheda elettorale.

C’era naturalmente un branco di americani chiassosi, venuti lì solo per farsi la fotografia contro il venerabile sarcofago, e niente poteva essere più discordante che la loro presenza. Non già i miseri pitoti che pure avevano scalfito la superficie del monumento, ma la loro profana allegria, la loro, espettorante volgarità, di fronte alle quali cessa la storia e tutta passa in televisione.

Allontanandoci, ma a poca distanza, un’altra presenza ci aspettava. In un’altra area che sarà stata o l’apadana o altra sala di ricevimento, le colonne sono o scomparse o ridotte a monconi poco al disopra del suolo. Una sola, altissima, è rimasta. Così sola sembra esile come una pagliuzza o, se si vuole, come una ciminiera. Ma a togliere fastidiose immagini moderne, in un contesto antico e solenne, in cima alla colonna, c’era un nido di cicogna, con la cicogna ritta che, a tanta altezza, ignorava il passato e il presente. Mi ricordo di quante ne avevo viste in Anatolia ritte sulla loro ruota, dove costruiscono il nido, ma qui, così inattesa e così imperturbabile, la cicogna pareva il marchio stesso della vita. E non per la leggenda nordica dei bambini, ma perché, a parte noi, era l’unica presenza viva, e, in certo qual modo, nel contesto così storicamente definito.

Nobile e svelta nella sua sagoma spigolosa, la cicogna era la vita che ritorna a ondate, si avvicenda in modo perenne. Dava alla frase il senso dell’iscrizione di Ciro: Viandante, non mi invidiare per questa tomba.

 

PERSEPOLIS

Persepolis è come il tetto del mondo, così vasto, alto, aperto, così sgombro di paura e di morte; così altero, che anche quando vi siamo sopra resta irraggiungibile. È sempre più alto della quota a cui si trova: è sempre più lontano di qualsiasi punto d’arrivo, e sembra una sua singolare bontà, che ci si giunga facilmente, salendo gradini larghi e bassi. Si dice perché dovevano essere saliti dagli animali: può essere, ma resta il fatto che un simile agio sembra concesso per rendere accessibile qualcosa che non si raggiunga mai in completo, la grande terrazza rimanendo a un orizzonte sempre più ceruleo e remoto.

E pensare che, così come ora si vede la grande spianata, con poche e rade colonne in piedi, ma vertiginose, è quasi tutto il contrario di quello che doveva essere al tempo di Dario e di Serse. Anche l’ingresso, il più conservato, – manca solo una colonna, – era infatti coperto, mentre ora fa pensare al pilone di un tempio egiziano, in quanto scoperto: era coperto e sicuramente in modo massiccio e doveva quindi realizzare assai più l’idea di un parallelepipedo che di una schiera di otto elementi isolati, e di grande impatto, con quei tori barbuti, sullo spettatore. Che ingresso, c’era da restare fulminati.

Dopo, i grandissimi spazi sembrano piantati a colonne, verzieri di colonne, ma ridotte a poche spanne di altezza. E invece dovevano comporre dei blocchi alti e oscuri, se è possibile essere oscuri dove il sole ha la forza selvaggia dei tropici.

L’apadana è quella che si visualizza meglio, non tanto perché vi restino più colonne – sempre una percentuale minima – ma perché era sopraelevata rispetto al resto, e vi si accedeva da scale bellissime, tutte ornate. Per intendersi, queste scale hanno una andatura a ripiani – due al massimo – che ricorda lo schema di scale esterne del Rinascimento, ma la loro novità è nei bassorilievi schiacciati che le ornano dalle due parti, di fuori, cioè, e di dentro. Bassorilievi e merli, e questi, alla lontana, diventeranno quelli del Palazzo Ducale di Venezia, perché si radicheranno potentemente nella tradizione islamica.

Salire sull’apadana è allora come essere in cima al più alto grattacielo, non già perché sia tanto alta, ma perché tutto è relativo alla sua piattaforma aerea che compone solo con l’infinito. E l’infinito è questo piano immenso e veloce, crestato in fondo ai monti su cui le nuvole gettano come macchie di inchiostro bluastro, e le nuvole passano silenziose come vascelli aerei che non si fermano. Quel che è fermo, è la storia: non si è più mossa da quando Alessandro Magno appiccò l’incendio al maestoso palazzo, e quello bruciò perché i tetti erano carichi di legname, venuto dal Libano, nientemeno, da questo enorme serbatoio di legname, per tutta la più remota antichità, dall’Egitto – oh le barche solari – ai soffitti di Persepolis.

Il mirabile stato di conservazione dei bassorilievi così compatti e levigati, non lascia nulla alla fantasticheria: certamente li vediamo come erano al tempo di Dario. Ma sembrano assai più antichi, più per quel misto di assiro che vi affiora, né solo nei modi della moda, di quei capelli e barbe a ricciolini fitti come chioccioline, i nasi appena camusi. Le donne sono assenti. Ma dopo aver subito il richiamo all’Assiria, che porterebbe la data molto più in là, ci si ricorda che, tutto sommato, Persepolis è quasi contemporanea all’Acropoli di Atene. Allora sembra si sia spalancato un dirupo. Ma il dirupo a poco a poco si colma. In realtà questa scultura non è arcaica, è arcaizzante. C’è un tono aulico, in cui si stempera la personalità degli scultori. Inutile cercare mani diverse, maestri divergenti, tutto è ugualmente nitido, pulito, e un pochino senza nerbo. Proprio come avviene nei grandi momenti corali delle civiltà: ma soprattutto come avviene, nell’Ottocento, per lo stile neoclassico. Una volta che a Persepolis si è posta questa risicata equazione, resta risicata ma non esce più di scena. Manca la forza dirompente del grande maestro, è un’arte di corte, impeccabile e impareggiabile, ma arte di corte, come la ritrattistica che dilagò in Europa dopo il Bronzino. Alla base della scultura di Persepolis, non ci sta né Fidia né Mirone, semmai il paragone più valido è con la precedente scultura arcaica greca dove, ci sia o no un nome, non riesce a eccettuarsi dall’altissima media. Però, a questo punto, siamo al punto di prima: il paragone con la scultura arcaica greca fa sentire uno scatto: questa non è arcaica è arcaistica. Troppo ugualmente modulata, lustra come un’unghia. Mai lo scarto rigoroso che è determinato da una presa di possesso dell’oggetto in base ai principi rigidi, come ad esempio la costruzione di un solido per facce che implica delle cerniere – è il caso della scultura arcaica greca – o come avviene nel bassorilievo egiziano con le visioni giustapposte, frontale e laterale. Qui la visione è in realtà naturalistica: il profilo è serbato in un aspetto consono, per nulla sforzato. Ma le pieghe, ad esempio, sono come le venature delle foglie, modulano in piano o appena su un rilievo convesso impercettibile. E queste pieghe a ruga, parallele o concentriche, ricordano allora un altro momento storico della plastica, quello romanico, sia Chartres che Benedetto Antelami. Ma qui ti volevo: a Chartres o a Parma o a Fidenza, quelle pieghe calligrafiche, non sono calligrafiche per nulla, rappresentano qualcosa come una legge di cristallizzazione della forma, inderogabile, impensabile altrimenti o cambia tutto. A Persepolis quelle pieghe sono una soluzione elegante ma potrebbero anche non essere a quel modo, al modo, rilevato e miniaturizzato dei riccioli a chiocciola delle barbe e dei capelli, che sono offerti al vero e che contrastano piacevolmente con quell’arcaismo remoto delle pieghe. Ma questo è quello che accade anche in certa scultura arcaistica dell’ellenismo, in cui tutto torna finché c’è il particolare dato in modo naturalistico che contraddice la severità icastica delle parti arcaizzanti.

Resta il fatto che la redazione è perfetta: in questi limiti e in queste alternative la grande scultura di Persepolis resta uguale a se stessa in tutta l’immensa estensione delle superfici figurate, al punto che fra le parti del tempo di Dario e quelle di Serse non si riesce ad avvistare differenze. Ma anche questo fatto, che è indubitabile, mette in allarme. Mi direte che è quanto avviene anche nel bassorilievo egiziano, per dinastie e dinastie, ma accorti: nel bassorilievo egiziano c’è una qualità primigenia di scrittura che uniforma il dettato attraverso i tempi, proprio per la fissità insita nei caratteri ideografici. Nella grande scultura le differenze ci sono, eccome: non è possibile lì sbagliare una statua del Regno antico con una di Amenophis. Viceversa l’identità di flessione attraverso un secolo della scultura di Persepolis, dà alla scultura stessa quella patina uniforme, quell’unità di cottura, che pone questa scultura come fuori del tempo, ai limiti di un sublime a cui però non ascende mai.

Ma come non pensare, di fronte a questa processione interminabile di popolo, coi loro, ma limitati, caratteri di costume e di razza, a un’altra processione, a quella delle grandi Panatenaiche, ora divisa fra Atene, il British Museum, e, un pezzetto, al Louvre? Ebbene proprio al Louvre, quel metro lineare di bassorilievo illumina come un riflettore, fa spazio intorno a sé, tiene l’animo in sospeso. Eppure non è detto che non segua una sua formulazione plastica rigidissima, tutt’altro che naturalistica, con quello schiacciato verso lo spettatore, con quelle soluzioni che mirano alla visione frontale. Di mani diverse, il grande fregio, non tutto è d’uguale altezza, come appunto il pannello del Louvre, ma qui veramente il sublime, come uniformità di lezione e altezza qualitativa non solo è raggiunto, ma rimarrà sempre esempio insuperato di una maniera che non è maniera, anzi continuità di eloquio, personalizzazione al limite della spersonalizzazione, e mai il generico. Altro che il sublime Canova!

Il sole stava andando giù, proprio di fronte all’apadana, in un cielo di onice, in cui anche le nuvole avevano la lucentezza delle circonvoluzioni dell’onice. Un vento fresco, il vento del deserto, si alzò che sembrava dovesse fare sfrigolare le pietre ancora calde di sole, come un ferro rovente in acqua fredda. La luce era stupenda, nitide le colonne, trasparenti le ombre e di un colore che non scattava rispetto alle parti in luce, anzi sembrava che le ricollegasse nelle lunghe proiezioni della sera, come creando un tessuto nuovo, aereo, rispetto a quello mutilato dal tempo. Era come sentirsi in un’aura privilegiata, in una piattaforma spaziale remota dal mondo, ma così umana invece, così legata alla storia. Dario, Serse, Alessandro Magno erano lì con noi, forse risalirebbero dalle ombre, non appena il sole fosse scomparso all’orizzonte.

E il sole andò giù di botto, di botto la luce si abbassò e il vento cadde. In questa improvvisa quiete, in un silenzio prodigioso, che sembrava impossibile di recuperare nei nostri tempi, e che si accordava così bene all’improvviso crepuscolo, sorse come un canto, ma non un canto, un profumo, dilagante, ignoto e squisito. Sembrava risalire dalla terra con l’ombra della sera, venire da lontano e nascere lì vicino, un profumo come è di quelle piante dai fiori piccoli e intensi, quale l’olea fragrans, un profumo autoritario e suadente, che non si poteva né si voleva evitare, qualcosa come una glorificazione, un finale senza precedenti. Si spalmava sulla pelle come un prezioso unguento, giungeva alle narici come se sparso da mani angeliche, a onde sempre più vaste e intense. Tacemmo tutti: si era arrivati ai Campi Elisi.

 

ISFAHAN

Dalla terrazza dell’albergo la città si apre come il palmo della mano. L’albergo è sulla riva del fiume, largo, con poca acqua e un letto immenso, ma quell’acqua corre veloce, ciò che non ci si aspetterebbe: corre veloce ed è di un bel colore azzurro fresco, come un’acqua di fusione. Il ponte attraversa il greto senza fretta quasi a piccoli passi, ed è un ponte bellissimo, triplice, perché di qua e di là reca due gallerie coperte ma senza parapetti verso l’acqua, mentre al centro è largo, come fosse stato fatto da poco e invece è antico di almeno due secoli. Questo ponte è tutto di bei mattoni rosati e visto dall’alto ha l’andatura di un lungo e immacolato millepiedi, dà a tutto il paesaggio un suo tono settecentesco, quasi di paesaggio del Canaletto in Inghilterra, perché la luce è così chiara e fredda, come l’aria che è pur sempre aria d’alta montagna – siamo a più di 1550 metri di altezza – e il sole, per quanto quasi tropicale, è temperato da quell’altezza, come immerso nell’acqua fresca. È certo che un venticello primaverile e secchissimo rende la temperatura come dovette essere quella del paradiso terrestre, da starci insomma nudi comodamente.

Tutta la città è impiantata così, larga, ventilata, con grandi strade alberate, purtroppo tagliate nel vivo della città vecchia, spazzate via le belle mura rosse di pisé. Ma per quanto rimpianto possa destare questa abrogazione implacabile dell’antico abitato, che era lo stesso tessuto connettivo dei monumenti che sono rimasti, bisogna riconoscere che Isfahan ha assunto un’aria quanto mai gradevole e accogliente. Non sarà né Fez né Marrakech, certo, con le loro mura rosse e le straduzze tortuose, i suk ombrosi, ma è divenuta una città come Firenze, in cui molto è stato abbattuto e ricostruito, a cominciare dalle vecchie e gloriose mura, ma anche così è rimasta una città unica, pure nella parte nuova, con i grandi viali ombrosi di tigli e un’edilizia modesta senza essere misera, in stile senza essere falsa. Orbene anche Isfahan, con le sue strade protette da cortine di platani bellissimi, nasconde abbastanza un’edilizia di fortuna, per fortuna non intraprendente, e cioè senza grattacieli. Il risultato è una città che non assomiglia a nessun’altra, e dove si ha subito la sensazione che ci si trovi benissimo e si accoglie l’omaggio dei suoi fiori, che, se non sono straordinari, aiole di pensées soprattutto, oltre a cespi di rose piuttosto modeste e di tipo sempre tipicamente antico – tipo camelia, per intendersi – come se si trattasse di un giardino privato messo graziosamente a disposizione del pubblico.

Una città, insomma, dove si può camminare senza essere di continuo arrotati dalle macchine.

Questa sua vastità arcata ha il solo inconveniente che può fare apparire meno grande la grande piazza dove avveniva il gioco del polo a cavallo, gloria e fiore all’occhiello di Isfahan. Ma in realtà questa piazza grandissima – quasi due volte Piazza Navona, per intendersi – resta grandissima e costituisce il cuore stesso di Isfahan. Passeggiare in questa piazza, dove sono stati piantati anche degli alberi sui bordi, che forse era meglio non avervi inserito, è come aggirarsi in un dipinto di Gentile Bellini. I portici sono piuttosto bassi, rispetto all’estensione, ma conservano un passo squisito e un colore tenue, appena rialzato di mattonelle azzurre, questo colore divino delle mattonelle di Isfahan, che non è celeste e non è turchese, ma celeste e turchese insieme, con la sfocatura dell’azzurro delle pervinche e il leggero tono appassito delle violette di campo quando perdono il profumo. Codesto celeste si fonde nell’aria come l’acqua nel vino, di una straordinaria vibrazione cromatica all’atmosfera, e, insomma, potranno esserci cose maggiori, ma allora, nello stesso passato occidentale, bisogna ricorrere, che so io, a Boucher, a Fragonard, a pittori in una parola che senza essere tonali, realizzano una distribuzione gentile e amena della tavolozza, dando allo spazio dipinto la fragranza di un profumo.

Il colore celestino che aleggia lungo tutta la piazza, è come un modo di preludiare per quello che avverrà nell’interno della Moschea del re, che troneggia, con il suo iwan custodito dai due minareti, nel lato corto della piazza. Si entra, e per fortuna, senza doversi levare le scarpe, si entra ed è come entrare in una fuga di Bach, non c’è melodia, cioè, ma un rimando continuo dello stesso soggetto, che risorge e scompare a ogni passo, e qui, il soggetto, è la cellula cromatica, con un disegno identico e trascurabile, ma che fa vibrare le pareti di un lucido moderato, a quel modo che certi strumenti brillanti riescono a far risonare un’ottava sopra la linea melodica; in tal caso, dove linea melodica non c’è, il tessuto tonale nel suo complesso. È un risultato che induce al silenzio, non solo per la meraviglia, ma proprio perché l’effetto è di natura tanto spaziale quanto temporale. Ci si sente colmi senza essere sopraffatti da una sensazione eccessiva, come nel caso dei dolci troppo dolci: colmi e beati, come in un quieto pomeriggio in cui ci si riposa senza essere stanchi.

Non avrei mai creduto che un’architettura che può parere estenuare i dati iniziali e ben più fecondi dell’architettura islamica – l’epoca Safaride è tarda, siamo alla fine del Cinquecento, primi del Seicento – conservasse invece tale scatto e tale presenza. Il totale non è decorativo. E intanto la misura che sfiora il sublime, dei rapporti tra pieni e vuoti, per cui questa grande corte non è mai troppo grande, né troppo alta negli edifici laterali – i grandi quattro iwan – né troppo “in riga” con la sua mancanza di aggetti. Ma le ampie teorie di arcate e le enormi nicchie degli iwan han no una perfetta corrispondenza di esterno e interno, innovano cioè il tema spaziale trasformando un interno in un esterno, e dando a questo esterno la misura netta di un volume solido. Il lungo bacino d’acqua di fronte alla Moschea non vale tanto per la riflessione quanto per accentuare il carattere solido che assume pure un liquido – quest’acqua non è mai molto trasparente – allo stesso modo che l’incavo aereo delle grandi arcate diveniva un solido come un luminoso cristallo, donde lo stesso valore è assunto, a maggior ragione, dalle cupole piriformi della Moschea, altissima, fasciata di azzurro come da un manto di sposa, ma assolutamente esibizione, all’esterno, del valore di solido delle nicchie e arcate cave, della struttura del cortile. Onde, e continuamente, dall’esterno all’interno, c’è come un rovesciarsi di un guanto: mirabile equivalenza, fondata tutta sulle proporzioni e sulla qualità aerea di quel divino colore delle mattonelle. Dove si vede che è tutt’altro che un’architettura stanca inzuccherata di confettini, ma l’elaborazione raffinata e innovativa del tema stesso d’involucro e d’interno dell’architettura islamica.

C’era poca gente, c’era un silenzio come contenuto in un astuccio e si circolava senza noia e senza attesa, perché nulla dovesse accadere, nessuno aspettava, nessuno sollecitava: il sole tagliava fette di azzurro e altre fette di azzurro erano ombra, lo stesso colore funzionante da luce e da ombra.

È difficile, a questo punto, far comprendere l’eccezionalità di una situazione così normale, di uno spettacolo che, perché, in toto eccezionale, poteva addirittura sembrare comune, privo di episodi, di varianti, uniforme sul suo schieramento come di un esercito impeccabile. Ecco, veramente, la Moschea faceva quadrato, ma quadrato di pace, subliminare dell’estasi, non della guerra.

 

IL PADIGLIONE
DELLE QUARANTA COLONNE

La Persia della vita all’aperto, nei caldi meriggi estivi, la Persia delle poesie di amore, del divan di Hafiz, la ritroviamo al padiglione delle quaranta colonne, che poi ne ha venti, le altre venti essendo quelle riflesse nel lungo specchio d’acqua, che, all’uso persiano, precede il prospetto elegantissimo, in un giardino, che purtroppo, anche se abbia alberi molto vecchi, con le foglie fitte e verdissime, non ha conservato la disposizione antica: la disposizione è ormai ottocentesca, con le aiuole a piattabanda di pensées gialle e bianche. Ma anche così il giardino è fascinoso, le rose sono splendide, il caldo di mezzogiorno fa sentire quel bisogno di stendersi sull’erba, all’ombra di quegli alberi folti e verdissimi, desiderio che ora non si può soddisfare. Andremo a vederlo nel padiglione come si soddisfaceva. Qui infatti troviamo una grande loggia aperta, con colonne di legno altissime: sempre questa stranezza, di un paese povero di legname, che poi ha costruzioni in legno di grande impianto; e torno torno sono stati recuperati – il restauro è italiano – dei piccoli dipinti con scene di genere, quasi tutte scene di giovani, una coppia, nel prato con elegantissimi recipienti per bere. Di colpo la miniatura svela anche il suo retrocampo, se non monumentale, a scala diversa: i quadretti sono squisiti. Anche se non è una grande pittura, è davvero vicina alla grande pittura, con tutti i suoi pimenti indiani, cinesi, e perché no? perfino giapponesi. Certi alberi lo fanno pensare. Le scene sono molto semplici e caste, piene di particolari gustosi, sia per il vasellame che per le coperte poste in terra, dove i giovani sono distesi. Ma quali giovani, con le loro facce mongole, tonde e appena incrinate dagli occhietti lunghi, dolcemente a seme di mela, le bocche appena segnate, le gote rosa, i vestiti abbondanti: più di una mano o di un piede non si vede. I colori sono quelli della miniatura, colori limpidi, campiti senza incertezze, colori decisi ma senza essere forti. Resta il fatto che queste scenette, dove figure rotonde come cipolline si avvolgono e si svolgono con tanto garbo, come se non fossero un po’ oppresse dalla troppa carne, suggeriscono una serenità, una letizia, un benessere senza ombre, e proprio l’atmosfera della poesia di amore: “la mia anima è sulle mie labbra pronta a volare” cantava Hafiz, sempre in cerca del suo amore e di un bicchiere.

Questo famoso vino di cui sono ricolmi i canti di Hafiz e che non si riesce a bere né a Isfahan, né a Shiraz. Ma che sia stato una sostituzione di traduzione, come in Murasaki, dove è sicuro che vino fatto d’uva non si è mai bevuto in Giappone. Qui in Persia ci sarà pure qualche vigna, per il clima può starci, e forse, passando in macchina per Persepolis ne ho anche adocchiata qualcuna, visto che quei cespugli non potevano certo essere piselli, e forse tengono le viti direttamente sul suolo come a Santorino. Non avevo nessuno che potesse darmi queste spiegazioni, e io sono tornato dalla Persia, con questa doppia curiosità. Così non so ancora se il vino di Hafiz fosse vino. Ma ne parla con tanto amore, di quel vino, che deve essere stato di sicuro vino; non si può sbagliare con birra o altra bevanda fermentata. Comunque i recipienti, dove tengono la loro delizia liquida i giovani grassocci delle scenette di genere, sono a collo lungo, le fiasche meravigliose che si vedono di rado nei musei, più preziose di un’oreficeria.

