De Pisis, pittore italiano, deluderà forse quanti oggi amano vedere in lui, scoperto a Parigi, vivente a Parigi, un recente neofita della favolosa scuola di quella città, un’espressione artistica naturalizzata europea.
Né io mi sognerei di negargli questa più vasta risonanza della sua arte all’estero, e soprattutto nel vivaio che più serve alla diffusione e all’imposizione delle nomee artistiche. Ma se l’arte di De Pisis, relativamente giovane, ha potuto imporsi alla curiosità, all’interesse, all’attenzione parigina, lo deve proprio a questo: alla preziosità del timbro con il quale risonava nel brouhaha contemporaneo, alla diversità di potenziale che introduceva nelle alte correnti artistiche d’oggi. Queste alte correnti attraversano giusto ora un periodo di lenta diminuzione, di decadenza, né solamente per lo scacco commerciale dovuto alla crisi; tale diminuzione ha una causa interna che è una sopravvenuta staticità. Nessun nome nuovo da tempo; i disperati sforzi di Picasso, in continua metamorfosi, lasciano più delusi che interessati; a vederlo passare dai tortuosi e manieristici disegni-graffiti alla greca a certe vaste tele dove pochi arabeschi inintelligibili si appartano penosamente da ogni riferimento umano, si resta molto dubbiosi sulla portata reale di questo artista quasi leggendario, uno dei pochi imperatori sopravvissuti alla guerra. Più che una parola nuova si aspetta da lui qualche nuovo contorsionismo, ma la sua strada è spossata: se egli tiene ancora il campo, tabù inviolabile, è per una specie di soggezione mistica o religiosa.
Non è possibile svolgere più a lungo queste asserzioni, ma la voga di Renoir sembra abbastanza istruttiva in proposito. La voga di Renoir (anche se poi si rivolge al Renoir più stracco e meno significativo) dice l’interesse rinato per la pittura che non sia soltanto una cosa mentale. Volendo ora dare una formula facile e mnemonica dell’arte di De Pisis, si potrebbe dire che egli ha composto felicemente il dissenso fra la pittura cosa mentale e la pittura cosa sensoria, la pittura cioè che è colore, tono, atmosfera. E soprattutto colore. Io non potrei parlare d’altro, in primo luogo, che del colore di De Pisis. La sua felicità cromatica non ha limite e lo salva nelle cadute, lo soccorre nelle disfatte. Perché anche De Pisis sbaglia e non sempre la sua visione è felice e il suo gusto sicuro, come vitale il suo pennello. Se la sua atmosfera è in parte debitrice degli impressionisti francesi, il suo colore è una efflorescenza veramente veneta e italiana. E con questo io non intendo alzare barriere di nazionalità, soltanto abbozzare una prima distinzione critica. Ma volendo essere più precisi occorre dire che anche gli impressionisti arrivano a De Pisis attraverso un intermediario italiano, Spadini. Così De Pisis doppiamente si riattacca alla tradizione italiana, a quella veneta del Settecento, a quella moderna di Spadini. Se non che, per fortuna, la tradizione è per lui un punto di partenza. Le sue origini sono umanistiche, il suo gusto per le cose antiche non si nasconde; egli impara dai veneti, dai suoi prodigiosi ferraresi come un colore riesca a cantare, a isolarsi, a espandersi nella tela; come di un giallo, di un azzurro, di un rosso si possa fare un colore mai visto, a cui confidare un’emozione intensa e attiva come a un verso. Il tono veneziano che musicalizza la pittura gli suggerisce le marezzature di grigio e d’azzurro, i suoi cieli irreali e verissimi, quegli orli diritti di mare che servono di basso continuo ai suoi sfoggi cromatici.
Quest’essenza quasi musicale della pittura di De Pisis trova allora la sua massima espressione nella serie delle Nature morte marine. È qui che la confluenza della pittura metafisica di De Chirico e della pittura veneziana produce l’effetto più nuovo. Lo schema della composizione rimane in quasi tutte lo stesso. Una spiaggia desolata, un orlo di mare, un cielo chiazzato. Su questa spiaggia, come muti avanzi di naufragio, conchiglie, frutta, ostriche, e qualche minuscolo personaggio.
È bene subito dire che il risultato non è di nessuna fatuità decorativa. Con De Chirico ci veniva resa familiare la desolazione opprimente delle prospettive rigorose e sconnesse, dei cavalli scalpitanti e deformi in riva al mare, o dei manichini enigmatici; un orgasmo strano, un mistero che si pone subito come insolubile veniva a prendere posto fra le nuove esigenze della pittura. Il riferimento dei surrealisti alla parte astratta e metafisica dell’Uccello, di Piero, del Castagno, creando una specie di genealogia illustre alla nuova dottrina della scrittura automatica, dello stato secondo, ecc., offriva anche per i pittori antichi un nuovo elemento di giudizio…
Certamente con tutto ciò la nostra sensibilità si differenziava, si affinava. Sarebbe un vano accademismo rifiutare simili interpretazioni viventi dell’arte passata che riportano quest’arte dai musei nella vita. Così, per noi moderni, il personaggio piccolo vicino alla conchiglia enorme in una Natura morta di De Pisis non è vana fantasia o bislacco gioco, corrisponde a una nostra sensibilità; tocca una corda aggiunta di recente alle corde di risonanza che devono tendere il gusto del critico. Quelle misteriose efficienze umane hanno tuttavia una vita tutta diversa che in De Chirico: in questo, la pittura è ridotta così povera e maldestra che opera in noi per segni, per suggerimenti, per sostituzioni; non è certo la materia pittorica che ci interesserà in De Chirico, né il suo colore, né la sua balbuzie tecnica. Ma in De Pisis questo mistero orfico delle Nature morte marine si incarna, ritrova espressioni vegetali, acquee.
La sua approssimazione al vero è cauta quanto mai; spesso di un frutto ritiene appena una pennellata di verde tenero (come in certe splendide mandorle della Collezione Roger-Cornaz) o quella pruina ineffabile che copre i chicchi dell’uva, o la guazza caduta sui fiori, o i guizzi madreperlacei delle ostriche; le sue abbreviazioni sono però così precise, nascono da una tale consumata esperienza naturalistica che a nessuno verrebbe mai il pensiero di chiedere di più, di volere anche la polpa, il peso, la specie esatta del frutto o dell’animale che dipinge. È che l’arte di De Pisis è un’arte di evocazione, di ricordo e non di mimesi. Questo avvertiva anche la squisita sensibilità di Mauriac. Il mare nasce, allora, in queste tele come un’invocazione lirica, e i cieli grigi o agitati sono agitati, più che dal vento, da rimpianti, da rimorsi, da orgasmi. Così l’atmosfera rimane sempre brumosa e trepidante, pronta a precipitare; e piante, fiori, animali sono permeati d’aria, si sciolgono, si liquefanno. Allora il genere di osmosi che pratica De Pisis, questa penetrazione di un elemento nell’altro, fa pensare a un’altra tipica osmosi, di cui in altro luogo ho parlato, al disfacimento ebbro del Baroccio.
Prendiamo ora una qualsiasi di queste Nature morte marine. Il mare è un nastro azzurro che divide la terra dal cielo; sulla sabbia sono raccolte enormi conchiglie e le loro posizioni per quanto irregolari sembrano ormai fisse e calcolate quasi come figurazioni di un nuovo zodiaco. Questi gruppi di cose inanimate sono un po’ come le romanze senza parole, cantano su un ritmo proprio senza alcun senso intelligibile, ma solo seguendo un filo melodico. La grandezza smisurata che assume allora ogni oggetto ordinario diminuisce la vastità del mare, riduce l’enorme quantità delle acque a questo rivo orlato di bava argentea, a questo nastro di raso che solo per un’ultima e compiacente fedeltà narrativa rimane orizzontale; ci si aspetterebbe a volte di vederlo agitato in curve eleganti e sinuose quasi come gli schemi ritmici segnati dai nastri volanti del Perugino…
La grandezza della conchiglia diminuisce il mare; che cosa sono gli uomini? diventano più piccoli de’ vermi, più inafferrabili degli insetti; un giornale spiegazzato, una magnifica cipolla novella si ingrandiscono come un monumento di fronte alla piccolezza umana. Una carta diventa una montagna scabra, una conchiglia un antro, un’ostrica un piccolo lago… Il piccolo personaggio sperduto è allora Alice nel paese delle meraviglie o Gulliver…
Insisto su questo spontaneo carattere fiabesco che assumono le Nature morte di De Pisis; il meraviglioso che non dipende più dall’intervento di angioli, di fate o di demoni, ma dalla umanità rudimentale di una pianta, dalla forma improvvisamente rivelata, a noi che pure credevamo conoscerla così bene, di una conchiglia marina. Misteriosa vita della terra, misteriosa vita del mare, che si presenta in forme così chiare e intelligibili eppure ermetiche. Il fascino innegabile di queste nature morte si vale dunque di una infinità di elementi: c’è un aspetto di cabala, quasi che sotto quei cieli tempestosi, lungo quei mari scarsi gettare dei gusci vuoti sia un modo di tirare le sorti o l’oroscopo; c’è un lato che si chiamerebbe del linguaggio misterioso, quasi una formula di geroglifico naturale; e un lato pagano di offerta; e si potrebbe trovarne altri, senza riuscire mai a spiegare perfettamente, perché non si scompone in fattori il meraviglioso, e De Pisis crea un nuovo genere di meraviglioso pittorico. Dopo molto analizzare si potrebbe giungere a dire che è “quella pennellata bianca lì” che produce l’effetto e avremmo ucciso il quadro.
Si capirà meglio ora come il meraviglioso di De Pisis non sia il metafisico di De Chirico. Certamente lo presuppone, ma quanta ideologia, quanto astrattismo è già morto in De Chirico, mentre questa pittura è squisitamente viva e vibrante, né impone le mortificazioni pittoriche che ci infliggeva De Chirico, con le sue meditazioni sadiche e astinenti.
Solo ora, dopo aver cercato di mostrare quanto complesso sia il fascino sottile di quelle Nature morte, si può gettare il grande e usuale passaporto: romantico. De Pisis è certo un romantico, ma in quello che di più lirico esprime la parola. I suoi quadri sono dipinti tutti d’un getto, con la felicità, la freschezza e il pericolo inerenti all’improvvisazione. Davanti ai pezzi più riusciti si è subito persuasi che non potrebbero essere dipinti un’altra volta, e che c’è davvero in essi qualcosa che non si ripete. Quest’unicum, questo che è istantaneo eppure fermato per sempre, pone un suggello di vitalità all’opera d’arte.
Uno studio speciale merita la tecnica di De Pisis. È facile, troppo facile, parlare degli impressionisti, citare Manet e Renoir; De Pisis stesso è il primo a dirvelo con schietta franchezza. Sennonché io vorrei insistere sul fatto che l’esperienza impressionistica si trova vissuta, trasfusa e trasformata in De Pisis, e che con ugual ragione, di fronte alla velocità della sua pennellata, si potrebbe citare una serie lunga di pittori da Hals a Van Gogh o risalire a esempi straordinari e perenni di veneziani. A questo proposito niente è più saporoso di uno studio comparativo, fra la Venezia del Guardi e la recente Venezia di De Pisis. Il segno inimitabile del Guardi, questa pennellata rapida e sapida, incisiva come l’acquaforte, è rivissuta in un senso tutto moderno da De Pisis. Si sa quanto impressionismo, quanto plein air sgorghi dai piccoli quadretti del Guardi; mai l’atmosfera umida e assolata di Venezia trovò cantore più squisito; i piccoli personaggi vivi fra i palazzi vivi, le tende, i panni tesi… un’allucinazione e una trascrizione.
La trascrizione di De Pisis è invece una stenografia: come un modo di tradurre Venezia in una lingua monosillabica. Sono lancettate, sgorbi, strappi di colore, come se la tela, tagliata, sanguinasse: a volte viene sfiorato l’effetto dei segni, incompleti, che restano su una cartasuga e si affaccia l’idea di essere in presenza come di una sindone posta su un altro quadro ancora fresco… eppure la visione è completa, in sé, a quel modo: fulminea sempre, scorretta talora, puerile a istanti; inadeguata mai.
Certo, quella folla in Piazza San Marco è puerile, è resa con gaucherie; non evocate per carità le folle perfettissime del Guardi, nelle quali anche di un uomo fatto con due punti e una virgola pare di conoscere la voce, le mosse, la vita… questa Venezia sorge dalle brume metafisiche, si rincarna per noi; per la prima volta forse dopo tanti anni osiamo guardare, senza vergogna, una veduta moderna di Venezia. Io non potrei citare, come altra visione autonoma di Venezia nella pittura contemporanea, che quella torbida e magnifica di Kokoschka. Chi ha visto le sue turbinose rive degli Schiavoni, oppresse da nuvole d’inchiostro, frementi, sondate da bagliori, verdi come i raggi di un faro, con i palazzi opalescenti trasportati, come barchette, alla deriva; chi ha provato quest’angoscia di una Venezia che non si sa bene se naufraghi o resusciti conosce quanto sia forte il fascino di quel pittore elementare tutto impeto e colore. Kokoschka, rozzo, irruente, di fronte all’alchimia di Kandinskij o ai logaritmi di Klee, salva la pittura: fa pittura come è nata in Italia, come dall’Italia si è diffusa nel mondo.
E di questa pittura, con maggior carattere nazionale, De Pisis, attraverso il travaglio carsico e arido delle esperienze moderne, riporta alla luce una vena felice o, per usare l’immagine trovata da Claudel per Rimbaud, “une source perdue qui ressort d’un sol saturé”.
Era il mio primo viaggio a Parigi, avevo poco più di vent’anni, e conoscere De Pisis fu conoscere esattamente la Parigi che mi immaginavo prima d’andarci. C’era tutto, da Baudelaire al café crème; c’era quel lieve sentore, che non è puzzo e non è odore: e lo studio di De Pisis, ne pareva la sintesi, o piuttosto il rebus, la cui soluzione finale, attraverso stracci, bastoni, fiori secchi dava: Parigi. Di quello studio conservo un disegno a colori, suo naturalmente, e con un ranocchio per terra: “nello stile di Turner” ci ha scritto lui. E non c’entra nulla. Ma aveva il gusto della citazione sbagliata, che doveva fare colto e modesto: e metter fuori strada. In quel disordine irreversibile, di Rue Servandoni, egli mi mostrava le tele, i cartoni, le cartacce. Anche sulla carta gialla del pane, arrivò a dipingere purtroppo. Che cosa non sarà il dispiacere di vederli spengere, agonizzare come un lume senz’olio, certi suoi dipinti, e proprio per questa materia infima di cui sono fatti.
Io non avevo visto che poco, fino ad allora, della sua pittura, e fu una rivelazione brusca, indimenticabile. Per la prima volta, a me uscito da una città di provincia che è tanto più grande di se stessa ma anche tanto più provincia del consentito, quella pittura che allora era moderna, per taluni modernissima, e per i professori addirittura incom prensibile, si aprì, si spalancò come quando si alza il sipario. Ed ero entrato in quello studio, come quando si va al teatro, alla prova generale, che non si passa dal portone grande, ma da dove entrano i coristi: mi ritrovavo in piena pittura, con la gioia di scoprirmela da solo, solo ad applaudire in una platea semi vuota, dove gli altri pochi o sghignazzavano o tacevano.
De Pisis che aveva fiutato in me il critico, seppure alle prime armi, mi condusse allora di qua e di là per mostrarmi le sue Nature morte marine: erano quelle che dipingeva allora, nel 1931, e che rappresentarono il primo grande salto, rispetto alle cose precedenti. Ce n’erano, con le mandorle verdi sulla spiaggia, e con frammenti di statue. Una di codeste, pochi giorni fa, mi fece una impressione quasi dolorosa, di ritrovarla nel Museo di Nervi, fra tanta pitturaccia. Io l’avevo vista a Parigi, allora: e De Pisis era nel momento più ricco della costruzione di se stesso, e dipingeva come se scavasse una miniera. Finché, saltando di casa in casa, e di palo in frasca, fu l’ora della cena e si andò a cena. De Pisis vantava tutto: l’ultimo bistrò dove andasse a mangiare diventava il primo restaurant di Parigi, e la sua convinzione era tale da attaccarsi agli altri, come il raffreddore. Alla fine, s’era nella stagione delle fragole, io ordinai delle fragole. E lì venne fuori il De Pisis, distratto e prontissimo, adulatore e saccente: “Non des fraises,” mi corresse “non si ordinano des fraises, ma une fraise”. Quella sola quell’unica fraise, finiva per assomigliargli: era la sua pittura, dove anche una casa è ridotta a pochi filamenti, e il cielo è appena una pozzanghera d’azzurro, un’ala, una lacrima.
Fra i disegni che ho di De Pisis ce n’è uno che ha una particolarità: di unire, nel ricordo, non nella forma, il nome di De Pisis a quello di Morandi. Il quale era di gusti assai difficili per gli artisti contemporanei, ma, fra i pochi che salvava, c’era De Pisis insieme con Maccari e Longanesi. Per Longanesi si trattava evidentemente di un portato della conoscenza personale, perché l’attività satirica ed estemporanea di Longanesi come artista non poteva interessare un magistero così rigoroso e scabro come quello di Morandi. Mentre in Maccari, oltre che l’estro vivacissimo c’era anche una bravura tecnica, come incisore, a cui Morandi era particolarmente sensibile. Ma in De Pisis, quello che uno poteva pensare che dovesse irritare Morandi, la grazia disinibita di libellula, il tocco saltuario, spigliato e incorreggibile, trovava presso di lui un’udienza aperta e cordiale, per non dire del colore di De Pisis, a cui, un colorista parco e prezioso come Morandi, guardava come a un dono dell’infanzia.
Tutto ciò io lo sapevo, ma quando una volta a Venezia, trovandomi insieme con Morandi gli dissi se voleva venire con me da De Pisis – il quale abitava in quella casetta che chiamava pomposamente palazzetto gotico – lo dissi con una certa titubanza, perché Morandi non faceva visite. Invece accondiscese e venne con me. De Pisis era in azione, in quel salotto che pareva trasportato di peso dal mercato delle pulci, pieno di cose che, appunto, “facevano tanto De Pisis”: con alcune vecchie signore che lo aiutavano a servire il the in quelle tazzine volutamente spaiate, che, anch’esse “facevano tanto De Pisis”. A quella visita, fra tutte inattesa, e che lo rese felice, De Pisis reagì con tanti piccoli fuochi d’artifizio, espressioni lusinghiere, omaggi, dichiarazioni entusiaste, e a me, che vedeva come il benevolo Mercurio di quell’ormai attempato Telemaco, propose di offrirmi un disegno per tanta e felice memoria. Mi dette in pasto una cartella grafica e io pregai Morandi di aiutarmi a scegliere. Morandi accondiscese e con mano sicura scelse il disegno che mi piaceva meno, un nudo, ma castissimo, come un Cristo deposto, in inchiostro acquarellato su una carta bigina. È il disegno che è ancora presso di me, fra uno di Marino e uno di Manzù, e ora non lo cambierei per tutto l’oro del mondo.
Quando conobbi Morandi, nel ’33, stava in via Fondazza. L’altro giorno, a Bologna, sono tornato, quasi fra un treno e l’altro, a salutare Morandi. Abita ancora in via Fondazza. Non è un particolare di poco conto, per Morandi. Stare a Bologna e abitare in via Fondazza. Sembrava, qualche anno fa, che dovesse lasciare quella casa, la cui unica e modesta bellezza, l’affaccio su una specie d’orto che è anche una specie di giardino, riceverà ora un deleterio attacco, una crudele decurtazione, se non un totale assorbimento, da un nuovo corpo di fabbrica. Per Morandi è un dolore grosso: oltre tutto è l’alterazione di un paesaggio urbano che è a lui carissimo, anche se nessun altro, che non fosse lui, sarebbe riuscito a cavarci un ragno da un buco. Lui sospira, a ogni modificazione, ma poi il paesaggio c’esce fuori lo stesso. Sospira, per l’albero cresciuto, per l’albero tagliato, per la persiana riverniciata, per la nuova porta, per il nuovo balconcino. Sospira, ma ecco che l’anno dopo, si va a trovarlo, e, con lieto stupore, vediamo acquisite al paesaggio, che sta sul cavalletto, anche le antenne a T della televisione. In quei cieli che sono solo suoi, cieli bolognesi, certo, ma della Bologna di Morandi, s’intravede come una grinza, una cicatrice lievissima; è l’antenna della televisione che s’è incorporata al cielo come la polvere sulle sue bottiglie. Morandi non se ne vanta: ma come poteva fare il torto di rifiutare al suo paesaggio solito quel nuovo elemento, intruso finché si vuole, ma reale? Certo, anche nell’ultimo paesaggio che vidi l’altro giorno, il T della televisione ritornava: c’erano pure le ultime foglie dell’albero che ormai le aveva già scrollate tutte, e un’ombra rara, che il sole fa solo a una certa ora, e bisogna quasi coglierla a volo come le farfalle. Quando si racconta di queste cose, si può pensare che i paesaggi visti dalla finestra dello studio di Morandi siano divenuti più realistici: ma è vero il contrario. La traccia dell’oggetto che rimane nell’immagine di Morandi, è meno che l’ordito rispetto alla trama di una stoffa. E il fatto di accogliere, quasi supinamente, la conformazione dell’oggetto, che sia il paesaggio urbano o la natura morta, non è che l’accettazione della prima fase del processo creativo, quello in cui l’oggetto si enuclea dal contesto usuale della realtà quotidiana, e si costituisce nella coscienza. Da questo momento alla realizzazione dell’immagine, c’è il travaglio dell’artista, c’è l’artista a tu per tu con se stesso, e qui allora, si brucia chi si brucia, resiste chi resiste.
