I.
COME UN’AUTOBIOGRAFIA

 

SIENA MI FE’
(1982)

Sono nato in una strada bella nobile e buia, in un vecchio palazzo con le campanelle di ferro battuto che, di notte, i passanti amavano di fare tintinnare contro il muro. E il suono argentino si spandeva, nel silenzio, naturalmente aiutando l’insonnia. Questo, con i rintocchi delle ore battute sul Campanone, è il ricordo più lontano: e mi stringeva il cuore. Per Siena ho avuto sempre un insieme di amore e di intolleranza. Quel che desideravo di più fin da bambino, era d’uscirne. Già sembrava che avessi ritardato al massimo per nascere. Allora questo fatto avveniva non già in una clinica, ma nella camera matrimoniale, che era bella, quella dei miei, con tanto damasco rosso e dei mascheroni di stucco a mensola sotto le travi. Per quel rosso dissi scherzando, quando ebbi studiato, che ero porfirogenito: ma in realtà la mia nascita avvenne nel modo meno imperiale: non c’era nessuno in casa, se non la zia.

Era domenica delle Palme, e tutti stavano a spasso. La mamma non ebbe i dolori che all’ultimo momento, e allora non c’era, in casa, telefono: né la zia poteva uscire a telefonare. Dunque nacqui non solo senza professore, ma anche senza levatrice: un rotolo di ragazzo con i capelli lunghi e con un occhio più alto e uno più basso. Dopo sono migliorato, ma pare fossi assai brutto. Alla mamma andò via subito il latte e cominciò la ronda delle balie: appena arrivavano, lo perdevano. Finché arrivò dall’alta Maremma la Dinda, che aveva dovuto lasciare il suo paese, pare, perché tutta la gente chiacchierava sul bambino che le era nato, come non fosse del marito, un povero ciabattino, che si era preso anche le corna. Perché la Dinda era una donna fantasiosa, sdentata e allegra, che le era parso una manna di doversene andare dal paese per venire in città, e poi, a Siena! Pari è del Grossetano, ma la capitale di tutta la bassa Toscana resta Siena: una città non immacolata, del resto, dove il latte adulterino che mi propinò la Dinda non faceva certo scandalo.

E tanto me ne propinò, n’aveva come una mucca. Per più di un anno, allora, si allattavano i poppanti. La Dinda mi dava il latte e mi portava a spasso: quando ebbi una polmonite stette a letto pure lei, per farmi poppare. La mamma non se n’era mai scordata di questa abnegazione. Dopo, finché visse, veniva ogni anno a trovarmi, per fare la sua vacanza in città. C’era una camera, sopra la cucina, che si chiamava appunto la camera della balia, con un bel lettone col saccone di foglie di granturco. La Dinda veniva in diligenza da Pari, e regolarmente per la salita di Petriolo, il vetturino faceva scendere i viaggiatori; lei non arrivava mai a mani vuote, aveva sempre un paniere chiuso da un panno bianco cucito ai bordi: dentro c’erano spumini e africani entro barchettine di carta rigata di quaderno, in fondo una bella bocca di dama, più alta da una parte, perché il forno a legna non dava il calore uniforme. La sua venuta era sempre accompagnata da grande allegria; una folata d’aria di paese entrava in casa nostra, con le novelle, sempre le stesse e con le stesse parole, gli indovinelli anche salaci, e certe confidenze inattese: la ceretta da scarpe che non era più buona e le aveva tinto la trina delle mutande! Ma per quanto così lunghe e abbondanti non le avevano ostacolato le sue distrazioni.

Quando ebbi sette o otto anni il babbo cominciò a portarmi con sé, se andava in campagna. Ne avevamo due, una in cui non si andava mai a stare, ed era quella fuori Porta Tufi. Il babbo ci aveva passato l’infanzia, e c’era molto affezionato. Ma la villa era piccola e ormai si era tanti che non ci si entrava. Queste passeggiate ai Tufi cominciavano che era già freddo; quando si faceva l’olio, e l’oliviera era dentro Siena, proprio sotto il Convitto Tolomei, dove poi andai a scuola. Mi piaceva molto quell’aria satura dell’oliviera, col caldo umido e l’odore sapido e aspro dell’olio: e all’oliviera si mangiava il pane unto, quello che ora per la rivalsa romanesca sul resto dell’Italia si chiama la bruschetta. Ed era una meraviglia la fetta di pane abbruscato, con un po’ d’aglio e il nostro buonissimo olio senese.

Poi c’era un lungo periodo invernale – e a Siena l’inverno dura metà dell’anno, una città piena di riscontri, dove il vento porta via. Finché a marzo, quando appena cominciava a mitigare la stagione, il babbo mi portava nell’altra campagna, a Vignano, per tramutare il vino. Si comprava l’agnello e, nella cucina gelata di Vignano, il babbo cucinava l’agnello. Sarebbero potute servire le contadine, ma il babbo preferiva far da solo. Per la strada, che a un certo momento, prendendo una scorciatoia, diveniva di campo, si trovavano già le mammole lungo il borro: e io coglievo le mammole che a furia di tenerle in pugno, arrivavano poi a sera tutte avvizzite.

Ma per me questa passeggiata che significava la primavera era l’avvenimento più bello dell’anno. Finalmente si sarebbe lasciato Siena, la sua ombra gelida. Invece mi piaceva tanto Siena, veduta da Vignano. Nessuna vista è più bella: la città è tutta distesa all’orizzonte con il gruppo della Torre del Mangia, del campanile e della cupola del Duomo al mezzo, e attorno tutte case antiche, di un bel rosso mattone e grigie: ai due estremi due monticelli, Montieri e il Monte Maggio. Veramente sembra dipinta. E sarà piaciuta anche a Stendhal, che tante volte dovette averla fatta, quella strada quasi segreta, che passava davanti a casa mia e arrivava poi alla villa di Giulia Berlinghieri, la sua amata, inutilmente amata. È certo che il posto lo colpì, perché alla fine della Chartreuse fa fare al conte Mosca per la Sanseverina, un palazzo a Vignano, sulle rive del Po!

Quando lessi questo nome, – ero già un giovinotto – feci un sobbalzo. “Palais de Vignano” lo chiama Stendhal; un “palais”, in campagna! Inaudito per i francesi che in campagna non conoscono che “château” e “manoir”. I palazzi stanno in città. Ma la mia villa, proprio sull’orlo della strada the lo portava dalla Giulia Berlinghieri, si chiama “il Palazzo”: certamente, non solo la vide, ma l’interessò: forse conobbe anche i bisavoli miei, che appunto stavano in villa; ed ecco che, a un tratto, alla fine del capolavoro, risorse il ricordo e fece nascere un palazzo di Vignano in riva al Po. Volevo sempre metterci una lapide a casa mia, da stendhaliano accanito. Poi l’ambasciatore francese, che conoscevo bene se ne andò (era amico di De Gaulle) e non ci pensai più.

Tutta la mia infanzia fino a che non andai a Firenze a studiare lettere, l’ho passata – sei mesi ogni anno – a Vignano: e per me Vignano è più che una culla, un pezzo d’intestino.

Invece per Siena sono stato sempre molto critico. E poi non potevo soffrire il Palio e le contrade. Povera Siena, sconta ancora, con questi amori attardati, la sua cocente sconfitta con Firenze. Perché a Siena, dopo l’ignobile conquista medicea, non era rimasto più nulla. E i fiorentini hanno continuato a saccheggiarla: Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti, strappati all’Opera del Duomo per due telucce di Luca Giordano. Per quanto ami la pittura napoletana, andiamo, non c’è paragone. Così i senesi privati di tutto, con una specie di caricatura d’indipendenza (erano state conservate le magistrature cittadine, che non contavano nulla), la città decadeva e si spopolava di secolo in secolo. Non le rimasero che le contrade, e questa competizione che non si può dire sportiva ma suscita tante passioni.

Anche il mio primo amico, Ranuccio Bianchi Bandinelli, non aveva nessun amore per il Palio e le contrade. Questo amico fu il grande evento della mia prima gioven tù: si era sempre insieme, anche se ci corressero sette anni tra me e lui e lui era archeologo, ma mi confessò che, se non fosse stato daltonico, si sarebbe occupato d’arte medioevale e moderna.

Dalla madre tedesca, che morì al suo nascere, Ranuccio aveva conservato una civiltà mitteleuropea che incantava tutti: questo gentiluomo senese che poi andava a salutare la regina Margherita di cui sua nonna era stata dama di corte. Allora, quando ci si accomiatava da un regnante, non si poteva voltargli la schiena; per cui, in un salotto ingombro di tavolinetti come usavano allora, e con tanti vasi di fiori sopra, ogni uscita di una visita rappresentava un’ecatombe di vasi. La regina Margherita gli disse di voltarle pure le spalle e di non rovesciarle altri fiori.

Quando Ranuccio si sposò e andò a prendere la moglie a Roma, fu un duro colpo per le ragazze senesi: il più bel partito, e poi un bel giovanotto, un gran nome. Vederselo soffiare da sotto il naso!

Un personaggio singolare fu poi Guido Chigi Saracini, erede di un patrimonio che allora pareva immenso e che, lasciato all’Accademia Chigiana, si è ora sbriciolato. Mecenate quasi sempre illuminato, la città gli deve molto. Sembrava uscito da un ritrattino di Saint-Simon e da una pittura di Whistler: ma non si sapeva bene a che secolo appartenesse. Certo, era senese fino al midollo delle ossa e non amava spostarsi dalla sua città, come un gatto da casa. Forse, in un’altra scala, fu così anche Federigo Tozzi, che non ho potuto conoscere, ma che idolatrava Siena e il parlare senese, al punto di scrivere doventare invece di diventare, perché così si era espressa la santa, ossia santa Caterina: un altro personaggio fuori scala che, come sant’Antonio in Portogallo, quasi non ha culto a Siena, ancorché, una volta almeno, fosse una città quasi bigotta.