Era impossibile staccarsi dalle gentili pitture, così diverse dalla pittura monumentale, come si intende noi, e così invitanti, alla mano, pur con il loro rigore stilistico ben preciso. Il fascino di quei volti a melarosa, di quei complicati vestiti, dove fa tanto caldo e c’è bisogno di continuo di rinfrescarsi, è un fascino, indiscutibilmente, più di racconto che di pittura, ma anche il racconto non interesserebbe tanto se non ci fosse la pittura, e quella pittura lontana dal naturalismo ma così condita di naturalismo. E poi che racconto è mai questo che è sempre lo stesso, quasi come quello delle figure delle carte, dove non c’è racconto che come si enuncia un nome, la Regina, il Re, il Fante: è racconto quello? Ma in realtà è pure racconto perché dà un significato, offre un significato. Anche qui le scenette, pur senza un titolo, hanno un significato, quello dell’amore, del benessere, della letizia primaverile quando tutto rinasce, gli uccelli cantano, i fiori fioriscono, i giovani si amano: sono cose antiche, di cui ci si può perfino un po’ vergognare, ma che quando s’incontrano fanno tanto piacere. Così si canticchia una canzone che pure come musica si disprezza, ma è irrefrenabile, in quel momento, sgorgata da sé, come esce l’aria di bocca. Così si ama quelle scene di genere per un’adesione immediata, per una coincidenza spontanea con quello che nel fondo si desidera e non si ha, la scena d’amore, il riposo sull’erba, la siesta all’ombra degli alberi, il pensiero che quella è canovaccio di poesia e che anche noi siamo un poco poeti in quella contemplazione.

Ma il fascino attenuato dei giardini persiani, rimodellati dall’Ottocento europeo, risorge la notte e quando meno si attende.

Si tornava in albergo, quasi sulla riva del fiume che costeggia Isfahan; salivano dal greto pioppi alti e frondosi e la riva scendeva dolcemente, sistemata a giardino pubblico, semplice e gradevole. Quando a un tratto, nella penombra, venne incontro, ma come viene incontro una persona, un profumo, dolcissimo, intenso, un profumo che ricordava più i campi e le siepi che i giardini, ma tutt’altro che campagnolo, anzi di sottile penetrazione, di composizione raffinata, come ottenuta da una mescolanza sapiente, in cui vari odori fossero chiamati a comporre, come dire cedrina e gelsomino, belli di notte e glicini, ma in fondo nessuno di questi odori si rivelava in proprio o a lato. Il meraviglioso profumo veniva avanti come un raggio di sole esce dalle nuvole, illumina ma resta un raggio, non si diffonde uniformemente: così quel profumo nella sua esile corposità veniva incontro e si dava come sbocciasse in quel momento dalle ombre mature che lo contornavano e lo diffondevano. E si era in città, passavano le macchine, e si sa che le macchine non sono inodore: con tenacia e ingenuità il profumo continuava e si dava come una esaltante fiammata oscura nella notte. Dunque meritava avere fatto quel viaggio in Persia, non c’era soltanto petrolio e automobili, la Persia di Ferdousi e di Hafiz esisteva ancora, in un angolo nascosto, all’ombra degli alberi e all’ombra della notte, si esprimeva in una lingua universale, con un profumo che, senza averlo mai sentito prima, si riconosceva, e non c’era bisogno di esserci educati, come a certi sapori, ma arrivava diritto al cuore come una lancettata che non fa male, non fa sgorgare il sangue, tocca il cuore soltanto, come con un bacio segreto.

Poi di giorno ho potuto identificare la pianta del profumo. Mi sorprese, era un caprifoglio, proprio la madreselva delle nostre siepi, la madreselva che profuma anche le notti di Vignano, e viene incontro, anch’essa, magari coi suoi tralci dolci e le foglie vellutate. Ma era una madreselva diversa, per il profumo, troppo più intenso e vibrante, mentre quello di Vignano è umbratile e suadente, meno composito, anche se sempre finissimo. Insomma non si poteva riconoscere: mi bastò questo.

 

SHIRAZ E FIRUZABAD

L’andata a Shiraz si poneva anche più problematica di Isfahan perché gli alberghi risultavano tutti pieni, e, per quanto la temperatura fosse mite, non si poteva dormire all’addiaccio. Ma tutto si risolse all’ultimo momento per l’italiano provvidenziale che ci recuperò una camera a due letti (che in seguito si sdoppiò in due). Comunque l’atterraggio era assicurato.

L’arrivo con l’aereo è come a un aeroporto familiare: poca la distanza della città e la città incomincia subito. Mi ronzavano agli orecchi i versi di Hafiz su Shiraz, che era la sua città e che amò di tenerissimo affetto: “Shiraz città del cuore, Dio ti preservi! Perla delle capitali sei tu! Oh poterti servire!”

Con questi sentimenti arrivavo all’albergo che ci doveva dare la camerata. E l’ingresso non poteva essere più felice. Un grande giardino, di notte, profumato di petunie e di glicini, questa volta i fiori si riconoscevano bene. La notte odorosa ci entusiasmò, era veramente l’Oriente, ogni città aveva i suoi profumi, ogni notte i suoi incanti. Per questi profumi si passò sopra ai mille difetti dell’albergo, un vecchio albergo, già di lusso, poi sommerso dal tempo e dagli americani. Nel bagno, qualsiasi cosa si toccasse, vacillava. Mi ricordò il mio albergo di Leningrado, dove il rubinetto girava insieme con la chiavetta, il commutatore era sempre sul punto di scomporsi nelle sue varie parti lasciandoti, o al buio o alla luce perenne. Qui c’erano le petunie che odoravano di notte con il loro impegno un po’ dolciastro, che è più un sapore che un odore, c’erano infiniti vasetti di gerani, c’erano poi ‘e viole del pensiero con i loro faccini giapponesi e un leggero alito di sapone. Insomma si era a Shiraz, si era nella Shiraz di Hafiz.

Il giorno dopo cominciò la ridda dei taxi: per andare a Pasargade ce ne voleva uno che stesse con noi tutto il giorno, in modo da fermarsi a Persepolis, visto che si trovano l’una sulla strada dell’altra.

La visita alla città ce la lasciammo per il giorno dopo: nel pomeriggio avremmo voluto tornare a Persepolis, che è una cosa che strappa il cuore, mentre Shiraz a parte i profumi e il suo vino che non si è riuscito a bere, è una gradevole piccola città, ma, al solito, con grandi strade alberate e pochi monumenti di cospicuo rilievo. Nuoce poi a Shiraz di visitarla dopo Isfahan e soprattutto l’orgasmo che prende di ritornare a Persepolis.

Di Shiraz, a parte la grande Moschea del Reggente, che entusiasmò Pierre Loti, ma che ha una sala del mihrab che sembra una cripta romanica, con tante colonne attorte e capitelli cubici, il ricordo più gradevole è di un giardino ottocentesco, con un padiglione in fondo, al solito tutto tintinnante di piccoli specchi, come un po’ il Palazzo del Golestan a Teheran. Il padiglione ha questo gusto sovraccarico e leggermente vistoso, ma il giardino, con una spinta d’acqua al centro, si apre ai lati con mandarini e aranci: alla buon’ora, finalmente mandarini e aranci e perfino delle palme.

Perché si legge che le città persiane sono costruite dentro un’oasi, ma bisogna scordarsi di che cosa è un’oasi africana, bosco di palme e sotto le palme tutto fitto, tutto verde, pomodori e carote, quasi a strati si direbbe. Qui le palme non esistono proprio: qualche cipresso, e magari viali di cipressi e di pini di Aleppo, ma palme niente: ecco le prime, queste, belle e rigogliose, con ai piedi tanti fiori a tappeto, calendole, pensées, queste rose belle e profumate di forma un po’ antiquata.

Il giardino è come una guida fiorita fra le due spalliere di palme e mandarini, e nel sole sfavilla più delle mattonelle della facciata del padiglione. Subito prende un languore, con quell’acqua, quei fiori, quel sole che è ardente ma temperato dall’aria fine dell’altopiano. Ecco in questo giardino mi è parso che poco prima fosse passato Hafiz, chinandosi sulle rose per aspirarne il profumo come le bevesse.

A Shiraz c’è un’altra specialità: il passaggio dei nomadi. Sono i nomadi come gli zingari, solo che hanno asini e greggi e un plotone di donne vestite in modo meraviglioso, con quei veli di tarlatana di colori accesissimi, veli cosparsi di lustrini che si avvolgono come una ventata sui grossi corpi rotondi. Le sottane a gale e multiple, l’una sull’altra, fanno appunto pensare alle gitane, ma con una grandiosità inaudita. Codeste nomadi hanno il portamento di regine del deserto, si accovacciano nella polvere, si rialzano dalla polvere con la maestà con cui sorgerebbero dal trono. La pelle scura, gli occhi brillanti col bianco dell’occhio che brilla ancor più della pupilla, l’apparizione delle nomadi, che ora erano in transumanza, è stato il momento epico della visita a Shiraz.

A questo passaggio il pubblico delle strade è perfettamente assuefatto, non ne fa né qua né là del resto e le nomadi resistono benissimo lo sguardo, da consumate attrici, attrici che sono sempre in palcoscenico e mai in platea. E fanno palcoscenico ovunque, sono personaggi nati, e il personaggio è attore, l’attore fa la scena.

Forse sarebbe bello oziare a Shiraz, girandolare svagati, all’ombra dei viali e al soffio costante del venticello che attenua il sole: la dimensione di Shiraz è forse proprio questa, di una sosta svagata, senza il continuo pungolo di andare a vedere moschee e madressé. Ma noi eravamo assillati dalle cose da vedere, volevamo tornare a Persepolis che è troppo unica per poterla sacrificare a un pomeriggio di bighellonaggio in città, cercando invano quei frullati di mele e di cocomero che si trovarono a Isfahan, così puerili e innocenti, e che poi, come succede, con quel dolciastro, è più la sete che mettono di quella che levano.

Si sperava almeno di potere mangiare all’aperto, nel nostro albergo decaduto dall’impianto grandioso (c’era anche la piscina, seppure vuota…) ma per una di quelle irritanti contraddizioni, che pullulavano in quel locale, in giardino si poteva solo fare la prima colazione, neppure prendere il tè e bere una birra. Ancorché il personale, sfaticato naturalmente, ma c’era. Non ci fu verso; se si voleva mangiare, si doveva andare in una specie di sotterraneo arredato in modo pesante e demodé, dove non si riusciva quasi a vedersi l’un l’altro, tanto era buio. E fuori sfavillava il sole.

Infuocati da tante cose da vedere, si decise che non si poteva rinunciare a Firuzabad, la città sassanide, dove nessuno ci voleva portare e finalmente si convinsero a mandarci con un gippone sconquassato. In realtà la prima parte del percorso è buona, ma ai piedi delle montagne cessa l’asfalto e comincia una strada a sterro dal tracciato se non impervio certo molto circonvoluto. Si poteva credere che per lo meno non ci sarebbe stato traffico: se ne trovò a sufficienza, con enormi nuvoloni di polvere in cui si entrava e da cui si usciva chiudendo invano tutte le aperture.

Il suolo era aspro, scosceso, con radi alberi che non riuscii a decifrare e dei cespugli quasi arborei che sembravano ginestre, ma che, data la stagione, avrebbero dovuto avere dei fiori. Nessun fiore invece, e la vegetazione patibolare, polverosa come per una eruzione di cenere vulcanica, si arrampicava stentatamente, stentatamente ridiscendeva fino al fondo di borri senza una goccia d’acqua. Un paesaggio amaro, disperato, peggio che se fosse stato brullo del tutto, e dove tutto, non solo il percorso della strada, era sotto quel costante strato di polvere, ma una polvere grigia, cementizia, sgradevole come qualcosa d’infetto che ti si incollava addosso. Questa strada, che, per il percorso e le difficoltà rotabili dové essere percorsa molto piano risultò interminabile. Finché si incontrò un torrentaccio e allora la strada lo costeggiò, anche perigliosamente. A metà di questo percorso il primo incontro: i resti di un ponte sassanide e, dall’altra parte della riva, un grande bassorilievo scolpito nella roccia. Al di sopra troneggiano le mura di un castello sassanide, che purtroppo non si poté vedere. E il Qal’ayé Dokhtar, come dire il castello della vergine, e, in quella posizione, si può pure credere che ne meritasse il nome.

Di là finalmente si sbucò nel piano, leggermente ondulato, dove era la città di Firuzabad e dove avremmo visto i resti del palazzo. La città era perfettamente rotonda, con quattro porte, e ora si vede come un alto sobbaggiolo dove erano i muri, ma ricoperti di bassa vegetazione: al centro geometrico c’è un grosso spunzone in muratura, forse una torre del fuoco, e tutto quest’apparecchio, che è assai vasto, più di due chilometri di diametro, si riesce a percepire anche dal basso perché la pianura accusa l’orlo delle antiche mura. Per avvicinarsi al palazzo dovemmo fare un lungo giro, perché era crollato un ponte e non si poteva guadare il torrente: ci voleva anche il guado, pur se avrebbe servito a toglierci un po’ di polvere di dosso.

Mentre ci si avvicinava alla sudatissima meta, la strada fu attraversata da una leggera barriera, una banderuola rosa stava dietro la barriera, oltre cui dilagava per parecchie centinaia di metri una distesa di papaveri. Già quasi sfioriti, di un colore livido, dai petali in fremito continuo, dove c’era ancora qualche corolla: i gonfi calici si staccavano dal verde azzurrognolo degli steli. C’erano degli uomini e un soprastante: facevano, in una parola, la raccolta dell’oppio, incidendo i gonfi calici e raccogliendone il lattice. Era un’operazione governativa, niente di illecito. Ma il nome dell’oppio ha un suono sinistro, che contrasta con l’apparente candore di quei fiori stanchi, dai petali spettinati, così micidiali nella loro dimessa miseria di fiori senza bellezza.

Ne avevo visti in Turchia, di questi campi di papaveri, e nel Libano. Sembra impossibile, e è d’altronde inevitabi le, che simili impianti stiano alla luce del sole, anche se non è tutto vizio a cui servono, anche se il potere di lenire il dolore sia un degno lasciapassare. Ma è come vedere le strade bordate di prostitute: sono necessarie, però qualcosa non funziona, in quell’esibizione, per i campi di papaveri come per le prostitute col focherello al piede.

 

I SASSANIDI

È vezzo presso gli studiosi delle arti dell’Iran di cercare una qualche continuità, oltre che cronologica, fra le varie epoche che si sono succedute in un arco di tempo assai vasto, e a dispetto delle diversità dei popoli che si riversarono in quell’immenso deserto nei tempi storici. Ma le varie civiltà che si sono succedute nell’Iran dipendono da popolazioni nomadi che avevano una tradizione assai precaria d’arte figurativa e che pertanto dovevano attingere o a quella che trovavano sul luogo o ai popoli limitrofi: perciò ricercare una costante “iranica” dalle popolazioni del Luristan agli Achemenidi, ai Parti e infine ai Sassanidi è impresa due volte fallace, dal punto di vista storico e da quello figurativo, dovendo portare alla valorizzazione eccessiva di vaghi appigli formali, dove questi rappresentano una sporadica ripresa affatto sintomatica di una continuità di civiltà, e dove infatti il complesso dei dati rilevabili parla tutt’altra lingua. Inoltre è caratteristica la tendenza a trattare la componente greca che costituisce un basso continuo di tutte le civiltà che si sono susseguite nell’Iran – e per greca s’intende naturalmente anche la sua prosecuzione ellenistico-romana, – come se tale componente invece di trovarsi sempre in presenza scomparisse ogni volta che s’incontra e non come sempre presente a latere. Questa attitudine è soprattutto caratteristica nel volere dedurre certe particolari cadenze da qualche oggetto o immagine isolata; mentre è impossibile dedurle dalla morfologia delle manifestazioni artistiche prese nel loro insieme. Ciò che diviene palmare quando si tenta, sulla base di una lamina argentea del Luristan, rozzamente incisa, del Museo di Cincinnati, di giungere a una legge della frontalità che poi, scavalcando gli Achemenidi, arriverebbe ai Parti e di lì ai Sassanidi. Ben altri lieviti agiscono in questi casi, e soprattutto nella cosiddetta arte dei Parti che varia a seconda delle epoche e delle regioni in cui si manifesta, sempre dimostrando una conoscenza della scultura classica nonché delle culture adiacenti e precedenti, soprattutto l’assira, ma mai alcuna ripresa dell’arte che fiorì nel Luristan, prima degli Achemenidi. La quale a sua volta è lungi dal potersi caratterizzare in modo univoco, ma, se mai, in una direzione rozzamente realistica, come dimostrano i bronzi assai vivaci del Museo di Teheran.

E, del resto, la rappresentazione frontale, più che da una determinata traduzione figurativa, va riportata agli archetipi infantili, comuni a tutti gli uomini, e la sua adozione è sempre in funzione, una volta passata l’epoca infantile, di una determinata attitudine verso la rappresentazione plastica. Ove questa non venga intenzionata nel rilievo, ma depressa in favore di altre caratteristiche figurative – ad esempio il colore – non è di per sé capace d’indurre a un abbandono del rilievo. Tutta la tradizione figurativa che va dall’epoca bizantina alla fine del Duecento dimostra che la perdita del rilievo è intenzionata non in favore della frontalità, ma che a questa si ricorre, come rappresentazione primaria, quando non s’intenda più “modulare” plasticamente la figurazione: è a questo momento che la frontalità viene a suggerire la massima elasticità di estensione e il limite di riconoscibilità della figurazione entro il perimetro di un’immagine nel rapporto e più elementare di figura a fondo.

I bronzi del Luristan, se mai in rapporto con l’arte scita sarmatica, e cioè con formazioni di un’arte nomade in relazione ai poli opposti, sia con l’arte greca che con quella dell’Asia Minore, non hanno alcuna prosecuzione nell’arte achemenide che rappresenta il primo grande fatto figurativo iranico, e che pesca da tutt’altre parti, dalla grande tradizione mesopotamica, Sumer e Elam. Di questa grande tradizione l’arte achemenide è insieme un rinascimento e un neoclassicismo, che in un certo senso si chiude in se stesso senza sviluppi e senza prosecuzioni.

La conquista d’Alessandro inserisce violentemente l’arte greca che osolava alle porte-basi ioniche a Pasargade, assetto costruttivo di pietre enormi e accuratamente squadrate a Persepolis, commesse a nudo senza calce come in Grecia.

Naturalmente l’arte greca doveva comporre col sostrato culturale diverso dei diversi popoli sui quali venne a incidere, e, per l’area persiana, le reazioni vanno ricercate piuttosto alla periferia dell’Impero che nel cuore: niente si sovrappone a Persepolis fino alla “renovatio” sassanide. Ed è una sospensione assai probante che il vecchio tessuto iranico era stato lacerato e che si doveva ricercarne il recupero ai margini.

Ma la progressiva riduzione dell’area greca e l’insorgere del nuovo dominio parto non rappresentò nessuna ripresa del passato achemenide. I parti erano nomadi e tutto quello che portarono fu la pianta rotonda delle città, a guisa di accampamento e l’iwan che rispecchiava la caratteristica apertura della tenda sul davanti. La ricetta di un’arte dei Parti è illusoria, anche se ha impegnato tante brave persone, come il Rostovzef. Nessuna arte dei Parti che non ne avevano alcuna, ma le varie risultanze locali che l’arte classica dava in territori altrimenti civilizzati, dove la recezione dell’arte classica accelerata dalle armi di Alessandro dava luogo a un concubinato con tutte le ibridazioni che l’apprendimento dal difuori dei morfemi dell’arte greca necessariamente doveva produrre.

Avviene così che un’arte dagli accenti robusti, ma fortemente vernacoli abbia luogo a Palmira come a Gandara, senza che vi siano necessariamente dei rapporti fra le due distanti località, ma per dato e fatto delle alterazioni fonetiche, verrebbe voglia di dire, che venivano apportate alla pronuncia di espressioni in sostanza estranee al sostrato etnico e culturale di Palmira come di Gandara o di Doura Europos.

Si può quindi parlare di espressioni artistiche che hanno luogo in area partica da parte di popolazioni assimilate o assoggettate, ma mai di un’arte partica riconoscibile come tale nella Perside o a Doura Europos. La grande statua virile del Museo di Teheran è non solo a tutto tondo, ma senza nessuna inflessione che l’avvicini ad esempio agli affreschi di Doura Europos, che dovrebbero essere il punto focale dell’arte partica e dove la impostazione frontale delle figure è il primo accenno all’abbandono delle ricerche plastiche connesse nell’arte classica, ma in cui è persino risibile cercare un riscontro dell’VIII secolo con la lamina argentea di Cincinnati.

La produzione composita, anche al tempo di Mitridate II, in cui l’Impero partico assurge a potenza mondiale, resta un centone di cui presunta costante non è neppure quella urbanistica, perché i Parti grecizzati accolgono, accanto alla pianta circolare delle città, il reticolato ippodameo, direttamente dai greci; solo resta, come introduzione che varrà fino ai Sassanidi, quella dell’iwan. Ben poco per poter parlare di una costante “iranica”.

Come i Parti erano sorti quasi all’improvviso ai margini dell’Iran, così, dal cuore stesso dell’Iran avvenne la riscossa iranica dei Sassanidi. Storicamente i Sassanidi impersonano il vecchio Iran, come si vedrà nella codificazione dell’Avesta a cui si deve la conoscenza di una lingua ariana affine al sanscrito, ma in realtà, nella loro “renovatio”, non si accostano deliberatamente agli Achemenidi. Volle essere una “renovatio” politica ma non un riconoscimento: troppo poco è l’avere accolto, come si vede a Firuzabad, la gola egiziana come anche a Persepolis. In realtà, il fatto economico più importante dell’Iran era il passaggio, attraverso il territorio, della strada della seta che manteneva i rapporti fra l’Oriente e l’Occidente. Fu per assicurarsi la strada della seta che avvennero tutte le guerre fra Romani e Parti e Sassanidi, e non già per il vacuo asserto di porsi, i Romani, come successori di Alessandro e ricostituirne l’Impero.

L’importanza fondamentale di questo fatto economico non si può mai sopravvalutare quando si consideri l’arte dei Parti, attraverso i quali passava la strada della seta. Scambi, influssi, contaminazioni si rendono evidenti a vista nei due sensi di discesa e di risalita.