Io ho avuto e ho la fortuna di conoscere grandi artisti, e dall’esperienza del loro fare ho tratto più che dai libri di estetica, ma da nessuno ho appreso una lezione così pura e limpida come da Morandi. Fra il primo saggio che scrissi e pubblicai su di lui nella rivista “Le Arti”, e fece scandalo – si stava in piena era fascista, seppure, fortunatamente agli sgoccioli – e l’Estetica che in seguito sono andato svolgendo, si vedrà per chi la conosca, il rapporto stretto. Quel saggio fece scandalo, dunque: “Il Tevere” mi attaccò duramente. Alla Terza Quadriennale, questa disgraziata manifestazione che, decisamente, è nata male, Morandi aveva una sala, che tanti dispiaceri fruttò al suo autore, da non aver più voluto in seguito una cosa del genere, almeno nelle Mostre nazionali. Morandi, si sa, ebbe il secondo premio. ed è quanto ha saputo dargli la patria. Si dirà che il resto non l’ha voluto. Bel resto: io lo so bene che cosa gli si voleva dare, grane ecco tutto: la Presidenza dell’Accademia di Bologna, la Cattedra di pittura invece di quella d’incisione. Tutto ciò a un uomo che ora ha dimostrato sul fatto quanto tenga agli onori, venendosene via prima del dovuto anche dalla Cattedra d’incisione. Un uomo schivo, che sta in via Fondazza, una straduccia, autentica certo, non fasulla, di Bologna, in un quartiere d’affitto, dove resterà anche se gli tappano col cemento armato quella poca vista che aveva davanti. Un, uomo schivo, Morandi, ma non scontroso e non affatto misantropo: ma schivo, che sceglie le sue amicizie, e se le tiene come il fiore al naso. Anche se i suoi amici più vecchi sono gelosi dei nuovi. Perché appunto, Morandi fa sempre nuove amicizie, e non c’è dubbio che questo fatto suscita delle gelosie non sempre sopite. Ma non c’è nulla da fare: bisogna subirle. Per esempio poco tempo fa, o non andò al matrimonio d’uno di questi suoi nuovi amici, scomodandosi da Bologna, in una stagione mica tanto propizia, per affondare nelle nebbie del Polesine? A un altro, magari un vecchio amico, gli avrebbe mandato un telegramma. Per lui si mosse. Ma ha fatto anche di peggio. Pensare che a tutt’oggi, con preghiere e scongiuri si era tentato di portarlo in Olanda, o a Parigi, dove non è mai stato, e se ne vanta, o in Grecia, o almeno nell’Italia meridionale. Fiato sprecato, tempo perso. A un tratto si sa che è andato in Svizzera, ha accettato una Mostra in Svizzera, lui che pretende di non avere più mostre in Italia e lancia scomuniche a chi osa prestare i suoi quadri a una qualche Mostra senza il suo permesso. Signorsì, Morandi, convinto da un amico privilegiato, partecipò a una Mostra in Svizzera che fu quasi un fiasco, per quanto possa essere un fiasco una Mostra di Morandi, riconosciuto ormai per uno dei pochi sommi pittori viventi. So di dargli un dispiacere raccontando questo: ma è la verità. Quando si scongiurò a mani giunte che almeno la Mostra di San Paolo, con cui vinse, l’anno di là, il Premio internazionale della Biennale brasiliana, venisse esposta in Italia in Campidoglio… Apriti cielo, cosa successe. Rivedo le facce imploranti, gli occhi quasi umidi, con cui mi pregava non solo di desistere, il che era facile, non essendo certo stata un’idea mia, ma di convincere gli altri di desistere: e arrivò persino all’inganno, promettendo una Mostra, una diversa – disse – scelta meglio, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Che naturalmente non si è fatta, e, ho paura, non si farà mai. Ma lui lo sapeva benissimo che non l’avrebbe mai concessa: l’importante era di superare il periglioso traguardo immediato, quando era più difficile rifiutare, con la solenne consegna all’Ambasciata del Brasile del premio, che poi da essere grande, purtroppo, era diventato modesto, per la svalutazione del pesos. Quando si sanno queste cose, e si ha ancora bruciante il dispiacere della Mostra in Svizzera, si gode che poi gliele facciano in barba, le Mostre. Come quella che gli hanno organizzato, senza dirgli niente, a Torino, proprio in questi giorni. Capite il fatto? Senza dirgli niente. All’amico con cui si sfogava, e che gli rispose “Belle forze, se glielo dicevano, lei correva ai ripari!”, gli occhi di Morandi sfavillarono. Certo, che sarebbe corso ai ripari. Sicché il dispiacere più grosso, dopo la Mostra inconsulta di Torino, gliel’ha dato la magistratura con quella sentenza promossa dall’incauto Stradone. Dei quadri, una volta comprati, il proprietario fa quel che vuole. Ci può essere un’ingiustizia più flagrante di questa? No, veramente è un argomento che val meglio non trattare con Morandi. Se ne accorgeranno gli incauti prestatori di opere alla sconsiderata Mostra di Torino. Neanche facendo le croci con la lingua su ognuno dei consunti e, a dir vero, pulitissimi gradini di via Fondazza, riusciranno ad avere più un quadro, né un disegno, né un acquarello, né un’incisione. Se ne accorgeranno. E non so se si sappia come i collezionisti di Morandi non sono mai sazi, non ne hanno mai abbastanza. Ingordi, se mai ce ne fu. Né solo per il valore altissimo che hanno ora, a suon di milioni, i quadri di Morandi, e per la vile moneta con cui loro glieli pagano. Naturalmente c’è anche questo lucro emergente. Ma si farebbe troppo torto a loro e a Morandi, se si sottolineasse solo la capitalizzazione. C’è anche l’amore, diciamolo, c’è l’interesse inesauribile che suscita questa pittura unica, sempre uguale a se stessa. Quindi, i malcauti espositori, già a quest’ora si sentono torcere le budella dal rimorso. Sennonché, sennonché… ebbene io credo che abbiano una sola via d’uscita. Morandi, unico o poco meno che unico fra gli artisti moderni, adora l’arte antica. Se riescono a farsi nascondere dalle sorelle di Morandi, in uno di quegli armadi che bordano il lungo corridoio da cui si accede alla cameretta delle meraviglie, e se, uscendo con qualche precauzione da quell’abitacolo, offriranno in segno di espiazione al Maestro, un Renoir o una miniatura ottoniana, un senese o un bolognese del Trecento o un bozzetto di Delacroix, forse riusciranno ad appianare le rughe sdegnose dalla fronte olimpica di Morandi. Ma che non credano, come fanno i più, che basti andare a raccogliere l’ultimo quadruccio uscito dalla pletorica bottega del figlio del Crespi, per guadagnarsi il perdono e la stima del Nostro. Spero proprio che comincino a venirgli a noia, a Morandi, questi quadrucci del Crespi. Almeno che i volontari del perdono cambino autore.
Ma ora che ho svelato l’arcano dell’amore di Morandi per i quadri antichi, si vorrà pure sapere dove li tiene. Veramente non c’è casa più limpida di quella di Morandi. Entrare in quella casa modesta è come bere a una fontana di monte, è come sedersi su un prato fiorito, è come passare vicino a un forno di campagna. È una casa su cui sembra essersi fermata una stella, di quelle, come scriveva Palazzeschi in una poesia lontana, che non si sa, se neppure ce l’ha, una grande città. In questa casa d’affitto, tutto è modesto, ma tutto è lindo, tutto è lucido di quella lucentezza che ha una storia come la buona educazione, una storia di attenzioni e di rinunzie. E poi ci sono i fiori. Questa è un’altra passione di Morandi. Anzi d’inverno, quando, dal residuo orto sottostante, i vasi vanno portati in casa di Morandi, appare una gradinata di piante che placidamente svernano in quell’aria che turbina quasi come all’aperto, per la tromba delle scale. E quei vasi tanto curati dalle pie sorelle di Morandi, sembrano guardarvi e scrutarvi, prima che osiate passare la soglia. Le fucsie, soprattutto: mi hanno sempre intimidito quelle fucsie. Tuttavia io non gli do troppo ascolto e passo la soglia. La carissima sorella di Morandi è là che attende con un sorriso. Si penserebbe allora a questa sorella e alle altre, come a vestali della casa, da cui non si sarebbero mai allontanate. E invece non è vero. Due delle sorelle di Morandi sono state in Egitto, a insegnare. E questo Egitto scaturisce quando meno ci se l’aspetta.
La prima volta che fui a colazione da Morandi mi attendevo, ed era aspettazione lietissima, una bella colazione bolognese. Persone così solidamente attaccate alla mia cara e indimenticabile Bologna, mi avrebbero di certo imbandito fra le infinite minestre bolognesi o i tortellini o i passatelli o le tagliatelle strette, non c’era nessun’altra ipotesi possibile. Appena seduto a tavola constatai intanto che tutto rispondeva all’aspettativa: la bella tovaglia di lino lucido, con i tovaglioli che sembra d’avere sulle ginocchia la rovescia del lenzuolo, e che si può fare risalire a saracinesca contro gli inevitabili schizzi del ragù. Dunque attesi. E che vedo? Il risotto col curry. A Morandi piace il curry, il curry fu importato dalle sorelle egiziane, e in casa Morandi si mangia il curry. Davvero buonissimo: ebbi anche la ricetta. La ricetta col segreto. Per dargli la densità giusta, alla salsa, occorre una mela grattata. Ormai è fatta. Col resto si rientrò gloriosamente nella cucina, bolognese, negli squisiti vini emiliani. Ma insomma dà più apertura di luce sulla vita intima di Morandi, questa storia del curry, che il fatto che non sia stato a Parigi. Parigi, Morandi, l’ha sorbita a distanza. Del resto anche Rembrandt fece così col Caravaggio. Forse che si mosse per fare il suo pellegrinaggio italiano? Eppure il Caravaggio è passato dentro Rembrandt come per metempsicosi. Ecco dunque perché Morandi non è stato e non vuole andare a Parigi. Vi dirà perché è vecchio, perché ha i reumi, quante cose verosimili vi dirà allora Morandi. Ma Morandi non è affatto vecchio: per un uomo come lui sessantanove anni non sono nulla, come non furono nulla per Tiziano. E in quanto ai reumi… già ora non ne parla neanche più. Quando si va da lui e ci si siede su quel divanuccio, davanti al cavalletto… Ma anche il cavalletto ha diritto di essere descritto. Se vedeste che zacchera di pulitura di pennelli c’è sulla traversa del cavalletto, direste che varie generazioni di pittori si sono avvicendate su quel cavalletto. Ma come Morandi non ha ascendenti fra i pittori italiani, così neanche il suo cavalletto è appartenuto a qualche grande pittore estinto. Il suo cavalletto è il suo cavalletto, ed è solo lui ad avere asciugato il pennello là sopra. Forse niente dà più materialmente l’idea dell’operosità diuturna di Morandi che tutte quelle caccole di colore appiccicate una sull’altra sulla traversa. E i quadri son così limpidi. Quanta pace raggiunta e non accettata per inerzia, si trova là dentro. E come l’improvviso fiorire d’un colore inatteso o per lo meno inconsueto, racconta una storia quasi vegetale accanto a quella spirituale, e proprio in seno al quadro. Io non voglio parlare ora in termini critici della pittura di Morandi: ogni cosa a suo luogo. Ma nell’emozione che suscita e riesce a mantenere, a grande altezza, come un moto rettilineo uniforme, come negare la componente, che è solo un altro nome per la catarsi, di questa serenità che procura, dell’improvviso distacco, come togliendo una spina, dal resto del mondo. E voi li vedete, sedendo sulla molla del suo studio, i poveri polverosi oggetti dalla cui disposizione strategica sono nate quelle improvvise finestre sull’anima che sono i suoi quadri. Voi li vedete, e li conoscete, ormai sono personaggi noti, attendono sull’impiantito, come i burattini attaccati in un canto dal feroce Mangiafuoco. Chi sa quando si degnerà di ricordarsi di loro? Quando la lunga figura di Morandi allungherà la lunga mano su quella certa bottiglia che fu come Colombina, un tempo, su quella palletta gialla e blu, e fu forse raccattata in un prato, avanzo dei giuochi di un fanciullo. O il barattolo che fu del caffè, o la sagoma di legno su cui fu una sveglia. Quest’ultima è ritornata in onda: e mi veniva da congratularmi con essalei, tanti capolavori mi risvegliava la sua poverissima consistenza: assunta a rinnovati onori.
Ma non vi avrei detto nulla di Morandi, se non accennassi almeno a Grizzana. Certo è molto difficile far comprendere come quest’uomo che parla così poco, sia una compagnia invidiata: il fatto che è un grande artista non è sufficiente a spiegarlo. Le sue parole sono poche e accorte, questo è certo. Anche i suoi rapporti con gli altri artisti sono segnati da questa riserva e da una dosata benevolenza. Non vorrei crear fastidi a Morandi, dicendo che i soli pittori italiani di cui veramente e in ogni momento mi ha parlato bene, sono De Pisis e Maccari. Mi ricorderò sempre quando una volta ci andai con Morandi, a trovar De Pisis a Venezia. De Pisis era ai settimi cieli: sapeva benissimo il valore morale di quella visita che Morandi rendeva a lui e quasi a nessun altro. De Pisis, è noto, lavorava molto, né tutto era oro: ma c’era anche l’oro. Morandi naturalmente lo vedeva subito, e sceverava il grano dal loglio senza che il loglio gli servisse per deprezzare il grano. E si sa, questo, quanto sia facile, anche fra grandi artisti.
La dimostrazione più evidente della chiarezza e dell’equilibrio del suo giudizio è quella che dà ora, rispetto all’astrattismo. Certo, non potrei dire che si rassegni a restare disarmato di fronte ai quadri astratti. Taluni suoi giudizi, su una sottospecie di astrattismo-naturalista, discretamente riportati, hanno già fatto il giro d’Italia: così quando lo definisce “la natura vista con l’occhio della gallina”. Ma sbaglierebbe chi credesse che Morandi è contrario all’astrattismo. “Probabilmente” ammette con gran franchezza “se fossi nato vent’anni più tardi, a quest’ora sarei anch’io astrattista.” Quale modestia in un uomo di quel formato. Ma anche quanta saggezza in così breve ammissione.
Però avevo detto di parlarvi di Grizzana.
Grizzana, per chi viene da Firenze con la direttissima, è una stazione che neppure ci se n’accorge nel fondo valle, e la costa sale giallastra e spelacchiata. Così l’avevo vista, e non mi aveva invogliato a conoscerla meglio, quando mi ero incontrato con Morandi. Del resto non è che i paesaggi di Morandi ne ritraessero aspetti particolarmente ameni. In tutta serenità avevo potuto, allora, designare Grizzana come uno dei luoghi meno ameni d’Italia.
Per Morandi, invece, è un luogo della fantasia, il punto d’incontro della strada maestra quotidiana con quei sentieri aerei, che conducono alla pittura, alla sua pittura. Con ciò Grizzana, paesello sperduto dell’Appennino tosco-emiliano, è divenuta una località che non è lecito ignorare a chi si occupa di pittura Moderna: un po’ come Arles per Van Gogh e l’Estaque per Cézanne.
In realtà, i paesaggi di Morandi hanno per matrice unicamente due luoghi: Grizzana, in primissima linea, e la finestra di cui s’è già detto. S’è già detto quanto poco si veda, da quella finestra: a Grizzana, cosa si poteva rinvenire in più di quel poco, di quel minimo che Morandi ne ha sottratto, per i suoi paesaggi, che si direbbero fatti di niente, di quanto di più comune si possa incontrare dovunque, senza bisogno di scomodarsi a salire fino a Grizzana? Una casa bianca, sull’orlo di una strada polverosa, dei filari di viti su una costa bruciacchiata: l’orrore, insomma, per il motivo troppo o appena pittoresco, già consegnato nella storia della pittura, dalla buona o dalla cattiva pittura. Per questo non ero mai andato a Grizzana: mi pareva inutile, e a Morandi potevo far visita a Bologna.
Se non fosse stato che un certo rimorso, in fondo, restava. Il luogo dove un grande artista trova la pietra focaia della sua ispirazione – uso ancora questa parola, né me ne vergogno – è un luogo che trattiene qualcosa di sacro: è un po’ come l’antro della Sibilla. Fosse pure, questo, una spelonca come un’altra, ma le parole affidate alle foglie divenivano uno squarcio nel futuro. Per quanto scettici, è impossibile non avvertire come un segreto gorgoglio, quando si visita lo speco di Cuma.
Così forse sarebbe di Grizzana, pensavo.
Intanto ero arrivato a Bologna, che era così calda, nell’estate scorsa, da poter cuocere le pizze sotto i portici; e c’erano due amici pronti ad accompagnarmi a Grizzana. Uno era un altro biografo del Maestro, Cesare Gnudi, e l’altro, il giovane pittore in cui simbolicamente si può ve dere in Bologna come un pronipote di Morandi, il pittore sottile, Sergio Romiti.
Così andammo. Morandi abitava in una pensione, ma così dissimile da una pensione, e così simile alla foresteria d’un convento, pulita, decente. L’aria entrava leggera, quasi di montagna. E invece è collina. L’aria, almeno, funzionava.
In quanto al paesaggio, niente che assomigliasse meno a quello che Morandi ha dipinto. Un largo orizzonte, un po’ come dal Passo di Radicofani, con tanti costoni e valloncelli, e perfino qualche bosco, ma lontano. Un paesaggio orografico, con l’aria vetrina e il cielo alto, mentre quello dei paesaggi di Morandi s’insinua sotto i tetti, diviene l’ombra della grondaia. Questo almeno si vide, mentre si aspettava Morandi nel salottino, che era come il parlatorio delle monache.
Morandi scese: non gli si era fatto dire i nostri nomi, perché la nostra visita doveva essere una sorpresa. Fu, credo, una gradita sorpresa. E una cosa mi colpì. Morandi aveva la camicia senza colletto e col gemello al cinturino, come nei suoi autoritratti, ai quali dà un ostracismo ingiusto e tenace. Come in quei rari autoritratti, in maniche di camicia e col gilet, nei quali si posano colori rari e segreti come nel collo delle tortore, e i bianchi suscitano ombre scure quasi i bianchi del Caravaggio: l’immagine sta come dietro un velo leggerissimo, qualcosa di simile, ancorché con tante differenze da annullare la somiglianza, avviene nelle figure di Corot. Ma anche in un altro autoritratto appariva il gemello, e questo ahimè distrutto, e proprio dal suo autore: dietro c’era uno stupendo cactus, e quello è risicato, come un disegno prospettico del Quattrocento, un mazzocchio quasi: il ritratto faceva pensare a nobili parentele, al primo Léger ad esempio, oltre che a Picasso. Forse furono questi parenti che indussero all’atto sacrilego, e inutile, oltretutto, perché la pittura era già stata pubblicata.
Morandi, ci disse, aveva fatto delle passeggiate, aveva cercato i funghi, li aveva fatti seccare al sole e lui stesso s’era abbronzato. La somiglianza con la forte e adusta maschera di Braque appariva ancora più singolare. E la pittura? Certo, aveva dipinto qualcosa: degli acquarelli. Ci fece salire in camera sua, per mostrarceli. Per salire in camera sua, c’era una scaletta di legno, e la camera era piccola, ma con una grande terrazza tutta per lui. Da quella terrazza Morandi dipingeva. Sul lettino bianco Morandi stese gli acquarelli.
Al paesaggio della finestra di Bologna ci sono abituato: e anche alle bottiglie e ai barattoli sul tavolino: il trapasso dall’oggetto al soggetto del dipinto mi è allora familiare. Ma qui il paesaggio era nuovo per me, e la ricreazione fantastica che subiva, doveva suggerire lo scandaglio subitaneo dell’introspezione. Ed ecco avvenire la rivelazione inattesa.
Eccettuata una casa scoperchiata, attigua alla pensione, che negli acquarelli si prestava alle metamorfosi più sconcertanti, a seconda di come, nelle varie ore del giorno, la luce e l’ombra l’affettavano o la ricomponevano, tutti gli altri motivi erano a grande distanza. Lontani insomma, in linea d’aria, qualche chilometro. E Morandi, che, s’intende, porta gli occhiali, li vedeva benissimo: e poi non ha da essere pittura interiore, la sua!
Questa rivelazione, che la maggior parte dei paesaggi dipinti a Grizzana, nei quali l’immagine si offre sull’orlo stesso del quadro, derivano invece da casucce e frazioni rustiche remote dall’occhio, dapprima mi sconcertò, poi mi illuminò.
Come il punto lontano sul mare che via via diviene un bastimento, come l’aereo che sulle prime si sbaglia per un falco, ecco la casa che avanza nella fantasia, diviene di scena. Essa è là, qualunque come una cosa qualunque, quando la sua facciata biancastra si illumina come una fronte, e un cielo pieno di luce la percorre come sangue, e gli alberi sbiaditi dalla lontananza acquistano la trasparenza e il timbro delle erbe su cui scorre un’acqua cristallina. Quell’avanzare dal fondo dello spazio come un ricordo dal fondo del tempo, ecco il simbolo stesso del miracoloso che è la creazione artistica, per cui la pittura non è natura, anche senza arrivare alla pittura astratta.
Guardavo ormai quasi col fiato sospeso quelle povere casupole su una gobba spelacchiata, guardavo gli acquarelli, e dentro me ringraziavo Grizzana, che, con la sua modesta venustà orografica, mi aveva dato modo di entrare un po’ da vicino e quasi con l’oscuro senso di avere violato un segreto, in quanto c’è di più raro, alto e misterioso nella natura umana.
Ma con Morandi non si parla di tali cose.
La Sibilla non ricordava, dopo che si era espressa, quello che aveva detto. Morandi lo ricorda, ma quel che dice allora, son date precisissime, solo date. Il paesaggio tale fu fatto nel ’28, l’altro nel ’32. No, quello che ha lei, non si vede da questa parte, bisogna passare la collina.
E così, dopo averci mostrato quelle carte, dove di colore ce n’è tanto poco da parere, sulle prime, quasi sbiadito, ma dove ancora si tramanda un’immagine d’una purezza e d’un rigore insuperabili, ci volle far vedere una pittura antica. Si trovava a Tavérnola, l’aveva scoperta Arcangeli, e doveva essere un Lorenzo Monaco.
Per andare a Tavérnola bisognava infilarsi in automobile, e fare anche una bella pettata a piedi, perché Morandi asseriva che l’automobile non ce l’avrebbe fatta. Ma prima, avevamo voluto vedere la casa dove stava Morandi negli anni passati, insieme con le sorelle. E non dirò della casa, perché proprio non si saprebbe come fare a descriverla, dopo aver detto che è un dado a tre piani. Ma rimasi subito colpito una volta di più dall’attitudine delle persone che l’abitavano e che Morandi conoscevano, verso Morandi. Già l’avevo notato per le altre persone della pensione, che stavano in giardino. Che diavolo volete che sapessero della pittura di Morandi, o che ci capissero, anche se l’avevano vista? Qualche eco del Premio della Biennale di San Paolo era arrivato fin lassù? Proprio non saprei dire. In realtà c’era il rispetto per l’uomo più che per l’artista, era un rispetto pieno di riguardo ma senza imbarazzo, era un’attitudine cordiale anche se riservata. E io pensai che componente meravigliosa della sua fama è questo alone di rispetto, di onorabilità, di decoro che lo accompagna come un’aureola invisibile, e invece quasi tangibile. Di quanta rinunzia, di quanto ritegno, di quanto sacrificio è intessuta una vita che, arrivata alla gloria più pura che possa avere un uomo, nasconde questa gloria dietro un velo di modestia, come sta il cuore dietro un velo di carne.