Ma è difficile esser senesi, forse ancor più che essere italiani.

 

ARIA DI SIENA
(1975)

Come tutti sanno, Siena è in collina su tre poggi, per dirla alla senese, come Gerusalemme nei versi del Tasso. Io sono stato a Gerusalemme ma non me ne sono accorto dei tre colli: il Tasso non c’era stato e così si spiega. Questi tre poggi sono di modica altezza, ma poiché Siena è lontana dal mare, accuratamente separata dal mare da catene di monti e monticelli, tutti arrotondati dal tempo, se non fosse per le falcate delle cornate di Gerfalco, Siena è in mezzo a un continente, senza fiumi, senza laghi, se non laghi prosciugati, come Pian del Lago, o quei sedimenti del fondo del lago primordiale, le Crete, ed è fango secco. Da questo trovarsi in mezzo alla terra, fra onde solide, di terra, come i cavalloni del mare, Siena è così asciutta che d’inverno l’aria che si respira sembra, che incrini i polmoni. È un’aria pulita, quasi mai c’è la nebbia e solo la spazza il vento per pulirla ancora meglio, il vento che viene dal Casentino coperto di neve, e così potente e gelato sembra che ti spolpi e di non aver più niente addosso. Ma com’è limpido il cielo, come è vertiginoso, irraggiungibile, il cielo, quando passa un uccello, ci ha tanta aria sopra, che sembra un aereo altissimo, perché il cielo è altissimo: né il suo sereno è mai più che sereno. Niente di quei coloracci da turchinetto che si vedono in certi cieli celebrati di montagna. Qui il cielo è una cupola di cristallo e si vede dove attacca alla terra da una parte e dall’altra, perché i monti più alti sono lontani, e solo all’orizzonte troneggia l’Amiata, ma così pacifico da quel vulcano che era; chi lo direbbe se non fosse per la forma a triangolo scaleno, come una persona che sta a letto su un gomito e col ginocchio alzato? L’Amiata, e più lontano il Cetona, ma tutto più piccolo: così il cielo arriva a livello dei colli e la notte le costellazioni si vedono tutte, e la luna sorge tiepida e rosata prima di raffreddarsi in alto divenendo color limone. Ma il fatto di non aver fiumi, né laghi, né polle sotterranee fu una tragedia per la città.

Ora l’acqua c’è: viene dal Vivo, che è come il grande seno dell’Amiata, un seno gonfio, verdissimo di castagni. L’acqua è quasi piovana, non ha sali: scioglie il marmo come lo zucchero. Di qui la gente ha i denti guasti. È una fatalità quest’acqua priva di calcio. Quand’ero bambino, l’acqua del Vivo non c’era ancora, in città ognuno tirava avanti con il suo pozzo di acqua piovana. Aveva un odore, quell’acqua, che non lo scorderò più: era un odore di acqua tenuta nel cassetto, leggermente amaro, come sapesse di fumo. Si sentiva già lavandosi il viso: era inconfondibile. Allora si trovavano le persone di servizio, e quante brocche, quanti secchi al giorno: sembra che per la profondità – la cucina era al terzo piano – non si potesse mettere la pompa. Quasi ogni settimana una brocca cascava nel pozzo: allora bisognava aspettare che venisse dalla campagna un contadino, Pietro, che era l’unico che sapesse ripescarla con i rampi. Erano i raspi uno strano ordigno aggressivo, di ferro, pieno di uncini, quasi una bestia insomma. Pietro ripescava la brocca. Ma a tutti succedeva lo stesso, e nessuno ci faceva caso: da tanti secoli Siena andava avanti con i pozzi di acqua piovana. Al tempo delle sue glorie comunali aveva cercato disperatamente la Diana, una sorgente sotterranea che non fu mai trovata, per cui Dante le diede la disturna… “e perderagli più di speranza ch’a trovar la Diana”. Ora non c’è che una strada, Via della Diana, che commemora questa entità fluviale pervicacemente contumace. Si trova a San Marco, questo rione povero e pulito che scende con un clivo dolcissimo verso la campagna. Di qua e di là le case, pur modeste, hanno giardini, il traffico è ridotto. Sarebbe bello abitare a San Marco, le cui due strade scendono dalla Piazza del Carmine come due emissari asciutti. San Marco era rione da innamorati, da gente che non vuole essere disturbata: e c’erano anche molti conventi, ma dappertutto a Siena, città di conventi, di congregazioni, e di peccati. Ora è comunista, Siena, ma i senesi sono gli stessi, tenacemente contradaioli divisi in caste, divisi in chiesuole, per nulla mistici e assai poco religiosi. Ma ci sono ancora i conventi, i preti con la tonaca, le suore con le cornette. Poi quando viene la primavera, il vento cambia corpo, sembra di palpano: s’infila nelle strade grigie e bellissime d’un grigio lucidato come il peltro, o l’argento brunito, e scantona con una foga da fare traballare, prosegue fischiando come un giovanotto gradasso con la camicia aperta e il pelo che ne esce, perché è giovane quel vento. E si diverte ad arrotare le vecchie cantonate ferrigne, a turbinare nelle piazze vuote finché non sbuca di nuovo all’aperto, nella campagna appena verzicante che non lo desidera affatto e perde il beneficio della pioggia recente, rifà la crosta, i cretti. La sera cala fra queste mura altissime come si depositasse a strati di cenere: l’ultimo è il cielo a scomparire, e per quanto era chiaro di giorno è scuro di notte. Ovattata d’ombra e di campane. C’è anche il detto: Siena di tre cose è piena, di torri, di campane: la terza cosa ci vuol poco, ognuno lo sa. Benefica istituzione il meretricio, antico come l’uomo, espressione di fratellanza. Ma le campane sono più di tutto, più delle torri, più delle donnine allegre, come si chiamavano una volta. E ce n’erano di famose, o arrembate o ubertose nella mia infanzia. Le altre donne le guardavano con disprezzo e invidia. Come faranno, dicevano, a andarci? È vero che c’erano ancora i casini, ma quelle strane donne truccatissime, col viso bianco come Pierrot: “Non sono quella che sembro”, disse una di codeste in un rigurgito di onorabilità. Su e giù per Banchi di Sopra, povera figliuola, solo per rifare i tacchi quanto doveva spendere! Ma c’erano anche quelle che non lo erano davvero, prosperose come se reclamizzassero le pillole per il seno e tutti le desideravano, mature come erano, anche i giovani. La bella Pia, perché si formano le leggende, la bella Pia stava sulla porta del Cannon d’oro e tutti la salutavano, con quella circonferenza, ma il bel sorriso sempre aperto come una finestra con i vasi fioriti, e il petto di quel colore di perla che ha solo la pelle delle donne grasse. E le campane seguitavano a suonare: perfino alle nove di sera, e dalla Torre del Comune, mica da una chiesa. A me facevano impazzire, e l’orologio che batteva le ore con la replica. Era una delle ragioni per cui non mi piaceva di stare a Siena: quelle ore ribattute mi calzavano l’insonnia, era come una persona che ti corre dietro, credi di averla seminata, ti fermi, ti riposi, stai per addormentarti… e di nuovo le ore, e poi ci sarà la replica, dopo cinque minuti, e poi la mezza. Siamo da capo, vedremo l’alba.

 

UNA MISURA LIRICA
(1965)

Non so più scrivere su Siena. Questa città, in cui son nato, mi sta dolente nel cuore: dolente e splendente. Sono passati tanti anni da quando non ci vivo più, e tutti gli anni ci ritorno, ora più volte anche in un mese: ma non ci vivo. In città come Siena non si può vivere che nel ricordo, nella nostalgia o nella speranza. Perché è una città che fu una capitale, o meglio uno Stato-città, un punto d’incrocio del Nord che andava al Sud, e quando non fu più città-Stato e le correnti del Nord smisero di attraversarla, Siena rimase come dentro un’urna, in cui seguitarono a vivere i suoi abitanti, seguitarono a parlare, i suoi abitanti, il loro toscano arcaico e campagnolo, seguitarono, i suoi abitanti, ad amare la loro urna piena di ceneri. E anch’io amo quest’urna, e sebbene non abiti più a Siena, i miei affetti, quasi tutti morti, sono ancora là: e i miei sogni, quando sogno.