A chi consideri le testimonianze artistiche dell’epoca sassanide senza la prefissa idea di identificarvi una costante iranica, apparirà subito chiaro che i Sassanidi, in quello che della loro arte ci resta, ebbero un solo sviluppo originale nell’architettura, secondariamente nella toreutica e, seppure non si sa fino a qual punto vi collaborarono e ne furono coautori i Siriani, nella tessitura della seta. La scultura si rivela d’una rozzezza e d’una incertezza formale quasi imbarazzante in una civiltà così antica. Qui non bastò neppure la concomitanza dell’arte romana per riscattare la plastica da un che d’uniforme che la mina dal di dentro: e la mina perché non c’è nessuna presa di possesso della materia con un impegno realmente plastico. I Sassanidi fanno grosso non fanno grande. I loro schemi, come quelli del galoppo volante, o la cifra di rappresentare le figure quasi frontali con la testa di profilo, sono d’una povertà che non arriva mai alla cifra stilistica: sono convenzioni portate avanti con inerzia, senza mai un tentativo di raffinamento o in senso realistico o in senso formale. Per questo i loro rilievi per quanto scolpiti nella roccia sembrano piuttosto impastati: volumi sodi, non volumi intenzionati come tali. E qui si vede come non agissero a fondo né i suggerimenti dell’arte romana, né quelli di diversa tradizione o achemenide o mesopotamica. Si potrebbe credere che il regresso plastico chiarissimo nei rilievi sassanidi fosse da riportare sullo stesso piano di ciò che si osserva nella scultura medievale, ma non è così. La scultura antica era presente a un Wiligelmo – basterebbe a provarlo il putto che spegne la fiaccola – ma la sua intenzione formale è chiarissima, riguardo all’assunto plastico: Wiligelmo preleva l’immagine in una grandiosa unità sintetica la cui base è una rappresentazione solida dei volumi: il rapporto da figura a fondo è un rapporto che fa sentire come in sbalzo i volumi che si contrappongono al piano. E questa dialettica assicura una spazialità propria ai rilievi, ben diversa da quella di una statua in una nicchia. Insomma l’apparente elementarità di Wiligelmo si oppone a tutta l’arte classica, non accettandola che come spunto iconografico nel caso del putto tedoforo. In questa opposizione si caratterizza in termini rudi ma non rozzi. Per questo è il contrario di quanto avviene nella scultura sassanide, dove non c’è opposizione integrale alla rappresentatività greco-romana, ma una parziale accettazione e una risoluzione puramente locale caso per caso, come nelle teste di profilo che non hanno la tenuta stilistica che dovrebbero assumere e che assumono ad esempio in Egitto, dove la sigla della rappresentazione profilo-veduta frontale riceve una soluzione perfettamente antinaturalistica e perfettamente omogenea dal punto di vista formale. Le figure sassanidi stanno scomodamente con la testa di profilo avendo le spalle parallele al fondo.

In tre secoli di scultura rupestre sassanide non c’è variazione di rilievo, ma semmai un progressivo scadimento dal rilievo di Firuzabad con Ardashin che trionfa su Artabano V (III secolo d.C.) dove si nota una stilizzazione interessante dei capelli, della barba, dell’armatura, e il rilievo è più schiacciato, fermo restando la convenzione del profilo e del galoppo volante: come in un balletto, il visir, abbattuto da Shāpūr, cade in posa, con le spalle parallele al fondo. Ma il rilievo più schiacciato conferisce una qualità plastica diversa alla rappresentazione che compone sul piano e assume una certa autonomia di scrittura.

Ma subito dopo a Naqsh-i Rustan l’investitura equestre di Ardashir da parte di Mazda, con i cavalli affrontati di chiara derivazione greco-romana, il rilievo lievita e cominciano quelle masse soffici e dure che vogliono parere volumi e sono invece dei corpi convessi senza attivazione formale. Il luogo è meraviglioso, con la sua catena di monti rossastri e arrotondati di scabra roccia che, quasi davanti a Persepolis, fa da orizzonte. I rilievi sassanidi si trovano al di sotto delle facciate scolpite delle tombe di Dario e di Serse. Così nudo, così grandioso.

È difficile sottrarsi al fascino di Naqsh-i Rustan, quando la luce di striscio quasi sbalza dalla superficie rocciosa questi blocchi di forme ieratici e monumentali. Ma è un’emozione che riposa sul luogo straordinario, non trova alimento nelle sculture. È come se il lievito della scultura classica chiaramente all’opera, a un tratto si arrestasse: la scultura ha ricevuto un abbrivio che poi non sa mantenere. Grandi, impacciati, presi nel cerimoniale della scena del combattimento (il nemico agguantato per il braccio, dunque vinto) o dell’investitura (Mazda un poco più alto del sovrano, il gesto largo con cui tende l’anellodiadema che non riesce a chiudere formalmente la scena e resta un gesto) questa scultura che è una forma di iconografia non riesce a superare il momento iconografico che fissa la rappresentazione. E ciò non accade come nell’iconografia bizantina, in cui l’iconografia trapassa in sigla e sulla sigla potrà riproporsene la rappresentazione: si pensi a Giotto e a Duccio in cui pure gli schemi iconografici restano per lo più bizantini.

Nei Sassanidi si uniscono senza fondersi spunti diversi: si veda ad esempio il motivo dei nastri mossi dal vento. Non irrita il fatto che nella stessa composizione compare il vento in due direzioni opposte, ma l’evidenza che questi nastri assumono valore araldico, non di ritmo. Si pensi ad esempio ai nastri degli angeli del Perugino, che non ubbidiscono a nessun vento, si muovono in tutte le direzioni e le linee che segnano nello spazio sono unicamente ritmo e non calligrafia. Manca insomma nei Sassanidi quel salto qualitativo che di un nucleo prelevato dal vero e poi riadattato liberamente produce una cadenza formale.

I manierismi più smaccati si inseriscono a freddo nella composizione: si notino i particolari delle frappe dei calzoni: codeste frappe, come ogni altro particolare dell’ab bigliamento, sono attentissime, e insistite, come i nastri della corona, agitate dal moto e dal vento: ma tale granulazione plastica si inserisce a freddo nella figura, è sempre accanto, mai incorporata all’immagine. E talora per una diversa sorgente stilistica, al solito mimata dal di fuori. Si veda, sempre a Naqsh-i Rustan la scena dell’investitura di re Narsè da parte della dea Anahit. Siamo alla fine del IV o all’inizio del V secolo. Ebbene la dea Anahit ha un vento personale che le agita la veste di tipo greco, con le pieghe verticali che scendono longitudinalmente, ma il vento le scompone e i tessuti si arricciano facendo tutta una serie come di graziose greche… e qui si scopre chiaramente il contubernio di una tradizione classica con una cinese. Quelle greche svolazzanti sono cinesi, ed è la via della seta che le ha introdotte, sporadiche e come spaesate nel testo sordo del rilievo rupestre. Nessuna fusione fra le due linee stilistiche opposte che si giustappongono come due apporti diversi.

Il massimo raggiungimento plastico si può riconoscere nella statua colossale di Shapur I, nella sua grotta funeraria vicina a Bishapur. Spezzata e a terra, mantiene una sua terribilità imperiale, con i grandi occhi sgranati apotropaici e la folta chioma svolazzante. Ma anche qui i manierismi inerti abbondano: ad esempio la veste sembra cosparsa come di code di uccellino. Sono pieghe invece, che però appaiono come un’altra cosa, ossia il contrario di una stilizzazione bene intesa che non deve costituire un diverso realismo. Anche qui un principio formale, che impegni tutta la rappresentazione, manca e si ripiega nella risoluzione caso per caso, come la folta chioma al vento, che evoca teste ricciolute del Verrocchio, ma proprio questo riferimento fa sentire come s’inserisca sporadicamente quel particolare.

Sembra allora di dover riconoscere il meglio della produzione plastica sassanide nella toreutica, in particolare in quei famosi piatti d’argento sbalzato. Ma anche qui è più un’illusione che una realtà. La tecnica dello sbalzo, suggerendo di mantenere il rilievo depresso, conferisce una certa unità, che potremmo dire, di dizione più che stilistica, alla composizione nel tondo, ma le caratteristiche d’una visione dispari restano le stesse che nei rilievi rupestri. Solo le bestie, che per lo più vi si vedono rappresentate, hanno una vivacità diversa, a parte l’artificio solito del galoppo volante: cinghiali, cervi, mantengono una vivezza insolita. Possa essere un’influenza dell’animalistica scitosarmatica? È certo che taluni leoni abbattuti hanno una vivezza di rappresentazione che supera di gran lunga quella dello stereotipo cavaliere al galoppo che scaglia la freccia voltandosi indietro.

Questa stessa vivezza di rappresentazione si trova anche nel grande bassorilievo con la caccia in palude di Taqi Bustan (del V secolo), dove accanto al solito impaccio delle figure dei cacciatori, gli animali, di un vivace bestiario naturalistico, compongono col motivo delle canne una specie di arazzo plastico di grande efficacia decorativa.

Sono gli unici sprazzi, nel repertorio reperibile, che vivifichino una produzione incredibilmente uniforme, attraverso tre secoli, e dove la massima attenzione appare rivolta ai particolari d’abbigliamento, come frappe di calzoni, complicate corone, nastri pieghettati e svolazzanti. Alle corone, che cambiano da re a re e sono attestate dalla numismatica, si deve se si riconosce da bassorilievo a bassorilievo di che re si tratti. Al qual proposito mette conto di ricordare e numismatica e sfragistica, dove, eseguiti con notevole abilità orientale, si contano sigilli di consumato effetto, ottenuto con una sintetica enucleazione di un volto, sempre più concisa e drastica via via che si avvia verso il V e VI secolo, in cui la somiglianza colla numismatica bizantina è forse un fatto di precedenza sassanide. Da ricordare in proprio la moneta dell’ultimo re sassanide Yazdijird III (632-51) in cui è da riconoscersi la matrice di una certa serie di profili antinaturalistici di Picasso.

In conclusione l’arte sassanide sarebbe un episodio isolato alle soglie del Medioevo se non contasse l’architettura e le stoffe. Infatti tutti gli industriosi riferimenti iconografici imputati studiosamente all’arte Sassanide, come ad esempio l’iconografia del Giudizio Universale fatta discendere dal re sassanide in trono con i suoi dignitari ai lati, sono o dubbi o da respingere: è da respingere proprio quest’ultima, tenendo presente che il Giudizio Universale come rappresentazione non è bizantino, dove l’iconografia sassanide avrebbe potuto influire più facilmente, ma occidentale, e troppo povera è la sequenza sassanide dei personaggi in fila frontale per porla alla radice della complessa rappresentazione degli apostoli a lato di Cristo, a cui manca proprio l’unica caratteristica, che lo indizierebbe sassanide, di sedere con le ginocchia divaricate e i piedi uniti.

Invece, per quel che riguarda l’architettura, le novità sono parecchie e nessuna si può dire che sia stata lasciata cadere. A cominciare dalla trovata per l’imposto della cupola, che chiaramente si trova nel III secolo a Firuzabad, e ricordando che, nel costruire, i Sassanidi, murano e non accostano: murano con calcina e pietre, con apparati mutevoli. Anche per la pianta dei palazzi sassanidi è da accogliere il suggerimento che abbiano “preparato” la successione di nave principale a volta a botte e di navatelle pure voltate a contrasto, come apparirà nell’alto Medioevo tramite forse l’Armenia. Sebbene per lo stato di rovina non si sa se le cupole fossero estradossate o in vista, la successione di cupole in uno stesso edificio evoca sicuramente l’architettura bizantina del V e del VI secolo, proprio perché anche nei Sassanidi agisce il precedente romano, né supposto a tavolino, dato il largo impiego della manodopera di prigionieri romano-siriaci, che le tre disfatte, di Valeriano, Filippo l’Arabo e Gordiano III, aveva dato loro in potestà. L’arco e la volta anche se nati in Mesopotamia, con la lunga esperienza romana particolarmente elaborata in Siria, ricevono un colpo di pollice di grande efficacia presso i Sassanidi. Non solo l’arco a tutto sesto, ma anche un arco proto-ogivale si vede proprio nel grande iwan di Ctesifonte (III secolo).

L’architettura sassanide si pone a prototipo degli arabi, una volta fatta la conquista dell’Iran. Anche gli stucchi dell’arte ommayade trovano il loro immediato precedente negli stucchi sassanidi, che ornavano oltre l’interno, anche le facciate.

E non è chi non rimanga colpito quando a Firuzabad osservi che l’esterno del Palazzo reca una teoria di semicolonne che finivano in un’archeggiatura come nelle chiese pisane del secolo XI, e qui, sia o non stata l’Armenia a trasmettere il motivo, siamo ancora nel III secolo.

Insomma quella giustapposizione senza fusione che si nota nella plastica, d’uno stile che è di fondo naturalistico su uno schema astrattizzante, nell’architettura cessa del tutto: la fusione di un vecchio passato mesopotamico e della tettonica romana, qui è avvenuta senza residui.

Non solo, ma per l’architettura sassanide, si oltrepassa chiaramente la tettonica e si può riconoscere la individuazione di un tema spaziale preciso, l’interno, che non solo non è contraddetto ma anzi confermato dalla predilezione per l’iwan come forma aperta di uno spazio chiuso.

Questa individuazione del tema dell’interno avviene dunque in precedenza all’arte bizantina, seppure parta da una elaborazione romana; ma è significativo che anche nell’architettura romana le affermazioni meno dubbie dello slittamento dal tema dell’esterno, che fu di tutta l’architettura greca, a quello dell’interno, appaiano contemporaneamente all’arte sassanide.

Il tema dell’interno, per quest’ultima, è poi chiaramente affermato nella pianta dei grandi palazzi, pianta assiepata, in cui l’una parte tiene con l’altra non solo per l’opposizione delle volte in contrasto. Lo snodo di queste piante è servito come entro un guscio, e la simmetria non fa che sottolineare la rispondenza, tutta interna, delle pani l’una all’altra. I paramenti esterni, con le colonne addossate, ricoperte di stucco, assicuravano la compattezza dell’involucro come di un poliedro regolare.

Per chi si travaglia come il Ghirshman a trovare una continuità “iranica” da un periodo all’altro della multiforme storia dell’Iran, dovrebbe essere significativo che proprio i Sassanidi, che intendevano rappresentare l’au tentico Iran, conservandone la religione e codificandola nell’Avesta, non riprendono dell’architettura achemenide che un motivo tratto dall’Egitto, la grande gola messa a cimasa, come si vede a Persepolis e a Firuzabad. In quanto a costante “iranica”, un motivo egiziano non c’è male. In realtà la rivalsa al periodo di Alessandro era puramente basata su una pretesa reviviscenza storica e su una ipotetica discendenza sassanide dagli Achemenidi, motivi politici piuttosto che di reale rinascimento culturale. Così l’architettura, che pure è la massima gloria sassanide, spenta l’eco delle vittorie, è del tutto diversa da quella achemenide, poggia sulla malta di calcina invece che sull’accostamento di apparati grecamente costituiti. E niente indica meglio la diversità delle due epoche che la grande parete rocciosa di Naqsh-i Rustan, dove la diversità fra le tombe achemenidi e i rilievi sassanidi addirittura esplode. In quel mosaico di popoli, di razze e lingue diverse, che già imponeva agli Achemenidi le iscrizioni trilingui, la continuità iranica era in una minoranza e questa pure chissà come contesta di sangui diversi. Proprio la civiltà sassanide, con il suo rifiorire mesopotamico-siriaco ne è la dimostrazione più eloquente.

Se l’architettura rappresenta l’apporto più originale dei Sassanidi, resta un mistero come collocare l’attività tessile che viene loro attribuita e che risulta da reperimenti in luoghi molto lontani dall’Impero sassanide, essendovene traccia persino in Giappone nel tesoro dello Shosein, mentre neppure un frammento è stato reperito nell’Iran. I frammenti serici che sono sparpagliati in Europa provengono senza eccezione dalle reliquie importate dall’Oriente e avvolte in questi preziosissimi scampoli damascati. Il problema si complica anche per il fatto che questi frammenti appartengono, o comunque per lo più devono essere attribuiti, a un’epoca in cui già l’Impero sassanide era crollato. In alcuni casi la presenza di scritte antiche assicura sulla prosecuzione dell’attività tenuta anche nel periodo arabo, mentre certi particolari figurativi attesterebbero l’influenza sassanide nell’arte copta. Ma quello che resta un mistero è la pertinenza alla civiltà sassanide di tessuti il cui ornato è altamente stilizzato senza nessun rapporto né con la scultura, né con l’oreficeria né con la glittica, né con la sfragistica o la numismatica.

La cosa non può non colpire perché la minuzia con cui sono riprodotti nei grandi rilievi rupestri i particolari dell’abito, della corona, dei nastri che svolazzano, contrasta col fatto che se i re sassanidi andavano veramente vestiti con quelle stupende sete, queste avrebbero dovuto essere riprodotte, mentre non lo sono. Né basta il motivo del cerchio entro cui sono contenute generalmente le figurazioni tessili. Perfino la gualdrappa del cavallo nel rilievo di Ardashir a Firuzabad (III secolo), sia un tessuto o maglia d’acciaio, porta un motivo di mezzelune che non ha nulla a che fare con i tessuti attribuiti all’area sassanide. D’altronde una matrice comune si avverte fra i tessuti creduti sassanidi e altri tessuti bizantini o d’Antinoe. E la matrice è d’una intelligenza straordinaria del mezzo tecnico che riesce a usufruire di caratteristiche precipue della tessitura come di motivi formali. Si pensi allo stupendo gallo nimbato del tesoro del Laterano, riferito ancora a epoca Sassanide, entro il secolo VII, cioè. Ebbene questo straordinario gallo è costruito per così dire al quadrato, le linee curve si scalano, come se fosse elaborato su una rete di modano, ma con una tale sicurezza d’astrazione da non far sentire minimamente il disagio e il ripiego di sostituzione del quadrato alle curve.

È mai possibile che una tale sicurezza d’individuazione formale esistesse solo per la tessitura, mentre perfino nella toreutica si deve riconoscere il contubernio di una visione naturalistica – negli animali – e di una volontà appena astrattizzante nelle persone? Il problema è tanto più conturbante perché questo potere di stilizzazione delle stoffe non si saprebbe, su base di monumenti storici sicuri, attribuirlo neanche alla Siria, seppure è da ritenere giusta l’ipotesi che tessitori siriaci operassero nell’Impero sassanide. Restano, questi stupendi frammenti, le opere d’arte più genuine fra quanto è attribuito all’Impero sassanide, in un certo senso anche più dell’architettura di cui abbiamo soprattutto valutato la pregnanza di sviluppi futuri, mentre le stoffe, imitate da bizantini e da copti, se imitate e non facciano parte di un unico ceppo, mantengono un’assoluta autonomia al presente e si dimostrano la più congrua espressione figurativa applicata alla tessitura, che ne conserva cioè le caratteristiche tecniche senza volere diventare pittura, allo stesso modo che i mosaici di San Vitale a Ravenna rappresentano l’apice del mosaico, in cui cioè la struttura a tessere non è piegata a mimare la pittura ma deve essere accettata nella suddivisione delle tessere e negli scarti che queste producono nei passaggi cromatici nonché nella raffigurazione del chiaroscuro. Come i mosaici vermiculati, che adeguano al massimo il mosaico alla pittura sono un surrogato di pittura, all’inverso le stoffe araldiche sassanidi si differenziano dalla pittura e in quella differenza pongono il loro valore.

 

LA PORTA DELL’INDIA

Quando si arriva con l’aereo a Bombay non si ha la minima idea della città che sia: non è come New York o Rio de Janeiro o Hong Kong, che subito ti assalgono con i grattacieli issati contro l’atterraggio. L’aeroporto di Bombay si trova a più di quaranta chilometri, non è imponente, e la strada che vi conduce è pressoché subito accompagnata ai lati da una schiera di quasi capanne, che fanno presentire solo una dimensione della città. E tuttavia non è un arrivo in minore. La luce meravigliosa di Bombay è già là, questa luce splendente ma non abbagliante che si congiunge ad arco dai due mari che bagnano questa magnifica città. Perché è magnifica, e non si sa abbastanza; né la sua posizione è celebrata come una delle più straordinarie del mondo, Napoli, Rio, Palermo, Costantinopoli. La luce di Bombay, con quel cielo purissimo senza mai una nuvola – almeno ora che non era stagione di monsoni – mette come il fuoco addosso. È caldo, ma l’aria frizza e muove con eleganza le flessibili rame delle palme di cocco, così sottili e ferrigne, sempre cadenti da un lato, sempre chiomate come una testa apparentemente scomposta ma sorprendentemente pettinata. Queste palme accompagnano tutta la città, dai suoi inizi al suo centro immenso e diramato. Sono il sigillo tropicale, l’avvertimento bonario di un fidarsi troppo di quel sole vivissimo e arcuato, che invece brucia come d’agosto ed è febbraio.

In realtà Bombay ha due dimensioni, quella grattacielo e quella bidonville, e diversamente da quanto si potrebbe credere, sono due dimensioni che non si giustappongono ma si intersecano di continuo, eppure senza arrogante stonatura. Perché il piano di Bombay è immenso; sebbene un’isola, non ha le strettoie di Manhattan e dilaga da tutte le parti. I suoi grattacieli, allora, che pure sono come tutti i grattacieli ormai, non rappresentano come una palizzata, sono sparsi dappertutto, anche se più fitti nel Centro degli Affari. Certo, non vi è a Bombay nessuno di quei famosi grattacieli che rappresentano l’ultimo anelito dell’architettura moderna, come quelli di Mies Van der Rohe a New York e a Chicago. Oramai il grattacielo come oggetto di consumo non è neppure una torre, ma un’escrescenza, un’inevitabile e spesso orribile escrescenza in seno a un tessuto urbano che generalmente non lo prevedeva. Ma a Bombay, in questa cornice di un mare tenue e tranquillo, fra filari di palme di cocco altissime e fruscianti, dà un’altimetria vivace al profilo della città, e lascia spazi larghissimi e luminosi, transiti di luce e di mare, fra l’uno e l’altro. L’aria è festosa, e le larghe strade, ancorché percorse da un traffico numeroso, lasciano anche passeggiare e passeggiare con gusto, sempre percorse da una moltitudine di gente dai colori bellissimi. In questo senso una passeggiata lungo la Marina Drive, che sono vari chilometri, è una delle più belle che ci siano rimaste: di qua il corso rumoroso, ma non troppo, della vita di ogni giorno; di là il mare sereno come la fronte di una fanciulla, e la curva squisita del porto, che di notte diviene punteggiata di luci, e arcuata quasi come Posillipo. Ed è, di notte, questo, uno dei suoi sapori inattesi, con quel tepore che scioglie le membra e arriva al cuore: fa sentire felici.