Contemporaneamente una mostra omaggio e una monografia su Mafai. Sono due anni che Mafai è scomparso, due anni nei quali il suo nome aveva finito per dileguarsi come l’acqua gettata sulla sabbia. Certo, dopo la morte, che dette luogo a un penoso spettacolo di accaparramento politico da parte di chi aveva avuto non poca responsabilità nel progressivo deterioramento del morale dell’artista; dopo la morte, si videro retrospettive malfatte, mal collocate, si udirono lodi a traverso. Nulla che veramente aiutasse a mettere a fuoco la figura di un pittore che, tra Morandi e Burri, era stato il migliore degli italiani.
Direi che nessun artista abbia pagato tanto caro i suoi errori, come Mafai; e prima di tutto perché non furono errori inevitabili ma errori volontari, dovuti a uno sforzo di rinnovamento mal posto che gli chiedevano più gli altri di quanto non ne sentisse bisogno nel suo intimo. Mafai sapeva assai bene che da se stessi non si può uscire. Se non fosse che la sua era una natura, intimamente, tenacemente contraddittoria: su una base primaria, impacciata ma autentica, si sovrapponeva un’intelligenza, indifesa, non dialettizzata, che galleggiava come l’olio sul vino. Questa intelligenza grezza e generosa non si amalgamava mai al vino e neppure riusciva a preservarlo in modo che non diventasse aceto.
Così era l’intelligenza a fuorviare Mafai. L’uomo restava semplice, sensuale, diretto, melanconico. Dava l’impressione che il suo cammino fosse intercalato da banchi di nebbia, da’ quali di colpo uscisse ritrovando allora una visione ingenua come quella dell’occhio di un bambino. Così il commercio abituale con lui presentava dei vuoti di aria improvvisi, ed era come se, standogli accanto, scomparisse di colpo. Restava, naturalmente, ma preso in uno dei suoi banchi di nebbia. Quando ne usciva di nuovo, era inerme: una parola, una critica, un giudizio, un incitamento potevano subito fuorviarlo. Perché aveva larghe aperture umane, perché sentiva il peso che un uomo, e tanto più un artista, si porta addosso per vivere con gli altri uomini: e questo peso non intendeva gettarlo via. Ma la sua natura profonda era un’altra. Mafai era tutto viscere oscure, la sua capacità di attrarre e fissare durevolmente aspetti inediti delle cose usuali coincideva con la capacità di specchiarsi nelle cose. Talché, non meno dei suoi autoritratti, sono autoritratti i fiori secchi e le case demolite. Le cose, per ritrovarcisi, per ritrovarle, dovevano offrirglisi come un riflesso della propria immagine.
I grandi nudi, del periodo più bello della sua pittura, sono tremuli d’una castità disarmante anche se raffigurino donne grasse viste dalle natiche. Né basta dire che è la stessa qualità di pittura dei fiori secchi; sono fiori secchi, perché sono Mafai che si specchia in loro come nei fiori secchi. Ma per specchiarcisi, Mafai aveva bisogno di questo oggetto riflettente, fosse un nudo o un fiore secco. Senza l’oggetto, senza questa presenza materiale che gli fugava la nebbia e lo costringeva a prenderne atto come di cosa emersa dal caos, Mafai non poteva rispecchiarsi solo in un colore, in una linea, in una forma geometrica. Se c’era un artista negato all’astratto, era Mafai. Fosse stato più giovane si sarebbe forse trovato una nuova via dell’Informale, ma quando comparve l’Informale, Mafai era già logorato e scosso da pulsioni contraddittorie, tanto politiche che artistiche. Le sue oscillazioni penosissime verso una pittura semplificata, per andare incontro al Neorealismo o al Cubismo, e i ritorni, quasi di nascosto, alle sue vedute e ai suoi fiori, magari smagliando il reticolo dei colpi di pennello, come se ferocemente spennasse i suoi dipinti famosi, raccontano con estrema chiarezza, come un sismogramma, l’effetto dirompente che avevano su di lui le teorie politiche e quelle artistiche.
Riformato, semplificato, frantumato, si avvertiva, negli sparsi avanzi di quella che era stata un’immagine intera e aurorale, come un fremito residuo, come quel moto convulso che, alla coda recisa di una lucertola, fa fare guizzi e contorcimenti quasi per riattaccarsi al tronco mutilato. Mafai forzò se stesso fino ad alterare la soave scelta cromatica che era riuscito a differenziarlo, lui impressionato tanto felicemente da Morandi, dalla rigorosa gamma morandiana. Alterava i toni, alzava i violetti, gli azzurri, i rossi. Ma anche forzati erano i rossi, i violetti di Mafai. In quelle mentite spoglie si rintracciavano le sembianze che si era imparato ad amare: come nella voce in falsetto di una maschera si attende al varco il passaggio irrefrenabile in cui si ravviserà una voce nota.
Mi ricorderò sempre la pena che mi fece, quando andai l’ultima volta nel suo studio a Santa Cecilia in Trastevere, in quello sconfortante falansterio, nudo come una caserma e squallido come una scuola elementare; lo trovai che rintracciava vecchi quadri, e me li mostrò. Accanto a quelle divagazioni, chiamiamole così, con le cordicelle e i colori di fondo leggermente marezzati come i suoi antichi cieli romani. Mi voleva convincere che ci si trovava benissimo, in questi nuovi panni, che era stata una liberazione per lui e tante altre cose che si ripeteva e ripeteva agli altri per crederci, lui che all’inizio era stato così indipendente, da andare a cercarsi come punto di partenza, quando fece la pittura che conta, un punto di partenza che allora era ignorato o disprezzato, nel 1931-32, la pittura di Morandi. Poi l’angoscia di un’attualità che sembra sfuggire e a cui si corre dietro, rimanendo sempre in coda.
E lo studio era rimasto lo stesso, pur essendo ora un inerte stanzone: lo stesso, perché vi era lo stesso disordine, la stessa accozzaglia di roba assurda, come da un trovarobe e cenci dappertutto. E lui era rimasto lo stesso, nel suo fondo, povero Mafai. Ma lo spingevano all’astratto, e allora i compagni lo dilaniavano, come l’avevano dilaniato prima, quando per venirgli incontro, aveva schematizzato le sue indimenticabili fantasie in forme sciatte e come ritagliate dalla carta colorata. Così quando usciva dal banco di nebbia, invece della sua adorata Roma, dei fiori appassiti gettati dalla finestra sul lastrico, delle donne grasse, e materne, trovava il critico che lo prendeva per mano per portarlo fra gli astratti concreti, la società di lusso del momento, e il compagno che gli faceva le boccacce perché aveva tradito la realtà.
Ora la monografia che gli ha dedicato Valentino Martinelli (ed. Editalia) rimette a posto certe cose che sono importanti a sapersi soprattutto per gli inizi di Mafai, quando nel sodalizio con Scipione e la Raphaël, sembrava – e per quanto tempo è stato scritto – che fosse lui a ricevere l’imbeccata dall’uno e dall’altra. Martinelli ha ritrovato delle opere datate, così chiaramente prescipionesche, che invertono il rapporto, anche se dopo, e Martinelli onestamente lo rileva, un riflusso di Scipione su Mafai sia ammissibile. Ma se queste precisioni ristabiliscono l’iter storico di Mafai e della cosiddetta scuola di via Cavour, è bene sempre ricordare che non è quello il periodo illustre di Mafai; ché, se fosse rimasto a un tale studio, ben pochi lo ricorderebbero ancora. Un primitivismo impacciato anche se c’è già il soggetto, anche se il codice si va rozzamente organizzando su una scelta di toni caldi e pastosi. Martinelli ci dà anche alcuni passi del diario e delle lettere, e sono passi molto caratterizzati, da’ quali, anche chi non l’ha conosciuto di persona, può estrarre il particolare accento che aveva la conversazione di Mafai, i suoi salti di umore, la bonomia romanesca. Il libro, insomma, è accurato e utile, senza fasto celebrativo, e con una comprensibile indulgenza verso quegli ultimi vani tentativi di Mafai verso l’astratto e l’informale.
La Mostra alla Nuova Pesa (Roma) risulta un utile com mento al libro. Non dico per i giovani artisti che si occupano ora di tutt’altre faccende, alle prese con i corpi solidi e con le costruzioni a terra, ma per i giovani critici che potranno vedere tutta una serie di opere, ormai da rintracciarsi di casa in casa, poco essendo rappresentato Mafai, seppure con cose egregie, anche alla Galleria nazionale d’arte moderna. Molto interessante è allora vedere alcune di quelle prime cose, come il Paesaggio dalla terrazza del 1928, i Tre pesci del ’29, gli Uomini oranti (addirittura da sbagliarsi con Scipione) del 1929. Il colore è fumoso e focato, i cieli tenebrosi, di un romanticismo ingenuo. A non sapere che Mafai andò a Parigi solo nel 1930, già si direbbe che avesse veduto Utrillo, Vlaminck e soprattutto Derain. Anche nelle carni come nell’Autoritratto del ’29, dal tono focato, con cui Derain intendeva rifare la grande pittura veneziana.
Ma in fondo, gli incontri più favorevoli della mostra sono i più inattesi, come quel bellissimo Modello del 1932, che, seppure non finito, è centrato in modo nuovo, agile, quasi sceneggiato, con quei cavalletti che si scaglionano in una profondità che non esiste, data e ritolta al tempo stesso. E il nudo è latteo, con ombre appena verdastre, come se fosse preparato a terra verde e gentilmente incipriato. Oppure, il gradevole, tenero Cestino del 1935, l’imponente Ritratto di Antonietta Raphaël, come una prima donna nel ruolo drammatico di Medea o di Norma. O ancora i Garofani bianchi del 1936, in quel cornetto che ricorda tanto un quadro famoso di Morandi (che ne fece anche un’incisione). Ma qui, dove l’ispirazione morandiana è più scoperta, la pittura lievita in un modo diverso; un colore quasi liquido e trasparente, e come una nebbia che fluttui nell’aria, donde il bianco dei garofani è attutito, quasi spento.
Tuttavia, delle pitture esposte, il Ritratto di Fersen, del 1943, è il quadro più imprevisto: c’è Goya, certo, ma con quale autorevolezza. E che bravura in quella camicia appena toccata dal pennello, sfilacciata di luce. Sono queste belle opere che si aprono, a chi le guarda, come una finestra. Giustizia verrà anche per il vero Mafai.
Questa mostra di Antonietta Raphaël-Mafai, di ritorno dalla Cina, non indulge all’incipiente retorica progressista che intende mostrarci questi paesi rinnovati senza più una lisca del passato. Quello che ha visto, la Raphaël, in Cina, sarà certamente molto di più di quel che ha dipinto, disegnato e modellato, ma, quel che è certo, ogni cosa ha dipinto disegnato e modellato con l’ingenuo fervore che è dote rara nei giovani, incredibile se sopravvive nella piena maturità di un artista. Ne è venuta fuori una Cina, quella degli acquarelli su carta millimetrata, che è una favola di immagini vegetali, arboree, edilizie, talmente in chiave di fantasia da non potersi appellare ad altra realtà vivente di quella che propone. La Raphaël ha ritrovato la stessa vena di quei primissimi anni, che si sono prodigiosamente allontanati nel ricordo, in cui il suo estro, accendendosi su oggetti da bric-à-brac, su dei tagli senza trucco di paesaggi comuni, servì di così memorabile esca agli artifici focati di Scipione e ai primi oscuri concepimenti di Mafai. La mostra che ella, di quei dipinti ritrovati, fece a Roma due anni or sono, fu veramente una mostra di cimeli. Tanto più meraviglia di trovare ora, in questi recentissimi acquarelli, un egual senso di nativa e misteriosa favola, come, da bambini, credo tutti abbiano provato nei piatti azzurri dell’Old China, così insensati e così prodighi di eventi, nel ponticello, nei cinesini, nel tempio che pare un inginocchiatoio e l’albero tutto pomi e niente foglie. Sperduti in quell’esotismo casalingo, che si mangiassero polpette o fagiolini con l’occhio, la Cina ci conquistò in primo luogo come un paese alimentare.
Nella Raphaël naturalmente è rimasto, accanto a una disposizione verso la realtà congeniale a Chagall, quel modo subitaneo e quasi insofferente di altri esiti all’immagine rispetto a quelli proposti, che possedé al massimo il più antico Chagall e la Raphaël manifestò subito in quei suoi primi pensieri pittorici. Con naturalezza, e, questo ne fa la lode suprema, senza forzature espressionistiche, ella trova i colori più squisitamente strampalati fuori dagli oggetti che li posseggono in proprio, il rosso dei cocomeri, il giallo delle margherite, l’azzurro della genziana; e certe nuvole come festoni, e tutto un pigolio di segni sconnessi e trepidi, per cui il foglio millimetrato – unica concessione alla industrializzazione della Cina – si perde in se stesso, nel proprio inservibile labirinto. Finché, con uno scatto inatteso, passa al ritratto ad acquarello che forse è il pezzo più cospicuo di questa Mostra, il Ritratto del pittore Chi-Ba-Sce.
Ma non vi sono acquarelli. Da molto non avevo veduto disegni della Raphaël, e ora ne espone un certo numero, dove la sua più nota esperienza plastica ha rinforzato di colpo la fuggitiva e quasi volante immagine in cui per la Raphaël si sparpaglia il paesaggio, il mondo vissuto in ansia e in faccende. E qui, tanto in questa artista, che si è fedele senza ripetersi, si accerta spontanea e radicata la delicata visione pittorica postimpressionista che, in Europa, si manifestò fra il ’20 e il ’30, ecco venire il ricordo di Pascin e di Foujita, che, rispetto alla Cina, neppure può dirsi topico, ma che poi consiste solo in certi improvvisi obnubilamenti, nel colpo di lancetta di un segno che taglia la carta, o nell’affondarsi di un tratto denso come un profumo greve, orientale. In tutto ciò non gioca, neppure da lontano, alcun neorealismo, e la diversità di “dizione” fra gli acquarelli e i disegni non è poi tale che gli uni a volte, come nelle figure, non raggiungano gli altri.
Né la Raphaël si è contentata di disegni e di acquarelli: ha riportato anche delle sculture. Dato che in questo campo si è particolarmente meritata una fama nazionale, si deve dire che la realizzazione di talune risente dell’appunto che non si addice invece alla plastica assai densa, da essere talora come costipata, che è sua propria, ma che richiede un’elaborazione troppo più lunga. Così può sembrare curioso, il fatto che risultano quasi più cinesi certe passate sculture delle figlie, che queste, tratte direttamente dalla Cina: perché cinese, allora, non si riferisce solo agli occhi a semi di mela, ma alla densità che evoca una figuretta Ming, al profilo non schiacciato ma compresso di una statua Tang. E tuttavia con la testa, quasi una maschera, del Saggio cinese, la Raphaël ritrova il momento migliore, l’espressione più matura, e insomma quello che fa di lei, senza possibilità di dubbio, l’unica autentica scultrice italiana.
In un mondo artistico come quello attuale, in cui sembra di assistere a una gara di strano pudore, per chi offra più edulcorati e anodini i propri simboli, la presenza di Antonietta Raphaël sembra prodursi da molto più lontano della Cina, dal “quaternario” della fantasia.
Chi sia Mario Ceroli, tutti lo sanno. La sua Cassasistina all’ultima Biennale ebbe successo, riscosse un bel premio, tutti ne parlarono. Ceroli era ormai un artista lanciato: dalla pista romana della Tartaruga si è poi trovato un po’ dappertutto e fino a New York. Ora è tornato a Roma con una scenografia, per il Riccardo III di Shakespeare messo su da Vittorio Gassman e dal Teatro Stabile di Torino, con la regia di Ronconi. Già a Torino è stato un successo, a Roma poco meno di un trionfo. E questo trionfo, più ancora di Gassman si chiama Ceroli. Il testo infatti di questo ingarbugliato, sanguinoso drammone, è, checché si dica, quanto di meno scenico si possa immaginare: immaginare, allora, un luogo di incontro e di scontro di tutta questa gente urlante, di tutti questi morti ammazzati, con l’ossessiva presenza di Riccardo III, come lo storico più che l’attore della sua propria vicenda, è un’impresa disperata, di quelle da realizzare o con i fondali uniti o con le proiezioni. Né so quel che sia peggio.
Ceroli è riuscito a dare unità visiva e occasioni sceniche sempre nuove a questo tumultuoso succedersi di assurdi quadri tragici: non ha fatto dei fondali, ha creato il vero protagonista di tutto il dramma, a cui Gassman ha offerto una voce soffocata e le donne tanti gridi come di terribili uccelli. La scenografia come protagonista, e non come spazio illusivo: la scenografia come concezione spaziale unitaria che ingloba lo spazio, il tempo, il colore, il suono e soprattutto l’azione. Basterebbe notare, a questo scopo, la voluta difficoltà di quella scala dai gradini altissimi e precipiti, sulla quale gli attori e soprattutto le attrici si arrampicano penosamente, arrancano come in un sesto grado. Orbene, codesta pena fisica non è certo richiesta dalla lettera del testo, ma aiuta a captarne lo spirito, questa orrenda ossessione della tirannide, questa inutile, vana fuga dal delitto, quando il delitto assume le dimensioni di una diabolica provvidenza. Quindi è simbolica e non è simbolica, in quanto che quella dimensione abnorme dei gradini finisce per pesare materialmente anche sullo spettatore, accrescendo gradatamente ma inflessibilmente il senso di incubo, di orrore, di fato esecrando che da tutto il dramma promana. Ho voluto citare subito i gradini, perché rappresentano come la prova del nove delle intenzioni e delle riuscite di questa scenografia eccezionale.
Ma detto questo è porre appena la premessa. Anzi bisogna fare un breve passo indietro, sull’autore bene inteso. Il Ceroli ha una formazione prima artigiana, e in questo sta la sua forza d’urto. Proprio perché a questa formazione artigiana il Ceroli sta attaccato come alla roccia l’ostrica, e guai se se ne staccasse. Formazione artigiana non significa unidirezionale. Il Ceroli fu ceramista, poi passò al legno: ricordo ancora certi suoi legni carichi di chiodi, bei chiodi fatti a mano, a suon di martello. Nel legno a poco a poco il Ceroli si è ritrovato come entro la placenta. Placenta assai ruvida, dato che il suo legno è quello delle casse di imballaggio, rustico, vile, sfrangiato, peloso. Ma è il suo legno, e da quel legno nacquero le sue sagome umane, oramai conosciutissime: soprattutto quel Piper e quella Cina che rappresentano quanto di meglio, in quel senso, abbia fatto il Ceroli, e certo tra le “riuscite” più notevoli dell’arte contemporanea, né solo italiana. Com’è che dopo questi indubbi raggiungimenti sembrò che l’artista si fosse fermato? Il nostro tempo scorre a una tale velocità che, di dieci anni in dieci anni, il volto dell’arte contemporanea cambia radicalmente. Ed è anche vano cercare a questi sovvertimenti una diretta ragione dialettica. La dialettica, semmai, va indagata così nel profondo che i nessi non possono che essere ipotizzati, nel migliore dei casi. Così accadde per il Neodada, divenuto poi Pop Art, così è accaduto per le Strutture primarie. L’antitesi dialettica della Pop, infatti era l’Op, ma il nuovo nato, le Strutture primarie, non è una fusione di Pop e di Op, né una sintesi. E se pur qualcosa c’entra, c’entra tanto poco. Sarà il colore acceso, il lucido, le forme esatte, tecnologiche: ma lo spirito del Pop e dell’Op è assente.
Lì per lì parve che l’avvento delle Strutture primarie sconvolgesse tutti i piani di lavoro di Ceroli. Poi però è venuta la Sala ipostila, esposta a Napoli e a Torino, che ha dato una chiara smentita. La Sala ipostila è la dimostrazione che Ceroli possiede quella dote dei veri artisti, degli artisti che in primo luogo hanno l’intuito, il saper risalire, cioè, da immagini secondarie, da riproduzioni sommarie, al nucleo formale di un’opera. Che ne sa, Ceroli, dell’Egitto? E come si può credere che da una fotografia della sala ipostila di Karnak si possa cavare qualcosa di utile, di afferente?
Io non so neppure se Ceroli ne avesse visto una fotografia: ma questa congestione di cilindri l’uno accanto all’altro, che assiepano lo spazio fino a renderlo ancora più invalicabile negli intercolunni che nelle colonne stesse, è il nucleo medesimo della sala ipostila egiziana. Ma naturalmente realizzata, invece che col granito, con tante assicelle di legno, sfaccettando i cilindri all’infinito, e con quel bel tono naturale del legno, ora grigiastro, ora latteo, ora rossiccio. Insomma, con un’ascesa verticale come un razzo, e senza imitare i parallelepipedi di Bob Morris, Ceroli rientrava in orbita. A ruota è venuta questa scenografia, che più che scenografia è architettura, nel senso che non vi si crea spazio illusivo, ma una spazialità tutta propria, dilatata, raccorciata, schiacciata, verticalizzata. Per far questo l’artigiano Ceroli, come già era riuscito a riesumare a suo modo lo spirito, per così dire, dell’ipostila egiziana, ha fatto tesoro di elementi culturali lontanissimi fra di loro, senza cadere in un lamentevole eclettismo, ma perché, attraversato da esperienze diverse e apparentemente contraddittorie, nella sua coscienza queste si scompongono come la luce che passa da un prisma. I risultati sono nuovissimi e assolutamente positivi. Si pensi a una tarsia di Lendinara, a questi boccascena con le valve mezzo aperte, in fondo alle quali si vede nell’ossessivo rigore prospettico, un mazzocchio o un astrolabio. Ebbene, qualcosa del genere è l’inattesa, travolgente apertura del primo atto: una grande sfera armillare che ruota lentamente al fondo di una triplice struttura a gabbia indicata nei montanti più che realizzata nelle facce; il tutto contenuto in pareti lisce e scandite dalle sottili tavole di legno, che, nella luce piena, diventano preziose come mogano o palissandro. È insomma come aver realizzato una tarsia di Lendinara in un ambiente di Saarinen… Ma nessuno si azzardi a credere che, con ciò, si offra il destro a un deprezzamento di questa opera originalissima, solida e aerea al tempo stesso. Questi dati di cultura, che si possono desumere o attribuire (probabilmente Ceroli non ha mai pensato né a Saarinen né a Lendinara), rappresentano il segno della vitalità creativa dell’artista, il sigillo stesso del suo essere artista. Che nulla si crea dal nulla. L’importante è di non ripetere, di non soggiacere, di non succhiare la ruota del primo in classifica. Ceroli ha fatto una fuga, per continuare in gergo ciclistico: è di nuovo in testa, ed è quanto di più italiano (sottolineo la parola e chiaramente in senso strutturale e non nazionalistico) ci sia oggi in Italia: fra giovani, ben inteso.