Ma forse si può cominciare a capire, da questo preambolo dolente, perché non si possa parlare di Siena senza parlare di quello che fu Siena, e, senza volerla qualificare una città morta, perché morta non è, anzi gioviale e rissosa, è sempre quel che fu Siena a dar conto della Siena d’oggi, e se vi è città che meno doveva subire il coltello dell’urbanista è Siena, e se qualcosa di buono resta ancora a Siena, è dove questo coltello non s’è conficcato, e Siena si porta le sue mutilazioni come una statua antica che sia decapitata o abbia perso un arto: sempre resta una statua, la statua della civiltà antica. Sempre resta, Siena, per quanto offesa dal nuovo Salicotto, dalla Piazza della Posta, dal falsificato Santuario cateriniano, solo per dire i casi più pretenziosi e strazianti; sempre resta Siena la città medioevale, la città unica, in questo senso, più di S. Gimignano, più di Viterbo, perché città e non paese, perché di una grandiosità che ha come inizio e termine l’uomo pubblico, misura l’uomo, ma l’uomo medioevale. Come allora, le mutilazioni recenti l’hanno mutilata ma non alterata, così già il Rinascimento ci entrò come da una porta troppo stretta, profilandosi in modo consentaneo alla struttura in cui si inseriva. E se anche era la volta di un grande umanista, come Pio II, qualcosa gli rimaneva del suo essere senese e medioevale, e volle la sua Cattedrale di Pienza con un misto di Gotico, come l’aveva visto in Svizzera, quel Gotico intrecciato, che il Rossellino dové trasferire alle sue strutture albertiane. Né Giuliano da Maiano, né il Rossellino riuscirono a far divenire Siena una estrapolazione della Firenze brunelleschiana: Siena non era il Rinascimento, non parlava il Rinascimento se non gli mutava cadenza. Anche Francesco di Giorgio è sublime architetto, ma la sua spazialità non è puramente prospettica, e le sue profilature nervose, su cui scorre la luce come l’acqua su una grondaia, non sono le profilature mentali del Brunelleschi, anche se sono le stesse: come la sua scultura non è quella di Desiderio da Settignano, e, da Donatello, trae come un reticolo di vene in cui l’immagine è presa e prigioniera, ma prigioniera della luce. E se si pensa a Stefano di Giovanni, al Sassetta cioè, che fu uno dei primi ad avvicinarsi a Masaccio, a captare le prime audacie dell’Uccello, codeste audacie, codesti ricordi masacceschi, vanno sgusciati dal vivo dell’opera, come si sgusciano i baccelli, al primo sguardo non compaiono mica; né dovevano comparire. Era il sale che andava cercando a Firenze Stefano di Giovanni, e il sale si deve sciogliere per dare sapore.

Questa civiltà, allora, coscientemente arcaica, rimeditata, in questo è spirituale, non già per i suoi mistici, i suoi veggenti, i riformatori e i santi. Un luogo comune è questo, del misticismo senese, ma io non so quel che significa, e nell’arte senese io non ce lo vedo. Quel che ci vedo, anche in Duccio, è compostezza solenne di sentimento, è riserbo, misura di lirismo, ma misura. E allora anche Simone non è più mistico del Petrarca.

Ma la struttura arcaica è quella che conta, anche per la Siena di oggi. Questa struttura non era arcaica nel Duecento, non lo era nel Trecento; ma lo diventò subito dopo, quasi dopo la perdita di quella superiorità politica per cui si contrappose a Firenze. La città rifluì in se stessa, si riabbeverò in se stessa, e come mantenne il toscano più arcaico della Toscana, si contenne nella sua urbanistica trecentesca, entro l’ultima cerchia di mura che ancora sussiste, ancora l’abbraccia. Ed è quasi un miracolo che, a onta di un Piano regolatore sbagliato, bene intenzionato, ma sbagliato, conservi ancora, fra i corridoi delle strade e le mura, zone verdi di campi e di orti, non giardini, ma veri campi con le viti e gli ulivi, e d’inverno, i flabelli del cavolo nero. Così dalle strade non si vede verde alcuno, sono severe, quasi conventuali; ancorché bellissime, di mattoni e di travertino, che si sono patinati come metalli. Ma dietro quelle case a picco sulla strada, con gli angoli e le cornici taglienti, le grondaie aguzze, le finestre danno sugli orti, e sopra alla cerchia delle mura, sui colli, fino al Chianti, alla Montagnola, alla Maremma. Purtroppo ora si vedono anche i quartieri nuovi, pretenziosi, civettuoli, che sono sorti a raggiera intorno alla città antica – e qui è l’errore urbanistico – senza sfondo, altro che con una circonvallazione modesta. Questa doveva almeno essere sviluppata, allargata, attrezzata: giusto, doveva impedire gli attraversamenti della Cassia, fra Roma e Firenze. È pur vero che ormai la Cassia sta per morire, chi ci passerà più da questa strada scomoda ma dal tracciato aereo, che sorvolava le Crete, si spericolava sul crinale di precipizi franosi, guardava il monte Amiata come da un belvedere, sotto la rocca di Radicofani. Ora l’autostrada del progresso, che è stata allontanata, ma non certo per riguardo al carattere medioevale di Siena, dalla città, con due raccordi farà evitare la Cassia, e sulla Cassia nascerà l’erba come in una trazzera siciliana.

Sarebbe bello arrivare a Siena su una strada felpata di verde, vedere spuntare la sublime torre fra i gambi delle erbe. Ma non sarà così, e la Cassia verrà allargata, ora proprio che non serve più a niente se non ad assaporare un tracciato immemoriale di strada, nel ricordo dei lontani romei.

Pure, anche dai raccordi con la moderna autostrada, si entrerà sempre in città dalle antiche porte, superbe, le più belle della tradizione gotica, con quel gran tabernacolo in alto, in cui dipinsero e Simone Martini e Stefano di Giovanni e il Sodoma, ora laceri avanzi o addirittura senza più traccia. E di là le strade cominciano senza palazzi, ma con una edilizia minore così garbata e accogliente; sono le strade delle contrade più tenaci, altro tenace aspetto della arcaicità di Siena. Tutti gliel’hanno imitato, e sono le misere mascherate di Arezzo, di Firenze, di Legnano, e così di Ferrara e di non so quanti altri luoghi, ma il Palio di Siena resta unico, vanto ma triste vanto d’una arcaicità al limite della decrepitezza. Pure spettacolo autentico, proprio perché espressione residua di una mentalità arcaizzante, che si è arrestata di botto, s’è riconosciuta troppo presto nel passato. Al punto che ad esempio il gothic revival comincia a Siena prima che con Horace Walpole: e molti dei palazzi che sembrano trecenteschi vennero in realtà già nel primissimo Settecento o rifatti e regolarizzati su antichi autentici palazzi (come quello Sansedoni, in Piazza del Campo) o ricostruiti ex-novo come il palazzo Saracini, nel cui portale d’ingresso l’arco acuto è sostenuto da mensolette rococò, o il palazzo Vescovile, le cui bifore hanno le colonne smontate dalle autentiche trifore del primitivo aggregato di palazzi che stava al posto di quello attuale Sansedoni. Se mai più eloquente dimostrazione di una coscienza naturalmente arcaizzante poteva darsi, di questo rifiorire dell’architettura gotica, rifiorimento spontaneo e non in dipendenza di una moda non ancora invalsa. Finché vien fatto di ricordare, in questa accezione arcaizzante, lo stesso scrittore, il più nuovo che Siena abbia avuto, Federigo Tozzi, ostinato a scrivere doventare invece che diventare, perché così scriveva la santa (cioè santa Caterina), che poi è certo non sapesse scrivere.

Tutto ciò, ed è rapsodico, approssimativo dirlo così, indirizza pure al volto autentico di Siena, per cui Siena non è una città museo ma incredibilmente, tenacemente spinge avanti nel tempo questo suo passato, o piuttosto la condanna che portò in sé un passato troppo orgoglioso e fertile che a un tratto si chiude con la lotta, soccombente, per la libertà. Si richiusero allora i senesi nelle loro ferite. Gli sprazzi nuovi che arrivarono, nelle scienze i fisiocritici, nell’arte i dolcissimi manieristi Vanni e Salimbeni, il sanguigno caravaggesco Manetti, furono un modo di riscoppiare con germogli giovani al pedano del vecchio tronco: ma il vecchio tronco non ebbe la forza di portarli avanti e di farsi sostituire da essi. Rimase il vecchio tronco, seccarono i germogli. La città si consegnava all’Ottocento come ricavata in un blocco di cristallo di rocca.

Per continuare a essere, non deve ora cambiare in quel che è sopravvissuta: per continuare a vivere, deve, e sembrerà un assurdo, ancora sopravviversi; solo così non scadrà a città museo come taluno paventa.

 

FESTA A SANT’AGNESE
(1935)

A Sant’Agnese a Vignano si festeggia la santa con una bella messa cantata e un pranzo anche più bello. Ritornano i villeggianti, che d’inverno stanno tutti a Siena, perché questo non è un luogo di villeggiatura elegante e non l’ha messo alla moda neanche il fatto, da poco noto del resto, che Stendhal ci venisse a fare all’amore, coi poliziotti alle costole. La bella Giulia stava proprio due passi sotto la Cura, e dalla villa si vedeva Siena, che non c’è città più nobile a scoprirsi di lontano, compatta e disegnata come in una stampa, e una campagna tutta variata e limpida, fino al Monte Amiata che risolve l’orizzonte con un fastigio di azzurro e, al tramonto, di rosa: il più bel monte della Toscana.

La festa si combina spesso con la neve: questa volta piove, ma il cielo è arioso lo stesso, senza punta nebbia, né dalla parte d’Arezzo, della Maremma, o di Firenze. Peccato che non si può giuocare a palline, e che, sempre a causa dell’acqua, noi c’è il tiro a segno, i brigidini, le mente, come gli altri anni: né sul sagrato si fermano le contadine che sono belle e civili da queste parti così vicine a Siena, ma non portano più quelle pamèle di paglia di Firenze; che ormai restano soltanto sulle cartoline, né il bustino, né il grembio di seta a fiori. Se le mettono le signorine, quelle cianfrusaglie ripescate in casa, in occasione di fiere di beneficenza; ma poi, si sa, non donano, e con il viso tinto non ci dicono: insomma son proprio cose che hanno fatto il loro tempo. Però i modi sono rimasti garbati lo stesso e il bel parlare, e quando ti incontrano, ti dicono: “Bonasera allei”. Anche a me, che mi hanno visto da ragazzo, ma mi pigliano per un forestiero. Allora le chiamo per nome, e loro mi sorridono ritrovando il mio: e sono quasi tutte sdentate quelle bocche, che quando avevo dieci anni mi sembravano belle e da restare sempre uguali, come questa bella campagna.