D’altronde il tessuto inglese della città non era di qualità eccelsa: una mescolanza di gotico e di islamico vitaminizzato, un pasticcio, in parole povere, a cui solo le grandi misure delle strade, dei rettifili sconfinati, dànno una sua dignità. E poi i baniani. Se le palme di cocco sono la milizia di terra, gli agili fanti, i baniani rappresentano la milizia del cielo. Immensi, altissimi, con le loro frange di radici pendule dai rami, i tronchi come un coacervo di vene varicose pietrificate. Per chi è stato a Palermo è facile ricostituirli nella mente, con gli stupendi ficus magnolifolia: ma questi sono in realtà più bassi, anche se di fogliame più splendido, anche se meravigliosamente simili, sotto i rami, più alle stalattiti di una grotta che a un albero. Quasi sempre, ai baniani, tagliano le barbe pendenti, per impedirgli di occupare troppo spazio, e fanno curiosamente tendina, sospese sulla testa dei passanti: né le foglie dei baniani appaiono così lucide, né così fitte. Ma l’imponenza della costruzione vegetale è un monumento, arresta lo sguardo, dà insomma a Bombay la sua dimensione botanica in accordo ai grattacieli. Ce n’è uno vicino alla Indie Gate, il pesante arco trionfale che anticipava di mezzo secolo la caduta dell’Impero delle Indie, che fa, con la sua imponenza, apparire ridicolo il monumento equestre, e piccolo perfino l’arco trionfale.

Anche a Bombay, come in ogni città meridionale, tutto avviene per strada. Per strada si vende, si tiene gruppo, si fa la barba, per strada si cuoce, si mangia e si dorme. Ed è questo un lato quasi sinistro, la notte, a due passi dall’edificio più fastoso di Bombay, l’albergo Taj Mahal, vedere sotto i portici, su una stuoia, o ravvolti strettamente in un sacco, quasi pronti a essere buttati a mare, tanti poveretti che dormono: taluni, più abbienti nella loro miseria, su un lettino. Ma a centinaia, in un’ombra carica di vergogna umana. Dormono, a due passi da un luogo che vede passare donne splendide nei sari vertiginosi.

Poco più in là nei bazar, che di giorno formicolano, nella notte con le luci acide delle lampadine, quelle bianche del carburo, i fari acri delle automobili, si vede un altro spettacolo, anche quello sinistro sino al raccapriccio: le prostitute rinserrate da alte cancellate, strette alle sbarre come galline nella stia, illuminate come da un flash continuo, nei sahri smaglianti. Non sono case di tolleranza, ma asili obbligati di prostitute che non devono assolutamente stare per strada. Di fuori i magnaccia, di cui uno aperse violentemente la portiera della nostra automobile, secondo il tassista per invitarci al pascolo, secondo noi con più pesanti propositi.

Ecco che la dimensione bidonville di Bombay si inseriva violentemente in un quartiere che per altro non assomiglia a una bidonville, anche se ha ancora qualche vecchia casa coi portici di legno di gusto islamico. Ma le strade sono larghissime, non come quelle strette e tortuose dei suk arabi; né vi sono bazar coperti come a Costantinopoli e al Cairo.

Così i dormienti notturni sotto i portici e le prostitute in gabbia portano nel cuore della città capitalista come un improvviso chi-va-là; e quasi un memento mori. Ma purtroppo è come a Napoli: a un certo punto gli stracci, i mendicanti (e se ce n’è a Bombay) rientrano in un fatale itinerario della città, a cui il cielo terso, il tepore, il calore umano assegna come un regime privilegiato: ed è allora come le erbe di campo che crescono senza fiori accanto ai fiori. Con rimorso, magari, ma è impossibile non cedere a questa quota di vita. Perché è bello d’estate passeggiare per la città le cui pietre sono ancora calde di sole come un corpo di donna, mentre la brezza marina vivifica l’alito come se tante bollicine si levassero dai polmoni quasi che, invece di respirarlo, emettessero ossigeno.

Tutte le razze che sono piovute in India si trovano a Bombay, che è come il campione vivente della sua storia. La sua stratigrafia umana appare così complessa che ci si domanda come distinguerle, queste razze: ma diversamente da come si è detto della città, le razze sono in realtà più giustapposte che mescolate. Se non fosse che a un tratto in un viso che è scuro quasi come quello d’un africano non si scoprisse un naso diritto, d’una purezza ariana che quasi sconvolge, come vedere una testa di statua greca in marmo nero.

Eppure gli Ariani che non solo vennero in India, ma le dettero il sigillo più duraturo, non sembra di riconoscerli mai in proprio. Anche se i Greci ebbero occhi neri e capelli neri, di pelle erano chiari, e qui, chi più chi meno, la pelle ha come una preparazione di nero d’avorio, non carbonioso, ma anzi luminoso, che però è nero e non bianco. Vennero gli Ariani e distrussero la civiltà dell’Indo, come nel Mediterraneo i Don distrussero la civiltà minoica, vennero e non crearono neanche una statua, un bassorilievo, una pittura. Millecinquecento anni di vuoto figurativo; finché Alessandro felicemente non penetra in India e ne ellenizza una parte. Per chi non vuole affatto diminuire il fascino di questo paese anzi riconoscergli in pieno il timbro genuino che possiede, è tuttavia ragione di un segreto piacere prendere atto che la nascita dell’India all’arte non è una generazione spontanea, ma c’è la Grecia, alla base, la Persia, e infine Roma. Tuttavia l’albero, il franco, era quello che era, e gli innesti produssero altra cosa: come i profumi che su ogni pelle dànno un esito diverso le sublimi cadenze elleniche cambiavano tempo e timbro trasferite sul selvatico indiano. E così cambiavano le torniture, le levigature achemenidi. Ma quel che ne nacque, non fu di scarto, non fu provinciale. A poco a poco divenne un’arte nuova. E va riconosciuto: da cui scenderanno propaggini splendide, l’arte della Cina e del Giappone, tramite il buddismo. Così, per l’arte, appare, l’India, il fulcro dell’Oriente, come la matrice delle più complesse mitologie erotiche e dell’esaltazione spirituale del nulla, un nirvana che oltre a non sapersi concepire, non si sapeva neppure sopportare, donde Budda da semplice illuminato dové salire a Dio.

 

ELEPHANTA

Per andare a Elephanta occorre la barca, ma non è un viaggio lungo, quaranta minuti di un mezzo che sta fra la scialuppa e il vaporetto, e va piuttosto in fretta nell’acqua giallognola del golfo di Bombay. Quest’acqua, che è così avvincente la sera al tramonto e assume i colori più tenui, come fosse un altro cielo preparato in ocra e passato di oltremarino, a vederla dalla barca è simile al Tevere, di quell’esatto colore. Il porto di Bombay è grandissimo e pieno di battelli e bastimenti alla fonda: la giornata è al solito bellissima, in pieno sole ma alitata dal vento. Quando si giunge a Elephanta, c’è, prima, come un gracile bosco allagato dal mare; non si capisce come facciano a vivere quegli alberi nell’acqua salata, ma vivono, anche se non sono vigorosissimi. Ci sono già altri vaporetti, per scendere bisogna attraversarli tutti, perché non c’è posto al piccolo molo. E molta gente, qualche forestiero, ma in genere indigeni. È questa una cosa che colpisce in India, l’amore del popolo per le proprie opere d’arte, che sono anche, seppure vagamente, oggetto di culto. Appena scesi, bisogna difendersi dall’assalto dei portantini: e cioè, dato che per arrivare al tempio di Shiva occorre salire una lunghissima scala nel bosco, c’è l’industria delle sedie legate a due aste con cui ti portano su fino al tempio. Si ritroveranno anche ad Ajanta ma qui ce n’è di più. Uno della nostra comitiva prende la sedia gestatoria, e si vede passare sballottato sulle nostre teste, vestito di bianco all’indiana, grasso, ridente, ecumenico. Ma vale farsi la scala a piedi che è comoda, tutta costruita, e spesso ombreggiata dagli alberi, per altro non molto fitti, del bosco che è parco nazionale. C’è poi naturalmente, a mezza strada, un chiosco rustico per generi di conforto, le solite collane di fiori, i soliti bambini.

Da un lato, su un banchetto improvvisato, c’era un mucchio di foglie a cuore d’un verde opaco, quasi di gomma, e una serie di barattolini di vetro con dentro dei colori, ma erano spezie, non colori. Dietro il banchetto un vecchino accuratamente ma senza cerimonie prendeva una foglia, vi depositava con le dita un pizzico minimo di quelle polveri misteriose e richiudeva la foglia come un pacchetto, consegnandola al giovane che l’aveva richiesto e che subito l’azzannava soddisfatto. L’amore degli indiani per le spezie non ha limiti. Sarebbe stato tentante assaggiare il pacchetto, ma con tutte le esortazioni che ci avevano fatte sui pericoli d’infezione, ce ne astenemmo. Intanto il giovane assaporava contento il suo lembo di paradiso.

Riprendemmo la scala: via via salendo si scopre il mare, che, dall’alto torna del suo amabile cilestrino e perde il sangue giallo del Tevere.

Il tempio è scavato nella roccia, secondo un uso che inizia ben presto e si tramanda a tutte le confessioni, buddista, induista, giainista. Ci saranno state pure caverne naturali in India, ma non venivano utilizzate: tutte le quasi infinite grotte di culto sono artificiali, scavate con grande sapienza e grande audacia, lasciando i blocchi per i pilastri e per le sculture che venivano quindi eseguite sul posto. Non ultima ragione della loro conservazione. Nella tolleranza religiosa che caratterizza l’India dal tempo di Ashoka (III secolo a.C.) fino al predominio dei maomettani, e cioè fino al XIV secolo, avveniva che un culto imprestasse all’altro forme e iconografie. Così, ad esempio, se è caratteristica del buddismo la forma dello stupa, questo poi trapassa, quasi uguale nell’induismo, e solo cambia contenuto. Per i buddisti lo stupa è prima di tutto una specie di monumento funebre che dovrebbe contenere una reliquia sotto la cupola rotonda di chiaro valore cosmico: è insomma una variante del tipo di monumento rotondo, come si trova nella Grecia micenea, presso gli Etruschi, e la lista sarebbe lunghissima perché la forma rotonda – e cosmica – del monumento funebre si propaga anche in era cristiana.

Ma la Grotta di Elephanta mostra una particolarità quasi unica: non ha la sola apertura d’ingresso, la fronte con i robusti quattro pilastri-colonne, ma si apre in altri due grandi affacci dall’interno, sulla destra e la sinistra.

Così, invece di essere un antro oscuro, è, sì oscuro, ma sondato da queste grandi fonti luminose che permettono di vedere le sculture a lume naturale. Le sculture come pale di altari laterali; e, del resto, tutto l’interno del tempio arieggia a basilica. Ciò che, non è affatto una casuale coincidenza, perché la penetrazione in India di modi, prima ellenistici, poi romani, è un dato sicuro. E qui siamo tra il V e il VII secolo. In un certo senso, a quest’epoca tutti i giochi erano stati fatti nell’arte dell’Occidente. C’è del resto un profondo travisamento nel senso strutturale degli elementi che arieggiano quelli dell’architettura classica. La colonna, qui in India, quasi sempre sorge, come sbocciasse, da metà pilastro, e reca un capitello enorme, che sembra un’interpretazione libera dell’ordine dorico, con una gonfia corolla, a cui si soprammette in genere un elemento a doppia mensola, che, a sua volta, è ancora un tralignamento dell’architettura achemenide. Si sa, Dario, fu in India, e l’influsso persiano nell’arte indiana è lungo e tenace. Si rinnovella nei secoli, e si ritrova, con nuovi arrivi, nella miniatura come nell’architettura Moghul, dal Seicento alla conquista inglese.

Le sculture che si vedono a Elephanta sono esempi cospicui della plastica che si formò, senza che si possa individuare un capostipite, dalla fusione delle correnti culturali principali, quella di derivazione classica, variamente documentata a Gandara e a Mathura, quella di derivazione achemenide. Per quanto inconciliabili possano apparire, nell’arte indiana il connubio avviene, e dopo la sommità raggiunta nel periodo Gupta (nel V secolo d.C.) si tramanda, via via indebolendosi, ma non estinguendosi fino a tutto il periodo medievale, che qui va dall’VII al XIV secolo.

Ad Elephanta siamo ancora vicini alla sorgente: le grandi composizioni, piene di figure, affiorano alla luce strisciante della grotta con rotondità potenti, con un ritmo che non ha niente a che fare con i canoni dell’arte classica, a parte una generica ricerca di simmetria; alla base di questo ritmo stanno i movimenti di danza, – e si sa che Shiva è rappresentata per lo più danzante – e dunque una frattura continua di linee, pressappoco a zig zag, nelle membra della figura umana, il cui modulo, spalle larghe e vita sottile, fa pensare al prototipo egiziano anche se non vi siano rapporti storici fra i due paesi. Il busto sottile, dal ventre morbido, appena accennato, e, nelle donne, coronato da enormi seni rotondi, offre partiti plastici, sicuramente intuiti, anche se di rado sviluppati.

Fra le raffigurazioni più singolari, c’è la Discesa del Gange, il grande fiume celeste, che Shiva aderendo alle preghiere del re Bhagizatha, fece scendere sulla terra, ricevendolo sulla testa per smorzarne l’impeto. Ma la figurazione è simbolica, naturalmente.

Quello che non è simbolico, è la raffigurazione del lingham di Shiva, collocato all’interno di un cubo vuoto, una specie di stupa, al fondo della grotta. Per entrarvi gli indiani si toglievano i sandali, e alcuni ponevano dei fiori, fiori profumatissimi che sbocciano da un albero, di questa stagione, quasi senza foglie e oscillano fra la tuberosa e il gelsomino, piccoli, carnosi, giallo avorio col cuore arancione. Faceva un certo effetto vedere quell’omaggio floreale, ancora sentito religiosamente, sul simbolo fallico che sta alla base del culto di Shiva, dio distruttore e dell’energia creatrice.

Altri lingham si trovano in cappelle laterali del tempio: ma soprattutto è notevole vedere, sulla destra, una specie di piscina naturale: quell’acqua veniva attinta, quell’acqua veniva bevuta. Era insomma un atto di fede e di religione.

Il tempio è immoto e solenne: i secoli sembrano essersi depositati nella pietra durissima del monte, aumentandone il peso. Quasi ad accentuare il senso di un passaggio senza residui del passato nel presente, entravano e uscivano, si arrampicavano e scendevano alcune sottili scimmiette grigie, eleganti, dalle lunghissime code. Scimmie allo stato libero, come polli o gatti, è uno spettacolo per noi inconsueto, frequente in India. Sembrano tristi, subito pensose, se si siedono: fuggono con grazia, a grandi falcate soffici.

In fondo sono una razza interrotta, che non sfociò nell’uomo e vive come prigioniera di se stessa un presente immobile che riporta un passato immobile appunto come il millenario tempio trasferito nel tempo. Si obietterà che di tutte le specie animali può dirsi lo stesso; ma innegabilmente l’incontro con la scimmia ripropone l’uomo. Un cavallo finisce al cavallo: la scimmia si è arrestata a mezzo. La differenza sta qui, ma si sente.

Nel ritorno, all’arrivo sul molo, si trovò l’incantatore di serpenti: si contentano di poco i serpenti. Un motivo fischiato dal piffero, sempre uguale, acuto, irritante, per nulla suadente, e il cobra, con le sue grandi orecchie, molto svogliatamente si alza, anche punzecchiato dal dito dell’incantatore. Così eretto, riproduce l’ureus classico egiziano: ma ci sta poco, ha sonno, è svogliato, solo quel tanto che basti per una moneta. Il coperchio tondo lo sigilla nella cestina.

 

LE TORRI DEL SILENZIO

In India non vi sono mosche, ma vi sono bambini. Piccoli, magri, con pochi cenci e stracciati, compaiono dovunque uno si fermi, in qualsiasi luogo si scenda da un taxi, oltre che naturalmente nei punti fissi del turismo dove vendono di tutto, dalle cartoline alle diapositive, ai francobolli. Sono festosi, con il bianco dell’occhio che rivaleggia con quello dei denti, si portano una mano alla bocca, per dire che hanno fame e stendono subito quell’altra. Appena ricevono una moneta la coprono col dorso della mano e subito stendono le due mani insieme ancora per chiedere, come non avessero avuto niente. E se sono insistenti, quando non hanno ancora ricevuto qualcosa, appena gli si dà una moneta non te ne liberi più. Si moltiplicano come per partenogenesi, e riconoscono l’italiano come se fosse un uomo di colore: italiano, amico! Le dicono benissimo queste parole perché la fonetica indiana è molto vicina a quella italiana, con tante vocali aperte. Italiano, amico! E questo non solo a Bombay che è un po’ il capolinea del turismo, ma ovunque sia stato: l’italiano è visto e preso. Così macilenti, ma così ridenti; così stracciati, ma così vivi, come insetti, come cuccioli. E se vendono mandarini, appena ne hai comprati e cominci a sbucciarli, subito si avvicinano a chiederne uno spicchio come non fossero loro che te li hanno venduti.

Non parliamo poi di quando vedono fare una fotografia: la passione di farsi fotografare è comune anche ai grandi, in India, ma per i piccoli è frenetica. Ti vengono fra i piedi, si mettono in posa, non chiedono altro che di mettersi in posa davanti all’obbiettivo.

Si era venuti a Malabar Hill, la località più bella e signorile di Bombay, fra due mari, piena d’alberi e con i giardini pensili: e naturalmente, ecco i bambini, subito in posa: davanti a me ce n’era uno con una camicina così strappata, che la madre, non potendo fare un rammendo, aveva riunito i peneri sfilacciati con un grosso spillo di sicurezza. Continuavano a dire, amico, amico, con quegli occhi che guardano col bianco invece che con la pupilla.

Tutta la zona, con la strada che sale a larghe curve, ha il fascino di una natura rigogliosissima e di un’architettura coloniale vecchiotta, ma molto distinta; come devono avere rimpianto gli inglesi un connubio simile. Ora, quasi non si fosse in febbraio, le bougainville si accendevano da ogni parte, con cascate di fiori di tutti i colori, non solo lilla come da noi, ma bianchi, rossi accesi, e rosa e color tango, con la loro presenza nobilitavano qualsiasi croccante architettonico. E poi palme stupende, e su tutto i baniani colossali con le barbe pendule e le cime che solleticavano il cielo.

Si era venuti lassù per vedere le torri del silenzio, una simile rarità che non c’è neanche in Persia. Le torri del silenzio, sono infatti degli edifici per esporre i morti agli uccelli da preda, che i Parsi, una comunità iranica fuggita in India al tempo dell’invasione araba della Persia, e fissatasi a Bombay, hanno costruito per mantenere la fede dei padri, la religione del fuoco, che fu degli Achemenidi, dei Sassanidi, e ora solo di questi Parsi indiani. Tale crogiuolo di razze e di religioni è l’India, che persino sussiste, con i templi del fuoco e le torri per esporre i morti, questa religione mazdaica, arcaica come i primi uomini.

Per vedere le torri del silenzio fu tutta un’avventura. Perché il primo tassinaro non sapeva con precisione dove fossero e ci lasciò a mezza strada, lungo un giardino stu pendo, scuro e denso come un bosco, e già le ultime luci del sole incendiavano il cielo come un’aurora boreale, e subito spenta perché i crepuscoli, qui al tropico, sono brevissimi. Si videro così, in vece delle torri invisibili, gli uccelli che le frequentano, ossia le cornacchie e gli avvoltoi. Già la loro presenza così numerosa e rumorosa diceva chiaro che una ragione ci doveva essere. Ma le informazioni che si chiedevano erano evasive; nessuno voleva indicarci dove effettivamente fossero né di dove almeno si potessero vedere.

Comunque ormai era tardi e dovevamo rimandare al giorno dopo. Allora, informatici meglio, si seppe che assolutamente non vi si poteva accedere, e neppure vederle da lontano, le famose torri mortuarie. Sennonché la smania aguzza l’ingegno; si era notato che ai margini della zona proibita c’erano tre grattacieli, non sarebbe stato possibile salire sulla terrazza di uno dei grattacieli?

Ma non ci fu bisogno di corruzione. Il permesso si ebbe a singhiozzo: sulla terrazza non si poteva salire perché era di una famiglia parsi, ma si poteva salire con l’ascensore fino all’ultimo piano e di lì, da una finestra, gettare l’occhio sulla zona. Per questo, tuttavia bisogna tornare il pomeriggio; così per la terza volta, ostinati come muli, ci si ripresenta al garage in basso al grattacielo, dove un uomo molto gentile si prestò a condurci dalla signorina che doveva elargire il permesso di salire, e l’elargì, ma a due alla volta, il che, con la lentezza dell’ascensore che doveva fare trentadue piani, rese l’avventura ancor più estenuante. Ma finalmente si poté affacciarsi alla finestra, che però aveva l’inferriata e non ci si poteva sporgere. Di lì torcendo il collo, si vide, non già una torre, ma un largo e basso edificio rotondo, come un bastione vuoto con al centro come un’altra torre mozza e rotonda: su quella venivano esposti i morti ai corvi e agli avvoltoi. Anche i re persiani venivano esposti così, ma non su torri, perché la Persia, montagnosa com’è, aveva caverne naturali dove, in alto, venivano disposti i corpi finché non ne restassero che le ossa.

Le torri di Bombay sono sette, e vengono utilizzate una all’anno. Inoltre l’esposizione avviene per gradi: prima i morti stanno in una specie di camera mortuaria, di cui si vide il tetto.

Era tutto; ormai si poteva scendere con il lentissimo ascensore.