Tutto il seguito della scenografia è una serie ininterrotta di trovate: contro questo fondo che rimane fisso, ora si apre una specie di vano giapponese, ora ruota la scala; e tutte queste macchine sceniche in vista, senza cambiamenti prestigiosi di palcoscenici rotanti, dànno una forza, una schiettezza impagabile allo spettacolo. Al qual proposito si guardi con che intelligenza Ceroli ha riformato se stesso: a Foligno nella memorabile Mostra che fu fatta la primavera scorsa, Ceroli aveva esposto una specie di triplice gabbia, con una sua brava rete metallica come una stia da polli. Lasciò tutti interdetti. Vi si sentiva un’idea, ma al fondo di se stessa, come sottoterra. Ebbene codesta gabbia irrealizzata sta alla base della struttura centrale della scena, come pura volumetria spaziale, come scansione ritmica e simbolica divisione in regioni, come le “case” in cui si divide il cielo.
E che dire della stupenda realizzazione finale, con le sagome gigantesche che figurano la battaglia? Sono le figure della Cina, l’iterazione del medesimo, come anche in Wahrol; ma che forza drammatica assumono nel contesto dell’opera.
Forza e catarsi. E senza giochi di luci, in una solarità fissa e astratta. Di che, naturalmente, va dato lode anche al regista Ronconi, e senza dubbio a Gassman, a cui si deve questo spettacolo indimenticabile.
Spoleto ha allestito per Leoncillo una mostra antologica nei Chiostri di San Nicolò. Leoncillo era di Spoleto e Spoleto era giusto che lo facesse per il suo figlio più illustre. Solo che non vorremmo che la Mostra di Spoleto abbia disarcionato quella alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Chi ha conosciuto Leoncillo – e noi ne eravamo amici dal 1936 – sa l’importanza che per lui ebbe Roma; e quanto nobile, mai volgare, fosse la sua ambizione. Discreto, tuttavia era come quei personaggi di Racine che parlano sempre della propria gloria. Che almeno in morte, per chi l’ha stimato e lodato da vivo, gli fosse dato di ricevere quella consacrazione su base nazionale che si meritava e che, ufficialmente, non ebbe mai.
Comunque la Mostra di Spoleto (che bisogna guadagnarsi come il gioco dell’oca con continui arresti, ritorni sui propri passi, sconforti, non essendovi neppure una indicazione, una freccia che conduca ai Chiostri di San Nicolò) è una mostra, si diceva, ben fatta, dato che le sue mancanze erano praticamente inevitabili. Non solo – e non è poco – per la fragilità di queste ceramiche, ma perché certe cose o non più esistono, come la Partigiana di Venezia, o il bozzetto del monumento a Paisiello (che l’ineffabile comune di Taranto ha fatto distruggere o ha lasciato distruggere, non si sa bene, passati i dieci anni dall’infausto concorso) oppure erano inamovibili, come il monumento ai caduti della Resistenza ad Albisola (1957). Di altri periodi mancano le cose essenziali: ad esempio la maggior parte delle opere che espose alla Tartaruga nel ’57, soprattutto l’Albero. Ora, codeste opere, avevano un particolare valore, anche perché rappresentavano un momento di raro affinarsi nella scelta cromatica, e l’addio, in un certo senso, alle parvenze naturali.
Ma questo addio, Leoncillo non lo dette mai.
Rivedendo ora questa scelta di opere, che va dalle primissime Stagioni del 1939 a questi ultimi grandiosi e ricchissimi coacervi di materia, ora opaca, ora lucida, ora funebre, ora interiore come il cervello dentro una testa spaccata, la “figuratività” di una tale scultura appare indubitabile.
Leoncillo aveva una sottile vena poetica che, prima di rifondere le cose esterne, vi stendeva sopra uno strato leggerissimo, una membrana quasi, come fanno certi insetti per immobilizzarne un altro. In questa diafana trasparenza l’oggetto diveniva appena un po’ più lontano, appena un po’ meno distinto, appena un po’ più interiore. Allora lo ghermiva con forza: e certi suoi ritratti rimangono fra i più impressionanti del nostro secolo: il suo autoritratto, una introspezione; il ritratto di Donata, quello di Titina Maselli. Così, per lui, figurativo nato, allontanarsi dall’immagine fu solo un giro più lungo, come passare dalla circonvallazione invece che dal centro. Ma l’immagine riscoppiava fuori indomabile. E mai è stata più sicura, più autorevole e indipendente che nelle opere dell’ultimo periodo, diciamo così, informale. Completamente libero, rispetto a un oggetto preesistente, il gioco delle assonanze e delle memorie favoriva incontri splendidi e favolosi, recuperi sull’orlo di una passeggiata nel bosco, con i muschi, le resine che sgorgano dai rami feriti, i tronchi spaccati, le pietre amorosamente avvolte nei licheni. A questi “tagli”, come talora li chiamava, dava poi titoli antropomorfi, così San Sebastiano, nel ricordo di una sua opera giovanile quasi liquida più che disfatta. E questo apparente ripiego, di dare titoli figurativi a concrezioni di grès e di smalti preziosi, che non volevano raffigurare nulla, rivela assai bene la struttura profonda che sottostà a quelle opere come informava il suo autore.
Resta che Leoncillo fu artista raffinato e per nulla decadente, per nulla fuori tempo: ma nel suo tempo visse come venendo sempre da un altro, come, pur stando a Roma, veniva da Spoleto. Così ora, a vedere questa mostra riassuntiva, si avverte un continuo accompagnamento alle fasi dell’epoca in cui visse dal 1939 al 1960. Commentava il suo tempo, cercando un se stesso che fosse sempre al di sotto, come un fiume sotterraneo, di quel medesimo tempo a cui tentava di aderire in modo attivo e vitale, anche al di fuori dell’arte.
Ma la sua stella era saturnina, il suo tono era l’elegia e proprio ora, riguardando queste ultime cose, per lo più come minerali, bruciate, o con i carboni ancora roventi, si avverte con una fitta, come dentro vi fosse un tenace presentimento funebre, uno scoramento senza approdo. E forse la sua morte non fu improvvisa.
Nel ’39 Mirko era già uno scultore compiuto, sicché la sua fama si è sempre alimentata di quella illuminata giovinezza, anche se poi la sua scultura cambiò, e, in altra direzione, giunse peraltro a quel capolavoro che è la cancellata delle Fosse Ardeatine. Mirko era una personalità fredda e bollente, con un terreno vulcanico coperto di neve. La sua abilità manuale era funambolesca, eppure la sua scultura, anche quella così decorativa di questi ultimi anni, non fu mai artigianale. In realtà Mirko, pur se evoluto all’Astrattismo, fu sempre un artista figurativo, fino al punto di poter suggerire un’accezione puramente tecnica della parola forma. Da giovane, Mirko, modellava dall’interno, modellava il vuoto; la sua scultura nasceva come la forma di una statua fatta d’aria. Anche disegnare, allora, disegnava dal rovescio, su un foglio di carta carbone. Non era un motivo snobistico, come non era snobistico, per Leonardo, scrivere da destra a sinistra: ma, con questa sorta di scultura speculare, Mirko era potuto giungere oltre ad Arturo Martini, da cui pure discendeva in linea diretta; e da Martini assorbì, e poi da Cagli, un certo acculturamento eclettico che doveva fare appassire la purezza originaria della sua vena: ma purezza, intendiamoci, non puristica, anzi deforme, sganasciata, contorta. La purezza dell’immediato, della fiamma che divampa, come del torrente che si gonfia e travolge. Così era stata, torrentizia, ma come salutare, come rubesta, la sua scultura fino quasi al 1939.
Mirko resterà per quel periodo incandescente, e per la cancellata delle Fosse Ardeatine. Ma resterà. Nella storia della nostra arte moderna, Mirko, di poco più giovane di Manzù, e molto più giovane di Marini, rappresentò la svolta improvvisa, o meglio come quando a una pianta innestata scoppia un ributto franco al piede del tronco. Alla base dell’arte innestata, e quante volte, di Martini, emergeva allora questo virgulto eterodosso, che pareva grezzo, informale addirittura (la parola, è ovvio, non esisteva ancora) e invece era come se la forma fosse esplosa per autocombustione, quella forma, che, appunto, era forma di vuoto.
Generoso e schivo, Mirko era poi andato in America. Lo vedevo ormai di rado, mentre prima, negli anni lontani fra il 1936 e il ’44, lo frequentavo spesso. In Italia, lui friulano, forse non sentiva più il terreno propizio di una volta, quando, a Roma, tutti i giovani stavano intorno a lui, e l’Egeria del tempo, Mimì Pecci-Blunt, su di lui e pochi altri – Mafai, Afro, Capogrossi – aveva fatto fermare la sua cometa.
Ma non mi scorderò di averlo visto lavorare: la velocità del segno, quando disegnava a rovescio, come con uno stiletto, e il segno sembrava sfriggere, sulla carta, come un ferro rovito nell’acqua. In quegli anni aveva uno studio sul colle capitolino, accanto al Campidoglio. Si vedeva il Foro, là sotto, e lui e il fratello Afro disegnarono quelle colonne, e mentre, nella pittura di Afro, divenivano poi lunari e languide, nei tratti mordenti di Mirko si depositavano come un intrigo di filo spinato.
Con quel suo profilo scheggiato, la taglia media e fortissima, sembrava che dalle dure Alpi friulane, da cui discendeva, avesse in sé tratto un sangue senza scorie, una salute limpida e fredda come l’inverno lungo di lunghe notti piene di stelle e di gelo. Ma ormai era lontano dalle sue Alpi, come da quei primi anni di giovinezza: in cui è riposta la sua fama, e il suo nome è scritto nel bronzo, non sull’acqua.
Chi conosce Capogrossi e non la sua pittura, o la sua pittura e non Capogrossi, non arriverebbe mai a pensare l’uno per l’altra. Un signore così distinto e ghiotto, con i suoi raffinati foulards e i cachemires impeccabili, come accordano con la felice, lucida pazzia della sua pittura? Poi può succedere di capovolgere il giudizio, di trovare sanissima la pittura e pazzo il pittore, felicemente pazzo come felicemente sana la pittura. Tutti ormai la conoscono, tutti, crediamo, sono stati soggiogati dalla chiarezza d’una pittura che è scrittura e di una scrittura che non deve significare nulla. Significa se stessa in una presenza incontestabile.
Certo, si vale di una forza decorativa che finisce per attrarre chiunque, perché qui nulla v’è mai di sgradevole; il nitido fondo bianco, le processioni dei segni incolonnati come insetti, o come un unico segno tipografico nelle sue varie grandezze, il cauto, preziosissimo cambio di colore. Questi colori sono limpidi e come fossero usciti dal tubetto. Non ci credete: sono fatti e preparati, come se invece di applicarli a uno dei suoi segni misteriosi, Capogrossi dovesse preparare un maquillage: quei piattini pieni di polveri leggere e splendide, che stanno, appunto, fra il maquillage e i barattoli dell’erborista: e quello potrebbe essere peperone dolce macinato, l’altro pistacchio, l’altro malva, ma proprio il fiore quando è fresco. Invece sono colori, e Capogrossi se ne servirà pochissimo, ma con quale sagacia.
Ad un’altra cosa fanno pensare i quadri di Capogrossi: alla scrittura musicale ora che l’hanno alterata, traendola dal pacifico pentagramma, questi indiavolati di Nuova musica: sono sicuro che, unici fra tutti i quadri, questi di Capogrossi si potrebbero suonare.
Ma stiamo parlando per celia. La musica dei quadri di Capogrossi non è musica, è pittura.
Capogrossi ha inventato la scrittura più limpida, più leggibile, fra quante ne esistono: la scrittura per la scrittura, la scrittura che anticipa sulla parola. Pure c’è stato un tempo, il primo tempo di Capogrossi, in cui la sua pittura gli assomigliava: era una pittura gentilmente tonale, quella che ora è rimasta solo nei suoi foulards e nei suoi pullover…
Quando Capogrossi comincia a contare, quando inventa se stesso di sana pianta, lascia i modelli e il paesaggio e si mette a esprimere con una lettera d’alfabeto immaginario, che potrebbe essere una A o una M, o anche la sezione di un Scarabeo; quando Capogrossi ha il suo felice colpo di pazzia, è solo, non ha più stelle o comete che lo guidino. Si orienta da sé, come gli uccelli che emigrano.
Si potrebbe credere che, per bravo che sia, ma a lungo andare, queste progressioni all’infinito di un segno che è sempre lo stesso possano essere monotone. Niente di meno monotono. È impossibile non rimanere colpiti dalla freschezza che alita dai suoi quadri.
Capogrossi è romano come era romano Mario Mafai: ma il caro Mafai fece un salto nel vuoto quando volle divenire astratto, lui, il pittore delle ceneri e dei cieli di viola come il cielo dell’Attica. Capogrossi, che è in fondo un suo coetaneo, trovò se stesso, invece, trovò il suo linguaggio, divenendo astratto: è la differenza che passa fra l’apostolo e il convertito. Non sono di moda né l’uno né l’altro: ma con l’apostasi si rinnega il passato, con la conversione si guarda al futuro.
Il romano Mario Mafai era ansioso di rinnegare il passato, il romano Giuseppe Capogrossi guardò sempre al futuro.
Ecco la differenza.
Quando Piero Sadun venne a Roma, si era alle soglie dell’ultima guerra, giovanissimo e con una loquela così amabile, disegnava con un tratto sciolto e leggero, tutto esposto e senza cancellature. C’era ancora nell’aria il ricordo dei disegni di Scipione, c’era il disegno amaro alla Grosz, ma con una vena di bonomia strapaesana, di Maccari: il disegno di Sadun non assomigliava a nessuno di loro. Il tratto era sottile come quei fili di ragno che volteggiano nell’aria di autunno per le strade di campagna, troppo leggeri per posarsi, resistenti e invisibili: fu un peccato che non continuasse quella strada. Ma Sadun era molto dotato e questo lo portava a disperdersi per tanti rivoli.
Quando finì la guerra, ritornato da avere fatto il partigiano sulle montagne aretine, cominciò una pittura tutta di colore, come rotta di singulti, attraversata da lame di luce che sfrangiavano le forme e slabbravano i colori. Codesta pittura, che si pose su un piano chiaramente espressionistico, fu fatta a Roma da un gruppo di artisti, che poi generalmente presero altre strade, che già allora apparivano fuori strada, ma non erano fuori strada che per chi sta attento solo alle parole d’ordine, alle mode imperative quanto caduche. Con Stradone e Scialoja, Sadun faceva una pittura sua, come d’altro canto Leoncillo modellava cose sue, strazianti e straziate, d’un’intensità che non era mai decorativa. Si dovrà pure riconoscerlo un giorno, e soprattutto ora che si valorizzano anche i silenzi, le tele vuote, i pensieri messi sulla carta perché non mette conto passarli sulla tela.
Comunque quell’Espressionismo romano ebbe breve vita. Ognuno di questi artisti prese una direzione diversa: e fu una direzione astratta, per lo più. Prima di questa nuova strada, Sadun ebbe una fase cubista, su una base cromatica scura, con delle scomposizioni che lasciavano sempre sopravvivere qualcosa, come un lampo, dell’oggetto di partenza. Ma sempre, come prima e come sarà dopo, c’era, nel suo modo di aggredire la tela, una delicatezza, una scelta sottile, il gusto di una pittura che, seppure dovesse apparire gradevole, tendeva a essere una pittura per la pittura.
Il processo verso l’astrazione si compiva intanto senza stacchi violenti, proprio per una emergenza sempre più esclusiva del colore: non più un colore gridato, rotto, alla Soutine, ma grandi stesure, che poi dovevano arrivare a queste ultime, internamente sommosse, con variazioni minute e minime, ma come un mosaico dove l’unità di tono assorbe la frammentazione delle tessere. Questi quadri monocromi in apparenza, ma non in sostanza, sono stati visti a Roma e a Milano, e rappresentano uno dei momenti buoni, non solo dell’artista ma anche della pittura italiana contemporanea. Piero Sadun è morto su questa soglia, ed era su questa soglia che volevamo ricordarlo. Ma per chi lo conobbe, lo frequentò, ne fu amico, ben altro c’è da ricordare. E col rimpianto più amaro.
Era la vita stessa, l’incoercibile gioia di vivere, di parlare, di essere presente. Nel mondo torbido in cui viviamo, in piena contestazione, nella frana continua di tutti i valori antichi che non vengono rimpiazzati dai nuovi, le persone con questa carica vitale e positiva sono sempre più ridotte e più rare. Ci vuole forza, se non incoscienza, a essere lieti: Piero lo era senza incoscienza, ma con la forza ancora di una prima gioventù, che stupiva e contagiava beneficamente chi lo avvicinasse.
Aveva fatto dell’Accademia dell’Aquila una specie di Parnaso, chiamandovi i nomi più allettanti anche della letteratura, Arbasino, e della musica, Bussotti. Osava accostare gli elementi più pericolosi, quasi come lo zolfo, il carbone e il salnitro. Fece delle miscele tonanti, che riusciva sempre a dominare e a sedare. Finché un male implacabile, che due volte fu quasi debellato, e due volte riemerse con furore, non lo ha ridotto al silenzio, nella sua città, Siena, dove non abitava più da trent’anni, e ora per sempre.
Ora che Carlo Levi ha oltrepassato la frontiera a cui sembrava non dovere mai giungere con quella sua olimpica serenità, quel modo di planare sopra le cose, allo stupore e allo sgomento che provo, capisco perché me lo raffigurassi come fra i personaggi del Limbo dantesco: “parlavan rado con voci soavi”. Né altrimenti aveva suonato la sua voce con Cristo s’è fermato ad Eboli, allo scadere della strage, degli odi, delle persecuzioni: impressionando tutto il mondo.
La sua pittura aveva raggiunto se non un pari apice, uno stato di serenità che contrastava alla turbolenza espressionistica della pennellata, ma solo apparentemente. In realtà, con lui che era stato il primo di una breve stagione espressionistica italiana, imperniata più su Munch che sugli espressionisti tedeschi, quel movimento a vortice all’interno del quadro era una tempesta in un bicchiere d’acqua, perché subito sedato, in primo luogo da una scelta cromatica tenue fino a essere leggiadra, ma non fatto coi cascami degli impressionisti come anche nel più pittore dei torinesi del gruppo dei sei, Menzio volevo dire. I toni limpidi, la tavolozza impastata col chiaro di luna di Carlo Levi rappresentavano in un certo senso un parallelo di Marie Laurencin, ma il contorcimento plastico, con cui sopperiva all’assenza di ombre, dava alle sue seriche matasse un senso di così felice e fuggevole attualità, che proprio riportava alla sua aria serena, a quel sorriso aperto come affacciato nel mondo.
Così io lo conobbi, che aveva una mostra alla Cometa di Roma, e fu allora che comprai una Natura morta che è tutta fatta di frutta, ma che sembra distillata da fiori esangui, crisantemi del giorno dei morti, ciclamini di bosco d’autunno: perché quelli di primavera sono più cremisi.
Si era circa al 1935, e il vergognoso ostracismo agli ebrei non era cominciato. Da allora ci rivedemmo spesso. Andavo a trovarlo a Firenze, nel suo studio verso il Cimitero degli Inglesi: mi fece anche un ritratto. Poi ci si vedeva a Fiesole da Paola Olivetti, e ancora nel suo studio, con serate clandestine e indimenticabili. Dopo doveva venire l’esilio e il libro memorabile.
Ci si rivede subito, appena passata la tempesta e cominciata quell’altra. Carlo aveva messo lo studio a Palazzo Alfieri, da cui vollero sloggiarlo a forza, con scritte insultanti sulle pareti delle scale, che tutti dovevano leggere: dovevano per forza di cose. Eppure l’ho sempre visto col suo sorriso sulle labbra, come una statua arcaica greca.
Per quel sorriso, che era nelle parole, nei gesti, nei fatti esterni, la sua pittura poté continuare senza scosse, non sempre allo stesso livello, ma sempre come una testimonianza immediata, una sciarpa colorata che ondeggia al vento, un prato che si piega, una presa di grano maturo.
La sua presenza aveva delle caratteristiche particolari, perché non era al presente, né al passato. L’ho detto: Carlo Levi planava sulle cose e per questo non occupava un posto, non lascia un posto vuoto, ma come quella triste voragine, che si forma dove una pianta secolare fu sradicata. Lì non ricrescono piante, per molto tempo neppure erba: c’è come una sterilizzazione prodotta dalla forza vitale che occupò e immunizzò il luogo.
Pochi mesi fa, al Palazzo del Tè a Mantova c’era stata una mostra sua globale, che mi rincresce moltissimo, ora, di non aver visto, ma che sul momento non mi sembrò urgente di vedere, perché la pittura di Levi la conoscevo benissimo e cammin facendo, e non sapevo anzi, con tutta franchezza, quanto le giovasse uno spiegamento di forze integrale. Ma in realtà in quell’espressione nel tempo e nello spazio c’era lui in pieno e non solo la sua pittura.
È consolante, tuttavia, che quell’esposizione fosse stata fatta mentre era in vita e nessuno pensava che dovesse lasciarla: non una commemorazione, dunque, e neppure una celebrazione, che non è meno triste, ma un atto di vita, una specie di pubblica confessione che rinfocola nell’esistenza e si proietta nel futuro.
Ora il futuro si è chiuso, ma Levi pittore rimarrà nella sua grande enclave che lui stesso aveva operato nel presente. Passano le mode, passano le attualità fittizie, tanto più in un’epoca sterile come la nostra in cui si raccolgono le briciole, anzi se ne inventano, ma proprio come briciole. In questo senso il giudizio non tocca a noi.
Tocca solo il rimpianto, ma anche la certezza di avere conosciuto una persona saggia come un Numa, aperta come un tribuno della plebe, disposta al bene come un curatore di malati. Ma già che era anche dottore, Carlo Levi, e di questa originaria e non perseguita professione aveva conservato il meglio e distribuito a tutti i ripieni della sua vita. Degna di essere vissuta, degna di memoria.