 

IL PALIO DA VIGNANO
(1973)

Non eravamo una famiglia molto accesa per il Palio. La mamma d’origine fiorentina, il babbo senese, ma nato nella Chiocciola, mentre noi abitavamo nell’Aquila. È l’Aquila una contrada signorile, dunque con poco entusiasmo: solo Silvio Griccioli se la prendeva calda. Ma non si vinceva mai. A me, ragazzo, sembrava una frustrazione. Magari si aveva il cavallo buono, ma alla fine o si vendeva il fantino o cascava il cavallo. Finché sono stato a Siena non avevo mai visto l’Aquila vincere. Poi andai via da Siena, prima a Bologna, poi a Roma. A Roma praticamente sono sempre rimasto, eccetto quell’anno o poco più che passai a Rodi, e poi la spola che facevo con Palermo, quando sono stato, per sette anni, professore a quell’università. Ora sono a Roma e da Roma non ci si muove più. Ma in realtà sono quasi sempre a Siena: appena posso, appena si apre uno spiraglio, un ponte, un santo vagante a fine settimana.

Vengo in campagna, a Vignano, da cui la veduta di Siena è a portata di mano, liscia, limpida, non osteggiata dalle case nuove che sono più in basso. Così è ancora quella della mia infanzia, e il suono delle campane è lo stesso e quello del Campanone. Quando rintocca per la corsa, con il rimbombo come soffocato, di basso profondo. Come andrà la corsa? Chi sarà caduto? E le voltate tremende del Casato e di San Martino? Io mi figuro nella mente la corsa che vedevo da bambino dalle finestre di Palazzo Sansedoni. Mi figuro la corsa al suono del Campanone che rintocca affaticato da tanti anni, e per tanti tanti tanti ancora.

 

POSTILLA DANTESCA
(1975)

La realtà è che esser nati a Siena è come esser nati nel ghetto. Forse fu Dante la radice di questa svalutazione massiccia. Vani, scialacquatori: che cosa non si era noi senesi? È anche vero che di Firenze ha detto pure peggio. Ma per il troppo amore e per il solo fatto personale. L’Atene d’Italia – se anche non si chiamava ancora così – per non essere da meno di Atene, che dette la cicuta a Socrate ed esiliò Temistocle e Milziade, lo tenne ramingo per tutta la vita. Però, se Dante parlò male di Firenze non era per quello. Perché non era la città che lui avrebbe voluto che fosse: il suo misfatto più grande consisteva nell’essere inferiore a se stessa. “Godi Fiorenza…”: ma intanto “in su la fonte” del suo battesimo voleva imposto il cappello, ossia la corona d’alloro. Intriso di lettere antiche come il Petrarca, non il Campidoglio bramava, l’Alighieri, ma quel battistero a immersione in cui era stato nominato Dante; e ancora risuona il mondo di quelle sillabe fatali.

Dunque l’odio di Dante per Firenze era ben altro che l’antipatia per Siena, la rivale di Firenze, e l’aveva pure vinta a Monteaperti, la sfacciata: tanto aveva osato. E tanto la posterità ha sposato le antipatie di fondo di Dante, che ancora gliela rimproverano, a Siena, quella vittoria: come fosse un paesino che si era misurato con una metropoli. Sicché, seppure Dante abbia parlato male di tutti i toscani, di Pisa, “vituperio delle genti”, di Pistoia, “degna tana”, quasi non v’è rimasta traccia, nel presente per Pisa e Pistoia. Anche se vige il detto, per Pisa, meglio un morto in casa che un pisano all’uscio, è una facezia, niente di più. Invece Siena è ancora sotto il peso dell’odio di Dante: e più n’hanno sofferto gli scrittori. Come se avessero parlato il turco invece del toscano più limpido e armonioso. Ne sa qualcosa Federigo Tozzi, questi che, in coda al Manzoni e al Verga, è il più grande romanziere italiano. Riconosco che De Roberto ha scritto, dopo I promessi sposi, il più straordinario romanzo, altro che il Nievo, ma non è scritto in italiano; e così Svevo, sarà internazionale, come dicono, sarà piaciuto a Joyce, come Verga piacque a Lawrence, ma proprio al modo che il Boiardo è quasi intollerabile e il Berni lo rifece. Male, ma lo rifece. Nessuno ha mai pensato di rifare il divino Ariosto; che proprio toscano non era.

 

SUONI E PROFUMI
(1986)

Quando vivevo a Siena, cioè nel vecchio palazzo di Via di Città, c’erano dei suoni che mi disturbavano, fino all’insofferenza e che ancora mi ritornano vivi nel ricordo.

C’erano in basso, è un palazzo medioevale, delle campanelle di ferro, che, allora, servivano a legare i cavalli, l’unico mezzo di locomozione che esistesse. In molti palazzi, queste campanelle sono state fissate al muro, in modo che non si possano più muovere: nella nostra casa erano invece libere, e i nottambuli, – ce n’erano più che non si creda – non riuscivano a rifiutarsi di farle suonare contro il muro di travertino.

Era un suono breve e argentino come quello di un pestello in un mortaio di bronzo: il silenzio notturno lo riceveva con una festività estranea. Nell’attesa del sonno quello squillo argentino era una sveglia a cui si aggiungeva il suono delle ore dall’orologio della Torre del Mangia, assai vicina in linea d’aria: e poiché quell’orologio suona, dopo cinque minuti, la replica, cominciava subito l’attesa, sufficiente a togliere il sonno. Quando le ore erano la mezzanotte, quel rintocco diveniva ossessivo, non solo, ma nel salotto accanto alla camera mia c’era un orologio che suonava i quarti e questi quarti che non coincidevano mai con le ore dell’orologio di Piazza, divenivano una specie di impuntura di suoni che riusciva a tenermi sveglio per buona parte della notte. Né fu facile ottenere di non caricare la suoneria dell’orologio di casa, perché, alle mie zie, che lo sentivano di giorno, faceva compagnia.

C’erano poi le campane, né solo quelle delle Chiese e del Duomo, anche questo vicino in linea d’aria, perché a Siena suonano anche le campane della Torre a una certa ora della notte.

Questi suoni notturni stanno alla base della mia insofferenza a vivere in città e a preferire la campagna, dove si sentono solo la domenica, e la mattina, le campane della Parrocchia, e una chiaramente fessa.

Le campane di Siena sono del resto ben note anche ai senesi che hanno composto la canzoncina: “Siena, di tre cose è piena, di torri, di campane, e di p…” la terza cosa si capisce bene che cos’è, ed è quanto ha sempre fatto l’utile e il piacere di una città piena di studenti.

Ora, a distanza di tanti anni, il ricordo di questi suoni, né tristi né lieti, mi giunge come un anniversario: ma devo dire che non ho nessun desiderio di risentirli. La tenerezza dell’infanzia non li ha abbelliti, il senso di fastidio è rimasto come un sapore indelebile. Invece ci sono sapori e odori che ho seguitato a ricercare e amare per tutta la vita: la nipitella, ad esempio benché, stando a Roma non era certo difficile procurarsela, dove è più che indigena, fa parte del folclore e poi è immortalata in Nepi, borgo ameno e agreste. Il dragoncello che una moda volubile ha diffuso in tutta Italia, ma in realtà non si trova da nessun ortolano ed è pure difficile reperirlo a Siena; la borrana che accomuna Siena e Genova, dove si chiama anche più latinamente, borragine; la salvestrella, necessaria nell’insalata contadina, e con un profumo che è tutto un prato; la cicerbita, che piaceva a San Bernardino anche se gli era indigesta; questo era il piccolo tesoro di profumi e sapori legato indissolubilmente a Siena. Ora che ci sono tornato, aspetto con ansia la primavera, che me li riporti freschi e garbati come l’accento senese.

 

RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI
(1975)

Parlare di Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo illustre, uomo vivo fino agli ultimi istanti, ancora intento, sul letto di morte, ai suoi studi, è per me una forma di autobiografia; ed è questo, non già l’antico affetto, che mi lega la penna e mi intorpidisce il sangue.

Eravamo nati nella stessa città, quella Siena che, fino alle soglie della seconda guerra mondiale, era rimasta chiusa in se stessa, nelle sue gelose tradizioni, fino a dare un senso quasi di soffocazione a un giovane che non si accontentasse di quel treno di vita modesta e comoda, miope e ritardata. Ranuccio apparteneva alla classe più eletta, una famiglia che si radicava nell’alto Medioevo, altro che di agricoltori, come certa demagogia ha voluto farlo apparire. Un papa stava fra i suoi antenati, quell’Alessandro III che è illustrato da Spinello Aretino nella sala di Balìa del Palazzo Comunale di Siena. E da Alessandro III gli proveniva anche l’altro cognome di Paparoni, che egli per lo più non portava, ma che si ricollegava direttamente, come è chiaro nell’etimologia, al papato. Suo padre, un gentiluomo toscano di antico stampo, era stato sindaco di Siena per moltissimi anni, e anche presidente del Circolo dei nobili. Una delle prime manifestazioni ribelli di Ranuccio fu di non volersi iscrivere a quel Circolo: già da allora, appena ventenne, amava mescolarsi agli artisti, sparuta compagnia a quel tempo a Siena, ma non oscura, se ci fu Federigo Tozzi.

Gli amici di Ranuccio erano tre scultori, Corsini e Papi e un altro Corsini: nessuno dello strato a cui apparteneva. Ma era un uomo vivo, era un uomo giovane, e amava la compagnia delle donne. Per questo lo incontrai – io ero di alcuni anni più ragazzo di lui – a dei tè danzanti, anche se quasi non ballava, in casa del provveditore del Monte dei Paschi, che, a suo modo, non era insensibile né alle arti né alle lettere. La differenza d’età fra di noi, a quegli albori giovanili, poteva rappresentare un ostacolo per far nascere un’amicizia: io ero un sedicenne, lui già laureato. Ma non impedì, invece, che nascesse un rapporto stretto fra di noi.