Ma allora non ci bastò. E si volle vedere almeno un tempio del fuoco. Fu facile trovarlo, d’un’architettura con qualche traccia persiana, ma verniciato di bianco e d’azzurro, senza nessuna solennità. Non era certo la torre superba che avevo visto davanti alla tomba di Dario, o quella, a gnomone colossale, della città distrutta di Firuzabad. Qui, sotto il portico, fummo ricevuti molto gentilmente, ma anche molto fermamente. L’interno del tempio, con l’ara accesa, non si poteva assolutamente vedere: solo i sacerdoti possono accedervi, neanche i parsi. Però ci mostrarono un modellino del tempio, che, scoperchiato, mostrava l’ara, con mia sorpresa, ancora così alta e stretta come quelle rappresentate nei bassorilievi sassanidi. È un mistero, come faccia, il fuoco, a ardere così allo stretto, se non sia alimentato di continuo, e per di più un fuoco di legna, naturalmente, mica la fiamma a petrolio del milite ignoto.

Così avevamo visto tutto quel che si poteva, e, placati, potemmo tornare ad assistere al tramonto latteo del porto; quasi un quadro che il Canaletto avrebbe potuto dipingere, con quelle visioni dall’alto, delle vedute che ritrasse a Londra, quelle vedute supreme.

 

KANHERI

Ci rimaneva una mattina libera e si pensò di andare a Kanheri, un tempio buddista rupestre che si trova in mezzo al Parco nazionale Borivli, che gli indiani chiamano giungla ma che non arriva a tanto. È infatti un’estensione di macchia con arbusti bassi e alberi quasi tutti senza foglie, di questa stagione, e invece alcuni fioriti. Impossibile per noi capire di che alberi si tratti, è una botanica separata quella indù; d’altronde non era più facile capire, dall’apparenza del bosco, in che stagione si fosse, dato che il sole era decisamente estivo e poi gli alberi fioriti: certe lunghe fruste con fiori bianchi a mazzetti un po’ simili ai ciliegi giapponesi. Ma forse in India due sole sono le stagioni, l’estate e l’autunno: l’autunno si protrae nel periodo invernale dando luogo a una primavera sporadica, che poi sfocia di botto nell’estate, e, con le piogge, comincia allora il rinnovamento di foglie e di erbe. Deve essere affascinante il risveglio tumultuoso alle piogge tumultuose dei monsoni: ora rimaneva una parvenza ambigua di un bosco invernale con un inizio di primavera ma con un sole che scorticava.

Avevamo trovato un tassista giovanissimo e gentile, un ragazzo che ci disse venire da Delhi e avere ventidue anni, dimostrandone diciotto. Non alto, ricciuto, di colore bruno ma non nero, era la gentilezza in persona e con un sor riso che disarmava. Tutti ne rimanemmo incantati. Quando s’arrivò al tempio rupestre, invece di restarsene per suo conto volle accompagnarci: discreto e premuroso, l’avevo sempre accanto se vi fosse da salire una scala, inoltrarsi in un passaggio buio, come sempre avviene in queste grotte. Gli indiani sono veramente un popolo civile, di antica educazione, di pulita moralità, profondamente buoni. La non violenza sono stati i primi a teorizzarla, quasi contemporaneamente a Budda, con la setta giainista: il loro gesto di saluto, con le mani giunte sul petto, dice millenni di storia.

Visitammo il tempio: è enorme, una cavità altissima, con due file di colonne ai lati e una finta volta a carena di nave. Per quanto influenzati dai Sassanidi non mi risulta che gli indiani conoscessero la volta: nei templi costruiti, le coperture avvenivano per mensole sovrapposte su cui si adagiavano lastre di pietra. Questa finta volta di Kanheri riproduceva la chiglia rovesciata di una nave, con le costolature e le plancie: aveva quindi una sezione ogivale, senza volere essere ogivale. Come tempio era una basilica, e non c’è dubbio che la prima origine sia quella: del resto anche nelle più antiche grotte di Ajanta avrei ritrovato questa radice classica nel tempio buddista. I buddisti di Kanheri sembra che fossero della confessione più ortodossa, l’hinayana, per cui Budda è solo l’illuminato e non un Dio: l’anima non esiste e quel che si trasmette nella metempsicosi non è l’anima ma il soffio carico della vita vissuta, che, all’atto della morte, non si spenge e trapassa in un’altra vita. È una concezione difficile e contraddittoria, che non va molto d’accordo con la nostra tradizione platonica, anche se si giurerebbe che alcuni miti platonici siano di origine indiana, come quello dell’unione originaria di uomo e donna, indi sdoppiati.

Sollhal mi stava accanto e se lo guardavo sorrideva, con quel sorriso che faceva pensare alla primavera, a quegli alberi fioriti senza foglie.

Questi templi si vedono presto: i particolari scolpiti in genere appartengono a una scelta decorativa, di buona fattura, di buona tecnica, ma anonimi. Al solito alcune scimmie ci seguivano a distanza e fulminei apparvero anche degli scoiattoli, tigrati e con la coda non così folta: pare che ci fossero anche degli elefanti ma noi non li vedemmo.

Insomma, come Parco nazionale era un po’ modesto, ma la giornata fu gradevole, così serena, con quel sole: in basso uno stagno azzurro con le ninfee. Sarebbe stato bello rimanere lì, se non bisognasse tornare a Bombay.

Ma tu Sollhal quasi fanciullo, fuso nel sole come nel bronzo, dagli occhi senza fondo, dai denti candidi su cui passava il sorriso come l’acqua sui sassi bianchi del fiume, ti portasti via il mio cuore e la speranza.

La sera al tramonto volemmo vedere una moschea in mezzo al mare, a cui conduce un sentiero fra le onde. L’avevamo trovato su una cartolina, Wori, si chiama, e nessuno sapeva dove fosse. Finalmente, dall’altra parte di Bombay, su un altro mare, apparve il bianco convento, perché convento sembra più che moschea. Ma la cartolina era stata ripresa con l’alta marea, e allora il sentiero solido era veramente un sentiero in mezzo all’acqua. Quando invece si arrivò, era bassa marea, e intorno alla guida di pietra, si vedevano lame di terra con tutta la sporcizia che sta in fondo a un porto. Ci inoltrammo fino all’edificio, che è ottocentesco; entro un recinto, fa vedere il sepolcro di un santone, ricoperto di fiori. Non si poteva entrare, neanche scalzi, perché infedeli, e dovemmo contentarci di guardare da una lontananza ravvicinata la sponda opposta della città, irta di grattacieli come una piccola Manhattan. Non era bella: senza l’inquadramento degli alberi e delle palme, la struttura utilitaria del grattacielo appare utilitaria e sgraziata. Tornammo indietro, ma qui cominciò il peggio. Sebbene a duecento metri, non più, da quei grattacieli, una folla cenciosa di mendicanti e di bambini ci venne incontro assiepandosi intorno.

Il sentiero di pietra era stretto, difficile muoversi: l’oscurità che era caduta, il fetore del fondo del mare e quello umano rendevano il momento sgradevolissimo. Distribuimmo le rupie che avevamo in tasca, e fu peggio. Nel Trionfo della morte di Pisa si vede qualcosa di simile, la folla di mendicanti e di paralitici che alza le braccia e invoca: nulla poteva essere più stridente della fila di grattacieli sullo sfondo e di quella folla cenciosa e disgraziata. Ne uscimmo in pezzi.

 

IL SAHRI

Ma sono le donne la cosa più bella dell’India. È proprio nel loro complesso perché, isolate, si vedono anche in Europa. In India, nella luce straordinaria del giorno, in casa come nelle strade, avvolte regalmente nei sahri, sembrano d’una razza privilegiata rispetto agli uomini, i quali tornano folla, e folla di pappini, insaccati per lo più in camicioni bianchi e con la bustina bianca in testa. L’animale uomo, in India, non è privilegiato; in natura toccano ai maschi i colori, le criniere, gli addobbi delle livree spettacolari: ma in India, se si tolga i sik e i musulmani con i turbanti, per loro il colore è il bianco, i calzoni a braga fatti con un telo di tela legato alla vita e girato intorno alle gambe, che dietro mostra gli stinchi neri, oppure tutto intorno come un lenzuolo, e è il doti. Ma sempre pappini, sempre bianchi e cenciosi. Invece le donne, maestose anche se piccole, perché con un comportamento eretto di rosa in boccio, ritta sullo stelo con la fragranza di quei profumi indiani al tempo stesso forti e misteriosi, che sempre sfiorano l’incenso, la gardenia e il gelsomino. Le testine ovali raccolte fra i capelli, sia che tengano la treccia nera per le spalle, sia una crocchia sulla nuca, hanno fra mezzo ai cigli il dischetto o nero o rosso scuro, che vuole la religione e una pelle come di perla nera, luminosa da dentro, e gli occhi fervidi e quasi senza pupilla tanto sono scuri, e la bocca come voleva il rituale per Budda, a fiore di loto. Esse reggono lo sguardo come gli idoli, passano frusciando nelle loro sete, con un portamento eretto come nessun’altra donna di nessun paese: eretto, ma non rigido, anzi flessuoso ma eretto, come se fossero abituate a portare un peso in testa, e lo portano difatti, le donne del popolo, sempre regali, come Nausicaa anche quando lavava i panni, appunto perché quel peso sulla testa, aiuta a dominare la posizione delle spalle, a regolare il passo come in una danza. E so di scuole di danza in cui si esigeva di imparare a camminare con un peso in testa, per dare appunto elasticità e scioltezza al passo, portamento rigoglioso alla figura.

Il sahri è certo un indumento straordinario, che arieggia a un abito classico, anche se, nella sua formulazione, è piuttosto recente: un unico pezzo di stoffa lungo cinque metri e aggirato a spirale intorno alla figura come un rampicante. Un solo altro pezzo dell’abbigliamento si vede, un giubbetto corto, poco più di un reggipetto, che lascia scoperta una zona di pelle intorno alla vita e sotto il seno, le maniche corte, uno scolo rotondo e modesto. Di sotto, dalla vita in giù c’è un segreto indumento, che non si vede; una sottana lunga che serve a fissare alla vita il sahri, dall’inizio sulla sinistra, al ciuffo di pieghe che forma sul davanti e che dà al passo quello scintillio quasi di gonna di flamenco, ancorché non si veda mai più della punta del piede. Nel paese dei rilievi induisti con le donne nude o coi seni fuori, turgidi e rotondi, nessuna donna è più vestita della donna indiana, nessuna più femminile e avvincente. Il sahri modella il corpo come il pollice dello scultore. Non si vede nulla e si sente tutto; la linea che si avvita intorno al corpo, sottolineata dalla balza del sahri, dà slancio alla figura e allunga per così dire. E poi quell’ultimo lembo che, o sale sulla testa e si deposita sulla spalla, e, nel passo, lietamente svolazza.

Nell’atrio dell’albergo, dove c’era un afflusso enorme di gente, restavo incantato a vedermi passare davanti questa processione miracolosa di sahri di tutti i colori, o va porosi come di vetro soffiato, o del lucido opaco della seta pura, morbida e non guizzante come è la seta indiana. E i disegni sono, anche se moderni, quasi sempre nobili e appropriati. Ma spesso si uniscono fili d’oro e d’argento e lustrini come nel vestito della Regina della Notte nel Flauto magico.

Il sahri non ha un’ora. Le donne indiane con quell’abito che non è un abito, ma una sciarpa di velo, una sciarpa d’aria, o una sciarpa dei colori del tramonto, stanno sempre vestite allo stesso modo, come le fate. Una fata è una fata la mattina come la notte, a mezzogiorno come la sera, col suo cono in testa, il velo sulla spalle e il vestito vaporoso. Così le donne indiane sono fate a tutte le ore.

Ed è un vestito che accomuna povere e ricche, e non scade mai, anche se fatto di un materiale più vile. Le ho viste portare una gran scodella di calcina in testa, sfilare maestose come sono maestose le ostetriche nella Natività della Madonna e di san Giovanni. Nei gesti, sacrali, nel passo, danzatrici.

Verrebbe voglia di riportarlo, il sahri, direttamente all’antichità greca; sembrano talora, soprattutto quando il lembo del sahri passa sulla testa, figurine di Tanagra. Ma l’origine del sahri è certamente più vicina. Sta il fatto che nelle amenissime miniature Moghul del Seicento e fino all’Ottocento, fino cioè alla conquista inglese, le donne hanno sempre una sottana lunga di colore diverso dalle morbide sciarpe che portano sulle spalle e sulla testa. L’origine del sahri è certamente quella, ma l’idea sublime di questo avvolgimento in un’unica pezza di stoffa costituisce un passo avanti e notevole rispetto allo stadio accertato dalle miniature a tutta la metà dell’Ottocento. Rinunciamo dunque alla palla classica e al chitone; sia il sahri il vestimento antico più recente del mondo, ma qualcosa che non è né un abito propriamente detto, né un costume. La donna stessa nel suo esprimersi come donna nella società, a tutti i livelli, a tutte le età. Un’acconciatura così casta e dignitosa, che nessuna donna ho visto, che rinunciasse al giubbetto, e, anche in serate di feste, avvolgesse il sahri sul petto nudo, come certamente accadrebbe in Europa, col topless a cui una moda priva di fantasia e castratrice del sesso ci ha abituato.

Come facevano quelle donne splendide a unirsi a degli uomini come pappini, come facevano a non esigere un gallo anche più rivestito di penne che le loro? Ma nel paese che ha conosciuto l’erotismo più sfrenato e sotto forma addirittura religiosa, come simbolo, il rapporto sessuale, dell’unione dell’anima con la divinità, si ha l’impressione di una morale rigida, di costumi amorosi all’antica, nell’ombra delle alcove. È certo che non ho visto nessuna coppia baciarsi in pubblico, né stare teneramente allacciati per la vita, com’è l’uso moderno dei paesi occidentali. Dove tutto spira l’amore, dal cielo sempre sereno, dal sole splendido, dalla brezza leggera, passano le belle donne nei sahri variopinti come le invitate a una festa da cui siamo esclusi, materializzazioni vaporose sull’orlo di disfarsi nell’aria, lasciando solo la traccia d’un profumo sessuato e intimo come quello dei fiori che s’aprono alla luce ma per aprirsi all’amore.

 

AURANGABAD ED ELLORA

Per visitare Ajanta ed Ellora bisognava far capo ad Aurangabad, e le peripezie della prenotazione dell’aereo ci avevano imposto tre giorni, che poi si rivelarono appena sufficienti per quello che s’aveva da vedere. L’aereo si prende a Bombay, un piccolo aereo, dove sussiste ancora l’uso di passare le caramelle che le grandi compagnie hanno soppresso. L’arrivo a Aurangabad è l’arrivo in un deserto bruciato dal sole, e il nostro albergo, sontuoso, con piscina, sembra veramente una cattedrale nel deserto. Si stenta a credere che in un tale deserto potessero esservi degli aranceti che la siccità ha distrutto: per gli aranceti occorre un’irrigazione di cui non si vede traccia da nessuna parte. Ma non mancava l’acqua all’albergo, né alla sua piscina, né ai suoi ciuffi di bougainville e neppure al prato che pareva una specie di scherzo di natura, una voglia, in quella distesa di giallo.

Il paese in sé è un’accozzaglia di casupole e capanne, con una folla di gente e di biciclette; al solito, eccettuato per il colore locale, non ha nessuna vaghezza in particolare, se non fosse per due monumenti singolari che mette conto di vedere. Uno è una moschea che chiamano Panchakki, bianca, con un grandissimo bacino d’acqua in cui l’acqua cade dall’alto, come se debordasse da un tetto.

Dopo l’arsione della campagna circostante, tanta acqua limpida e corrente; e uno splendido baniano, risalito da vene poderose, come fosse il corpo di uno scorticato, grandi radici pendenti e il fogliame specialmente vigoroso data l’acqua vicina a cui i suoi simili non sono molto abituati. Nell’acqua nuotano grossi pesci, e per loro un ometto accucciato davanti a un trespolo vende delle palline grinzose come castagne secche, ma che non sono castagne; piccioni volano, altri uccelli si infilano nel baniano e lo scroscio dell’acqua rallegra come la speranza.

Accanto al bacino d’acqua c’è un vecchio mulino da grano: basta chiudere una chiave e l’acqua invece di precipitare dall’alto investe una ruota fatta come una ventarola di ferro, e completamente diversa dalle ruote dei nostri antichi mulini. E intanto orizzontale, e piccola di dimensioni, sembra più un gioco d’acqua che un mulino da grano.

Dietro il baniano c’è un giardino, semplicemente squadrato ad angoli retti, ma con pochi fiori; accanto, un altro bacino d’acqua sollevato da terra: sta infatti su una volta sostenuta da archi e pilastri che fa pensare a una cisterna bizantina: ma in quelle bizantine l’acqua stava sotto e non sopra. Non si capisce tanta spesa e impegno di costruzione per avere soltanto l’acqua a un livello un po’ più alto. Dall’altra parte del bacino c’è un fossato, in fondo al quale scorre il torrente a cui si deve l’acqua della Moschea.

La visita era finita, ma c’erano i bambini che volevano farsi fotografare. Furono accontentati.

L’altra cosa da vedere, ad Aurangabad, è una copia del Taj Mahal chiamata Bibi-ka-Maqbara, che la guida diceva caricaturale, ma che sembra fatto apposta per dissuadere ad andare a vedere il vero Taj Mahal. È di muratura, e non di marmo; sembra una scenografia di poco prezzo per girare un film di cattivo gusto. Io, che avevo già scarsa voglia di vedere il Taj Mahal, fui confermato nel mio proposito. Poi, avrei dovuto constatare, quanto le cose differivano nella realtà.

Intanto erano passate le ore di luce e tornammo in albergo; una volta là, non c’era che da andare lungo la pi scina o passeggiare nei viali del parco nascente, ma naturalmente ridotto. Sono i momenti, questi, della sazietà del viaggio, in cui le ore a venire sembrano un traguardo senza fine.

Chiusi nell’albergo, con quel deserto intorno, non ci fu che da fare vita d’albergo.

E venne pure il ballo, dato che c’era un’orchestrina rumorosa e anche una comitiva di americani.

Il giorno dopo si andò ad Ajanta e quello successivo a Ellora. Ajanta è un fatto a sé, che non ha paragoni ma anche Ellora non delude, anzi è un grande spettacolo. Non è molto lontana da Aurangabad, e la strada che vi porta ha degli incontri assai beffi, come la vecchia fortezza islamica di Aurangabad col triplice giro di mura intorno al paese e il robusto corpo della fortezza: tutto un colle, quasi perfettamente rotondo, è poi cintato come un mausoleo antico, e sopra vi sono alberi. Questo insieme di mura merlate, di fortificazioni e di natura vigorosa è d’una vaghezza romantica affascinante; ci si ripromise di visitare la fortezza al ritorno, ma poi si fece tardi e si dové rinunciare.

Dopo la fortezza c’è un altro paesotto con una bella porta con l’arco persiano, e poi la strada continua con dei tratti ombreggiati di qua e di là da baniani magnifici, come il viale di un parco. Passavano mandrie di vacche magre, greggi di capre, e anche vari carri trainati da buoi e carichi di canne da zucchero. Ed era singolare, in quel deserto, incontrarsi a un tratto con un appezzamento verde di canne da zucchero. Di dove gli arrivasse l’acqua non si capiva, ma arrivava di certo. Si passò davanti poi alla raffineria, che pareva una fattoria tanto era bassa, bianca, circondata da mura, con un pennacchio di fumo che non si alzava più che tanto e strisciava verso terra.

Ci fu anche una sosta in una specie di borgata, sotto un baniano possente, dove non mancava né mandarini, né banane né bambini.

La cosa straordinaria di Ellora è che su un fronte di più di due chilometri di una balza basaltica a picco c’è tutta una serie di grotte prima buddiste, poi bramaniche, poi giainiste, ossia dei tre culti fondamentali che si susseguono o coesistettero senza escludersi l’uno con l’altro: per quanto vaghe siano le datazioni si va circa dal VII secolo al X, visto che nel X le grotte furono circondate dal geografo arabo Alìal-Masudi. Qualche grotta, dopo che ne sloggiarono i buddisti, fu ripresa e nuovamente abbellita dagli induisti, come risulta per le figurazioni non buddiste, ma senza distruggere i rilievi buddisti data la tolleranza religiosa, esemplare in India. È anzi probabile che tutti e tre i culti siano stati attivi contemporaneamente. In base ai rilievi e agli ornati architettonici non si può stabilire infatti né datazioni precise né successioni irreversibili. Non solo, ma sicuramente le stesse maestranze artigiane lavorarono per i tre diversi committenti, senza nessuna ricerca o imposizione di cambiare neppure gli schemi generali delle grotte-convento. È un caso questo che dà da riflettere e che sembra fatto apposta per smentire il ruolo determinante delle concezioni religiose e sociali nell’opera d’arte. Qui in India la maestranza era tutto: le abitudini monastiche buddiste facevano legge: niente di più adornato di questi conventi e niente di più primordiale. Non vi erano servizi di sorta, né cucine né latrine: solo piccole celle che dànno sul salone principale sostenuto da pilastri-colonne, e che serviva anche per il culto. Insomma la rudimentalità della grotta naturale trasferita in quella artificiale, senza miglioramenti di passaggio. Viceversa a Ellora si assiste a una progressiva complicazione dell’impianto architettonico: grotte a più piani fino a tre, e che dànno luogo a un prospetto assai gradevole come l’anticipazione, rurale, del cortile di San Damaso in Vaticano. Al solito queste grotte a più piani non si limitano ai buddisti. Ma nella serie bramanica c’è però un tempio di una grandiosità e complessità straordinaria, nuovo come impianto, perché nel grande cortile, quasi una corte d’onore con due specie di alti portabandiera ricavati dal blocco di pietra scavato, c’è un tempietto, sul genere, per intendersi, dell’Ara pacis, isolato, scolpitissimo, che, sul davanti ha una finestrina con una transenna traforata, anch’essa ricavata dalla pietra e non aggiunta, con un motivo a rincroci assolutamente romano, come le transenne augustee. Queste coincidenze non possono essere casuali, come non è casuale la congruenza di gusto classico, a parte l’ornamentazione incontinente, del tempietto rispetto al grande cortile con due gallerie sovrapposte, dove si trova la grande sala ipostila del tempio, con tutte le sculture più importanti.