L’inaugurazione del monumento alla Resistenza e della Mostra antologica di Manzù a Bergamo non è solo un avvenimento civile di alta importanza e una tappa onorevole nella vita di un grande artista: sono due eventi che vanno al di là di loro stessi, proprio perché avvengono a Bergamo e Manzù è nato a Bergamo. Non voglio farne un fatto di orgoglio cittadino né tanto meno campanilistico: che il monumento alla Resistenza sia stato donato a Bergamo da Manzù, che Manzù sia di Bergamo ha un significato, un valore, un monito che travalica di gran lunga il dono e il luogo di origine.
Bergamo, festeggiando la Resistenza, festeggiando Manzù, inneggia a se stessa, inneggia al meglio di se stessa.
Manzù non è un figlio comune, per quanto onorevole, di questa città: è un artista che ha portato il nome dell’Italia, con onore e ammirazione, in tutto il mondo. Dall’Europa al Giappone, dagli Stati Uniti alla Russia, chi dice Manzù dice Italia, dice una tradizione artistica risorta, l’onore attuale di una tradizione che è cultura, civiltà, rispetto.
Rispetto dei valori umani, innanzitutto, rispetto di quell’apice della umanità che è l’arte, nel cui nome non dovrebbero esserci guerre e splendere solo la pace. Ed è giusto ed è bello che nel nome della pace, Manzù, abbia avuto un premio insigne.
Tutto questo non è retorico; è garantito dalla storia e nella storia s’iscrive.
Di tale alone internazionale che circonda Manzù era doveroso far parola in primissimo luogo, e proprio qui, a Bergamo; che a nessuno sfiori il sospetto che si stia celebrando una sagra provinciale per un artista bergamasco, che, alla sua città ha regalato un monumento d’arte e di virtù civili, e a cui la sua città, per ringraziamento, dedica una mostra antologica.
In questo senso, Bergamo, viene buon ultima, dopo le mostre che si sono succedute in tutto il mondo, e dopo che oltretutto, Manzù, era stato l’artista prediletto di quel grande papa, grande anche per i non credenti, che fu il bergamasco Giovanni XXIII.
Comunque è sempre bello che Bergamo faccia omaggio a un suo figlio all’apice della gloria, il quale, all’apice della gloria, ha voluto fare un dono alla terra natale del monumento che ne esalta le virtù civili.
Con questo sembrerebbe che tutto fosse detto: ma tutto non è detto e, se anche già detto in altre circostanze, vale ripeterlo. E sia lecito affermarlo a me, che da quasi quarant’anni mi occupo criticamente di Manzù, da quando, posso dirlo, lo scopersi nel 1939, e subito ne intuii le grandi doti di plastico nato, di poeta sottile, così affettuosamente umano.
Perché la scultura di Manzù può anche non piacere, ma nel senso edonistico di chi non ama il dolce e preferisce il salato; nessuno tuttavia può negare, o nega le sue capacità critiche, che alla base di questo artista, ci sia una dotazione originaria irriducibile, qualcosa di simile a quello che fa sì che una sorgente naturale emetta sempre la stessa acqua con la stessa composizione.
Questa permanenza nella scaturigine più intima è quella che garantisce nel tempo la costanza di uno stile, che, ciò nonostante, può pure cambiare, eppure rimanendo inconfondibile il suo autore.
Perché, certo, Manzù dal 1939 a oggi non è rimasto lo stesso, il suo già lungo cammino si costella di tappe importanti, ma sempre tappe di uno stesso artista, di una medesima volontà d’arte. È per questo che ho usato il paragone con una sorgente che dà sempre la stessa acqua: ogni vero artista è questa sorgente, ogni vero artista cambia senza cambiare mai definitivamente.
E forse che Giotto non è Giotto da Assisi a Padova a Firenze? E forse che Michelangiolo non si ravvisa scultore, e spasmodicamente lo stesso, nella Centauromachia giovanile come nella senile Pietà Rondanini?
Ma si dirà: e allora Picasso? Non esistono almeno cinque, sei, cento Picasso? Eppure anche questo è vero limitatamente al fatto che un artista come Picasso possedeva già inizialmente vari registri su cui agire, come un organo a diversi manuali.
In realtà le doti originarie di Picasso continuano in sottofondo dal principio alla fine: la sua incapacità di negarsi a un messaggio figurativo – per quanto vicino all’astratto, Picasso rimase sempre figurativo – la sua invenzione lineare, abile fino al virtuosismo, che rimase intatta fino a novant’anni; il suo rispetto per l’arte del passato, per cui ha rielaborato senza fine Cézanne, Delacroix, Velázquez. Appunto così diverso e nella diversità, così uguale a se stesso, alla sua vocazione originaria. Ma come una fonte dalle cento cannelle, come le sorgenti di Castellammare, dove si cura tutto, ma è sempre Castellammare.
Quando nasce come artista, Manzù lombardo, si riattacca a una vena lombarda: ma fu facile accorgersi che questa vena lombarda di Medardo Rosso non era l’unica direttiva. Manzù viveva nel suo tempo, non in un tempo lombardo, e se fu abile a trarre, dalla lezione di Medardo Rosso, il suggerimento di una scultura atmosferica, che trasudava da se stessa, questa lezione fu integrata alla conoscenza del Picasso giovanile, del Picasso dell’epoca blu e rosa, in cui si riscopriva la tenerezza di un’immagine umana che vorrei dire periferica, dei circhi di sobborgo. Le donnine nude di Manzù, a quel tempo, così esili ma nascostamente morbide e materne, hanno la dolcezza lombarda, il flou gentile di un’immagine appena sfocata dall’imbarazzo di trovarsi nude e dal desiderio di piacere.È una scultura che sfiora l’intimismo, ma che ha una sicura regia plastica: mai un particolare di troppo, mai un accento virtuosistico.
La scultura sa tenersi indietro e non avanza più che tanto all’occhio. È a questo punto che interviene il David fanciullo accosciato, questa prima statua a tutto tondo, quasi a grandezza naturale, in cui la visione si sfaccetta come nella plastica arcaica greca. Eppure è ancora lo stesso Manzù dei nudini di cera, inconfondibile: ma qualcosa si è aggiunto, quella struttura per piani, per diedri, che dànno, alla statua bellissima, uno scatto interno, una continua novità di veduta, come vedere la faccia nascosta della luna.
Il David accosciato è la nuova scaturigine di Manzù, ma naturalmente non elimina quel senso basilare del bassorilievo che aveva visto sorgere il primo Manzù. E basti ricordare la serie superba delle Crocifissioni: quello che erano, come purissime opere d’arte, quello che furono come atto di coraggioso rigetto all’oppressione nazi-fascista. Prima della Resistenza, quelle Crocifissioni, con l’altra di Guttuso proprio qui a Bergamo, furono un atto di resistenza attiva, anticiparono la resistenza.
Si trova dunque, sin dall’inizio, questo duplice binario, artistico e civile, alla base dell’opera di Manzù. E mi piace sottolinearlo, perché a un certo punto di una carriera fortunata, può capitare a qualsiasi artista di presentarsi alla celebrazione di un ideale politico o civile, senza averne partecipato come della propria vita vissuta. Per Manzù non così: nessuno gli aveva chiesto di fare quelle Crocifissioni, nessuno gliele aveva ordinate. E io mi ricordo, come apparvero incomode a tanta gente che pure le apprezzava dal lato artistico e lo scandalo che procurarono. Quelle bagasce accanto al Cristo, quei sacripanti nudi con l’elmo a chiodo. Quanti ne provarono uno sdegno insulso, che non volevano capire, che non volevano vedere il significato vero. Anche un bravo sacerdote se ne scandalizzò, quel Don Giuseppe De Luca, che mi onoro di aver convinto, e che doveva poi essere il pugnace assertore di Manzù, quando si arrivò al sudato certame della porta di San Pietro.
Sarebbe assurdo a questo punto tentare di ripercorrere passo passo un itinerario così ricco come quello di Manzù: né io pretendo di farlo, e neppure pretendo di fare da guida a questa Mostra antologica che ha la parola di per se stessa, dà la parola a se stessa.
Ma le tappe essenziali non si possono tacere. E la porta della Morte in San Pietro è stata una tappa fondamentale: il giro di boa più spettacoloso che l’arte di Manzù, nella sua fondamentale fedeltà a se stessa, abbia compiuto. E quanto sudato, e quanto sofferto. Il primo concorso, il secondo concorso, le umiliazioni di un ambiente sordo e fondamentalmente ostile. E fu lì lì per cedere, per rinunziare. Ma qui lo soccorre l’amico De Luca, che della porta di San Pietro per Manzù, aveva fatto la sua battaglia.
Ormai le premesse ideologiche erano troppo diverse per Manzù: troppo tempo era passato, altra fede lo animava. Ma restava la giusta ambizione di collocare una sua opera in un posto così degno, nella città che a torto o a ragione si chiama eterna. E l’opera nacque, prima a rilento, poi con un bel furore. E nacque, dopo avere fatto la prima prova nella porta di Salisburgo. Ma da quella di Salisburgo alla porta di San Pietro, il divario nel tempo è breve, quello formale, fortissimo.
Nella porta di San Pietro Manzù assumeva una dimensione nuova, e il bassorilievo subiva una svolta.
Certo Manzù, nei bassorilievi famosi delle Crocefissioni, non si era ispirato al solo Rosso: la possibilità di Manzù, di recuperare una tradizione eletta, quella del Rinascimento, di Donatello e di Francesco di Giorgio, aveva dato alle Crocifissioni un sigillo formale di aulica bellezza e come un passaporto nel tempo. Ma era sempre il piccolo bronzo, che rappresentava la misura ideale di Manzù, un po’ come la medaglia per il Pisanello.
Nella porta di San Pietro non ingrandì il piccolo bronzo: cambiò gravitazione. A un tratto c’è un recupero dell’antichità classica che non avviene per citazioni ma proprio nel senso del ritmo, della cadenza, della spazialità. Naturalmente i bassorilievi cambiano di dimensioni e anche di spessore. Il fondo, da fondo atmosferico, diviene una condensazione della spazialità dell’immagine. Il bassorilievo schiacciato è modellato come un disegno, che sta sul piano, ma come fosse a tutto tondo. Manzù disegna modellando e modella il disegno: in nessuno scultore il disegno è stato più connaturato alla scultura. E questo non indica una contaminazione fra generi diversi, ma indizia quella scaturigine unica per cui si è ricorso al paragone con la sorgente. Nei bassorilievi della porta di San Pietro la verosimiglianza cede allo stile, e lo stile è questa visione di una tridimensionalità in superficie, che si deprime, si estolle, si schiaccia, si solleva. Plastica pura che origina straordinarie sequenze di pieghe, che quasi non hanno bisogno di caratterizzazioni umane: sequenze volanti, come gli angeli della Morte della Madonna, dove quel che conta è il ritmo quasi frenetico, la continua osmosi dal fondo alla figura.
E la plastica diviene anzi più secca e tagliente: vedere quel fascio di spighe e i sarmenti di vite che fanno da picchiotti della porta, dove la rassomiglianza naturalistica è solo apparente. Proprio in relazione a quei picchiotti, nacque la prima seggiola con la natura morta, che fece sensazione allora, quando non sembrava che il genere natura morta si adattasse alla scultura.
Io che ho potuto seguire l’elaborazione della porta della Morte pezzo per pezzo, ne ho conservato il ricordo come di un’esperienza impagabile. Anche perché la vicende che aveva attraversato Manzù, vicende familiari, erano state molto tristi e in più c’era stata una grave malattia, col pericolo che le une e l’altra fiaccassero la resistenza dell’artista.
E mi ricordo, nel frattempo, le udienze che aveva, e che mi raccontava, con Giovanni XXIII, e veramente la luce che si spandeva da quell’umanità così diretta e autentica. Di certo rappresentò uno stimolo importante nella gestazione dell’opera.
La porta ora, nell’atrio di San Pietro, fra le sue brutte consorelle, a parte la porta del Filarete, splende di una luce pacata e perenne, ed è l’unica, fra tante che ne sono state stoltamente immesse in monumenti antichi, a giustificare se stessa.
Comunque la porta di San Pietro rappresentò il definitivo giro di boa di Manzù. La sua scultura era divenuta ormai di grande formato. Il che, vale ripeterlo, non si riferisce alle sole proporzioni, ma riguarda proprio il ritmo interno, la strutturazione formale, il respiro profondo.
Alla porta di San Pietro seguì un’altra porta, che si trova a Rotterdam, una porta nel nome della pace e di quelle gioie familiari che Manzù aveva rinnovato con due bambini. Nella grande facciata spoglia della chiesa olandese, la porta di Manzù non più divisa a pannelli, fiorisce con un rigoglio giovanile, con accenti plastici di grande forza.
Ormai la nuova misura s’era imposta a Manzù, che se anche farà ancora piccoli bronzi e gioielli squisiti, costruisce grandi statue, per lo più stanti, rielaborando in moduli sempre più rigorosamente geometrici i suoi cardinali, le sue figure femminili.
Ma un’altra tappa fondamentale fu data dalla elaborazione del gruppo degli amanti, in tante versioni da strabiliare. Qui la grande novità era data da una struttura estremamente complessa, raggiata, in cui si moltiplicavano i punti di vista e da un nucleo centrale scaturivano gli arti dell’uomo e della donna come in una nuova composizione anatomica. Intendiamoci: non c’era nessuna scomposizione cubista, ma proprio nell’intreccio e nello snodo era come se i vari arti si disponessero in modo diverso. Tutto il gruppo acquistava una dinamica straordinaria, ma così differente dalla dinamica barocca. Le versioni furono diverse e numerosissime, in vari formati e anche in varie materie, perché, oltre al bronzo, Manzù usò il marmo; e forse nelle sue rare sculture in marmo, il gruppo degli amanti è il più impressionante. Quel che colpisce è che in proporzioni tanto maggiori del vero, abbia salvato, Manzù, la delicatezza del particolare, l’affinità elettiva col disegno; certi tratti dello scalpello che sono come fossero tracciati sulla carta, con lo striscio dell’inchiostro assorbito dalla carta. Qui, in questo candido marmo, le pieghe tracciano appena una linea azzurrognola, ma il senso è lo stesso, ed è un senso assolutamente plastico. C’è solo da rimpiangere che questo gruppo memorabile non sia stato esposto in tutta Italia, perché la fotografia non può darne che un’idea approssimativa, e intanto perché la grandezza delle dimensioni è direttamente proporzionale alla risultanza plastica: più in piccolo non sarebbe più la stessa cosa. I volumi si sono rassodati, i particolari tendono a fondersi nel modulo del corpo o del volto, e si noti il fatto che Manzù elimina certi dettagli, e non di poco conto, come gli occhi, senza dare l’impressione di un volto cieco; guardando quel volto, alla giusta distanza, gli occhi si vedono come se ci fossero.
A questo punto è bello ricordare che dell’opera di Manzù esiste un museo vivo, ora qui esposto, che è come uno studio perennemente aperto e che tutti possono visitare: la Raccolta degli amici di Manzù, formula eufemistica dietro cui si nasconde l’ideatrice della raccolta omaggio, la Inge Manzù, che delle statue di quella eccezionale raccolta è come l’ispirazione perenne.
Il Museo della Raccolta, ad Ardea, è il più bel Museo di arte moderna, così semplice e funzionale in un giardino chiaro, nella distesa ondulata e melanconica della campagna romana, ma sotto un sole che fa scintillare i bronzi come fossero di oro.
Si arriva così ai due monumenti ultimi, la grande statua marmorea per il sepolcro di Raffaele Mattioli, e il gruppo che ora l’artista ha donato a Bergamo.
La statua per Raffaele Mattioli ha una solennità semplice e diretta: sembra un ossimoro, e lo è, ma è il solo modo per descriverla, per antitesi. Solenne è la posa eretta, assolutamente nuova, con un grande fascio di pieghe raggruppate sul davanti della figura: è ancora un altro esempio della fertilità plastica del motivo delle pieghe, non già come inerte descrittivismo, ma come fulcro stesso della elaborazione scultorea. Nel candore del marmo queste pieghe corpose e rilevate hanno sbattimenti di ombre trasparenti, che la materia lucida riceve e rifrange: si forma un alone, che non è più il lontano alone atmosferico della tradizione lombarda, ma come un’emanazione propria della scultura, che, in quell’alone, esibisce il suo spazio, e la sua distanza.
Il secondo gruppo, quello che si è inaugurato ora a Bergamo, l’ho visto anch’io per la prima volta qua e posso quindi solo accennarvi. Ma intanto va ricordato quanto lontano, nella vita di Manzù, è il desiderio di porre una sua statua nella città natale. Il primo monumento, ed ebbe una elaborazione lunghissima, in disegni e bozzetti, doveva essere dedicato al Caravaggio: ma non era una statua dell’artista, sebbene un monumento allusivo a quel rapporto eterno dell’uomo e della natura: raffigurati nell’artista e nella donna. Vagheggiò per tanti anni, Manzù, questo monumento, finché il bruciante tema della Resistenza ebbe il sopravvento. Ma anche il tema della Resistenza, Manzù, l’ha affrontato in modo allusivo, non aneddotico: c’è il fatto, tragico, del partigiano appeso per i piedi, ma non è un fatto specifico, che abbia una data e un nome: o almeno così credo. Infatti, per creare questo motivo plastico vigoroso, Manzù, forse inconsciamente, si è ispirato a una raffigurazione classica che ha in una metopa arcaica di Selinunte a Palermo il suo prototipo solenne.
Si tratta di Ercole con i Cércopi, appesi per i piedi a un palo che Ercole porta sulla spalla. Il fascino della composizione è dato dal fatto che si affrontano due figure capovolte, che quindi realizzano quello che nella musica dodecafonica è detto il moto cancrizzante. La figura del partigiano ripete così per moto contrario la figura stante; c’è una specularità invertita, il gusto di una ripetizione che non è una esatta ripetizione e che innova rimanendo la stessa.
È un motivo plastico d’una semplicità estrema e d’un’audacia considerevole: inoltre ha una sua eloquenza tragica; l’impatto che al sacrificio aggiunge l’insulto: si sposa quindi perfettamente a una raffigurazione che vuole essere una commemorazione virile e non retorica e un monito per il futuro. È degna di stare in una piazza di una città così antica e civile e di rappresentarne come lo stemma.
Così il voto si è compiuto: così Manzù è tornato alla sua città come alle Madri, con il messaggio dell’artista e dell’uomo. Così ora la sua città come una madre, accoglie e onora il figlio di sempre.
Questa mostra di Siena, di opere di Afro che non sono mai state esposte, per lo meno in massima parte, opere peraltro sceltissime, perché Afro aveva una coscienza critica infallibile, di quel che doveva conservare o distruggere, indipendentemente dalle esposizioni; mi fa ricordare l’amico e il grande pittore quando veniva a trovarmi a Vignano, a Siena cioè; talora col comune amico Burri, per una consuetudine di affettuosi rapporti, che durava dal lontano 1936.
L’avevo conosciuto a Roma, nel ristretto cenacolo della Cometa, retta da una donna straordinaria, Mimì Pecci-Blunt, pronipote di Leone XIII, e amante della nuova pittura e della nuova poesia. Più o meno, da Libero de Libero a Scipione e a Mafai, da Cagli a Capogrossi, da Mirko a Afro, tutti i componenti di quel gruppuscolo di artisti sono diventati famosi. E rigenerò Roma, quella Roma che era assai provinciale anche se la generosità o la penuria degli attuali posteri ha rispolverato le glorie appassitissime di Sartorio e De Carolis, di Ximenes e di Cambellotti, che allora sembravano i più insopportabili pompieri (e a me lo sembrano tuttora). Afro apparteneva alla nuova leva della pittura, veniva dal Friuli, col fratello Mirko che era stato con Arturo Martini, ricavandone una pratica artigiana indefettibile e uno slancio plastico insuperabile. Afro alto e magro, moro come un meridionale, con i capelli a spazzola fitti come una spazzola, e un gran sorriso che gli si affacciava alle labbra come alla finestra, era sempre di buon umore e gentile: un amico con cui si stava in modo quotidiano. Quando lo conobbi aveva già lasciato la pittura di lontano gusto quattrocentesco che aveva praticato con Cagli, sempre pronto a fornicare con Paolo Uccello o i ferraresi, e la sua tecnica veloce, fluida, si valeva d’una pennellata libera, volante, ma sempre controllata. Ricordo quelle vedute del Foro romano, fatte dallo studio di Mirko sul Campidoglio: un Foro tutto liquido, visto in un sogno vespertino, con lembi di colonne, lembi di luci di tramonto, macchie come vaganti di alberi: ma l’intonazione era scura, non aveva nessun rapporto né con Mafai, né con gli altri pittori della Cometa.
Afro non posava a intellettuale, né vantava un contubernio con la poesia, peraltro era una persona sensibilissima e immediata, anche se non proprio estroverso, ma d’una pulizia morale esemplare. Per un certo tempo le sue donne furono sempre più vecchie di lui, forse per un’innata cortesia che non gli consentiva di rifiutarsi. E anche la sua prima moglie, che amò moltissimo, doveva essere un tantino più anziana. Era generoso, senza essere spendaccione, perché, nato povero da una famiglia di bassa condizione, aveva dovuto imparare fin da piccolo il valore del denaro. Ma gli piacque, quando era ormai aureolato di un bellissimo nome e di solido conto in banca, di tornare al proprio paese, Udine, non più in una qualsiasi casuccia lungo la roggia, ma nel Castello di Prampero, che poi il terremoto doveva buttare quasi del tutto a terra.
Eravamo andati a trovarlo là, io e Vittorio Rubiu, a cui era assai affezionato; e in quel castello, dove viveva con agio ma non con sfarzo, per pochi mesi all’anno, abbiamo passato dei giorni in un’atmosfera che solo l’amicizia e il clima frizzante delle Prealpi può concedere. E naturalmente c’era la Nunziatina, che doveva divenire la sua seconda moglie, amante della casa come una chiocciola del suo guscio, e si mangiava e si beveva, come piaceva ad Afro e a noi, in modo sano, fresco e saporoso. Si fecero delle gite, a S. Daniele, prima che il terremoto lo riducesse un pianto, a Tricesimo, per l’arrosto di uccellini, a Cividale per il tempietto. Nel Friuli è come se l’aria fosse sempre serotina; è come quando in estate piove e non c’è più polvere e il cielo torna di quell’azzurro a sprazzi che piaceva tanto ad Afro, nei suoi quadri del periodo centrale, quando era passato all’astrattismo senza remore, all’aria trasparente, ai colori come gemme. Perché il passaggio di Afro dalla figurazione all’astrazione fu un passaggio naturale e inevitabile, tanto più in un artista che era un figurativo nato e sapeva assai bene disegnare, ma per cui la linea doveva infrangersi, le zone di colore stracciarsi, e un’aria come di allegra tempesta, e una luce come di incendio bianco invadesse tutta la tela. Così i suoi quadri sembrano quelli di Kandinskij, delle improvvisazioni: ma in realtà non lo sono. Afro era molto attento, non si lasciava andare: si toccava il polso.