Per me era l’unico interlocutore, che potessi trovare a Siena, ma era anche un interlocutore ideale. Il fascino della sua conversazione, piana e di buon senso, colta senza essere pedante, era un fascino che, tutti che l’hanno conosciuto, hanno provato, in qualsiasi ambiente: dal circolo di famiglia all’Accademia dei Lincei. Così la mia prima gioventù si svolse alla sua ombra. Abitava in una splendida villa alle porte di Siena, il Pavone, che ora, ironia della sorte, è un seminario. Ed era stato da lui che, per la prima volta, avevo sentito parlare di Croce. L’avvicinamento a Croce fu una tappa molto importante nel suo sviluppo intellettuale. Come archeologo, nella formazione storicoscientifica della specialità, allora non ne avrebbe avuto bisogno. Bastava essere accurati, fare degli inventari precisi, non squilibrarsi in voli. Così era stato anche il suo primo lavoro, la monografia su Sovana, di cui fui un poco partecipe, perché l’accompagnai, giovanissimo, in quel luogo selvaggio e stupendo. In una settimana, per me memorabile: tutto il giorno a misurare tombe rupestri sparse in un paesaggio che sta fra l’Arcadia e Poussin, fra uno straordinario numero di rospi morti, e grossi lenti serpenti che si chiamavano pocciavacche, avendo il costume di attorcigliarsi intorno alle vacche e succhiarne amorevolmente il latte. Qualche fonte fresca di tanto in tanto, e soprattutto una, il Pischero, e rovine splendide della città medioevale. Si stava nell’unica casa disponibile, da un vecchio notabile che vi abitava con la famiglia: un vecchio torvo, in una situazione assai dubbia con la nuora. Ma il vecchio sentiva oscuramente il fascino della cultura, anche se quella cultura a lui veniva quale clandestino: e ci disse come, col piede, riusciva a individuare le tombe. In quei giorni di vita maremmana, insieme dalla mattina alla sera, Ranuccio mi raccontava la sua giovane vita, di sua nonna, tedesca, che era dama di compagnia della regina Margherita. Per questo ogni tanto doveva andare a far visita alla Regina Madre, in quel suo salone ingombrato di poltrone e tavolinetti, dove bisognava, andandosene, procedere à reculons, per non voltare il tergo alla sovrana. “Guarda” gli disse una volta “vai pure diritto, perché codesto vaso è già la terza volta che me l’hanno rovesciato.”

La grazia con cui raccontava questi episodi era incomparabile. Ma non c’era il minimo compiacimento né il minimo disprezzo. La vita era sempre degna di considerazione. Qui compariva il suo lato umanistico, che doveva diventare il filone fondamentale della sua esistenza.

L’incontro con la critica di Benedetto Croce, già fortemente sospetta all’insorgere del fascismo, aveva dato una sterzata decisiva e alla sua formazione di intellettuale e al suo carattere. Da quell’incontro doveva nascere il suo libro che è ancora il più importante, per lui e per la cultura italiana, quella Storicità dell’arte classica, che rappresentò il primo ingresso dell’idealismo nell’archeologia, la rottura delle acque di una disciplina rigidamente e anche miopemente storica.

La sua strada era senz’altro l’università: vi arrivò per tappe, di cui la prima fu a Groningen in Olanda. La sua perfetta conoscenza del tedesco gli permetteva di far lezioni in quella lingua, allora conosciuta da tutta la gente colta in Olanda. Poi venne la prima cattedra in Italia, a Cagliari, poi a Firenze. A questo pulito venne la guerra, con quel che seguì.

Dopo l’8 settembre Ranuccio stava nella sua villa di Geggiano, dove aveva fatto un raduno di intellettuali ed ebrei perseguitati. Anch’io ero venuto via da Roma, rifugiandomi in campagna, a pochi chilometri da quella di Ranuccio. Allora si ricominciò a vedersi spessissimo. Andavo a piedi, passando per scorciatoie fra gli scopi, in quello straordinario e fatale autunno. E arrivato là, era un po’ come trovare il Limbo dantesco, con tante persone illustri che facevano la vita d’ozio forzato quasi settecentesca, ma sempre sotto la spada di Damocle di una razzia tedesca. Lassù a Geggiano c’era anche Umberto Saba, che restava sempre, anche in quella condizione di continuo sospetto e pericolo, sereno e limpidamente poeta. Era davvero una atmosfera incredibile, perché naturalmente tutti lo sapevano, di quel raduno clandestino; e solo il prestigio di Ranuccio riuscì a evitare una terribile retata.

Poi si sa cosa avvenne.

Allo scadere della guerra, Ranuccio aveva maturato i suoi propositi politici. Quello che era accaduto assomigliava a una maturazione accelerata. Il giovane conte che non aveva voluto iscriversi al Circolo dei nobili diveniva comunista. Il piacere di sorprendere fu sempre uno dei lati del carattere di Ranuccio, sorprendere fino allo scandalo; ma le sue convinzioni erano sincere. Il suo umanesimo, sotto forma di un illuminismo moderno, l’aveva portato dall’idealismo di Croce al marxismo.

Ma in realtà non fu mai un politicante, e, anche quando assunse, per dovere di studioso non certo per amore burocratico, la carica di direttore generale delle Antichità e Belle Arti, fu un funzionario irreprensibile, non di parte. Era solo dalla parte del patrimonio artistico italiano: e alcuni suoi atti, di esemplare severità amministrativa, come l’allontanamento di due sopraintendenti impelagati nel commercio, rimangono, ahimè, unici nella storia.

Ma presto doveva stufarsi dell’ambiente soffocante del ministero. E se ne tornò all’università, ricominciando da capo, a Cagliari: esempio anche questo di probità e di fedeltà a se stesso.

Da allora, per forza di cose e di idee, ci si vide meno. Ma c’era stata un’intensa collaborazione poco prima, al tempo degli inizi della “Critica d’arte”, che aveva visto congiunti Longhi e Bianchi Bandinelli, in un trio che si rivelò impossibile con Ragghianti. La “Critica d’arte” è stata un momento cruciale per la storia dell’arte antica e moderna. Mi onoro di essere stato tanto spesso su quelle pagine. Ma appunto fu un breve sogno. Dopo, Ranuccio, doveva fondare “Società”, più vicina ormai al corso delle sue idee.

Il resto è storia recente. La sua attività si è accresciuta, invece di flettere. È morto con la penna in mano. Come Proust, come quel profondo e storico e critico che era. Possa la sua città onorario in modo non transitorio: ne è stato un figlio degnissimo di duratura memoria.

 

GUTTUSO A VIGNANO
(1986)

Renato Guttuso era venuto a Vignano, ospite dei miei genitori, verso la fine della primavera del 1938, quando ancora la campagna era verde e anche il panorama delle crete senesi che si gode dal giardino del palazzo era teneramente verde, né il grano aveva cominciato a ingiallire. Piacque a Guttuso, che lo dipinse in una delle quattro tavolette in cui fissò gli aspetti che più lo avevano interessato in quel breve soggiorno. Un altro soggetto fu quello estremamente toscano dei pagliai quasi fatti a fette e geometrizzati, che furono cari ai macchiaioli, e poi due vitelli nella stalla, che ricompariranno nella Fuga dall’Etna, che doveva dipingere un anno dopo nello studio romano di Piazza Melozzo da Forlì, dove anche dipinse il quadretto con le donne alla finestra che qui si espone. Invece ancora a Vignano ritrasse il tavolino centrale della sala della villa, che ha ancora conservato l’ammobigliamento campagnolo della metà del Settecento, quando la villa era stata comprata dai miei avi e arredata col gusto di quel secolo. Ancora in Piazza Melozzo da Forlì, Guttuso dipinse la Donna col gallo, con i colori vivaci e rutilanti che scorrevano sulla sua tavolozza come succhi di frutta appena spremuti.

Abitare a Vignano era fare veramente vita di campa gna: non c’erano svaghi, se non passeggiare o in giardino o lungo le colline che da ogni lato hanno delle vedute interessanti, ora un vecchio castello, ora un viale di cipressi, ora un bosco di querce o di castagni: ma non fiumi né laghi. Il senese è una delle campagne più secche d’Italia; ciò che giova al vino che è il Chianti e dunque un vino titolato: a Guttuso piaceva, e anche il mangiare toscano a cui teneva tanto il mio babbo, e certe vecchie ricette di casa. La sera si mangiava fuori e questa era una delle modeste distrazioni di un tempo in cui non c’era neppure la televisione. Guttuso ancora non si era sposato e quindi non era venuta quella cara donna che è Mimise, col suo spirito caustico e la memoria scintillante.

Negli anni seguenti, che furono quelli della guerra, i miei rimasero in campagna, ma le cose erano divenute più difficili. Guttuso ritornò a colazione solo molto più tardi, dopo che la villa aveva subito due occupazioni, quella tedesca e quella alleata, e c’erano ancora le ferite da sanare, come i cancelli abbattuti dai tedeschi e le devastazioni interne.

 

MONTEPULCIANO
s.d. (1986)

A Montepulciano non si arriva e non si passa per caso: è una mèta. Sul suo cocuzzolo con una splendida strada in salita fiancheggiata da palazzi cinquecenteschi, è certamente uno dei luoghi deputati della bellezza e della gentilezza, col suo bel parlare senese senza cadenze provinciali, con la sua bell’aria quasi di montagna, il suo vino nobile squisito che concilia il sonno e l’amore.