Di queste sculture è bene dire che singolarmente sono opera di notevole perizia tecnica, che ancora si ispirano a una originaria semplicità dell’arte gupta: il senso del rilievo, affidato soprattutto alle convessità dei nudi, stabilisce un collegamento naturale fra le varie parti servendosi di moduli semplicissimi, diagonali ma quasi mai con rincroci diagonali. Insomma per l’esuberanza quasi incontinente questi rilievi possono avere un aspetto superficialmente barocco, in realtà non vi si rileva un’attivazione dinamica cosciente, la composizione si affolla ma non si concatena formalmente, la concezione rimane paratattica. Ciò non toglie che si colgano qua e là dei passaggi di grande delicatezza, quel ventre appena grassoccio, che appena ricade sulla cintura, con un ombelico che diviene il perno plastico della figura; quelle mani dalle dita sottili, mosse ritualmente, ma con una fluenza plastica agevolissima; e il ginocchio appena accennato, il gusto cioè di una gamba tubolare e tuttavia non rigida, non legnosa. Sono tutti passaggi che dimostrano la derivazione da una plastica di alto tenore, di cui tuttavia non si conosce la matrice individuale che pare indispensabile, né una data di nascita precisa.

Resta, questo tempio della Kailasha, una forte emozione oltre che una fonte di stupore per l’enorme lavoro compiuto a scavarlo tutto nella roccia, senza un pezzo di riporto: solo un esercito di schiavi e di periti poteva eseguire un simile compito. Ma le sorprese non finiscono quando si nota, nell’estensione enorme di più di trenta grotte, dalle buddiste alle giainine, una sostanziale identità di motivi, presentimenti di forme che non arrivano mai a sbocciare. C’è ad esempio un motivo angolare di capitello con curva e controcurva a esse, che fa pensare al rococò di Oppenord, e che rimane lì, isolato, sempre lo stesso o con semplificazioni, non con varianti, per quei tre secoli almeno che durò lo scavo di queste grotte.

Il sole si avviava al tramonto, e la luce per vedere l’interno degli ipogei era stata ottima. La compagnia tutta sparpagliata, non si riusciva a partire: oggetto naturalmente, mentre si aspettava, delle patetiche insistenze di una frotta di bambini con cartoline, sempre le stesse, diapositive e qualche sasso ma non così belli come quelli di Ajanta.

Finalmente si fu in grado di muoversi e al ritorno s’intoppò in una specie di fiera o di festa paesana che alcuni non vollero perdere, anche se si prospettava una cosa miserrima, data la povertà della zona quasi desertica. Così si fu presi in una turbine di gente fra le baracche che esibivano mercanzie vilissime. La cosa che colpiva di più erano due mostre piene di pani: il pane a una fiera non l’avevo mai visto, e faceva toccare con mano non già la frugalità ma la miseria della popolazione. C’era poi anche il companatico, un friggitore che confezionava dei fagottini lindi e quasi civettuoli come quelli nuziali di confetti, con una palletta di pasta che poi spianava a quadrato, la riempiva di non so che cosa, riunendo le quattro cocche. Bisognava avere il coraggio di assaggiarli, quei graziosi panzarotti. Non l’ebbi.

 

AJANTA

Ajanta non è solo le sue pitture, famose, famosissime e in uno stato così precario, ma il luogo stesso e impressionante, questo enorme burrone lapideo, con le pareti quasi a picco, a andamento curvo, nel cui fondo dovrebbe scorrere un torrente, e dove, quando l’ho visto io, non c’era che una frantumata pozzanghera azzurra.

Le grotte sono state scavate a mezza costa lungo una stretta cornice con vari dislivelli: si svolgono per almeno mezzo chilometro e in tutto sono circa una trentina, grandissime spelonche tutte fonte di sculture ricavate dal masso stesso della montagna. Poiché non vi sono notizie antiche, se non due iscrizioni, arrivano nell’età nostra, ai primi dell’Ottocento, quando, per caso, vengono scoperte come fossero una cosa di scavo. L’impressione di queste pitture, purtroppo malconcie, fu quasi subito notevole e non ha fatto che ingrandire con gli ultimi tempi. La cosa che più le rende importanti e anche quasi misteriose, è che né prima né dopo si trova pittura in India, e, in quello scorcio di tempo, fra il I secolo a.C. e il VI secolo d.C., c’è di pittura tanto poco ovunque che la testimonianza che recano se è più preziosa è anche più problematica.

Certo, c’è una parentela fra quelle pitture e la scultura indiana coeva, parentela che le grotte di Ajanta, così intensamente scolpite, non fanno che affermare, ma anche in questa parentela bisogna andare cauti, se si pensi appena agli aggetti potenti della scultura buddista di quel tempo, mentre la pittura si distingue per una parsimonia oculatissima di effetti plastici. Insomma, se si voglia designare la pittura di Ajanta sotto il segno della plastica, bisogna allora riconoscere che la plastica, che intende realizzare la pittura, è di segno opposto a quella della scultura: non si parte dal volume, si parte dal piano. Inoltre l’intensità cromatica di queste pitture non si indirizza a una formulazione coloristica, ma trattiene il colore a livello di colore locale anche se investito di sottili graduazioni. La luce non è mai sentita con ingresso violento, non è mai a se, neanche come lumeggiatura. E naturalmente da grotta a grotta, vi sono variazioni stilistiche notevoli, data anche la diversità di tempo: notevoli, ma che se indiziano differenza di mano e di intenzionalità, non rivelano mai una differenza di cultura. D’altro canto riesumare questo tessuto culturale di base è difficilissimo dato il tempo, il luogo, le lacune enormi che incidono prima e dopo nello sviluppo di questa pittura.

Inoltre bisogna tener conto della capacità che ha avuto la cultura indiana di trattenere come in sospensione per dei tempi lunghissimi, esperienze culturali diverse e addirittura opposte l’una alle altre, riuscendo poi in un colpo, come per una lenta fermentazione, anonima e naturale, a estrarne un esito inatteso e inattendibile.

In questo la scultura indiana è stupefacente se ci fa ritrovare le tracce della plastica achemenide a distanza di quasi otto secoli, contemporaneamente alle soluzioni troppo diverse di origine ellenistica e romana, come la scultura di Gandara e quella di Mathura. L’esito a sorpresa della scultura del tempo Gupta sta proprio nella possibilità di rintracciare tanti étimi diversi in un contesto che ha acquisito un suo tenore proprio. Ma appunto, per la scultura, abbiamo i precedenti, le documentazioni larghissime di Gandara di Mathura: per la pittura non c’è niente. Di colpo ci troviamo di fronte a queste pitture di Ajanta, la cui flessione plastica è estremamente unitaria e omogenea, pur nelle differenze di mano e nei salti di secoli. Sembrerebbe allora di dovere ipotizzare un lungo sviluppo, ma da quali basi, ma da quali premesse.

Prendiamo il famoso Bodhisattva della misericordia, raffigurato, nella prima grotta di Ajanta, con il fiore azzurro di loto: non è la pittura più antica, ma la più sintomatica. Il contorno è deciso ma senza rigidezza e manca di un riferimento rigoroso al piano, è piuttosto un’immagine schiacciata, ma densa, non laminare. Il fondo è tutto riempito di figure, ma quella del Bodhisattva, né solo per le sue più grandi proporzioni, emerge, deve emergere. La contrapposizione di figura a fondo risulta quindi graduata e non esasperata. La larga superficie del corpo nudo si condensa luminosamente entro il limite dei contorni come se si rassegasse: non si solleva, non emerge, ma neanche si colloca a livello del fondo. Quindi, senza nessuna sostanziale asserzione di volume, il corpo nudo è corpo e non è lamina. Il controllo ce lo dà lo spazio a losanga fra il braccio e il torso. In quel punto il distacco fra la figura e il fondo è ancora più accentuato, e il modo con cui si sovrappone la mano che regge il fiore al busto, mano vista in profondità se non iscorcio, fa vedere chiaramente come non ci sia l’intenzione di iscrivere la mano su un piano, ma di esibirla nella sua successione spaziale. Del resto la curva affatto rigida con cui si distribuisce la collana di perle intorno al collo fa vedere che vuole accusare di essere disposta intorno a un volume, intende risollevarlo alla vista come cilindro e non come una curva sul piano.

Una simile formulazione spaziale è raffinatissima e corre sul filo del rasoio. Come non pensare a questo punto alla suggestione dei rilievi schiacciati achemenidi, a quella loro levigata proposizione di volumi depressi e compressi e non mai laminati? Il chiaroscuro, inoltre, è tenuissimo, non intende suggerire né aggetti né sovrapposizioni volumetriche, ma semplicemente intessere le varie parti in modo che si distinguano l’una dall’altra come fanno le zonature di colore.

In una concezione plastica simile è inutile e dannoso sovrapporre una visione occidentale della spazialità: in nessun senso c’è una ricerca prospettica, perché non c’è mai uno scaglionamento di piani, c’è solo un rapporto di figura a fondo, in cui né il fondo né la figura sono geometricamente ridotti a superficie. Le differenze di proporzioni fra le figure hanno una ragione di importanza narrativa non spaziale, come del resto avviene anche nell’arte occidentale del Medioevo.

Se dalla grotta I si passa alla XVII la più ricca, senza dubbio troviamo dei cambiamenti importanti, ma bisogna vedere quali. Prendiamo un’altra figura famosa, quella della dama quasi nuda, con i seni esposti, la mano sinistra sotto il mento e quella destra che si appoggia al piede. Qui la delineazione è ancora più incisiva, il tratto è inflessibile come una xilografia, ma non è rigido: la bellezza formale di quel braccio nudo, quasi lussato, con la mano che tocca il calcagno, fa ricorrere il pensiero addirittura alla pittura giapponese: il risparmio, la precisione e la innaturalezza di quel braccio è incomparabile. Qui il chiaroscuro è come scomparso, riassorbito nella tonalità scura del corpo, ed è la linea a tenere a galla il volume senza che si schiacci sul fondo.

Ma se vi sia una stringatezza di mezzi maggiore che nel primo Bodhisattva, non c’è per altro opposizione: il pittore non vuole la stampigliatura sul piano anche se evita la verosimiglianza del chiaroscuro. I seni gonfi e sodi che sono un motivo costante di turgidezza nella plastica indiana qui vengono unicamente indicati, non rappresentati in proprio.

Insomma da autore a autore agisce sempre una stessa struttura linguistica che pone dei fermi arresti e stretti limiti alla flessione plastica.

Ora è possibile pensare o ammettere che una tale coerente norma pittorica, si sia sviluppata in India senza nessun altro apporto che il vago e lontanissimo, nel tempo, ricorso alla plastica achemenide? Io non lo ritengo possibile, e come la scultura gupta è un esito complicato di tendenze plastiche diverse, così questa pittura porta a cottura ingredienti vari e contrastanti. Non credo che si possa invocare qualche influsso bizantino, ma come anche l’arte bizantina è una confluenza di tendenze figurative che si producevano ai margini dell’arte classica ufficiale, così è lecito pensare che alcune di quelle tendenze, siano pervenute anche in India, magari restando in sospensione, come per l’arte achemenide.

Ora, di fronte alle pitture di Ajanta, non è ai mosaici di San Vitale che si pensa, ma se mai alle pitture di Doura Europos: insomma quella componente partica, così difficile, data la scarsità di monumenti, a enucleare, ma che portava a una specie di regressione plastica della scultura di fonte ellenistica e romana. Tutto il mondo culturale dall’Iran alla Mesopotamia ha sempre, fin dai tempi della civiltà dell’Indo, influenzato l’India; e se non cito espressamente i Sassanidi, i più vicini nel tempo ad Ajanta, è perché non si sa nulla della pittura sassanide, e le poche stoffe, anche ammesso che siano sassanidi, non bastano. Comunque si può ipotizzare anche una trasmissione sassanide, ma, quel che è certo, i due punti più distanti di una rete d’appoggio per situare la pittura indiana, restano Doura Europos e Ajanta.

 

RITORNO DA AJANTA

La visita ad Ajanta era finita e il sole calava all’orizzonte: era durata cinque ore, durante le quali le grotte, o illuminate artificialmente o con degli specchi che riflettevano la luce del sole, si erano come messe a nudo. Talune hanno grandi facciate con un arcone centrale, con la stupa monolitico in fondo; sono i templi, mentre i conventi recano un certo numero, piccolo in genere, di celle attorno a una sala ipostila. Sebbene naturalmente le colonne-pilastri abbiano una ragione funzionale di sostegno, è difficile riconoscervi una particolare modulazione spaziale, gli interassi fra colonna e colonna si ha l’impressione che siano casuali o dettati da semplici considerazioni statiche: non si potrebbe neanche dire se il tema specifico sia l’interno o l’esterno.

Certo, questi templi, se costruiti, dovevano presentarsi in qualche modo da fuori, ma di quelli di Kanchipuram uno, il più grande, è troppo tardo per illuminare su un problema d’impostazione spaziale originaria, l’altro, che è dell’VIII secolo, è pure un tempio induista che non sviluppa gli stessi principi del tempio buddista. L’impressione che dà, è che si imposti sul tema dell’interno basato sul recinto: un po’ come avviene nell’architettura araba. Tuttavia, che ci sia in atto un disegno di agganciare l’esterno e non limitarsi al semplice invaso, lo dimostra a Kanchipuram il recinto a risalti alternati che ingrana, dall’interno, lo spazio esterno, e, ad Ajanta gli archivolti dentati, all’interno, come ruote, che naturalmente si aggregano una porzione dell’invaso. Ma l’architettura indù non è in sostanza una produzione con uno sviluppo formale conseguente, come invece la scultura. Per esempio, il problema della copertura è spesso risolto ad Ajanta come a Kanheri con una finta volta come fosse la carena rovesciata di una nave, e ad Ajanta, nella grotta con le semivolte a botte nelle navate laterali come nell’architettura cristiana orientale e in Puglia. Ma là la semibotte rientra nella formulazione ancora di radice bizantina, di uno spazio aggirante come un anello interno che funziona, ma sempre all’interno, da esterno. Di una eventuale derivazione bizantina in India non ho trovato traccia: d’altronde una volta in legname non ha lo stesso significato di una volta in muratura che implica uno stretto coordinamento statico, né questo può essere indipendente dalla proposizione formale. In India le finte volte sono riproduzioni di soffitti in legname, appoggiati quindi, non coordinati strutturalmente ai mezzi di sostegno.

D’altronde la maggior parte dei templi indiani è scolpita più che costruita: o scolpita su massi erratici o speroni di roccia come a Mahabalipuram, oppure costruita ma già interamente ricoperta di sculture, praticamente invisibili, che è come fosse scolpita in un unica roccia. Questo fa sì che c’è involuzione non progressione: le grandi torri piramidali all’ingresso dei templi, i gopuram, formicolanti di gambe e di seni rotondi come palle di cannone, incancreniscono il problema spaziale, l’unico che vi si possa ravvisare, di trovare una compenetrazione con l’esterno. L’architettura non è mai sentita come architettura, ma come una scultura per levare, in cui a poco a poco l’assunto volumetrico si adultera e si perde. È un po’ lo stesso fenomeno che avviene in Egitto dopo il Regno antico: si continua con ripetizioni senza fine. Ma l’Egitto aveva una originalità di partenza ben diversa da quella dell’India, dove c’è un tralignamento continuo di forme importate e adattate a un gusto in prevalenza scultoreo, con la totale obliterazione della funzione originaria, come per il capitello achemenide.

Ad Ajanta, sebbene si sia ancora nei secoli buoni per la scultura, non si incontrano mai esempi eletti ma mediocri d’una plastica che imbolsisce quella gupta, aggravandone le proporzioni, in un continuo aumento di peso. Quando si viene via da Ajanta, mentre frammenti di pittura restano fissi nella memoria, della scultura non si ricorda nessun esempio in particolare, la funzione riempitiva più ancora che decorativa delle sculture, paralizza la memoria.

Ci sono certamente dei paralleli nella storia dell’arte, il tardo gotico ad esempio, il manierismo decorativo tardo rinascimentale spagnolo, il cosiddetto stile plateresco, ma mentre questi altri casi derivano da una progressiva involuzione di un principio spaziale male inteso, nel caso indiano l’involuzione deriva dal mancato isolamento del problema della scultura da quello dell’architettura. Quando dilagherà l’islamismo di marca persiana nessun elemento potrà passare dal sottofondo indù alla forma islamica, che oltre tutto arriva in India in maniera anche più spoglia che in Persia, e ne costituisce il massimo pregio.

Ma ad Ajanta, rimasta abbandonata per secoli e secoli non c’è la minima sovrapposizione islamica, mentre si trova alle porte quasi di Ajanta, ad Aurangabad.

Così si era cominciata la discesa dei tanti gradini, e, al fondo si ritrovava la consueta turba di bambini, ma, questa volta, con oggetti diversi dai soliti. Questi oggetti erano cristalli di quarzo, pietre con dentro cristalli di quarzo e ametista, come ne avevo visti in Brasile. Era difficile rifiutarsi il gusto di quei colori limpidi, di quelle rifrazioni inattese. I bambini venivano a porre in mano di prepotenza delle pietruzze, sassolini prismatici e poi gridavano “regalo, regalo” per invogliarci a comprare o per avere delle monete. Anche lì come a Bombay, l’italiano veniva individuato infallibilmente.

Ce ne uscimmo con un carico di pietre.

 

LA DISCESA DEL GANGE

Arrivare a Madras è, in qualsiasi stagione, come sbarcare nell’estate, e la città è larga, estesissima. Non ci sono grattacieli a Madras, o appena uno in qua e uno in là, né troppo alti; la città si dilata come un allagamento, con gli edifici, che l’ampiezza delle strade tende ad appiattire, se non fosse la vegetazione magnifica, gli alberi sontuosi, i flabelli delle palme di cocco, le cupole verdissime dei manghi.

Quando si arriva al mare, non si riesce quasi ad arrivarci, tanto è larga la spiaggia e il mare laggiù in fondo come una pennellata azzurra, come nelle Nature morte di De Pisis.

La città è invasa dai grossi insetti dei risciò a pedale, delle motorette a tre ruote, che s’investono come un turbine alle strade, e quasi non fanno fare un passo a piedi, perché, posta l’estensione della città, le distanze sono sempre notevoli. C’è, nel calore forte, ma non insopportabile, nell’aria bellissima e serena, nel cielo trionfale, degli elementi costanti che agiscono subito su chi arriva a Madras, come dei tranquillanti. È bello sedersi al meriggio a guardare la luce che penetra tutto, anche l’ombra, come di un riflusso dorato: gli alberi sembrano piuttosto erbe gigantesche, i prati verdi allungano lo sguardo. È come fuggire lentamente da se stessi, perdersi nelle cose, abiurare al caso personale.

Questo effetto sedativo di Madras coglie in genere, come succedeva a noi, dopo giorni di furiosi viaggi per ore e ore o in aereo o in automobile, e ci faceva sentire Madras come luogo d’approdo, di sogni tranquilli e di notti luminose, dato che c’era anche la luna e, di una prepotenza inaudita, sopprimeva tutte le stelle. In India non sono riuscito a recuperare una sola costellazione, ancorché si veda tanto cielo, anche in queste strade di città, così larghe, gettate all’infinito come una retta, che fanno solo da pedana al cielo.

Forse è questo predominio del cielo a far sentire Madras, che è così grande, come una città di campagna che invita alla campagna e quasi dissuade da fare i giri per le strade.

Dove a dir vero non c’è molto da vedere, un tempio sovraccarico coperto di sculture come di bachi da seta, e pochi bronzi bellissimi che venivano modellati nel meridione dell’India, fra il X secolo e il XIII. Di questi bronzi, c’è al Museo Nazionale uno Shiva danzante, – la sua danza è cosmica, – che, per quanto ripeta l’atteggiamento risaputo entro il cerchio di fuoco, si rivela di una qualità sopraffina. Qui ancora il retaggio della grande scultura gupta agisce nel modellato morbido senza essere flaccido, nei volumi torniti come da una lama aerea, nella distribuzione così naturale di quelle quattro braccia e delle mani parlanti. C’è poi alla Galleria d’arte, un bronzo di Budda in piedi, anch’esso di una qualità rara; ed è singolare come queste immagini, che non inventano nulla su un prototipo sempre identico, riescano a farsi guardare. Sembrano tutte uguali, i partiti plastici sono sempre gli stessi, eppure basta un alcunché per elevare il tono, approfondire le superfici, restituire a quel rilievo levigato qualcosa come una dimensione diversa, una trasparenza effettiva in quelle stoffe trasparenti, solo supposte nella realizzazione del rilievo, ma risorgenti diafane e luminose nella visione generale della statua. Sono quasi sempre dei bronzi non grandi, ma, pensati in grande, appaiono grandissimi. Questo Budda del secolo XI ne è un esempio che è impossibile dimenticare, proprio come le parole d’un verso, che, per essere comuni, non di meno allacciate in quel ritmo, divengono uniche, insostituibili.

Ma la dimensione rurale di Madras che si presenta nella sua vastissima cornice di alberi e di prati, trionfa non appena si esce di città per andare nei due luoghi indimenticabili di Kanchipuram e Mahabalipuram. Abituati fino a ora a una terra secca coperta di stoppie rasate, che faceva meraviglia veder brucare a vacche e capre, ecco di qua e di là dalla strada specchi d’acqua limpidi e risaie d’un verde elettrico, come neppure nessun prato del Nord Europa. Grandi filari di palme moltiplicano i punti di vista da ogni lato, in questa pianura livellata, a cui i bacini delle risaie dànno una scansione quasi solenne e tuttavia festosa, in quel verde senza fine, luce che è diventata erba e continua a diffondersi come luce. Le palme, oltre a quelle di cocco, sempre un po’ curve da un lato, ed elastiche come la traiettoria d’un funambolo, sono le palme che gli indigeni chiamano rapà, con tronchi drittissimi, altissimi, e un ciuffo di rame con le dita aperte e rigide come di lamiera. Data l’altezza dei tronchi, il ciuffo appare una testa piccola, ma di grande eleganza. Mi dissero che con i frutti fanno una specie di birra, bevanda che avrei assaggiato tanto volentieri, anche se fosse deludente, come è deludente quella specie di grappa fatta in Africa col bocciolo interno delle palme da datteri, il che produce una strozzatura nella crescita e da un liquido esiziale. Qui ero sorpreso, che, a palme così alte, fosse fatta una tale scrupolosa pulizia delle rame; non una rama secca, non una pendente. Si vede che gli indigeni apprezzano quel liquido, ancorché ferocemente proibizionisti come sono in India, un po’ per religione e più per imposizione. Ma è un fatto, che, a parte la mediocre birra, neppure esigibile dappertutto, non si è potuto assaggiare neanche quella specie di grappa che fanno con la canna da zucchero. Quasi come la droga, va forse ricercata alla macchia.