Mi disse un giorno che era venuto a trovarmi all’Istituto Centrale di Restauro, che allora dirigevo: “Dipingo molto meno quadri ora, di quando ero figurativo: la libertà è un dono difficile”. Era il periodo in cui i suoi quadri risentivano del cubismo analitico, ed erano d’una tonalità piuttosto scura, così contraria alla sua natura di veneto. Perché in fondo ad Afro covava il Tiepolo. E così affiorò, quando la libertà dell’Action painting gli venne sotto mano, nel periodo del suo soggiorno americano: allora scoperse Gorky e De Kooning. Ma Afro non divenne un pittore americano. Se alla base del suo travolgente colorismo stava il Tiepolo, che, bambino, aveva visto a Udine all’Arcivescovado, c’era anche l’equilibrio tonale di Morandi, quel dosaggio di luci, quella trasparenza, quel respiro. La pittura di Afro divenne europea, ma non americana. E chi vada all’Unesco, a Parigi, può vedere lo splendido murale, il Giardino della Speranza, accanto a Picasso, a Rufino Tamayo, a Appel, a Miro. E proprio questo murale, che coronava la sua fama di pittore nuovo, insegna come fosse studiata quella apparente facilità; con un provando e riprovando, che i numerosissimi studi e bozzetti attestano a tutte lettere: simili e dissimili come sono fra di loro. Quasi una lunga stagione.
Verso il 1970 la sua pittura, come è anche documentato in questa bella mostra senese, ebbe un cambiamento quasi radicale; una influenza dell’incisione che praticò con esiti magnifici, portò quasi ad abbellire il colore, a valorizzare una penombra pittorica e vibrante con variazioni minime di tono, e forme semplici, senza per altro allusioni, quasi geometriche. Ma la base di tutto era ancora la luce in trasparenza, e quel variare di tono per intensità luminosa più che per timbro. Certo, sono quadri più difficili: è una pittura studiata e quasi volontariamente ostacolata da uno sboccio improvviso e felice, ma è pittura d’alto grado, appartata dal successo come stimolata dalla forma.
Era questa la pittura che ha fatto fino alla morte, quando già la malattia l’aveva colpito e, con una tenacia toccante, tentava di recuperare le sue forze. Se ne andò in silenzio, quasi furtivamente, per non disturbare nessuno.
Da tanti anni sono vicino agli artisti, ma sul lavoro ho potuto vederne assai pochi. Così di Morandi conoscevo molto bene lo studio, vedevo gli oggetti in posa, pronti per essere dipinti e magari qualche piccola tela avviata sul cavalletto che, in basso, aveva una specie di alta e spessa balza di colori secchi, dove Morandi puliva il pennello. Ma al lavoro, col pennello in mano, non l’ho mai potuto sorprendere. Ci si sedeva sulla molla che si trovava nello studio davanti al cavalletto, e si parlava pacatamente, magari si andava a mangiare insieme, ma dipingere, in mio cospetto, mai. Invece vedere lavorare De Pisis era più facile, o che si incontrasse per strada, col cavalletto piantato nel bel mezzo del traffico e con tanta gente intorno, anche se, allora, tanto famoso non era. De Pisis dipingeva come se speluzzicasse un piatto di leccornie, un colpo lì, uno là e c’era un assaporamento in ogni pennellata, ma anche una felice decisione. De Pisis dipingeva a colpo sicuro: quella sua pittura, col fondo in vista, non si poteva né cancellare né correggere: il suo fascino era la felice stoccata improvvisa, la freschezza del segno quasi casuale; l’accordo dei colori avveniva sulla tela, non proveniva da fuori. Anche se l’oggetto, per De Pisis, era essenziale: lo guardava, e lo delibava, ma la scelta cromatica era sua e così piena di luce, così spaziata, in un’aria tremula come quella della laguna di Venezia. In fondo la sua aula preferita.
Per Manzù ora è impossibile vederlo all’opera, ma quando modellava la porta di San Pietro, infinite volte mi sono seduto al suo fianco. Aveva allora lo studio sull’Aventino: c’era un cancello che immetteva in un giardino e a questo cancello venivano incontro due bellissimi e melanconici setter irlandesi, che non abbaiavano né facevano le feste, limitandosi ad annusarti come per un atto dovuto, ma senza leccare le mani. Manzù modella con pazienza, ma senza stento: può ritornare dieci, venti volte sulla stessa scultura, ma senza che gli divenga triste o appassita fra le mani. Il suo straordinario mestiere lo aiuta in questa opera diuturna, per cui sembra, alla fine del percorso, che la scultura gli sia venuta fuori di getto e senza incertezze. È prontissimo a cogliere l’attimo fuggente, l’istantanea sprezzatura da conservare a cose fatte. Io vidi, ad esempio, come nacque il nuovo gioco di pieghe che proprio comincia con i bassorilievi della Porta della morte: era carta spiegazzata; come Francesco di Giorgio si serviva di camicie bagnate per i panneggi dei suoi angioli del Duomo di Siena. Manzù colse subito la novità formale di quelle pieghe taglienti che fa la carta e se ne servì con una felicità stilistica inarrivabile. Di giorno in giorno vedevo crescere la Porta della morte; Manzù è un lavoratore accanito, a cui l’atto in se stesso dà un’interna ebbrezza. Certamente è come se si sentisse nascere nel proprio lavoro. Nel disegno è istantaneo, come un tiratore scelto, e basta vedere con quale fendente traccia i contorni delle sue acqueforti mirabili.
Ma vedere all’opera Guttuso è assai più facile e incanta la disinvoltura con cui può lavorare e parlare. Non lo disturba avere amici nello studio: saranno quelli che poi, quando, alle sette, lascia i pennelli, giocheranno con lui ascopone. Soprattutto avviene quando sta a Velate. È, Velate, un luogo quasi segreto e nascosto fra grandi alberi, prode erbose e ciuffi di ortensie che si mantengono fiorite a volte fino a ottobre. Quest’anno già a settembre erano divenute grigie, dato il gran caldo che ha fatto ad agosto e dunque, un po’ anche là, pur fra le piogge frequenti e in quella luce d’acquario filtrata dai tigli, dagli abeti e dai castagni, per cui rimane sempre a mezz’aria e sembra di poterla acchiappare come una farfalla. Guttuso sta nel suo studio, che è grande e con il soffitto molto alto, e ha, quasi sempre, due o tre quadri in corso a cui lavora alternativamente per non stancarsi su uno solo.
In genere è a Velate che impianta i suoi grandi quadri, come fu per le Allegorie or sono due anni. Ora c’è un quadro grandissimo in cantiere; il suo “Studio”, ma naturalmente allegorizzato. Né il quadro rispecchia infatti l’ambiente dello studio di Velate, anche se dipinto a Velate. Ora so che ha modificato la composizione in particolari essenziali: ha tolto una grande bandiera rossa che divideva il giorno dalla notte e non so se abbia anche tolto i mostri di Bagheria, un motivo dell’infanzia a cui Guttuso è particolarmente affezionato, e gli affetti non si discutono, anche se quelle sculture siano quanto mai mediocri. Al centro, e credo che sarà rimasto, c’è un balcone, da cui si vede un pezzo di costa siciliana verso Capo Zafferano, un mare limpido, un cielo limpido, e al centro, di tergo, una figura femminile nuda a braccia spalancate. Non so se sia un inno alla gioia, certo alla bellezza, alla donna, alla gioventù. Ma il quadro non è davvero un inno alla gioia. Da un lato c’è Guttuso stesso con la cara moglie Mimise, che guardano una tela su un cavalletto: questo episodio l’ho visto cambiare da oggi a domani. Dapprima il quadro era di taglio, nell’ultima versione era di squincio e senza figurazioni: credo che resterà senza immagini precise o almeno così mi disse Guttuso. È un po’ come vedere il pittore riflesso in uno specchio, ai margini del dipinto. In primo piano viene la riproduzione di un quadro cubista di Picasso: e ci doveva essere anche Picasso a tenere il quadro, ma Guttuso l’aveva scancellato, e non so se ora l’abbia dipinto di nuovo. Perché, è chiaro, il tema dello studio è autobiografico e compaiono persone e ricordi, speranze e attese, in un gioco di tempi ravvicinati e mischiati come un mazzo di carte. Come è la vita della coscienza in cui passato presente e futuro sono sempre emulsionati senza distacchi netti.
Quando era stanco del quadro grande, Guttuso passava a due altri quadri; e uno era una visione di scogli vulcanici d’Ischia. C’era stato, Guttuso, da poco per fare i fanghi a una mano; aveva visto gli scogli, li aveva fotografati e, sulle fotografie, aveva improntato due quadri. Quando ora si vedono, a tutto fanno pensare fuori che possano discendere da fotografie e per giunta in bianco e nero. Sono colorati e ardenti nei toni focati che contrastano a un mare leggero, d’un azzurro come gli occhi di una persona bionda. Così ho potuto vedere come Guttuso si avvale della fotografia. Dà un’occhiata di tanto in tanto, non prende misure, non si rapporta a niente di puntuale: il risultato è un’altra realtà, la sua naturalmente, quella presenza indubitabile che ha la pittura quando è pittura.
Ma, oltre a questi scogli, Guttuso lavorava a un quadro di fantasia con una donna nuda distesa a gambe larghe in un prato, fra due siepi di lauro ceraso. Qui non aveva fotografie ma un bel mazzo di rami di lauro in un vaso. Ora, non c’era un solo ramo, nel dipinto, che riproducesse uno di quelli che gli stavano accanto. Guttuso dava un’occhiata e poi dipingeva una foglia completamente diversa, ma erano foglie di lauro, anche le sue, con una bella luce incidente, mentre noi si era nel chiuso dello studio con grandi lampade in alto. Questo modo di prendere contatto col vero e poi ricostruirlo a modo suo, mi dava la dimostrazione di come questo geniale pittore si sia salvato da una riproduzione pedissequa della realtà. C’è sempre lo spunto verace che autentica l’immagine, e la senti come prelevata viva dal vero, ma questa sensazione si dimostra erronea: la realtà dell’immagine di Guttuso è fantastica, nasce prima dal cervello che dalla natura esteriore. Certo, l’avevo sempre saputo, e per lui come per il Caravaggio, o per Holbein, ma averne la conferma testimoniale mi piacque molto.
Stavo nello studio, come in attesa senza l’uggia dell’attesa, vedendo l’immagine che andava avanti come se crescesse a vista dalla terra. Il tempo era lento, la giornata a volte limpida, a volte piovosa; talora sul soffitto si sentiva un rimescolio. Pare fossero i ghiri.
Sono già passati quindici anni, da quando Pino Pascali è scomparso, e quella ferita non si è richiusa. Né si parla solo della sua gioventù, piena di forza e di grazia, che costituiva una presenza indimenticabile per chiunque l’ha conosciuto, ma si vuol dire dell’artista e di quello che rappresentò la sua apparizione nell’arte italiana, e dunque l’enorme perdita che segnò nel panorama dell’arte giovane, che, in seguito è parsa, non solo affievolita, ma come sottratta a se stessa, continuando una strada in discesa, che vede nascere ben poco di nuovo. Invece, la cosa esaltante di Pascali, era di vivere come accanto a un vulcano benefico, da cui non si sapeva mai cosa sarebbe venuto fuori, dove i crateri si sarebbero aperti, dove la sua scintillante pioggia si sarebbe versata. C’era qualcosa di inesauribile, in Pascali, c’era il gusto dell’avventura e la certezza della riuscita, la mossa della fantasia e l’arresto di ogni volgarità. La capacità con cui riusciva a trasmutare il materiale più vile, facendolo vedere con una luce zenitale e sorgiva, aveva qualcosa di fatato, sfiorando il mistero della creazione.
A tanti artisti, e grandissimi, sono stato vicino, ma in nessuno ho mai riscontrato, al calor bianco che sviluppava Pascali, l’estro irruente, il potere di trasformare la materia nell’oro purissimo della fantasia. Un gesto, tagliare l’acqua del mare con le forbici per potare le siepi, in lui assumeva la solennità del rito, ma non la retorica: di colpo, gli oggetti parlavano, i monti si muovevano, Maometto accettava il colloquio.
Questa possibilità di riscattare la povertà della materia era così connaturata in Pascali, che neppure un sospetto lo incrinava, della scarsa durata che avrebbero avuto le sue cose, una volta che il gesto creatore le aveva assunte in un diverso empireo. Quei contenitori di zinco, ci voleva poco a pensare che presto si sarebbero arrugginiti, che la polvere del tempo li avrebbe resi un materiale da buttare, in questa nostra tragica epoca del consumo. Ma per Pino era quasi impossibile realizzare una cosa simile! non l’aveva toccata lui quella materia, non l’aveva redenta dalla condizione vile e consumistica in cui l’aveva trovata? Forse che poteva ripercorrere il sentiero inverso? L’ha ripercorso, purtroppo: e ora questi oggetti ferruginosi, che hanno ancor più bisogno d’essere ricreati che di restauro, rappresentano l’oblio in atto di quella gran forza, di quella felice energia demiurgica che li aveva riscattati dal rango infimo della materia. Un dolore, dunque, che si aggiunge al dolore della sua scomparsa, perché, delle sue opere, quelle che si conservano intatte, sono una percentuale minima, se non si corre ai ripari.
La sua fantasia seguiva un cammino inconsueto: non era dalla materia che partiva, ma investiva la materia, che ne veniva rigenerata. Il modo come nacquero i due mari, quello di tela bianca con le onde tutte uguali, e quello con i contenitori di metallo e l’acqua colorata con l’anilina, scaturirono da una forzatura fatta subire alla materia, non dalla materia. Quando, esperto di modellismo, pensò a quella serie di onde identiche, con gli apici a punta, era dunque un mare geometrizzato a cui pensava, un’astrazione che del mare aveva solo quel ripetuto ritmo che poteva configurarsi come onde, “Toujours recommancée”! Ma intanto era bianco e doveva restare bianco, come la parola che designa il mare è incolore, così il mare di Pino era una parola solida che designava il mare. Ma quando, poco dopo, pensò a quei contenitori rigidamente a parallelepipedo, dove nell’acqua non esiste la linea retta, il colore divenne dominante, quell’azzurro che non aveva bisogno del cielo per essere azzurro. E diventò allora fiume, sistema irriguo, tutte le fantasie che la primordiale sua fantasia scatenava.
Come non uscirne fascinati? In quel garage, lo ricordo ancora, dove nascevano le immagini già materiate, sembrava di entrare nel laboratorio di un robot intelligente, in una testa meccanica che sapeva pensare da sé. Questa unione impossibile del naturale e del fittizio, della mente e della materia, creava come delle interne correnti alle cose, pulsioni oscure, quasi un diverso magnetismo, delle calamitazioni irrefrenabili.
Così le cose immaginate attraverso l’aggregazione di quella paglia di ferro, che fanno un’amaca, un ponte sospeso, e potevano essere ancora altre fantasie, ma mai immagini imitate, sempre immagini nate dalla proiezione di un’idea sulla materia. Per questo l’arte di Pascali era sempre astratta e figurativa. Aveva cominciato con quei pezzi anatomici realizzati nel volume e nel colore, ma sempre con la tecnica del modellismo, con la tela tirata su uno scheletro di legno. E qui si può credere, che l’avvio glielo desse quella bocca volante di Man Ray: ma le sue bocche non erano proiettate nel cielo, erano pezzi anatomici violenti nella loro immobilità. Se si paragonano all’inerzia surrealista dei particolari esaltati a immagine, di Domenico Gnoli, si capisce la diversità assoluta delle anatomie parziali di Pascali: che poi nel torso di negra doveva raggiungere un apice di rara efficacia. E lì poterono essere i grandi manichini delle sarte a ispirarlo, ma quale scatto, quale arcata dal manichino a quella specie di statua!
Egli non si indirizzava solo a creare un oggetto nuovo, ma era immedesimato nell’atto della creazione artistica, e anche attore, attore e spettatore di se stesso. E cioè, non si compiaceva, non si ascoltava, ma in quel suo eloquio di fatto, s’improvvisava e si viveva.
Si sarebbe tentati di dire, che era la fantasia allo stato puro, in una nervosa aggregazione della materia: e la sua apparizione nel contesto dell’arte italiana, ha mostrato la genuina indipendenza di una mente che non si lasciava condizionare dall’arte americana, ma che l’accettava come la pietra focaia per trarne la scintilla. Per questo, nel contesto della Pop Art, l’arte di Pino Pascali accetta la sfida e va subito oltre.
Per questo non poteva creare una scuola: la fantasia non si comunica per contagio. Resta l’evento irripetibile di un tempo che appartiene al nostro stesso presente, nel rimpianto di ieri, verso un oscuro domani.
Occorrerebbe un proemio sul genere di quelli che il Vasari stilava per introdurre la storia dei suoi artisti, per piazzare nobilmente la vicenda umile e altissima di Morandi nella Bologna del primo Novecento. Umile, perché ebbe in dote il più sincero ritegno e la più disarmante modestia; altissima, perché nessun artista italiano è stato maggiore di lui; e, anche nel panorama europeo, pur se confronti e valutazioni fra artisti siano da escludersi, nel senso della qualità, non fu inferiore a nessuno. Diverso radicalmente da tutti, Morandi, diverso rimase per tutto il suo lungo cammino: anzi, l’avvicendarsi delle varie ondate che dal 1911 si susseguirono nell’arte europea non fecero che accentuare l’apertura del divario e della differenza, dopo quel primo e fugace avvicinamento a futurismo e a cubismo. Un avvicinamento che Morandi internamente poi rifiutò, aspramente, come anche quello brevissimo alla pittura metafisica, che pure ebbe una sostanziale morsura nella sua prima pubblicazione artistica, fino al 1920, anche se con modalità per nulla affini a quelle di De Chirico e di Carrà.
In realtà, la pittura di Morandi, sarà come un’isola nell’arte europea del Novecento, ma non nasce come un fenomeno di relegazione provinciale, che l’isolamento artistico di Bologna avrebbe giustificato. Morandi, che pure viaggiò assai poco, e mai all’estero, si orientò con quel che vedeva nelle rare pubblicazioni di arte moderna, con quel poco che a Bologna arrivò del fortunale futurista e del nascente Cubismo.
Si muove dunque nel meglio della nuova tradizione figurativa, che sorge col Futurismo e soprattutto col Cubismo, per quel pochissimo che poté vederne riprodotto, e soprattutto Picasso e il primo Derain, avanti cioè che rinsavisse. A quei fortunosi anni apparteneva allora un cactus, di quelli a spicchi e a palla, d’una bellezza come un mazzocchio quattrocentesco, che, già più che al Cubismo faceva pensare a Piero della Francesca e ai locali intarsiatori di Lendinara. Dietro a quel cactus, Morandi aveva dipinto un autoritratto, chiaramente cubista, pur senza fratture di piano, e solo con una volumetria densa, soda, ma con una luce pierfrancescana. Morandi, incredibile a dirsi, la riteneva come un’onta nella sua vita, e non ebbe bene finché non riuscì a ricomprarlo e a distruggerlo. Esiste ancora però in una riproduzione della rivista “Valori Plastici”. In quanto alla pittura metafisica, era nata a due passi da Bologna, a Ferrara. Ma quello che ne estrasse Morandi, fu solo il senso di uno spazio rarefatto, alieno dalla realtà, e soprattutto vi immerse quella luce antelucana, che accarezza e tornisce i manichini e le bottiglie, che già fanno la loro apparizione fin dal 1918-19. Quella luce la dice lunga sulla temperie figurativa di Morandi: è la luce del Giotto di Assisi (si era recato ad Assisi con Riccardo Bacchelli) e soprattutto di Masaccio e di Piero della Francesca. Così Morandi andò subito alla fonte viva e indistruttibile della grande pittura italiana, che dal Giotto assistiate all’ultimo Canaletto e al Tiepolo, alimenta cinque secoli gloriosi di pittura.
L’unico contatto coi moderni, che Morandi accettasse, era con Cézanne, ancorché lo conoscesse solo per sentito dire; ma, di quel grande, bastava una stilla per vivificare, come un nonnulla di lievito per fare montare la pasta del pane.
Il suo primo, e ora introvabile, Paesaggio del 1911 ha una struttura semplice di costoni e prese, con un colore che è poco più del chiaroscuro, ha una luce impastata d’aria e della nebbia leggera dei colli bolognesi, che Morandi amava tanto. Quel paesaggio, così conciso e deciso, non ebbe altro seguito noto: Morandi si volse altrove, cominciò poi le Nature morte come affettate, alla maniera di Boccioni – le Bagnanti allungate: e queste davvero cézanniane – finché cominciano quelle Nature morte solide come di marmo e chiare come la luna. Sono poche e d’una bellezza siderea, rarissime dunque, e senza prezzo. Con ciò si arriva al 1920. È qui che avviene il cambiamento a vista. La rarefazione metafisica cessa di colpo, l’atmosfera si addensa, il colore si ispessisce, e cominciano quelle disposizioni di oggetti come pedine, senza nessun riferimento a colazioni o a tavoli di lavoro, oggetti poveri, da convento francescano, da uomo povero come era Morandi, nato da una famiglia povera e non di intellettuali. Ma quel colore che si coagula diviene sempre più sommesso, e, parallelamente alle ricerche per l’incisione, si dispone nel modo fondamentale per intendere, nella sua essenza, la pittura di Morandi.
È quello che già chiamai (1939) il colore di posizione. Consiste in un fatto elementare, che è noto, del resto, a chiunque si occupi di incisione: quello di variare, con la diversità del tratteggio, o solo col contorno, il tono di una zona rispetto a un’altra contigua. Il diverso tratteggio non è che un diverso titolo di luce immesso nella zona, ma oltre a valere come luce, suggerisce una tonalità differente, sottintende un pigmento che contrasta con quello che sta accanto. Ora, questo sottile accorgimento, Morandi lo trasferisce alla pittura per ottenere una fusione luminosa più intensa, e, vorrei dire, uno sguardo continuo, come un’interrotta emissione luminosa. Morandi, dunque, non cerca di ottenere un tonalismo su base monocroma: Morandi non ha mai dipinto un monocromo. Ma quell’equilibrio supremo di tonalità anche lontane fra di loro, è ottenuto graduando il titolo di luce di ogni zona cromatica, indipendentemente dal fatto della collocazione spaziale, che può richiedere, soprattutto nei paesaggi, aggiustamenti prospettici di colore. Questa sottigliezza quasi inenarrabile, Morandi, non la ritrasse in modo assoluto dall’Impressionismo francese, che non l’ha mai usato, essendo diverso il principio spaziale che muove l’Impressionismo; ossia un capovolgimento del punto di vista prospettico, dall’orizzonte allo spettatore. Questa fu la grande scoperta, non teorizzata ma del tutto spontanea e immediata degli impressionisti, che interruppe di colpo lo sviluppo spaziale prospettico del Rinascimento. Donde la pittura italiana finisce con l’Impressionismo, perché l’Impressionismo nega implicitamente il principio fondamentale del riferimento della piramide ottica all’orizzonte.