Mezza senese e mezza fiorentina, ma in realtà più fiorentina che senese, ebbe a disputarsi anche con Arezzo, riassume la Toscana dalle origini etrusche – anche se non la fondò Porsenna –, terra di poeti e di santi: pur se santi scomodi, come San Roberto Bellarmino, quasi autore della Controriforma, mentre il Poliziano fu il sorriso del Rinascimento, la gentilezza lieve della poesia bucolica, e tutta la pittura fiorentina del Quattrocento aleggia dei suoi versi leggeri e profumati come petali di rosa.

Potrebbe essere una piccola città, come è, ma una piccola città con le fattezze di una grande: i suoi palazzi sono degni di Roma e la sua Chiesa di San Biagio è edificata un po’ come doveva essere San Pietro, con le sue pure membra bramantesche. In realtà Montepulciano è la città di Antonio da Sangallo il Vecchio, il fratello di Giuliano, un architetto di fortezze, fuori di Montepulciano, un architetto di ritmi quadrati, solari e forti, che celebrano l’aurea misura di Bramante e l’ormai lontana armonia musicale del Brunelleschi. Ma Antonio, dei Sangallo, fu il meno fiorentino. L’accento bramantesco risuona nelle sue fabbriche come un’eco sonora: né solo a San Biagio, ma anche a Civita Castellana, dove la corte d’onore con le possenti arcate parla il più puro latino del Rinascimento.

Anche altri architetti illustri lavorarono a Montepulciano, il Peruzzi, il Vignola e, prima ancora, Michelozzo in una parvenza mezzo gotica e mezzo rinascimentale, ma gustosissima. In quanto al Peruzzi, non si riesce a ricuperarlo, anche se vi sono disegni che dovettero corrispondere a un palazzo. Per il Vignola poi, nella sua aurea regola offre la grammatica del tardo Cinquecento. Ma, ripeto, chi ha dato il suo aspetto severo e davvero augusto a Montepulciano è il vecchio Antonio da Sangallo. Nessun altro architetto, se non il Rossellino a Pienza, ha informato di sé una città. E che queste due città siano così vicine, non è un caso né un miracolo, è la storia come felice destino. Pio II era senese e tuttavia scelse un architetto fiorentino: diciamo per fortuna, perché grandi architetti senesi nel primo Quattrocento non ce n’erano: Francesco di Giorgio venne dopo. Al tempo di Antonio da Sangallo c’era il Peruzzi, una cima cioè, ma Montepulciano ormai si sentiva fiorentina e sostituiva la lupa senese con il Marzocco fiorentino, che c’è ancora, anche se rifatto da uno scultore senese, il Sarrocchi.

Con tutto ciò l’impronta senese a Montepulciano rimane con opere bellissime, tra cui una Madonna duccesca che gli Uffizi tentarono di annettersi, ma non ce la fecero. Eppoi il parlare, che è senese, e qualche bella architettura del Trecento e i pici, quei deliziosi spaghetti fatti a mano, che però sono più poliziani che senesi o, per lo meno, del Monte Amiata, che li distribuisce anche in Umbria. C’è poi il bruscello, ma quello non è né senese né fiorentino, è toscano, non si può localizzare altrimenti. Però il tessuto del territorio è senese: Val d’Orcia, Val di Paglia sono senesi e le belle chiese disseminate nella campagna hanno tutte un quadro senese: e taluna un capolavoro assoluto, come Monticchiello, dove il più bel Bambin Gesù di Pietro Lorenzetti scrolla la criniera di riccioli ed è immagine sublime, a dir poco. A Monticchiello c’è anche un teatro povero, ma recente, opera di un appassionato che è riuscito a infondere un amore del teatro nato dal bruscello, e che continua da diversi anni. In realtà tutto è povero, la terra, scarsa d’acqua, con quei miseri torrenti come l’Orcia e il Paglia: ma quel che ne proviene è squisito, è squisito il vino, il cacio pecorino: e una volta c’erano anche delle specie animali strane, proprio di qui, i tallurini, che io non ho mai visti e che non so con precisione cosa fossero, ma c’erano e ne andavano a caccia, qui dove la caccia è una piaga e ha spopolato il cielo e la terra, né solo di tallurini. Comunque Montepulciano è un luogo dove perfino le urne etrusche hanno allignato e invece di schierarsi monotonamente lungo le scansie di un museo, sono state inserite nelle facciate dei palazzi, dove fanno una figura bellissima, mentre singolarmente bellissime non sono; certo non sono quelle in pietra fetida di Chiusi, così gentilmente arcaiche, né quelle addirittura drammatiche di Volterra: sono modeste urne, che Antonio da Sangallo o il Vignola non sdegnarono di inserire nelle cortine dei severi palazzi lungo la via principale della città, che, in salita, sembra fatta apposta per interessare il passeggero a questi rilievi ad altezza d’uomo.

Ora che le comunicazioni sono buone e le strade asfaltate, Montepulciano è senza dubbio il centro di una costellazione di facile accesso e ricca di cose bellissime da vedere: basterebbero Pienza – e tutti sanno cos’è – San Quirico d’Orcia, con le sculture di Giovanni Pisano, e Chiusi, con il museo etrusco e le tombe e Chianciano, con le acque famose e il grazioso paese antico, con un museino quanto mai garbato. E ancora, s’è detto, Monticchiello, e Trequanda e San Giovanni d’Asso, dove c’è sempre qualcosa da vedere e soprattutto un’aria da respirare, che ti riporta a tempi che non possedevano né aerei né televisione ma la vita trascorreva come le acque che scendono per la china, e certo possono fare sfracelli, ma anche scorrere dolcemente, con le prode erbose e invitarti a sedere e a mirare come nell’Idillio leopardiano.

Certo, la gente ormai è cambiata, ha bisogno del vociare della radio e del calcio, come occupazione senza occupazione: ma in fondo, sono ancora cose oneste, se purtroppo non ci fosse la droga e questa non è onesta. Pure io non voglio fare solo il laudator temporis acti: è già doloroso di invecchiare, figurarsi poi invecchiare fra persone e cose vecchie. Devo dire invece che Montepulciano è uno dei luoghi tipici e rari che non rimandano solo al passato, riesce a porre questo passato nel presente, lo fa sentire a livello attuale, proprio perché non si condensa in un museo: è un museo, che, appunto, si visita passeggiando e dove le opere d’arte sono come stazioni ma non di una via dolorosa, anzi di una via gloriosa. Piccola città, si offre dall’alto con le vedute più amene e inattese, i laghi ad esempio, il Trasimeno così ceruleo e dolcemente assonnato, o il suo laghetto di Montepulciano o quello di Chiusi, con tanti pesci che non sono affatto disprezzabili: e poi i boschi e le vigne, insomma quella vita cordiale che è antica e attuale, e ti tiene per mano, ti fa sentire l’ora come un incontro felice e squisitamente tuo, non meno della lettura d’un libro.

Montepulciano è così: offerta, e non puoi rifiutarla al tuo istante, e devi dirgli per forza: fermati sei bello. E senza dannarti l’anima.

 

VINO DI UDINE
(1957)

Il mio ospite non si capacitava che, potendo dormire nel castello di Miramare, volessi per forza andare a finire a Udine. Ma a parte il fatto che l’interno di Miramare è un incubo asburgico, io avevo una nostalgia segreta, quasi inconfessabile proprio perché ingenua e come infantile di rivedere Udine, di ritrovare la trattoria dove andavo a mangiare allora, se ci fosse stata sempre: ed era l’unico momento di rifiato della giornata. Non poteva capire queste cose, il mio ospite, perché non c’era, giustappunto, da capire nulla, e la qualità di Udine, la qualità del Friuli restava dentro di me, covava dentro di me, come in quelle bottiglie antiche, che non si riesce più a stappare.

C’ero stato vent’anni prima a Udine, e lì per lì mi era parso un luogo così remoto da assomigliare, il più discretamente possibile, a un esilio. L’ufficio che dovevo reggere era ingrato, la giornata passava tutta in quell’ufficio, dietro una scrivania novecento, e, alla destra, un acquarello immenso del Sala, con due enormi cavalloni belgi; era l’ammirazione di tutti, ed era il mio affanno, di non riuscire a far capire che non avevo né colpa né merito, di quell’orrore: semplicemente ce l’avevo trovato. Mi guardavano increduli, o ammirati della mia modestia, nel rifiutare una benemerenza simile. Alle otto, uscivo dall’ufficio come tritato dal di dentro, e, nei primi tempi, non m’era mancato anche lo sconforto del ristorante dell’albergo dove si mangiava alla terza persona, in modo anonimo voglio dire. Finché non scopersi quella trattoria modesta, eccentrica, ma col magnifico focolare friulano, posto in mezzo alla stanza, circolare e con la cappa fatta a imbuto: sotto la cappa, il ciavedàl che è una specie di capiffuoco, ma per tanti usi, da reggere lo spiedo dell’arrosto, fino a metterci a stiepidire il bicchiere di vino rosso, in certi anelli di ferro come quelli che si vedono alle finestre, per i vasi da fiori. Al momento giusto, avevo scoperto quella trattoria, quando, dopo gli ultimi giorni caldissimi dell’estate, era presto seguito un autunno fresco, come s’addice a una città che, se anche in pianura, resta pedemontana. La montagna si sente a piè fermo, a Udine, si sente senza vederla, e n’è simbolo vivo l’improvvisa escrescenza, a mezzo la città, su cui sta in bilico il castello. Una gobba prepotente, o piuttosto il dorso di un’enorme chioccia accovata, e la città intorno, vagamente come fanno i pulcini con la chioccia.