Ma le alte palme rapà ci accompagnarono per tutto il viaggio, dando una altimetria bizzarra alla pianura, istituendo come un campione di trasparenza del cielo. Per la strada era un via vai di mandrie di vacche, e ai bordi, spesso all’ombra di manghi e di eucaliptus, – la pianta che ci ricollegava alla fine al nostro Occidente – un villaggio che era un vero villaggio di bellissime capanne con l’imponente tetto di paglia di riso che arrivava quasi fino a terra. Questi villaggi, che sono ancora paleolitici, siano o no abitati in permanenza o servano solo d’asilo per il lavoro delle risale, alla vista rappresentano un episodio impagabile: così ben costruite, quelle capanne, i turgidi tetti con uno spessore di paglia almeno di mezzo metro, lindi come un pagliaio, non riescono a rattristare per la miseria di chi ci deve vivere dentro. Non sono certo deprimenti come i villaggi di isbe russe, e tanto meno come una raccolta di prefabbricati. Rappresentano l’inizio e quasi l’origine dell’uomo, riportano a quegli albori che ci prospettiamo increduli quando, in museo, si guardano gli utensili di pietra di quel tempo lontanissimo, e tali erano quelle loro capanne e i corpi seminudi, e gli stagni in riva ai quali, o su palafitte, le capanne venivano costruite. Capanne così belle, perfette come manufatti, non ne avevo mai viste e mi sembravano alla base di certe stampe tedesche del Rinascimento, di cui le traeva anche Tiziano, se non fossero state quelle palme, e i vivai di banani rigogliosissimi che negavano l’Europa, negavano il Rinascimento, si riportavano a questa epoca che è passato remoto e presente immobile, in una dimensione, in realtà, assolutamente al di fuori del tempo. E questa estrapolazione dal presente stava forse alla radice della serenità liquida, e come in margine, che quella vista così antica e quasi remota procurava, donde un senso vero di vacanza, di disponibilità infinita, e il permesso di abbandonarsi a una gioia ilare, tutta interiore e dilagante nel petto come quelle lame d’acqua affiorante che riproducevano gli alberi, le palme, le capanne ma soprattutto l’azzurro dorato del cielo.

Arrivare allora a Kanchipuram da questa strada sublime, era ricadere nell’usato, nella polvere, nel risucchio d’una vita corale, di persone vestite di bianco sporco, di gambe nere, di mani imploranti. Ma c’era da fare due cose: vedere i templi e comprare la splendida seta filata e tessuta a mano.

Il primo tempio è immenso, si chiama d’Eskambareshwara; o del Signore nudo, Shiva cioè nella sua ipostasi d’asceta. Qui per me cominciarono i dolori, perché all’ingresso dell’enorme gopuram, che sarebbe quella piramide con cui inizia il recinto sacro d’un tempio indù, piramide ricoperta di sculture che non si vedono che come un ammasso di bachi formicolanti o di neonata, bisognò levarsi le scarpe, e le pietre erano infuocate. Per chi va sempre scalzo sarà stata un’altra cosa, ma per me fu una tortura e mi portai le piante doloranti per tre giorni. Questo fece sì che del tempio non potessi notare che un’enormità vacua, la decorazione pletorica, le fughe inconsistenti di colonne con un gioco di mensole sovrapposte per arrivare a chiudersi con lastre di pietra. Ma a un tratto, allo sfociare in un cortile si presentò un mango ditale ampiezza e proporzioni da sembrare anche più costruito dal tempio: con quelle foglie lunghe e lanceolate disposte a rose, e d’un verde che resiste al sole come fosse un ferro caldo, quel mango, che aveva forse tanti secoli quante le foglie, mi fece sentire più fresco anche alla pianta dei piedi. Mi ricordò il platano superbo che cresceva a Napoli sul chiostro di San Severino e Sossio, il platano che si diceva di san Benedetto, e che un funesto nido di termiti, nelle sue radici, fece malauguratamente abbattere. Così grande, come il mango, così a piena tenuta nell’impari cornice del chiostro, con quella benefica virulenza delle piante, con quel salutare potere d’ombra come dispensatrice di grazie.

Né le sorprese si arrestarono lì, perché, nel cortile seguente – il tempio è grande come una città – ci si incontrò con l’elefante sacro, una elefantina di ottantacinque anni portati benissimo, e perfino, per quanto incatenata, con una certa gioiosità, che si rivelava nei giochi che la sua proboscide faceva con una canna da zucchero; la riprendeva, la lanciava, la trascinava in terra, sempre accorta a lasciarsela a portata di mano, si direbbe, o meglio di proboscide. L’elefantina ci congedò dal tempio; ricominciava il tormento dell’attraversamento a piedi nudi, venne alla fine il sollievo delle scarpe.

L’altro tempio, assai più antico, dell’VIII secolo, e il più conservato, è quello detto della Kailasha, o della montagna sacra di Shiva. Questo è di proporzioni molto più modeste, con un recinto che è la sua cosa più bella: di modica altezza, con dei risalti rettangolari in cui dei bestioni all’impiedi a guisa di telamoni, inquadravano rilievi non ignobili. Qui si rivelava una caratteristica della scultura indiana quando decade dall’altezza Gupta: le rotondità di questa scultura sono pneumatiche, come se, a bucarle con uno spillo, si sgonfiassero. La corruzione dell’ottimo è pessima, dicevano i romani, e questa è una tipica corruzione della plastica spinta all’eccesso della ricerca di rotondità.

Questa volta si poteva costeggiare una cimosa d’ombra e risparmiarsi le bruciature alla pianta dei piedi. Ma, al solito, non si poté penetrare nell’interno che fino a un certo punto, né vedere il lingham di Shiva, alto due metri e sfaccettato come una pietra preziosa.

I templi d’obbligo erano finiti, cominciò la visita ai setaioli. E davvero erano sete magnifiche, filate e tessute a mano, d’una consistenza antica, dai colori teneri o smaglianti. Costano poco per essere così preziosi, sahri con bordi d’oro zecchino, sciarpe da fata, e le donne ne andavano pazze.

Si riprese la strada per Mahabalipuram, si riprese con gioia perché ricominciò lo spettacolo splendido delle risaie verdissime, di quegli stagni quieti, come in mezzo a un parco, spesso con una mandria di bufale, esattamente eguali alle nostre, mentre le vacche hanno la gobba come i cammelli: e l’hanno da secoli, perché il toro Nandi, così spesso raffigurato nei templi indù – è la cavalcatura di Shiva – ha anch’esso la sua gobbetta, più un grosso bitorzolo che una gobba.

Dopo un poco, nella limpida pianura cominciarono a vedersi dei grandi bozzi di pietra, ma come aeroliti, non come montagne.

E si giunse a Mahabalipuram. Si arriva di colpo alle cose che c’è da vedere, in un paesaggio improvvisamente occupato da questi splendidi aeroliti di pietra durissima; è infatti diorite, come in Egitto. Appena scesi, la solita turba festosa di bambini, ridenti, imploranti, offerenti. E uno aveva una mangusta, stretta al petto, con il suo musino affilato, il corpo pieghevole e la codina. Finalmente vedevo una mangusta, quella che mangia i serpenti, la benedetta. Altri invece recavano grosse zucche, o che parevano tali, ovoidi, verde tenero, e con una roncola le decapitavano dandocele per bere: dall’apertura usciva un liquido gradevole, né dolce né amaro, che sapeva d’erba e manteneva un tepore giusto, come vogliono quelli che credono disseti più il caldo del freddo. Tutto questo avveniva di fronte al colossale rilievo della Discesa del Gange, scolpito su uno sprone di roccia lungo quasi trenta metri. Sembra tuttavia che non ci sia accordo sul soggetto, e che altri voglia che rappresenti l’ascesa di Arjuna; ma sia per l’una che per l’altra interpretazione c’è difficoltà; per la prima perché Shiva non riceve l’acqua del Gange in testa, per la seconda perché manca il duello con Shiva in apparenza di cacciatore, che sta alla base della conquista dell’arma per cui Arjuna era entrato in penitenza. Questo enorme rilievo è riferito al VII secolo, e certamente, di tutti i rilievi rupestri è quello in cui la plastica ha subito meno alterazioni all’epoca Gupta.

Basta guardare l’enorme elefante che sta alla base, e il cui risalto, per quanto sintetico, non assume mai quell’apparenza pneumatica che intristisce tante sculture indiane. In nessun luogo, come a Mahabalipuram la scultura indiana arieggia più a quella egiziana, per rigore di volumi, risparmio di particolari, superfici linde e luminose. Le altre infinite figure dell’immenso rilievo sono come angeli volanti, o nella posa che hanno le gambe delle ballerine, quando vengono innalzate dal compagno: anche in queste figure la sintesi non diviene mai trascuratezza di forma, le gambe sottili e rotonde hanno la lindura dell’oggetto amorosamente realizzato a mano.

Poco più lontano si trovano templi e altre specie di grotte artificiali chiamate mandapa, con le colonne che sostengono il testo e al fondo un rilievo: uno è particolarmente curioso, con Krishna che munge una vacca, la quale lecca il suo vitellino. Ciò che rientra proprio nel clima georgico di questa stupenda campagna.

Più in là, accuratamente inquadrate da pratini verdi, i templi in forma di carro processionale, scolpiti su massi erratici di diorite: inoltre c’è un elefante a grandezza naturale lasciato in parte abbozzato, in cui è chiaro che il momento primo dell’ideazione era il volume, il prisma, come per la scultura egiziana: e la proboscide dell’elefante squadrata, sembra davvero egiziana.

Tutto intorno ci sono poi alberi verdissimi, palme, e occhieggia il mare, un mare che è l’Oceano Indiano, ma tranquillo come il Mediterraneo.

Ci incamminammo per salire al tempietto che stava su un’improvvisa elevazione del terreno, come un cumulo di enormi sassi di diorite, inframmezzati da piante con le foglie lucide come limoni. Il contrasto del tono caldo della diorite e di quei ciuffi smaglianti non poteva essere più gradevole: i massi erano rotondeggianti come fossero stati levigati, erano sculture, ma non sculture non finite: la loro forma era raggiunta e perfetta.

Facevano sentire la natura nel momento di maggiore avvicinamento alla scultura, qualcosa da far pensare a Moore ma d’una verità più profonda, d’una evidenza prorompente. Erano sassi enormi, come levigati dalle acque, costituivano un paesaggio ciclopico ed esaltante. Via via che si saliva, quell’accumulo straordinario, che pareva seppellire i giganti dopo la rivolta a Giove, faceva sentire in un mondo primordiale, come dopo il diluvio, rasserenato dalla fine del diluvio, sfiorato dalla brezza come dal respiro degli dei.

Arrivati al primo ripiano si cominciò a vedere il panorama all’intorno, e il mare che saliva all’orizzonte, faceva orizzonte tondo, e si ricongiungeva di qua e di là. Era un mare azzurrissimo e trasparente come il blu di una vetrata gotica, e, con quell’abbraccio circolare, sembrava come chiuderci in un’isola privilegiata, dove tutto sia bello e buono contemporaneamente, e gli animali mansueti come al giorno della creazione. Le scimmie giravano quasi domestiche, si avvicinavano curiose e graziose, con i lunghi corpi rasati, le code a voluta: e grandi uccelli volavano bassi con le ali ad aquilone.

Si salì ancora, ai piedi del piccolo tempio, e di lì si saldò il panorama circolare: da un lato i tetti delle case del paese, dall’altro uno stagno lucido come l’argento in cui si rifletteva, raddoppiandosi perfettamente, una fila di palme; la visione era così nitida e perspicua come in una pittura d’un primitivo fiammingo, assai più nitida del reale, in quanto era a distanza, ma come fosse vicina, ma come fosse appena al di là di un vetro, e si potesse toccare: e quel mare alto tutto intorno come una muraglia di cristallo, e il tutto come un composto di pietre dure, di onici e di lapislazzuli, un meraviglioso composto naturale e artificiale, sotto quel cielo senza nube, con quell’aria che era alito degli dei.

Mai più ci si sarebbe voluto togliere a quello spettacolo, che pareva respirare con noi, impressionarci come una lastra fotografica, fissarsi dunque non sulla retina ma nel cuore.

E nel cuore mi si fissò, sicché quando si scese per andare a vedere il famoso tempio sulla spiaggia, mi parve, appetto a quello che lasciavo, quasi una frivolezza, e il tempio, anch’esso scolpito in un masso, una di quelle costruzioni che fanno i bambini sulla rena, sformando un secchiello di sabbia umida, e poi facendoci sgocciolare sopra la rena bagnata. Così mi apparve la piccola piramide rossastra, meravigliosamente arenata sulla spiaggia come prossima a tagliare gli ormeggi e a inoltrarsi sul mare. E questo era appena mosso, non aveva certo quella onda lunga che ha l’Atlantico e che si riproduce sempre alla stessa altezza.

L’acqua era calda, il sole al tramonto infilava a una a una le piccole creste delle onde, come collane di fiori. Gli altri si spogliarono e fecero il bagno: c’era una sola bambina, ma stettero tutti a riva, come bambini, e quando uscirono si rivestirono subito; subito le vesti si asciugarono. Era il paradiso terrestre.

 

IL TAJ MAHAL

Di andare ad Agra non ero poi tanto convinto, ma visto che si era dovuto rinunciare a Benares, e che ci avanzava un giorno alla partenza, si decise di fare il viaggio, né breve a dir la verità.

Non ero convinto, perché il Taj Mahal è il monumento più famoso dell’India, la rappresenta in un certo senso, pur essendo la cosa meno indiana, anzi persiana. D’altronde l’infinità di riproduzioni l’hanno talmente dissanguato che sembra di averlo visto fin dalla nascita, molto più che così bianco, si immagina meglio dei monumenti di Isfahan, che, tutti coperti di mattonelle azzurre, offrono un dato cromatico ineguagliabile.

La strada da Delhi ad Agra, nella pianura più vasta, è molto frequentata da veicoli ma soprattutto da bestiame. Qui si poteva toccare con mano la differenza fra i bovi e le vacche meridionali e quelli del Settentrione, che pur essi avevano la gobba ma erano più alti e sviluppati. Aggiogati allo stesso modo di quelli del Sud, molto distanti l’uno dall’altro, per essere bestie vaccine sono abbastanza vivaci e se ne vedevano perfino al trotto. Le loro corna, come già avevo osservato nel Deccan, sono diverse che nei nostri bovi, voltate in avanti, o quasi diritte come quelle degli stambecchi, o moderatamente ricurve quasi come nella lira classica. Il colore del mantello varia dal grigio topo al giallino, e perfino talvolta, si vedono pezzati di bianco e nero come le mucche olandesi, forse in seguito a un incrocio, ma sempre con la gobba. I carri avevano qui le ruote più alte, ma con i passoni come i nostri antichi carri toscani. Solo molto di rado si incontrano trattori, che devono essere scarsi in tutta l’India. Viceversa, si videro molti cammelli, alcuni anche aggiogati a dei carri, che posta l’altezza dell’animale, devono stare come in discesa.

Praticamente lo spettacolo non variò più per le tre ore che dura il viaggio, se non quando si fece una sosta a un luogo di ristoro vicino a un laghetto, tenuto in linci e squinci come uno chalet svizzero, dove inoltre c’era lo svago di un elefante e di un incantatore di serpenti. L’elefante stava lì per uso del pubblico, e, dietro una modica somma, si prestava a far fare delle brevi escursioni, che, ai due dei nostri che la vollero fare, risultarono scomodissime. Era un elefante di soli venticinque anni, con due dentini che gli spuntavano appena, quasi fossero denti di latte. Mentre l’inserviente si apprestava a appoggiare la scala a pioli per far salire gli avventurosi, l’elefante si scaricò amabilmente di una tale quantità di liquido da allagare la strada, a cui seguì la parte solida non meno abbondante e con un barrito di soddisfazione. Svelto il ragazzo che stava appollaiato sul collo, scese dal pachiderma, andò a prendere un secchio e velocemente, con le mani nude, raccolse lo sterco. Le mani poi se le pulì nell’erba del prato, con la più grande naturalezza. Rimesse così le cose a posto si presentò davanti all’elefante che docile porse la proboscide, e in un lampo, attaccandosi agli orecchi, risalì in sella. Così poté essere fatta la breve passeggiata, a due alla volta.

La campagna era verde di grano, e in certi punti già pendeva al giallo, era quieta, come disabitata. In complesso abbastanza monotona, appetto a quella indimenticabile di Kanchipuram. Di tanto in tanto, ma a notevole distanza l’uno dall’altro e senza ragioni di direzione, si vedeva, non lontano dai bordi della strada, un lingham, o tale lo interpretai, piuttosto alto e conico, ma senza particolari segni di rispetto.

Il sole era splendido se anche non intenso come a Madras, e la giornata serena. Finalmente si arriva a un monumento torreggiante con quattro minareti agli angoli come torrette, che si prendeva quasi per il Taj Mahal se non fosse stato che era bianco e rosso, e tutto a disegno. È il Sikandra, il mausoleo dell’imperatore Akbar, finito prima del Taj Mahal e con un meraviglioso immenso giardino. Il mausoleo, in forme islamiche, di grande semplicità distributiva, a parte la decorazione bianca e rossa che lo ricopre, è imponente di mole, ma piuttosto pesante e quasi un po’ paesano: se il giardino non fosse una meraviglia, tenuto, immenso com’è, come un’unica aiuola, tanto è curato. Il prato verde a perdita d’occhio, non avrei creduto che potesse crescere così compatto e di colore tanto acceso in un paese quasi tropicale. Si vedeva che gli inglesi non erano passati invano, in India. Di qua e di là dal canale centrale, con tutti gli spruzzi d’acqua (che però non funzionavano), si stendono questi prati meravigliosi con alberi meravigliosi, e soprattutto una doppia fila di manghi d’un verde scintillante date le copiose abluzioni che ricevono per mantenere il prato. Dove, certo la manodopera costa poco in India, si vedevano varie persone intente a curare l’erba e perfino a spazzarla con una lunga granatina. Le scimmie saltellavano e si arrampicavano sugli alberi, e più lontano pare ci fossero anche i cervi, ma io non li vidi. Certo che nessun giardino occidentale è tenuto meglio di questo, nessun prato è più fitto di questo feltro verde, su cui la luce scintilla come se vi depositasse la rugiada.

All’ingresso del Sikandra sta un albero magnifico, che, se intesi bene, gli indiani chiamano mil, con le foglie piuttosto piccole, ma con una ombra densa. A quell’ombra la frotta dei bambini: e uno vendeva mandarini e certi frutti che pare si chiamino goa, verdi e rotondi come pere moscatelle, ma non sono pere: hanno un sapore delicato e una carne avoriata che sembra il gelsomino.

Riprendemmo la strada e l’ingresso ad Agra avviene come in un grande paese polveroso, senza particolare bellezza, se si eccettua, quando ci si mette sulla strada del Taj Mahal, il magnifico Forte rosso, un po’ più piccolo di quello di Delhi, ma assai ben conservato: fin troppo direi.È tutto di questa pietra rossastra, quasi come il marmo di Verona, e ha cinte su cinte, merli su merli: potrebbe stare benissimo in una miniatura francese del Rinascimento.

Finalmente si arrivava al Taj Mahal, e cominciò a vedersi troneggiare al di sopra degli alberi, con la sua veste immacolata, i quattro minareti, come grandi candelabri ai lati. A questo monumento arcifamoso è legato perfino il nome di un veneziano, Geronimo Veroneo, e quello di un allievo del grande Sinan, l’architetto turco a cui si devono le più belle moschee di Costantinopoli.

Questa congiunzione non è certo casuale: l’invenzione di quel bianco assoluto non è cosa da poco; in realtà, a parte le inflessioni del codice islamico, c’è un ritmo, un senso delle proporzioni più occidentale che orientale. Se il Palladio avesse dovuto costruire un palazzo in stile persiano, come disegnò una facciata per la gotica San Petronio, avrebbe potuto pensarlo così, una specie di Rotonda, e di questo marmo candido, senza ornamenti appariscenti, perché si vedono solo da vicino, quando il monumento, che sta per definizione all’orizzonte, si materializza via via che ci si approssima. Una delle grandi trovate è la scantonatura del cubo primigenio, che propone il volume nel suo tridimensionale e non come una facciata. Del resto tutta l’inquadratura del monumento è sentita alla distanza, compone con i prati e il grande canale d’acqua che lo propone riflesso e raddoppiato. È una macchina perfetta che si arroga il suo spazio largo e largamente delimitato da tre padiglioni, che ricostituiscono il senso della cinta, dello spazio interno, basilare per l’architettura islamica, come si può vedere nella quasi contemporanea piazza per il gioco del polo di Isfahan.

La straordinaria convenienza del colore del cielo a quel marmo bianchissimo – seppure da vicino è pieno di venature – deriva anche dal colore attenuato del cielo, un cielo tutto unito, più celeste che azzurro, atmosferico e non di pietra dura. Quel celeste si salda ai profili del Taj Mahal, come le paste vitree che riempiono gli alveoli degli smalti: l’impianto prospettico così italiano, con quei quattro minareti come candelabri, chiude lo spazio grandissimo come una scatola di cristallo. Ed è quasi in un cristallo che si vedono le aiuole di fiori tutti uniti, le petunie bianche e gialle, i cipressi in forma che fiancheggiano il grande canale, a cui, purtroppo mancavano gli zampilli (e anche il grande bacino era vuoto).

No, il monumento non sembrava di averlo visto altre volte, aboliva le sue riproduzioni, ed era come sorgesse ignudo dalle acque, nessun monumento più aurorale di quello. Aurorale e nelle grandi arcate vuote con un’ombra leggera come un velo, e non un’ombra azzurra, come si potrebbe pensare, ma teneramente grigia e cilestrina, che quasi diluiva, nella luce diafana, le forme rigide della geometria. Era come l’ombra che cala dal sopracciglio su un occhio azzurro, che lo rende più profondo, lo circonda d’un vago alone, senza intorbidarne il timbro.

Guardavano, quelle arcate, senza vedere nessuno, nude come alla nascita, limpide come la luna.