Quindi Morandi non poteva essere aiutato nella sua operazione di alta alchimia cromatico-luminosa da quel grande movimento artistico che si era volto in un senso opposto a quello – rinascimentale – a cui, sia pure con una tattica diversa, si rivolgeva Morandi. E dico tattica perché, nella pittura, il riferimento resta all’orizzonte, ma quel che cambia è l’avvicinamento, le abbreviazioni, le sintesi improvvise, il supremo anacoluto di zone lontane improvvisamente ravvicinate. Indagare così internamente il processo creativo di Morandi, non significa né violarlo né dissolverlo: è il solo modo per rendersi conto di come sia cosciente, questa altissima pittura, che non si affida all’estro, ma padroneggia, controlla l’estro fin nei minimi particolari, e questi concordano come in un periodo si accordano i tempi dei verbi e le persone, il singolare e il plurale.
Naturalmente analisi del genere possono risultare ostiche e sembrano opporsi alla solarità, alla immediatezza di questa pittura, teneramente offerta alla mente come ai sensi: sicché sembra violarla, a parlarne in modo così difficile.
Ma non c’è altro modo per far capire che le bottiglie – queste famose bottiglie – non valgono come bottiglie, e neppure sottintendono qualche altra cosa. La pittura di Morandi è scevra di simboli e di allegorie: una ricerca iconologica è tempo perso, se rivolta ai suoi oggetti: che Morandi astraeva perfettamente dal contesto familiare da cui li elevava, non a simbolo, ma a immagine. Questa “costituzione di oggetto”, era del tutto cosciente in lui, che, anzi, fomentava lo stratificarsi della polvere oppure tingeva in modo del tutto arbitrario le sue umili cazzeruole. Nessuno poteva pretendere di insegnare a Morandi che quegli oggetti nascondevano un simbolo, sessuale magari; perché la sua fabulazione avveniva a livello della mente e non del senso nascosto. Né, per questo, aveva bisogno di cambiare i suoi oggetti, che, dal principio alla fine, rimasero gli stessi, raggruppati sul pavimento come i burattini che non servono. E quando un mio amico, Gino Magnani, insisté perché Morandi gli facesse un quadro di soggetto musicale, egli fu imbarazzatissimo, e, posso dirlo, assai seccato: tanto più quando Magnani gli portò un liuto antico preziosissimo e bellissimo, di cui Morandi non sapeva che farne. Ma poiché era persona quanto mai gentile e condiscendente, andò a pescare un chitarrino da ragazzi, di quelli da fiera, e una volgarissima trombetta di latta. Così dipinse il quadro, quasi tutto su un tono, con una luce chiara da dietro. Quelli erano gli unici strumenti che spettavano a lui: erano forse di cristallo di rocca le sue bottiglie? o di metallo prezioso le sue povere cuccume? Ciò di cui aveva bisogno, per investire la sua fantasia, erano poveri spunti, cose che non significavano per se stesse, in modo da poterle non fare significare affatto.
È così che si è formato, consolidato e ha volato l’artista più umile e alto del Novecento.
Nell’ultimo quinquennio della sua vita, circa dal 1959 al 1964, sembrò che la pittura di Morandi fosse cambiata o in procinto di cambiare: improvvisamente, né solo nel veloce trattamento degli acquerelli, il pennello di Morandi segnava larghi strisci, senza unificarli, non rapportava a una distanza ravvicinata gli oggetti, fossero sulla tavola o entro un paesaggio. Mi ricordo benissimo che molti, e anche fedeli ammiratori di Morandi, che peregrinavano verso via Fondazza o alla casa di montagna, a Grizzana, pur senza osare un apprezzamento o arrischiare una domanda, rimanevano interdetti: ma quei quadri non erano finiti… perché Morandi li firmava? Perché invece erano finitissimi, nel senso che la freschissima immagine era fissata come un fiore con la rugiada. La sicurezza di quelle straordinarie pennellate, così straordinarie come quelle di Velázquez (che, da vicino, non si vede niente) assicura, se mai si potesse revocare in dubbio, che le doti di pittore di Morandi arrivarono fino alla pittura più pittura, fatta di tocco, di pennellate di striscio, senza che si perdesse una stilla di quella meravigliosa sostanza cromatica, che era spazio luce e colore allo stato fluido come un profumo o un liquido etereo. La sua visione non era cambiata, ma l’apparizione dell’immagine era divenuta ancora più istantanea, vivida: l’attimo fuggente.
E su quell’attimo fuggente si spense.
Sembra che non sia stato per nulla facile radunare questa Mostra di Bonnard, per quanto già così falcidiata, rispetto a quella che si attendeva. Ci si è messo di mezzo anche una lite ereditaria che praticamente immobilizza pur quei dipinti che i proprietari avrebbero inviato: e poi c’è il fatto che i più grandi, e diciamolo pure, i più strepitosi fra gli ultimi quadri di Bonnard si trovano come al solito in America. Né l’America è facile nei prestiti. Ormai, si direbbe, ma senza offesa, che per i dipinti andati oltre oceano non c’è più viaggio di ritorno, come dall’Inferno. E invece si poteva proprio sperare che, almeno dal tempio dell’arte astratta, la Fondazione Guggenheim, fosse potuta venire la stupenda Colazione davanti alla finestra, una delle innumerevoli, dipinte da Bonnard, ma certo fra le sue cose supreme. Che diavolo ci faccia, in mezzo agli astratti, un dipinto di Bonnard, fra i più palpitanti, conturbanti, viene fatto di domandarselo: ma si sarebbe degli ingenui. Tutti i giovani e meno giovani astrattisti francesi hanno infatti pescato a colpi sicuri in quella spalancata miniera: dove, con pochi centimetri quadrati di una spalliera di vimini, c’è già tutto un traliccio “astratto” per parecchi metri quadrati di Bazaine o di Estève. Per accertarsene, guardi, chi va alla Mostra milanese, il dipinto con il ritratto di Vollard (che a ogni passo stamani, alla vernice, si sentiva preso per Lenin): è proprio in quel dipinto la seggiolina da far gola agli astrattisti più cromatici della generazione di mezzo.
Alle difficoltà appena accennate, per mettere insieme almeno una riunione decente di una settantina di dipinti, si uniscono, come mi diceva il giovane e valente ordinatore Franco Russoli, anche le resistenze affettive dei possessori di quadri di Bonnard, i quali difficilmente si acconciano a privarsi, sia pure per pochi mesi, di questi dipinti che s’integrano così volentieri alla vita familiare o quanto meno casalinga, tanto da far credere di vivere nel quadro invece che accanto al quadro. Diciamolo subito: è un’illusione, e delle peggiori, riguardo alla pittura di Bonnard, la quale si serve del primo innesco della sensation première per procedere per suo conto nei sentieri più inconsistenti, lunatici della fantasia.
Risultando, questo pittore “senza fantasia”, in continua recezione dei più misteriosi, toccanti, celesti “apporti” di colore.
Sicché quando uscirete da questa Mostra, a meno non siate insensibili alla pittura, vi avverrà di portarvi nel cuore, ma proprio nel bel mezzo del cuore, il ricordo di un viaggio meraviglioso per giardini incantati come quelli di Armida, per mari che hanno il colore morato dell’acqua dei pozzi; con delle soste, fatte al buco della serratura, per sorprendere brave ragazze borghesi che fanno modestamente il loro tub. Ma, nella vita quelle donne dal nudo sfilacciato, che il sole delle tendine impasta e disfa in una volta sola. La sensation première, a cui esplicitamente non più dei giardini o di quei mari d’inchiostro Bonnard si rifaceva, è infatti lo scatto iniziale con cui l’oggetto della natura si disgiunge dalla natura e si libra nella fantasia. Da allora, da quell’oggetto appena costituitosi come alla luce di un baleno, il pittore comincerà un’elaborazione – che testimoni concordemente dicono lunga – del dipinto. E se c’è bisogno di riferirsi a testimoni, dipende dall’incredibile freschezza che il dipinto, nei suoi strati, sottili talvolta come veli di cipolla, mantiene a dispetto della lentezza con cui si andò maturando: vorrei dire, suggerendosi all’autore stesso, dai suoi oscuri, commossi inizi. Per cui si spera che, da questa inusitata rassegna di dipinti del maestro non venga qualche irriverente appello al realismo, alla natura, più di quel che il sostanziamento dell’immagine non comporti.
In realtà io non credo affatto che quest’arte di Bonnard sia più facile a capirsi di quella di Matisse e perfino di Klee. O per meglio dire: una presa iniziale, più o meno grossolana, per dato e fatto del colore, delle forme riconoscibili, potrà anche fare illudere circa una semplicità, che a codesta pittura non compete affatto, o una elementarità, che codesta pittura “coltissima”, come cultura d’immagine, non ha mai posseduto. Neanche in quelle giovanilissime graziose macchiette, in quei disegni a sagome più o meno preliberty, che pongono, per i cartelloni réclame, Bonnard anche prima di Toulouse-Lautrec. Perché in quei disegni, litografie, dipinti, la riduzione al contorno è sempre apparente, mai definitiva o esclusiva, in un pittore come Bonnard, che mai seppe o volle rinunziare alla presa di possesso impressionistica sull’oggetto. E allora l’oggetto non era né quella donna, né quel cane, presi a sé e distinti, ma la situazione stessa in cui avveniva il “riconoscimento”, l’individuazione, insomma il ratto veloce e irriproducibile della sensazione prima, durante il quale attimo è normale che l’oggetto non abbia contorni, e si sfilacci e si sfarini nei succhi cromatici dell’ambiente. Così, infatti, accade sempre più e via via che la pittura di Bonnard acquista una più profonda padronanza di sé. Questo cammino individua allora una delle coscienze pittoriche più limpide, autonome, conseguenti.
Bisogna pensare che il punto di partenza fu per Bonnard la pittura di Gauguin, nella versione che andava a genio a Sérusier, a Denis, e che il genere di ricerca pittorica, che ben presto Bonnard ebbe a impiantare sulla spelata zonatura di Gauguin, sembrò avere più che alcuni punti in contatto con quella dell’altro suo coetaneo e compagno, Vuillard. Ora, a cose fatte, non c’è niente che possa meglio farci capire la calamitazione sicura di Bonnard verso la “sua” forma, che ricorrere mentalmente alla pittura di Vuillard, di Toulouse-Lautrec e dei fauves.
Vuillard, il più grande dei piccoli maestri, Toulouse-Lautrec, il più piccolo dei grandi, furono le prime strette da cui si insinuò per la sua strada la pittura di Bonnard. Il quale, con quella simultaneità che, nei geni, non è mai pastiche, ha presenti, insieme con loro, quasi tutti i più grandi impressionisti: da Cézanne, che vorrei dire se lo digerisce al buio, a Renoir che gli darà per sempre il gusto della pittura di pasta aerea, a Degas, che egli apertamente saccheggerà nel gusto e nel taglio degli interni, nei motivi dei bagni casalinghi, e giù giù, nel controluce, nelle chiazze di sole velato dalle tende. Ma intanto avrà fatto via via certe selezioni, non disdegnose, direi silenziose anzi, di altra pittura coetanea, sia della fine dell’Ottocento che degli inizi del nuovo secolo. Prima di tutto, del Neoimpressionismo. Non che potesse ignorarlo o schivarlo, ma certo che per lui non fu mai quel primo repertorio di coriandoli variopinti che si trovò a mano Vuillard, e che utilizzarono tutti i fauves a un certo passaggio a livello iniziale. Anzi il rapporto ideale verso i fauves, è tipico per sorprendere il maturarsi di Bonnard verso la propria stazione. Se allora dei fauves prendiamo il maggiore, Matisse, non è certo arbitrario il caratterizzarne il corso, come rivolto a una continua e costante chiarificazione dei mezzi formali della pittura. Il suo graduale ripudio del chiaroscuro, avveniva nel senso di caricare la zona piatta del colore di tutti i rapporti spaziali e luminosi che competevano all’immagine: nel colore così “spazializzato”, l’immagine, che fosse di una donna distesa o di un vaso di fiori, abbandonava la massa greve dei riferimenti realistici, e, per così dire, prendeva il velo della pittura.
Di contro a questa costante semplificazione di Matisse, noi assistiamo invece a una specie di cammino a ritroso compiuto da Bonnard. Partitosi dalla zona denudata di Gauguin, che risultava sempre forzata nel timbro, perché apparisse dotata d’una struttività determinante e riguadagnasse nello “squillo” quello che perdeva nello spessore, Bonnard pose tutta la sua industria a fare riacquistare alla zona cromatica l’infusione atmosferica e affettiva della sensation première. Chi veda ora, alla Mostra, quei quattro capolavori: la Barca di Signac, l’Eau de Cologne, il Giardino, il Nudo nella vasca, seguirà questo cammino di costante esteriore disfacimento della zona cromatica e di costante arricchimento interno della medesima. Restituendo alla zonatura l’infusione atmosferica, Bonnard era portato a concepire tutta la tela come l’interno d’una conchiglia, nel transito impercettibile della madreperla, di luce esterna e di colori interni; transito, balenio, palpito. Lo spessore luminoso di questi quadri di Bonnard è qualcosa che veramente non si era mai visto in pittura: né in Monet (che alla fine della vita, se ne valse, chiaramente prendendo a prestito da Bonnard; e le Nimphéas, esposte alla Mostra francese che ora va a Firenze, insegnino) né in Renoir, e neppure nel più aereo pulviscolo di Seurat. Erano strati successivi e leggerissimi che il pennello di Bonnard depositava sulla tela: erano piume iridescenti di uccelli tropicali, erano petali di gelsomini, erano gocciole di guazza: ma anche densi ritagli di velluto, fondate di aceto, sbaffi di morchia. E a un tratto il tono più genuino, madido e perverso, veniva a fiorire come di sorpresa, quasi forzando la mano e il pennello. Il quadro, arditamente, si dipingeva da sé, voleva certi colori a modo suo, fiori d’una primavera diversa: perenne.
A chi mi chiedesse d’indicare in un solo quadro, di quelli esposti alla Mostra francese di via Nazionale, che cosa ha rappresentato di nuovo la civiltà figurativa dell’Impressionismo, io non sceglierei né la stupenda Prugna di Manet, né la Venezia di Monet, né la Donna allo specchio di Degas: ma quel quadruccio della Morisot, Ferme en Normandie, che con raro fiuto Bazin è andato a prelevare in una collezione privata parigina. Perché, in codesto modesto dipinto, c’è tutto quello che non volle essere la pittura impressionista, quasi tutto quello che volle essere; e il seme di quel che intese diventare. I protagonisti del quadro sono dei tronchi di albero, di betulla forse, con un fusto inguainato d’un colore tenue come la luce che spira nell’aria: spira, esala nell’umidore di una campagna che non ha cielo, ma piuttosto nuvole, nebbie leggere e persistenti, rugiade sempiterne ad aliti fumanti. L’originalità della presa d’immagine è però data dal fatto di avere eseguito il taglio all’altezza in cui il fusto diviene albero, con la sua chioma o spessa o tremula.È un taglio che la Morisot dové trovare d’intuito, né per suggestione erudita: infatti, il momento figurativo che suggerisce l’alternanza dei tronchi d’albero contro un fondo è una delle innovazioni paesistiche di Giorgione, ripresa dallo stesso Bellini (o Tiziano che sia, in quel particolare) del meraviglioso Baccanale ora a Washington. E come è quasi certo che la Morisot, ignorava sia questo dipinto, sia l’altro, di Giorgione, con i Tre filosofi ora a Vienna, è anche più interessante vedere l’inversione che il motivo, colto sul vivo della natura, ha subito spontaneamente nella nascente pittura impressionista. Infatti Giorgione e Bellini sfruttano il motivo facendo risaltare i tronchi in scuro sul fondo chiaro, la Morisot i tronchi chiari sul fondo scuro. Nei due sommi veneti il motivo risolve la struttura prospettica dello spazio in una giustapposizione tonale, che dilata egualmente lo spazio all’orizzonte, senza la scansione geometrica: nella Morisot, naturalmente i candidi fusti rifiutano di spostarsi verso il fondo e galleggiano verso la superficie del quadro, non ostacolati dal frascame delle fronde che si sarebbe sporto più in avanti del tronco. E come la novità del personaggio tronco doveva essere messa in evidenza, le fronde non l’avrebbero che diminuita.
Che allora questo fosse l’intuito dell’artista, nella sua presa d’immagine impressionista, è quasi controllabile in un dipinto, non già suo, ma di chi all’Impressionismo doveva far subire una svolta repentina, pur senza volgergli le spalle, ossia Seurat. Codesto grandissimo, in un dipinto eccezionale ora presso il signor Clark a Londra, riduce addirittura il suo paesaggio a due tronchi, uno più grosso, l’altro più sottile: né potrei dire, anzi vorrei proprio dire che sicuramente non conosceva questo paesaggio – di certo anteriore, essendo del 1865 – della Morisot. E se nella scansione squisitamente ritmica ed eccentrica che i due tronchi di Seurat fanno dello spazio del dipinto, c’è addirittura come un segno futuro di Mondrian, non v’ha dubbio che, nell’emergenza in superficie, nella lucida presentazione dei tronchi, – ancor più, si direbbe, xoanici che veri tronchi – si riconosce come una continuità ideale dal punto di partenza della Morisot.
E visto che codesta Signora ci ha incantato e seguita a incantarci, sostiamo anche all’altro dipinto Sur le lac, di una ventina di anni più tardo, e dove l’elettissima pittrice spenna la pittura di Manet, la sfoglia petalo per petalo come una inesauribile margherita. Tutti quei petali vanno dove vanno, si indugiano nell’aria, sostano in bilico sul cappellino di garza e sul pelo dell’acqua appena mosso: sono come una pittura in fieri e in continuo fieri. E quale gamma gentile, eppure per nulla sfiatata, di toni e di semitoni! Sono pitture di una donna, ma come sono di una donna i racconti della Mansfield e le lettere della Sévigné. Perché solo una donna può toccare le cose, disfarle con la punta delle dita come se intridesse i colori stessi, l’aria stessa, il pulviscolo colorato delle ali delle farfalle. Solo una donna può precedere anche i grandi dell’epoca, senza andare troppo in là, dove si affaccerà l’opposta retorica del vero che mina l’Impressionismo.
Quella scena sul lago che sembra lì lì per dissolversi come se si squarcia un cuscino di piume d’oca, sta idealmente sul margine estremo dell’Impressionismo e conclude il discorso – che forzatamente si è dovuto fare in breve – di quel che volle essere la pittura dell’attimo fuggente, che non voleva fermarlo, ma dirgli lo stesso ch’era bello.
Il mio primo incontro con la pittura di Fautrier avvenne nel 1930: allora Marcel Zahar gli dedicò un articolo sulla rivista di Waldemar George, “Formes”. Il titolo dell’articolo dava l’idea, e un’idea abbastanza esatta, della pittura di Fautrier: “Fautrier ou de la puissance des ténèbres”. Erano infatti dei quadri scurissimi, e più che scuri, affumicati: dietro quel fumo era dato intravedere Chagall e Soutine, forse anche Odilon Redon. Ma in quel tempo, nel momento di un cubismo trionfante, di un Matisse sfolgorante, e ancora di un Bonnard carico di succhi come se sulle tele spremesse pomodori e agrumi, una pittura così fosca meraviglia che trovasse udienza. E che udienza. Fu dato a Fautrier da illustrare l’Inferno di Dante, e, questo, dietro consiglio di Malraux. Malraux non si era ancora scoperto critico d’arte, come ora, con pari lode, si è scoperto Ministro della Propaganda: ma il fiuto buono, per Fautrier, l’ebbe.
Dopo quel lontano 1930 mi accadde talora di vedere a Parigi dei quadri di Fautrier, ustionati, strapazzati, come pittura carbonizzata. Poi non ne seppi più nulla.
Questo dopoguerra doveva segnare invece la sua rinascita. Se mai il simbolo della Fenice è appropriato, per nessuno come per lui, che, se non dalle sue ceneri, è rinato dal suo carbone. Ma era stato buon profeta Zahar quando finiva il suo articolo con queste parole: “Quoi qu’il advienne de son évolution, l’art de M. Fautrier conservera un caractère ample, fait de gravité, de rudesse: ce n’est pas vainement qu’un talent prend sa force au plus profond des ténèbres”.
Da questo viaggio all’Inferno si direbbe veramente che Fautrier è tornato senza voltarsi indietro, tanto ai suffumigi d’allora ha sostituito la luce, la trasparenza, e il gusto di una materia spessa, d’una pasta che pare pasta di torrone fresco e candido e che non ha proprio nulla da dividere con le croste dell’“informel”, con cui deve invece condividere la gloria attuale. Suo malgrado: perchè certe sue dichiarazioni, riportate con lodevole probità nel Catalogo dell’attuale Mostra all’Attico, dimostrano quanto poco intenda essere confuso con quell’“informel”, di cui sarebbe uno dei padri. “L’irréalité d’un ‘informel’ absolu n’apporte rien. Jeu gratuit. Aucune forme d’art ne peut donner d’emotion s’il ne s’y mêle une part de réel.” E alle parole seguono i fatti. Naturalmente non sono fatti da cogliersi con due dita, come un fiore o una farfalla. Ma che intanto siano fatti di stile, rivelino una coscienza vigile della forma, un modo tutto personale ma indubitabile di inseguire, di captare, e di presentarci un’immagine, è indubbio. Questi dipinti sono ancora più costruiti che dipinti e plasticati, e questa non è pittura del caso, dell’incontro fortuito, della scrittura automatica: neanche per un secondo. Quello che a persone meno smaliziate può sembrare l’informe grezzo, il getto della pasta bianca sulla tela, quasi come un muratore fa con la cazzuola, è un atto altamente sorvegliato, la cui freschezza e spontaneità è rigidamente retta dall’intenzione formale che il pittore persegue.