Quel fresco precoce di un autunno montanino avrebbe dovuto intristirmi, con la previsione di un celere inverno certamente nevoso (e lo fu), anzi ghiacciato (e lo fu): e invece mi introdusse, come per mano, nel Friuli, quasi senza che me ne accorgessi, e me l’ha fatto amare come un luogo della mia infanzia. Credo che il segreto fosse proprio nel fatto che il mio sentimento cominciò senza entusiasmi, nei ritagli stanchi della giornata, nelle soste obbligate di un ufficio sgradevole. Inoltre era scontato in partenza che io mi sarei sentito, lassù, come divelto dal mio terreno naturale; il passo più difficile era fatto. Avvenne allora come talvolta si produce nei matrimoni combinati, che, non essendo nessuno dei coniugi impegnato nell’amore, non hanno neppure un amore, da distruggere. Il mio era un matrimonio combinato, ma invece che dal letto cominciò dalla tavola. Il sentimento – se così vi piace chiamarlo – si sviluppò talmente al tepore del focolare friulano, per una lenta incubazione gastronomica, che finii per amare pure la polenta, da cui poi mi disavvezzai con altrettanto impegno non appena me ne venni via da Udine, ma che là, indubbiamente, amai come la cosa più vicina alla terra, all’appetito, al freddo di fuori, e al tepore di dentro. E sulla polenta non già i vini rossi, ma quelli bianchi, trasparenti come vini del Reno, profumati come piante di bosco. Non mi capacitavo che vini così squisiti restassero pressoché ignoti (e ancora lo sono).

Il Picolit, il Pinot grigio, il Tocai frizzante di Rosazzo, quello del Vescovo principe, appunto. Lo trovavo a Santa Maria La Longa, quando mi recavo da Udine a Trieste, per qualche concerto. Ci si fermava: era una trattoria modesta, ma quel vino, bevuto accanto al fuoco, crepitava anch’esso, si sfoltiva sotto al palato in una pioggia di scintille, come un fuoco artificiale sotto la volta nera della notte. Rimanevo sempre col desiderio di beverne di più, ma con la paura che facesse un brutto scherzo all’amico che guidava.

Avrei riassaggiato quel vino? Ah, se il conoscente d’ora, al mio discreto rimpianto di Santa Maria La Longa, avesse pensato di fermarsi! Non si fermò, e, se non me lo dicevano, non riconoscevo neppure il posto. Ebbi una fitta al cuore, non posso negano: da vent’anni desideravo tornare a Santa Maria La Longa, a bere il Tocai del Vescovo principe di Udine.

La campagna era splendida: sotto la pioggia leggera le spighe acerbe “ingranavano” come si dice a Siena, ferme come se succhiassero direttamente dal cielo invece che dalle radici. Le viti erano verdi, senza ancora il rame che le macula d’azzurro, come avessero le efelidi: erano verdi, come i viticci protesi come mani di bambini, quando salutano ed è la prima cosa che imparano. Ritrovavo quella pienezza di vegetazione che solo le terre settentrionali sanno offrire, ma qui, in Friuli, con una dolcezza che nessun’altra regione conosce. I pioppi avevano il fogliame fitto e stretto come i pennacchi dei carabinieri a festa, e anche i cipressi erano scuri, compatti, nella guaina come ombrelli: una Toscana del Nord. E risentii quel che tante volte avevo provato, scordandomene ogni volta, quanto sia diverso il Sud del Nord dal Nord del Sud. Sembra la stessa cosa e sono diversissimi. Nord del Sud è ad esempio, rispetto alla Puglia arroventata, il Gargàno, carico di foreste, ma foreste meridionali, calde come stufe attraversate di luci dorate come da un perenne tramonto. E, invece, Sud del Nord è il Friuli dove pure può soffrirsi un caldo feroce, ma dove restano a fior di terra rivi d’acqua chiara, depurata dai sassi, levigata dalle discese alpestri: guizza anche in piano, come una lucertola fra l’erba. E il verde delle piante è quello degli spinaci, e i fiori sono come dal fioraio, hanno sempre delle goccioline d’acqua, lacrime piuttosto, e infatti un po’ meno vivide della rugiada. Allora si capisce che le culture sono tutte volte al sole come una meridiana, e i campi sembrano rotare secondo le stagioni come le costellazioni in cielo. La malinconia di questa terra, che è terra portata al piano dai fiumi, discesa dalle montagne e che, ancora al livello del mare, conserva tuttavia il segreto ricordo, la qualità adusta dei monti. Ma una malinconia che scende senza suscitare rimpianti, una malinconia che è come quando ci si smemora, lì lì per addormentarsi. Tutto questo io sapevo, sentivo, e volevo sapere e risentire; di nuovo. Il resto lo sapevo egualmente, la città, le opere d’arte, il Tiepolo, Vitale da Bologna; ma non me ne importava nulla. Dovevo trovare la porta stretta, anzi la cruna, che mi introducesse bendato, dove non potevo giungere con gli occhi del presente.

Fu il primo bicchiere di vino: dove c’è come una venatura di freddo, che sempre rimane, né s’amalgama. Questa venatura stacca il vino del Friuli da qualsiasi altro vino: ne fa ancor più che una cosa della natura, un’essenza da catecumeni, l’attesa stessa di un piacere promesso, e la pazienza d’attenderlo. Una vena di freddo, un’incrinatura di cielo.

 

UMBRIA VERA
(VARIAZIONI)
(1986)

Queste pagine che l’affetto di mio figlio adottivo Vittorio ha voluto riunire in realtà erano già riunite per il fatto di essere state pensate e scritte con unico cuore. Il mio amore per l’Umbria cominciò tantissimi anni or sono, quando feci un piccolo e povero viaggio in treno e in autobus per vedere Montefalco, Bevagna e altri piccoli e squisiti luoghi di questo straordinario paese come trapunto di perle. Avevo con me, per il viaggio, un libro che allora puzzava di zolfo, L’Immoraliste di Gide, e si sposò benissimo a quella campagna che è sorella gemella della Toscana e dove appena l’arsura è minore che in Toscana. A questa terra doveva ancor più legarmi l’amicizia con due grandi artisti, così diversi fra loro, Leoncillo e Burri; c’è poi un altro artista umbro ma antico, Angelo da Orvieto, il più grande architetto gotico italiano dopo Arnolfo e il Maitani. Questi nomi sono come tatuati dentro di me, non impallidiscono e non scolorano. Ma c’è anche il Perugino, che io ritengo un sommo, e che amo sempre e dovunque, per cui la pittura fu aria e danza, eterno oscillare d’un ago fatale fra la bellezza che inseguiva e una religiosità che non possedeva ma a cui certamente aspirava come a un bene perduto.

L’Umbria è arsa ma ha anche il lago più vasto dell’Italia centrale, e questo lago è come un grande velo di seta celeste stesa su un prato, il verde mormora sotto quell’azzurro tenue e casto come un cielo del Perugino, ed è quasi un’acqua muta, anche se conosce le sue tempeste: con quei due isolotti orlati di piante verdi come perennemente sfiorate dall’acqua in cui si riflettono come in uno specchio opaco.

Se il Trasimeno è il grande occhio dell’Umbria, Orvieto, dall’altra parte è una fortezza che chiude la valle bellissima, dove scorrono il Tevere e il Paglia, questo torrente di sassi e fango, ma che porta l’acqua più pura, quella del Monte Amiata. Ma l’Umbria non vede il Monte Amiata, anche se il suo dialetto abbia parole in comune con l’amiatino; e la poesia di Jacopone ne riflette qualche rustico modo.

Da Orvieto ci sono due passi a Todi e tutte e due sono in pericolo per la fragilità della rupe su cui furono costruite. Ma forse chi sorveglia Todi è la Madonna con i due Angeli di Masolino, così celeste e cerulea, un modo di sedersi e riposare prima del grande ciclo di Roma. In Umbria sperano tanto che il Panicale di Masolino sia quello del Trasimeno, mentre sicuramente è quello del Valdarno. Ma è quasi ingiusto, perché Masolino risuona più con l’Umbria che con la Toscana, anche se doveva fare in Toscana l’incontro della sua vita, Masaccio. Ma il Masolino di Todi mi dà ragione: sembra umbro, sa pregare con quelle parole piene di amore e di natura che insegnò ai suoi confratelli Francesco di Assisi. Perché vi sono immagini che pregano, ancor più che esser pregate: immagini che sbocciano come un fiore, e parlano come un bambino. Così è l’immagine di Masolino a Todi, entro quella chiesa dagli enormi spazi vuoti, che consentono come la cassa di uno strumento, con corde di risonanza come la viola d’amore. Che è forse lo strumento che più si addice all’Umbria, uno strumento che esala la musica, l’accompagna come il direttore che canta insieme all’orchestra, trasportato dal flusso che tiene in mano assai più della bacchetta.

Forse ho finito e non so più che dire. Eppure mi sembra impossibile perché la parola, Umbria, mi fa gorgogliare come un bicchiere di spumante, e mi sento attraversato da uno sciame penato di bollicine, che sono aria rarefatta, l’anima del vino che esala se stesso. E l’Umbria ha due vini, di cui uno è famoso, l’Orvieto, e l’altro lo conoscono solo io e Burri, il Greco di Città di Castello: e non sembra vero che questo luogo che nessuno ha mai celebrato per il vino, ne abbia uno così etereo e costruito di rare essenze. Se si faranno delle vigne di Greco, diventerà famoso: ma accorti: è una vite che fa zocche piccolissime, che però prendono un color d’oro come il moscato, ma non sanno né di moscato ne’ di malvasia. Né per quanto forse importato da Cipro, il Greco assomiglia al vino greco, tanto meno al francese o allo spagnolo o al portoghese. Rivela la vocazione mondana dell’Umbria accanto a quella mistica.È un po’ come il Perugino, e non un vino da messa, bacchico come l’allegria dei fraticelli.