 

LA SCULTURA INDIANA

Nel Museo Nazionale di Delhi si può seguire in modo sufficientemente informativo lo sviluppo della scultura in india, ma il comune denominatore India si limita alla sola componente territoriale. Se per la letteratura le cose staranno in modo un po’ diverso, questo si deve alla base linguistica ariana, che risulta nulla per la storia dell’arte. Arrivati gli Ariani in India, fanno tabula rasa: niente sopravvive della primitiva civiltà dell’Indo. Per circa millesettecento anni le arti figurative tacciono; tacciono, cioè, finché non avviene prima la conquista persiana e poi quella di Alessandro. Certamente non ritengo affatto sicuro che le cose stiano proprio così, ma per i relitti archeologici stanno così. D’altronde, le grandi tribù ariane che si diffusero in Europa dànno un eguale responso: gli Ariani dovunque arrivarono, distrussero quello che trovarono. La civiltà minoica da chi altro fu distrutta se non dalla prima ondata dei Dori? E in Scandinavia, in Germania, in Gallia che cosa crearono prima dell’avvento romano? I Romani stessi, se non si fossero agganciati alla civiltà etrusca, che cosa avrebbero detto di nuovo? Per quanto possa parere assurdo che la civiltà vedica non abbia prodotto nulla nelle arti figurative, dal punto di vista delle testimonianze storiche non c’è altra risposta. Così di una civiltà figurativa indiana si può unicamente cominciare a parlare da dopo la comparsa di Budda, praticamente dal tempo di Ashoka, ossia dal III secolo a.C.

Ma al III secolo quante cose erano accadute, dopo i primi invasori ariani: probabilmente anche come razza dovevano essersi riassorbiti completamente nella popolazione originaria, che forse era dravidica, abbandonando occhi celesti e capelli biondi, se li avessero avuti, e trasmettendo solo quella nobile regolarità di lineamenti, che, sotto la pelle nera, ancora si trova perfino nel Sud dell’India.

Tutto ciò, detto in fretta e in breve, ma per asserire che cercare una costante indù nell’arte indiana sarebbe pura follia. D’altronde, dal III secolo in poi esiste una continuità di manifestazioni buddiste, induiste, giainiste che permettono di constatare più che una continuità di intenti formali, che sarebbe espressione eccessiva e velleitaria, almeno una costante di atteggiamenti iconografici che trapassano dall’una all’altra delle grandi religioni e che infine salgono a un alto tenore anche figurativo.

Quella che si chiama la civiltà di Mohenjo-Daro e di Harappa è più che una civiltà autonoma una propaggine mesopotamica: i reperti, a parte i vasi, gli utensili, sono in genere piccolissimi e, diciamo la verità, proprio perché affidati alla realizzazione minuta e diretta, di un lavoro fatto con le dita su una piccola pasta di creta, estemporanei. Tutti questi oggettini, rinoceronti, ippopotami, mezze figure, di pochi centimetri, non dànno la possibilità di una conclusione diversa.

Certo, di questa civiltà dell’Indo, i reperti urbanistici sono notevoli e inattesi, piani già quasi ippodamei, a angoli retti, fogne, terme, ma dove appena si trova qualche manufatto più accurato, o vaso, o piccola figura, la civiltà che riflettono è quella sumerica, e in una fase piuttosto rudimentale.

Si può dire che la prima manifestazione notevole di arte indiana si possa trovare al I secolo a.C. nello stupa di Sanchi: e qui è notevole che, da una base mista, achemenide e greca, si stia già formando una direttiva indiana. Dalla base greca, il senso di un volume a tutto tondo, realizzato in proprio; dalla base achemenide, il gusto di grafismi lineari tipici nelle pieghe, quindi pieghe non realizzate tridimensionalmente. È chiaro che c’è una copresenza, senza fusione, di due visioni. È una copresenza che durerà fino al periodo più realizzato, quello Gupta, certo con una presa di coscienza figurativa più raffinata, in cui gli esiti saranno talora squisiti. Ma lo diverranno per l’incidenza di una nuova componente culturale, quella romana, da cui nasce l’arte di Gandara, e, in minor grado, quella di Mathura. Avverrà cioè, e siamo già verso il II-III secolo d.C. che la plastica romana caratterizzata soprattutto dalla realizzazione degli ampi panneggi fittamente piegolinati, offrirà il destro a una redazione quasi folclorica, che ricorda, con le sue crudezze di taglio quella palmirena. Anche senza postulare dei contatti, tramite i parti, il modo di appropriarsi, ruralizzandola, della ormai maturissima arte imperiale romana, designa la tipica semplificazione dell’arte rustica che deriva da quella aulica. Intendiamoci, alcune cose dell’arte di Gandara, soprattutto (ad esempio il Budda seduto e a colori che era all’esposizione Budda e il suo tempio a Delhi) nel riprendere la linearità delle pieghe romane, dimostrano, pur nell’irrigidamento, una non minore intelligenza formale che le sculture più classiche di Chartres. Ma la direzione di Gandara, proprio perché derivava dal raffreddamento di una esperienza a caldo come la plastica romana o greco-romana, rimase statica in se stessa, anche se fomentò la formazione di quella che diventerà la plastica indiana. In realtà alcuni dei motivi che diverranno un ornamento prezioso della plastica Gupta, erano stati enucleati e formulati, dalla scuola sia di Gandara che di Mathura: ad esempio, nelle figure stanti di Budda o di Bodhisattva, le pieghe della tunica trasparente trattate come sottili festoni per tutto il corpo, come onde leggere, come fili che si investono da un aspo. C’è un Budda del V secolo al Museo di Calcutta che è tutto così rivestito di questi larghi sottilissimi festoni, né più né meno di uno, che viene attribuito alla scuola di Mathura, che si trovava alla esposizione di Budda e il suo tempio al Museo di Delhi. Comunque è chiaro che al V secolo le fusioni sono avvenute e conta poco la provenienza da un luogo o da un altro. Quel che colpisce di più in questo tipo di statua, che non è affatto eccezionale, anche se dovesse derivare da un prototipo, è che la copresenza di volumi realizzati direttamente, come è per tutto il corpo della statua, e di questi sottili grafismi allusivi, non dà luogo a una sperequazione. Si accettano quelle pieghe filiformi come assolutamente consentanee alla formulazione plastica dell’insieme.

Studiando allora più a fondo le caratteristiche della statuaria Gupta, se ne enucleano due che sono sintomatiche: la prima è che la plastica del corpo nudo è una plastica inguainata. È come se quelle membra lisce e grassocce fossero implicate in una sottile guaina quasi una calza di seta, sottile ma avvertibile e che cangia sostanzialmente la proposizione del volume: che è dato sì, tridimensionalmente, ma come attraverso un tramite, una velatura, una impercettibile distanza. Questa distanza unifica le membra in una trasparenza perlacea, le stempera come in una luce interiore: vicine e lontane, queste statue, hanno una loro levitazione su cui non incide la possanza dei rilievi, che, dietro quel velo, restano potenti come Achille in vesti femminili. Ora, da questo rilievo che è indubitabile, appare la ragione per cui la plastica indiana, ma soprattutto Gupta non si risolve senza residui accanto a quella achemenide e a quella greca. Lo sfumato prassitelico è altra cosa, e altra cosa anche la meravigliosa indeterminatezza di Desiderio da Settignano e di Francesco di Giorgio: elementi atmosferici che lì vengono captati e risolti in una spazialità di alone investita alla scultura, non si possono rilevare nella plastica indiana. Qui c’è distanza, ma non atmosfera: c’è un velo, c’è una trasparenza, ma soprattutto una definizione spaziale che non viene dall’esterno alla figura, è intrinseca alla figura. La guaina della scultura Gupta è tale che questi corpi nudi non sono mai nudi, non meno di quando ricevono il tracciato dei delicati festoni di cui si diceva: sempre quella guaina leggera s’interpone e permette una delineazione dei particolari del viso, labbra, occhi, narici, come sottolineati dal fatto che devono affiorare come con un guizzo di luce da sotto la veletta. Il taglio delle labbra diviene allora sottilissimo, le palpebre a giorno, le narici bene individuate: nel volto diafano e distante quei tratti precisi sono come fosforescenti; vene affioranti di luce.

E qui si coglie l’altra caratteristica, legata a questo principio della guaina: i trapassi plastici sono luminosi, non chiaroscurali. Come la linearità delle pieghe, delle labbra o delle palpebre si risolve in una delineazione luminosa, che rientra nella luminosità diffusa della guaina, così si spiega che modi apparentemente contrastanti riescano poi a coordinarsi in un’unica figuratività.

Un’altra riprova si ha in quelle figure stanti di Budda o di Bodhisattva, ripetute fino al tardo Medioevo, la cui tunica sottile viene “data” solo all’orlo inferiore, in cui attraverso le gambe: fino al ginocchio la figura sembrava nuda, poi a un tratto le gambe affiorano come quando un corpo è mezzo coperto di sabbia o sta nell’acqua bassa.

È chiaramente lo sfruttamento del successo: il corpo sentito come entro una guaina che esce da questa guaina nel momento stesso che viene, la guaina, sintomaticamente realizzata come una stoffa leggera. In una plastica che non avesse il principio basilare che si è enucleato, un effetto simile risulterebbe fastidiosissimo: qui no, perché la guaina è dovunque e solo viene accusata direttamente per informare circa la tunica: è come il verbo che dà il tempo all’enunciato ma perché quel tempo è in tutto l’enunciato.

Un principio che è stato seguito con minore continuità ma che giustifica talune figurazioni famose, principalmente una, ripetutissima, di Shiva che danza in un cerchio di fuoco, è quello per cui si sostituisce l’asse di rotazione, quindi in profondità, all’asse di simmetria. In realtà il principio di simmetria come composizione equilibrata sul piano, nell’infinita serie di bassorilievi, vale quasi dovunque: ma compare il motivo della danza, del corpo piegato in tre parti, e allora la distribuzione a raggera delle membra, non solo rispetto al piano, suggerisce la posa inconsueta, a cui tanto più si addicono le numerose braccia di Shiva: le membra si svolgono in varie direzioni lungo l’asse di rotazione. Questo asse di rotazione fa sì che la figura viene intuita non già in un cerchio – il cerchio di fuoco – ma come in un globo: ed ecco interporsi di nuovo, il gusto della trasparenza invisibile come per la guaina.

Una simile maturazione autonoma di elementi di culture diverse fa sorgere l’interrogativo circa gli autori. È mai possibile pensare che tutto sia avvenuto collegialmente, o, come avviene in natura per le mutazioni, attraverso una progressione misteriosamente coordinata? Se ad esempio la scultura di Paravati può mettere sulla strada di come dal rilievo achemenide, schiacciato e luminoso, abbia potuto indirizzarsi, la plastica indiana, verso la sottile intuizione della spazialità come guaina, resta sempre, che, uno scarto simile dalla norma, richiedeva il talento di un artista e non soltanto la consumata tecnica dell’artigiano. Ma tutta l’arte indiana si svolge senza nomi; in una collegialità, che, se non impedisce le scuole e le distinzioni di qualità, resta tuttavia sostanzialmente omofona. Se questa era anche la caratteristica dell’arte egiziana, dell’arcaica greca, di quella etrusca, simili analogie non esimono dallo stupore e quasi dall’incredulità. Pure, dopo la prima sorpresa, ci si accorge che le caratteristiche della plastica indiana rimangono sempre quelle che denotano i grandi periodi arcaici anonimi, grande uniformità di flessione, accuratezza artigiana, ma non il salto improvviso, lo scarto deciso, l’invenzione di qualità. Gli artisti indiani proseguivano con indifferenza a scolpire immense pareti di roccia, senza errori, per così dire, ma senza slanci. Poi naturalmente questa ottima scuola comincia a accusare l’usura ma non uno sviluppo. E non è che in certe figure bronzee, del periodo Chola, dove, insieme alla accuratissima elaborazione della cera perduta, rivive uno sprazzo di quell’intuizione ineffabile della guaina come luminosità diffusa, che rende di colpo preziose e impareggiabili queste figurette, anche se nei volti già irrigiditi si perda la notazione preziosa e sognante dei tratti a puntualizzare l’ineffabile distanza.

 

DELHI E LA CUCINA INDIANA

Quattro cose hanno lasciato gli inglesi all’India: l’inglese, in primo luogo, come unica lingua di base dove ce ne sono ventitre; la guida a sinistra, questa sovrana scomodità fra le cose scomode; i prati, in un clima tropicale, la cosa, allora, meno attesa; infine i bagni senza bidet. Per il resto non c’è che l’impianto delle città, che, senza rispecchiare affatto le vecchie città inglesi, ha una vastità così razionale e grandiosa che contrasta con gli avanzi di aggregati indigeni, disordinati e tumultuosi. Ma di tutte le città indiane, quella più inglese è Delhi. Qui sembra d’essere in una piana allagata, non si vedono i confini, è Hyde Park moltiplicato per dieci; la piazza principale, rotonda, con un diametro di tre chilometri, e gli edifici in stile palladiano, che c’entrano, con l’India, quanto il cavolo a merenda, stanno aggrappati ai lati per paura di affogare. Ci disse un tassista che la città è lunga quaranta miglia: una più una meno, è certamente sterminata. Ma da vedere, se si eccettua il Museo, il Forte rosso e un superstite vecchio quartiere, non c’è molto di più. Tuttavia Delhi ha anch’essa il suo fascino; intanto, venendo dal Sud, un clima più europeo, con forte escursione termica la notte, il che, naturalmente riposa; poi la luce, che se non è quella indimenticabile di Bombay, è tuttavia la luce aperta di una città di pianura, dal cielo limpido. L’aria è leggera, i bellissimi alberi tropicali, come i baniani, sono ancor qui.

La visita alla città vecchia, dopo la mattina al Museo (ma ci tornammo due volte, per vedere le miniature moghul), fu il secondo asfissante pensiero della nostra compagnia ansiosa di acquisti, visto che nel campo dei tessuti se ne possono fare di magnifici a un prezzo, pure per noi superinflazionati, irrisorio. Questo quartiere vecchio non è però tanto vecchio: le strade sono larghe e le case sui bordi, sebbene non nel moderno stile anonimo e ubiquitario e neppure nello stile palladiano, conservano appena qualche accenno orientale: ad esempio, subito all’ingresso, certi alti portici su colonnine sottilissime di ghisa. Non è, insomma, il suk di Damasco dove sembra di camminare nella città del beato Agostino Novello di Simone Martini, con quegli sporti, quei beccatelli di legno, le gelosie. Qualche gelosia si vede ancora qua a Delhi, ma figuriamoci se ce ne doveva essere, era una capitale musulmana alla fine. Però è anche vero che nelle miniature moghul non si vedono donne velate, e dunque delle varianti possono essercene state. Quello che è rimasto è la sistemazione delle botteghe senza vetrina, nei bazar, con il venditore scalzo accucciato in terra, e l’abitudine è tale che, anche chi entra salendo dall’alto gradino, si leva automaticamente le scarpe, come ci fosse un prezioso tappeto da salvaguardare. Quel che si trova in queste botteghe non è folcloristico, non ho visto in nessuna città, neppure un mezaro, e anche poco artigianale, se si eccettuano i braccialetti e le collane in avorio per cui, nella nostra compagnia, c’era chi farneticava. E non era che fossero tanto belli, anzi io notavo che stavano male a viso, ma l’idea di pagare poco una cosa pregiata come l’avorio, aveva fatto formicolare a distanza cugini e cuginette, cognate e future cognate, sorelle da riempire al ritorno in Italia di regali. E il ritorno, ahimè, era ormai vicino.

Così si fece tardi nel bazar, che pure chiude presto, e allora, siccome era troppo presto per andare a mangiare, si pensò di recarsi al Forte rosso, dove si teneva una spettacolo di Suoni e luci, quelle famigerate rappresentazioni che l’Unesco con infallibile cattivo gusto ha pensato di suggerire ai popoli sottosviluppati, primo il nostro naturalmente, e ce ne volle a sbarbare quell’orrore dal Foro romano. Poi avevo dovuto vedere Suoni e luci alle Piramidi d’Egitto: non mi ero potuto rifiutare, e quel che ricordo, di quel tedio presuntuoso, era un eterno scalpitare di cavalli e gridi vari, stentorei, come negli spettacoli classici. Avvisai dunque gli amici che era sicuramente uno spettacolo misero e che non metteva conto di vedere. Ma tant’è: fino a una certa ora non si sapeva che fare e si andò al Forte rosso. Questo anche di notte è d’un’imponenza straordinaria, con le sue belle merlature, le torri, il grande accesso, tutto con quei bellissimi archi persiani. Dentro il Forte rosso ci sono, nel primo tratto, delle botteghe: neanche da dirsi, di oggetti d’avorio, sempre gli stessi braccialetti e le stesse collane come se, invece di essere fatti a mano, li sfornasse una macchina. Sosta immediata, convenevoli, offerta di Coca-Cola con la cannuccia. E acquisti, naturalmente: se non fosse stato, con rabbia, che il giorno dopo tornando al Forte rosso per vederlo di giorno, ed è davvero ameno, con i padiglioni, i portici e i larghi prati verdissimi, in un’altra bottega, appena due passi più in su, gli stessi oggetti, che parevano così a buon prezzo, costavano la metà.

Lo spettacolo di Suoni e luci, a parte l’inevitabile scalpitare di cavalli, era la solita misera cosa che si aspettava, una luce qua poi una là: una che si accende, una che si spegne. Con grande disappunto dell’inserviente, ce ne andammo dopo una mezz’ora. E si era persino pagato l’ingresso.

Con tutto ciò s’era fatta l’ora giusta per andare a mangiare, e a Delhi c’eravamo ripromessi di mangiare veramente indiano; anch’io che temevo molto per il mio acido urico. Ma ormai mancavano due giorni al rimpatrio.

Ci avevano indicato un ristorante davvero indiano, non per turisti, nella vecchia Delhi: si chiama Moti-Mahal e lo consiglio di cuore, perché è un’esperienza autentica. Intanto non ci sono tovaglie, ma tavoli di marmo: né c’è altro liquido dell’acqua, del tè e della Coca-Cola. Veramente, tutto il mondo è paese, il giorno dopo, quando riconosciuti e festeggiati, vi ritornammo, avendo conquistato fiducia, potemmo bere birra in tazze da tè che istantaneamente la rendevano calda. Il menù era assolutamente indiano: al principio si trovano sulla tavola dei ravanelli e delle cipolline rosa differenti dalle nostre, da mangiarsi crude per profumarsi la bocca. Poi si passa di colpo ai vari polli o al montone. Noi scegliemmo tre specie di pollo; fritto, al burro e arrostito. Quando arrivarono, il primo imbarazzo è di come mangiarli, perché, fino a quello arrostito, è più facile, già quello fritto è meno agevole, ma quello al burro, con un sontuoso sugo, non rallegra. È anche vero che ci portarono quei pani speciali che si mangiano in India: l’uno, sembra una nostra pizza, cotta come la pizza sbollata e bruciacchiata, un altro è quello tipico turco, come l’avevo mangiato in Anatolia, sembra cioè un panno tanto è sottile e molle, e si ripiega come un panno. Era bianco come carta igienica e opaco: si vide come altri avventori, indiani autentici, se ne servivano per impugnare come con una presa di carta l’osso del pollo da mangiare, il che semplificava l’operazione, aboliva il contatto delle dita col sugo, e offriva il pane-tessuto intinto nel sugo senza dover fare la scarpetta. Il terzo pane era come un grande brigidino, croccante, ma talmente mescolato allo zenzero che lasciava la bocca aperta.

Naturalmente fu tutto un assaggiarsi a vicenda i tre polli, e si trovò che erano tutti e tre magnifici, a parte il fuoco che indistintamente mettevano in bocca. Anche il pollo arrosto era come infarinato nella polvere di zenzero o che altro fosse: certo, squisito di sapore e a parte il fuoco, che soprattutto si sentiva dopo averlo mangiato, anche delicato. Acquistava la fragranza di un’erba odorosa e la crosticina era croccante e la carne senza resistenza. Quello al burro sembrava il più vicino all’Occidente, ma per modi di dire, perché in realtà non assomigliava a nulla di preciso. C’erano anche qui dei gusti nascosti che si rivelavano a poco a poco, che si assaporavano come sulla punta della lingua. Infine il pollo fritto si rivelò il più straordinario, perché nella pastella croccante in cui era stato avvolto c’era un sapore indefinibile e raffinatissimo, che invano chiedemmo cosa fosse. Ossia si seppe ma era come non saperlo: la parola non trovava corrispondenza in inglese. Alla fine ti portano delle bacinelle con acqua caldissima e uno spicchio di limone, e questo è davvero molto civile: tutti i grassi se ne vanno. Però restava quella bocca infiammata e allora, siccome praticamente i dolci non esistono in India e neppure c’era da avere quella specie di ciliege candite in acqua di rose che si mangiano a Bombay, né la splendida frutta, mandarini e banane, che ci vendevano i famosi ragazzini, ci si provò in un gelato tutto di latte, quindi per me al limite del disgusto, ma che ebbe il pregio di calmare istantaneamente lo strascico bruciante di quelle straordinarie pietanze.

Che il giorno dopo impetrai per andare a vedere come le cuocevano in cucina. E veramente meritava, perché quella cucina indiana non assomigliava a nessuna altra. Ci sono naturalmente anche i fornelli; per i sughi e per il fritto, ma l’organo principale è il fuoco di carbone contenuto in orci dalla grande imboccatura, affondati nel pavimento. Accanto stanno i cuochi, accucciati come è loro costume dappertutto. Dunque quello che cuoceva il pane, tagliava alla svelta, da un rocchio di pasta a lato, una pallina di pasta, la spianava in fretta a forma di racchetta e poi, bagnata da una parte, l’appiccicava sulla parete interna dell’orcio dove si cuoceva: quindi una cosa di mezzo fra la piadina e la pizza. L’altra, che curava l’arrosto, aveva degli spiedi con due o tre polli infilzati che stanno verticali nell’orcio e che lui rigirava di tanto in tanto, quindi una cosa di mezzo fra l’arrosto girato e la graticola. I risultati li ho già detti, splendidi. Ma quell’insieme era indimenticabile: pareva un quadro di Teniers o di Brouwer che non è stato dipinto, ma che la luce, l’insieme congestionato della piccola stanza, i riflessi rossastri del fuoco degli orci nel viso di quei poveri cuochi, evocavano come se veramente l’avessimo visto in qualche galleria olandese, col titolo, la Cucina degli gnomi o giù di lì.

In fondo fra le attribuzioni possibili c’era anche il Magnasco: ma io lo scartai; perché quei piccoli indiani nerastri non avevano nulla di diabolico o di fratesco: erano gnomi, abitavano sotto terra, e quella cucina in realtà era una caverna: la fiaba stava a un passo.