 

COSÌ ANDAI AL SUD
(1985)

Il mio primo incontro col Sud avvenne a Gaeta, praticamente quasi subito dopo la prima guerra mondiale, sarà stato il 1919 o il 1920. Una mia zia che aveva sposato un colonnello, eroe già della guerra d’Africa, e che era stato nominato vice direttore del carcere militare di Gaeta, ci aveva invitati tutti a passare l’agosto sulla splendida, e, allora, solitaria spiaggia di Serapo, ai piedi del monte Orlando, a due passi da Elena e da Gaeta. Io non ero mai stato al di sotto di Grosseto ed era dunque la prima incursione in quello che allora sembrava il profondo Sud: l’idea, dopo Gaeta, era di proseguire fino a Napoli e poi di fermarsi a Roma. Il viaggio si faceva in treno, e, allora, non c’era la direttissima Roma-Napoli e bisognò passare da Cassino e Sessa Aurunca. Mi ricordo che si prese un gelato a Cassino, dove ci avevano raccomandato i gelati: allora tutti artigianali e buonissimi. Ma il viaggio risultò troppo lungo, da Siena; era estate e il fumo della ferrovia a vapore, con i finestrini aperti, ci soffocò. L’arrivo non fu dunque trionfale, se non per me, che fui subito colpito dal colore del mare di Formia. Allora imparai ad amare il mare che fuma all’orizzonte, come solo da Gaeta in giù. Da Formia si andò in carrozzella a Gaeta: che oltre tutto, già allora, era una strada bellissima, con giardini da ogni parte. Gaeta non aveva avuto ancora i bombardamenti, ed era intatta: quel borgo color di tufo e di lava ai piedi del monte Orlando verdissimo. Mia zia abitava in cima alla città vecchia, e dalle finestre si vedevano tre mari: da un lato tutto il golfo, stupendo; dall’altro il mare libero; al centro era una panoramica di tutto il mare fino alle isole pontine, che però non si vedevano: forse d’inverno, quando tirava la tramontana.

La casa era grandissima, adatta per l’estate e, sotto, aveva una terrazza dove due vecchine vivevano in continuazione, facendo da cucina all’aperto. Il fatto ci colpi in modo particolare, perché, quando visitammo il bagno, che con nostra sorpresa aveva il closet, il padrone di casa ci spiegò che però non c’era l’acqua corrente, donde il consiglio – e fu il verbo specifico che impiegò, né più lo dimenticai – quando hanno esitato, prendano la carta e la gettino dalla finestra! Sotto, le due vecchine facevano da cucina; ed erano minacciate da tale condimento Era l’impatto con il Sud. Ma a me fece solo ridere, mentre per mio padre, soprattutto, che era poco meridionalista, fu il primo colpo per la nostra vacanza al sole.

Per andare alla spiaggia di Serapo, si doveva scendere al porto – ma non era così lontano – e lì prendere una carrozzella. Questa passeggiata mattutina ci rivelò la vita di una città del Sud: si incontravano infiniti asinelli carichi della splendida verdura del meridione e di uva bellissima. Gli asinelli avevano una grande bisaccia, che, una volta scaricata la frutta e la verdura, veniva riempita di tutto quello che gli stessi asinelli lasciavano, e abbondantemente, nelle strade: facevano dunque da spazzini, e davvero ce n’era bisogno. Il fatto, che seppure non edificante, rientrava nei costumi agricoli di tutto il centro Italia, scandalizzò moltissimo mio padre, e a me fece specie che si scandalizzasse, perché da noi, senza particolari lavaggi, il carro agricolo e il barroccio trasportavano letame e poi verdura. Ancora, in Toscana, certi ortaggi o erano rari o non esistevano proprio, così quelle zucche che sembrano corni, verdi e avvolte, e le melanzane. A mangiarsi, quelle zucche sanno di poco, per me, sono indegne del Sud. Ma le melanzane scatenarono i miei entusiasmi: un sapore nuovo, che legava così bene col salmastro del mare. Ce ne levammo la voglia, perché quasi ogni mattina la zia ci mandava, o ci portava in carrozza, una grande tegamata di melanzane e pomodori, che a mio padre, toscano fino alle midolla, non piacevano più che tanto, o almeno assai poco: e infatti, tornati a casa, a Siena, non furono immesse nel nostro pasto, con mio grande rimpianto.

A vederla ora, come si è sviluppata la spiaggia di Serapo, con alberghi e infiniti capannoni, sembra impossibile di averla potuta vedere tutta sgombra con due soli capanni, uno per noi, uno per il colonnello capo. Incredulo che non ci fossero bambini, ma solo quella distesa di sabbia pulitissima, l’avevano tutta sistemata i soldati. Una sola volta vedemmo una compagnia di suore che vennero a fare il bagno, ma castissime, con grandi camicioni raccolti fino ai piedi: e fra mezzo, uno spillo di sicurezza, di quelli detti da balia. Però il bello fu quando uscirono dall’acqua, il camicione si appiccicò al corpo che fu rivelato in trasparenza: ma velocissime, appena a riva si gettavano un lenzuolo addosso, e là sotto armeggiando con moti furiosi, si staccavano la camicia aderente e uscivano vestite come prima e anche con la cornetta. Fu uno spasso per noi ragazzi, che non potemmo mai dimenticare. Ma anche le popolane facevano il bagno allo stesso modo, col casto spillo da balia fra le gambe.

Un’altra cosa che si vide, a Serapo, ma nella notte, furono dei fuochi di artificio, come mai più, neanche al Sud, ho potuto rivedere: e cioè la formazione, a base di razzi multipli e successivi, non cioè di un solo razzo, di un’immagine di santo: che sarà stato sant’Erasmo, suppongo, che è il protettore di Gaeta, e di cui esiste nel Duomo di Gaeta, un quadro coloratissimo del Saraceni. Ma allora non lo vidi, nessuno me l’aveva detto, ancorché io già da allora mi interessassi di opere d’arte e dipingessi. Invece, quel che vidi in Duomo, e mi impressionò moltissimo, fu il vescovo morto ed esposto per tre giorni sul catafalco. Lo ricordo come fosse ora, con gli splendidi paramenti, e incartapecorito come i corpi dei santi sotto gli altari. Dovevo poi, tanti anni dopo, rivedere un morto esposto in chiesa, Giovanni XXIII in S. Pietro, e quello, davvero, quasi un santo.

Il ritorno, da Serapo, si faceva a piedi, giusto dal Duomo dove si arrivava in carrozza, salendo per i vicoli che nel frattempo gli asinelli dei contadini avevano pulito da quello che vi avevano depositato. Ora, Gaeta è pulitissima, che senza asinelli, ma allora aveva un sentore paesano inconfondibile del resto, ogni paese ha il suo puzzo e non coincidono affatto. Così la sera mangiavamo in casa con le finestre aperte su quel mare prodigioso e questo piaceva anche al babbo che però non aveva né ebbe mai familiarità con il mare: è un elemento infido – diceva – e per tutta la vita il mare rimase un elemento infido. Né certo, la traversata della Manica poteva avergli fatto cambiare idea.

Da buon senese, mi colpì che San Bernardino fosse stato anche a Gaeta, lasciando monogrammi di Cristo dappertutto, ma in modo particolare in quella straordinaria spaccatura del monte Orlando, dove, in fondo, gorgoglia un mare arruffatissimo e nero come inchiostro: è lì che il diavolo infilò una mano nella roccia: e ancora si può infilare la propria in quei buchi lisci come il vetro.

Questa passeggiata nella spaccatura della pietra fra festoni di piante ha un fascino rustico e gentile, con le sue stazioni della Via Crucis in maiolica a colori. Ora ci sono scugnizzi che offrono uva e pesche: ma allora un turismo gaetano era di là da venire. Invece non si arrivò in cima al monte Orlando, che era allora zona militare, per quanto noi fossimo, con lo zio colonnello, ammanigliati col potere.

A fine agosto avvenne la partenza per Napoli, con grande sollievo del babbo che non ne poteva più del pasticcio di melanzane: ma l’arrivo a Napoli fu poco felice: a me venne un mal di gola con febbre che mi inchiodò a letto; e inchiodò mia madre in camera mia. Gli altri due, il babbo e mio fratello, poterono girare per Napoli. Mia madre non ebbe altro ristoro del balconcino, che dava all’inizio del Rettifilo e che la immerse in piena Napoli, con suo grande spasso. Che cosa non vide in quei tre giorni di mal di gola! La sceneggiata napoletana è talmente connaturata alla città, che è come il fumo del Vesuvio, che fumava ancora: e veramente era come un pino che si levasse da quella cima rotonda e pacioccona, che tutto sembra fuori che lo spaventoso vulcano che è lo sterminator Vesevo. Non posso negare che ancora io vedo il Vesuvio con quel pennacchio e che mi sembra un’ingiustizia tremenda che ora non vi sia più. Con quel pennacchio Napoli ha perso metà della sua identità. Ma dal terrazzino della mia camera non si vedeva il Vesuvio: si vedevano piccoli altri terrazzini dove si svolgeva la vita napoletana: i bambini piccoli venivano messi sul vasino e incoraggiati.

San Gennaro proprio non doveva farmela, di farmi ammalare appena giunto a Napoli. E il babbo, che era già saturo di Sud, appena sfebbrai volle subito ripartire: e neppure si fece scalo a Roma, nella prescia di tornare a casa. Ma intanto io ero stato marcato a fuoco dal Sud e non s’è più scancellato.