Ho detto che il dipinto è costruito: proprio perché il modo che più sovente adotta Fautrier, come una prima sensibilizzazione della tela, è un quadrato, il quadrato di Malevič assai più che il rincrocio di Mondrian. Questo quadrato lievita della pasta che si è detto, in cui la spatola taglia e spalma con il sottile accorgimento che mai possano scambiarsi, quei rilievi irregolari, per colaticci affidati solo alla densità e alla forza di gravità. Sono irregolari abbastanza per non costituirsi esplicitamente come tessere di mosaico, ma abbastanza distinti per conservare la scansione ritmica: e anche in musica, cambi pure il ritmo a ogni battuta, ma ritmo resta. Dunque questo “informel” si svela quasi forma pura, un’accezione scoperta del ritmo. Il resto della tela è variegato col gusto di contrapporre un ritmo diverso a quello della “haut pâte”.
Che cosa poi sia rappresentato in queste tele, non ce ne preoccuperemo affatto: un’immagine vi appare, talora con allusioni discrete a un reale remoto, talora ricreandovi nuove primigenie conformazioni, che la straordinaria freschezza dei colori, trasparenti, patinati con velature d’una sapienza da falsario di quadri antichi, rende, lo si può dire, fin troppo piacevoli. L’eleganza di queste tele quasi sconcerta.
Come tavolozza, Fautrier sembra sfruttarne una rubata a Renoir, i cui colori residui e preziosissimi diluisce senza fine per poterli conservare più a lungo. Ma quando in questa sua orchestrazione come di flauti e di arpe sotto voce, fa entrare lo squillo di un ottone, allora il colore acquista la forza d’una pasta vitrea, e quella trasparenza. Che gusto deve essere, in quella bella pasta soda e bianca andare ad affondare il manico di un pennello o uno stiletto crudele, e inciderci, come uno sfregio, quei riccioli, fatturando una specie di vello di montone “vert pré” in cui il “vert pré” ha tinto di verde la lana candida. Ma per quanto pulsioni sottintese e freudianamente indiziabili possono anche qui ritrovarsi e denominarsi, la materia dell“informel” di Fautrier è troppo controllata e guidata, come s’è detto, per poter fare, anche solo per un momento, una scrittura automatica o l’indizio di una nevrosi. Il controllo di Fautrier non ha bisogno di appostarsi dietro ai feticci spaventosi di un Dubuffet, e non ha bisogno di dissolversi nei fili nelle pagliette e nei ritagli di Wols, che metteva in disordine la cestina da lavoro di Klee. E veramente fra Wols, Dubuffet, Pollock, quello che meno si è servito dell’inesauribile “stipe” di Klee, è proprio Fautrier. Che non vorrei deprezzare agli occhi dei suoi più giovani “fans”, osservando come egli rimonti sempre assai più lontano dell’autorizzato albero genealogico della pittura d’oggi: e che insomma il suo senso della luce filtrante e del colore in trasparenza, come il modo indubitabile che ha di proiettare il dipinto tutto in avanti, accusa ancora un legato vivissimo dell’Impressionismo, diremmo quasi un segreto vitalizio.
Monumento all’amicizia questa mostra di Vuillard e Roussel all’Orangerie a Parigi. Monumento all’amicizia, essendo proprio lì le due sale delle Ninfee di Monet, e rappresentando Monet il punto di riferimento e di ammirazione comune per Vuillard e per Roussel. In questo senso non c’era luogo più adatto, per una mostra del genere. Se non fosse che, se si fa tanto di rientrare nelle due sale di Monet, ma soprattutto nella prima, con quei cieli rosati riflessi nello stagno, si cancella definitivamente Roussel, ma poco ci resta anche di Vuillard. Il grande vecchio, con questa ultima fatica, si confermava uno dei più vitali pittori viventi, mentre il più giovane, ma già anziano, Vuillard, era ormai completamente fuori strada.
È infatti, quello di Vuillard, uno dei casi più conturbanti di un pittore che raggiunse precocemente un livello assai alto, si formò una personalità inconfondibile, anche se in parte affine a Bonnard, e che di colpo ricadde in un naturalismo tattile, faticoso, sudaticcio, con l’odor di rinchiuso dei salotti sovraccarichi del tempo.
Il suo punto di partenza era certo stato un naturalismo appreso a scuola, ma venato di una grazia tutta francese, un po’ di Fantin-Latour (quello dei fiori) un po’ di Chardin: c’è ad esempio il Lapin de garenne del 1888, dove il nome di Chardin non si spreca. Presto però comincia ad apparire la pennellata sciolta di Manet: guardate quella squisita natura morta con le mele e il bicchiere di vino: il lustro del bicchiere, il tono fondo del vino rosso, da intingerci il dito, è Manet. Dunque di bene in meglio. Eppoi la prima svolta secca, quel quadro Au lit, del 1891, del Museo d’arte moderna di Parigi, che è un dipinto sorprendente: e se non fosse firmato, nessuno potrebbe attribuirlo a quella data, ma lo farebbe contemporaneo dei Matisse del 1911. Colori piatti, accostati come in una marqueterie, eppure carichi di luce e così spazialmente assestati da sembrare che non tolgano nulla alla situazione della realtà a cui il dipinto si ispira.
Pure Vuillard, che l’aveva dipinto, come anche Le sommeil, per altro meno assoluto, pare li considerasse degli esercizi di gioventù, e, almeno il primo, lo tenne nascosto: fu conosciuto perché faceva parte della donazione Roussel del 1941. Vuillard, che era nato nel 1868, aveva dunque appena ventitre anni quando dipingeva così. Ma era arrivato dalla Bretagna, come ricorda Claude Roger-Marx, un quadretto di Gauguin portato da Sérusier, e sotto questo ombrello la pittura di Vuillard prende un andazzo audacissimo, da precorrere i fauves e gli espressionisti tedeschi. Tagli netti di ombre e di luce che modellano senza chiaroscuro, un po’ come ottenuti al pochoir (stampino) e con rapporti di tono che oltrepassano di gran lunga gli accordi complementari degli impressionisti.
Questa rottura della sintassi cromatica impressionista, che aveva operato Gauguin, fu il lievito più fecondo anche per i Nabis, e, come si sa, proprio dei Nabis furono pars magna e Vuillard e Bonnard. Anche in questa esperienza, forte, la più irrealistica delle maniere di Vuillard, c’è tuttavia il controllo innato di un uomo che amava il silenzio, e le affinità elettive non meno con gli uomini che con i colori. Sta di fatto che quella pittura di colori piatti, di agili silhouettes, si interrompe quasi di colpo. Una nuova esperienza si sovrappone a quella di Gauguin e, senza fugarla del tutto, la disintegra: è il Neoimpressionismo.
Nell’Atelier del 1893 (Smith College, Northampton, Mass.) Vuillard di botto crea il suo capolavoro. La sublimazione che è avvenuta non riguarda soltanto i mezzi espressivi, ma anche il suo mondo familiare, che resta quello, affettivo, della madre, con l’atelier di corsets, e dell’amico Roussel che ha sposato, proprio in quell’anno, la sorella di Vuillard, cementando così con un vincolo di parentela un’amicizia forte come un amore: non solo, ma perfino in quell’insistenza sulle carte di Francia, i disegni delle stoffe, c’è, più che un’influenza di Cézanne (che Vuillard amava poco), un elemento ancestrale.
Infatti la madre adorata di Vuillard era figlia di un industriale tessile, che spesso elaborava da sé i disegni delle sue stoffe. E ora vedete, nell’Atelier, sciorinate le carte di Francia dipinte con un segno nervoso, con le pennellatine distaccate, piene di luce e di atmosfera, e il vestito, come una trina, della sorella di spalle: come una trina, o meglio come una pittura di Seurat. Gli azzurri, i giallini, i bianchi e i neri sono puri, senza ombre quasi, e, dove ci sono ombre, sono anch’esse dei colori puri, ma quale spazio mantengono, come garantiscono uno scaglionamento, che, senza essere prospettico, nella proiezione impressionista verso lo spettatore, mantiene, sia pure trasposti, i rapporti del luogo della realtà.
È un quadro, questo, che non si dimentica, bello e intenso come un Bonnard, con in più questa deliziosa precisione tutta francese, quel gusto del grigio, della luce senza sprazzi forti, dell’intimità e del tepore della casa. Le colazioni di Bonnard sono una meravigliosa orgia, uno spreco di colori liquidi e densi come marmellate, con tutte le immagini mosse come in un’istantanea malferma, e così meravigliosamente vere in quanto immagine, in quanto realtà dell’immagine.
Ma l’Atelier di Vuillard non temerebbe il confronto neppure con Seurat. Sennonché, questa straordinaria primavera dura poco. Nel 1900 è già finita: Vuillard vuole riacquistare la profondità, di colpo non capisce più nulla nella sua esperienza impressionista. Non capisce più che i suoi colori devono venire avanti e perché vengono avanti: li vuole ricondurre indietro, nella piramide ottica di una prospettiva che gli impressionisti avevano negato: e questa, e non la tranche de vie, costituì la nuova epistème a cui dobbiamo una splendida era della storia dell’arte.
Vuillard di colpo diviene molto più naturalista e accademico che ai suoi inizi, quando almeno guardava a Fantin-Latour e a Chardin. Dal 1900 al 1944 questa pittura è sempre più brava e sempre meno pittura. Perde perfino quell’assestamento indicibile di tonalità che erano sintesi di luce, di colori e di situazione spaziale. Appaiono dei colori stonati, dei verdi che escono dal quadro, degli azzurri quasi odiosi come quelli del suo amico Roussel. Ma come la sua abilità non è certo diminuita, anzi si è accresciuta, non vuole lasciar niente fuori della realtà esterna a cui si ispira.
C’è un aneddoto collegato all’insopportabile ed elaboratissimo ritratto di Anna de Noailles a letto. La poetessa si sarebbe affrettata a far togliere di mezzo il termometro e un tubo di vasellina, all’arrivo di Vuillard, che doveva eseguirle il ritratto. “Enlevez vite ce thermomètre et ce tube de vaseline, Monsieur Vuillard peint tout ce qu’il voit.”
Con il fulmineo colpo di mano della poesia, Anna de Noailles aveva centrato in pieno la pittura di Vuillard: dipinge tutto quello che vede. Così finiva il grande artista del 1893-1900.
Ora bisognerebbe parlare di Roussel. Ma a che pro? Roussel è un cattivo pittore, come fra il 1890 e il 1940 ce ne sono stati tanti in Europa. Eppure le sue intenzioni erano ottime: ammirava Monet, fece, nel 1906, il pellegrinaggio ad Aix per conoscere Cézanne, e come Cézanne si ingegnava di rifare il suo Poussin sur nature. Ahimè, che cosa ne traeva fuori. Quei maledetti cieli azzurri stonati e grevi, quelle ninfe e quei pastori, di carne cruda e sgraziati per giunta.
Mai e poi mai crederò che sia vero l’aneddoto riportato da Vollard; Degas, infatti, stando a Vollard, passando davanti al Trionfo di Bacco di Roussel, l’avrebbe accarezzato con una mano, e, dopo aver domandato chi l’aveva dipinto, alla risposta di Vollard che l’autore era Roussel, avrebbe esclamato: “C’est noble!”. No, ci stava meglio la parola di Cambronne.
L’esposizione di Klee, alla Galleria Nazionale d’arte moderna a Roma, è una bellissima esposizione: non è troppo grande e invece dà un percorso cronologico adeguato. Era quello che soprattutto interessava.
Certo, un Klee, qualsiasi Klee, è bello di per sé, senza antecedenti e senza conseguenti: ma potersi guardare passo passo il Klee dei primi disegni, così minuti, precisi, naturalistici, ma al limite: più sul limite di una stampa giapponese che su quello della natura: e poi andarlo a ritrovare dove, fra le tante anticipazioni c’è pure Dubuffet e Marca-Relli, è un viaggio che va più veloce di un jet.
D’altronde è quasi un miracolo, che si sia potuto riunire questi squisiti quadrucci che ormai toccano cifre iperboliche: l’esposizione è stata assicurata per due miliardi, o forse più, perché il Governo tedesco, l’assicurazione, l’ha pagata da sé. Dire dei quadri è impossibile: Klee è tutto perfetto, non ha mai un cedimento, mai una compiacenza. Ed è sempre nuovo, anche se è sempre identico a se stesso.
Tutti diversi e tutti uguali, i piccoli Klee: una sfida al principio di identità, ma anche una frontiera dell’arte moderna, un circuito chiuso, dove tutti hanno pescato di nascosto, ma che non si può “superare”. Klee sta là, con i suoi quadrucci, che sembrano porsi un gradino sopra al disegno infantile: ma quel gradino è alto come l’Everest.
Nella morte di Picasso tutti, concordemente, hanno sentito la fine di un’epoca. Ma di quale epoca se, quella che veramente s’intitola, per l’arte, a Picasso, era almeno conchiusa alla fine della seconda guerra mondiale. Allora, col sorgere contemporaneamente, in America e in Francia, dell’arte informale, praticamente era stato spodestato, nel suo ruolo principe di capo dell’avanguardia, proprio Picasso. Fino ad allora aveva resistito, anche al Surrealismo, in un certo senso incorporandolo, come aveva incorporato, superandone il momento più rigoroso, il Cubismo: ma l’Informale, con quel che seguì, veniva proprio a opporsi a quanto aveva rappresentato Picasso, un nuovo ordine nella sovversione dell’avanguardia, o, in termini più critici, la supremazia della forma.
E questo, io credo, è quanto, più o meno, tutti hanno sentito nella scomparsa di Picasso, proprio perché questa supremazia della forma era stata realizzata da Picasso, non nei termini di una civiltà antica, anche se a questa civiltà antica si ispirava, ma come creazione di una nuova ininterrotta civiltà figurativa. In un certo senso, alla sorpresa suscitata da questa morte che, in un vecchio di novantun anni, non doveva sorprendere nessuno, si indovina la sorpresa che dové colpire l’Europa alla morte di Napoleone, che pure non era più l’imperatore, e stava in un isolotto sperduto, fra memorie polverose e scartafacci di memorie incompiute. Anche l’epoca di Napoleone era finita, già prima di Waterloo, ma la morte di Napoleone ratificava un altro secolo. Napoleone si chiudeva definitivamente nella leggenda: Picasso si chiude nella leggenda.
Questo spagnolo volitivo e durissimo, questo pittore che non cercava, ma “trovava”, come sempre assistito da una grazia tutta particolare. E senza mai muoversi da quella che poteva parere l’ultima parola, in fatto di avanguardia. Ora che a Barcellona si possono seguire passo passo i suoi primi passi di fanciullo prodigio, subito padrone della tecnica, ma appunto, della tecnica più naturalistica e “virtuosa”, si ricostruisce anche meglio questa sua fucina interiore, in cui tutto bruciava, tutto, senza troppa cernita, veniva posto a frutto, da Steinlen e Zuloaga. E poi la svolta repentina, in cui la ricerca della forma è in primo luogo rinunzia: rinunzia al colore, a quanto da un secolo ormai rappresentava la grande lingua della pittura. L’ingrato Picasso dell’epoca blu è Picasso che prende i voti della pittura e ricomincia da capo. Per questo, la rivolta all’Impressionismo non sono i fauves, non è l’Espressionismo, ma è Picasso. Solo con lui viene diroccata, nelle ultime posizioni arroccate, l’arte che era stata il trionfo dell’Ottocento.
La storia che segue è la storia della pittura fino alla seconda guerra mondiale, in cui Picasso tiene, con colpi di mano sempre più audaci, la prima linea, creando salienti paurosi: ma paurosi, per chi? Il nemico, di fatto, non esisteva. Se ci fosse stato si sarebbe chiamato Matisse, il grandissimo antagonista di Picasso, l’uomo che era arrivato a una nuova pittura proprio da una sedimentazione, al fondo del suo animo di pittore assoluto, del colore e della luce impressionisti, fusi dal suo pennello in una nuova sintesi che era come operata dalla pietra filosofale. Matisse resiste benissimo all’onda portante di Picasso, perché continuò per la propria via, davvero la via maestra della pittura pittorica, per esprimersi con una tautologia che non è tautologia. E all’ultimo, Picasso finì per dargli ragione. Già da prima dei grandi pannelli con La pace e La guerra al palazzo dell’Unesco, Picasso aveva recuperato anche Matisse, riuscendo a rimanere Picasso.
Ma proprio perché il suo grande e unico segreto fu di essere mosso solo dalla forma, e questa, per lui, non era a senso unico, la sua inesauribile curiosità lo spingeva a tagliare le barriere ma non a rompere i ponti, sicché era sempre in casa altrui come fosse la propria. La rivitalizzazione che si operava, in quella coscienza incandescente, accanto a Delacroix o a Velázquez, era uno spettacolo nello spettacolo. Le sue variazioni sulle Femmes d’Alger o sulle Las Meninas, prima ancora di interessare come pezzi di pittura in sé, sono fonte di una ebbrezza intellettuale, confrontando i vari momenti che precedono e quelli che seguono nelle versioni di Picasso.
Questa pittura che poté o può sembrare violenta e improvvisa come uno starnuto, in realtà è retta con una mano fermissima, con una mira precisa, con un mestiere eccezionale. Forse solo il Caravaggio fu altrettanto immediato, preciso e violento a tu per tu con la tela.
Ma Picasso era l’uomo faber e artifex al tempo stesso, e, finché fu così, non fu possibile tenergli dietro: avanzava sempre in terra di nessuno. E in campi minati. Ma egli si salvava sempre.
Non ho finora accennato ai contenuti. Vantati e strombazzati, perché la figura morale, sociale, patriottica dell’uomo non è certo inferiore, su altro piano, a quella dell’artista, Picasso non si era mai lasciato condizionare dai contenuti, per urgenti e perentori che fossero. Il suo grande quadro più impegnato, Guernica, è drastico, violento, ma concluso nella forma, non meno delle Demoiselles d’Avignon, con cui la sua supremazia si affermava di colpo trent’anni prima, e senza matrici rivoluzionarie.
Picasso, fiero nelle sue concezioni politiche, esule da una Spagna che continuava a scorrergli nelle vene come e più del sangue, poté donare a Barcellona, la sua città, una collezione, ma non a Madrid, che avrebbe chinato la testa, mettendo Guernica accanto a Las Meninas.
D’altronde l’uomo Picasso era spagnolo, ma non l’artista, che riusciva a bruciare i residui provinciali come si brucia un brillante con un getto di ossigeno.
Certo, ormai la sua pittura non faceva più problema. Nella nostra civiltà sconsacrata, dove si entra e si esce dalle porte come dalle finestre, dove i quadri si rarefanno e si moltiplicano le gallerie d’arte, questa attività di Picasso, che, indubbiamente, era un po’ affievolita, ma mai senile, rappresentava una sorpresa e un rifugio. Sorpresa per la vitalità indomita dell’uomo, sorpresa perché non era “invecchiato” e restava valido per tutti a dispetto del fatto che quasi nessuno ormai parlava quella sua lingua che era stata ecumenica. Ma anche un rifugio.
In termini psicoanalitici, Picasso era il padre: l’identificazione col padre era ormai avvenuta, nessuna rivalità opponeva ormai i figli al padre. Naturalmente i figli non assomigliavano affatto al padre, il padre rimaneva unico e “valiente” nel suo rifugio provenzale. Pur questo schema psicologico sta alla base del modo di porsi rispetto all’ultimo Picasso, e spiega l’insistenza del governo di Madrid per avere Guernica.
Ma è per questo che, morto Picasso, non c’è un dopo-Picasso. Tutto è già accaduto, tutto si è già consunto e bruciato, in questa felice epoca della “body art” e dell’arte concettuale. L’unico a restare era Picasso. E resterà.
Resterà come una forza della natura, come un vulcano che, anche quando è spento, resta vulcano. Ma non come i baluardi delle città che poi divengono una passeggiata borghese. L’arte di Picasso, per quanto ricercata anche da chi non la capisce, per il suo alto titolo di investimento, non diverrà mai borghese. Perché la sua forza non fu nei contenuti, che passano a cronaca anche se fecero storia, ma nella sostenutezza d’una visione formale che fu prima di tutto espressione e, proprio perché espressione, vi si riconobbe un’epoca, quell’epoca che ora, con la sua morte, sembra sia finita, mentre era finita da un pezzo.
Ma proprio per questo la sua pittura, senza “fare museo”, è museo, è patrimonio ineliminabile della nostra cultura e non si apparta come in una sacca della storia. Donde il suo insegnamento non potrebbe essere più grande: l’artista, non come torre d’avorio, ma sulle barricate del suo tempo, e dalla parte giusta. E l’artista come artista inflessibile, che sceglie il suo linguaggio, che non è il linguaggio delle cose, anzi quello che vive al di sopra delle cose e, trascendendole, le trasforma, donde ci appare come Orfeo che eternamente esca dall’inferno, ma senza la debolezza di voltarsi indietro.
Dei tre grandi, Picasso, Braque e Matisse, poté sembrare anni addietro che fosse Matisse a tramontare per primo. Il longevo Picasso scavalcava i gusti, preveniva le mode, contestava le avanguardie. Ma la pittura di Matisse restò come il fuoco sotto la cenere: già al massimo splendore iniziale, fra il 1908 e il 1916, era stata oltrepassata a sinistra, quanto ad avanguardia, dall’Astrattismo di Kandinskij, dal Suprematismo di Malevic. Il suo sangue impressionista, come disse Kandinskij, la richiamava al passato. La tecnica di Matisse, chiosava perfidamente un pessimo pittore come Jacques Émile Blanche, consisteva nel sopprimere: come dire che più che sintesi, era semplificazione. Ma il tempo lavorava per Matisse, mentre giulebbò Braque e imbalsamò Picasso in una gloria immarcescibile, ma perché imbalsamata. La nuova pittura, che, come aveva previsto Matisse fin dagli anni ’30, doveva nascere in America – era rimasto sorpreso dalla luce di New York – non si volse né a Picasso né a Braque. Dopo un primo aggancio al Monet tardo, dai convulsi sfrigolii dell’action painting, riprese le mosse da Matisse: l’hanno confessato esplicitamente Rothko e Stella che la loro pedana di lancio fu l’Atelier rouge di Matisse, il Matisse fra il 1908 e il 1916.
In realtà, la pittura di Matisse, dopo la partenza fauve, emerse di colpo come Venere dalla spuma del mare: così netta, fulgente, spoglia e rigorosa. Matisse capisce in una volta sola tanto dell’essenza della pittura, che arriverà, lui così schivo dalle teorie e così lontano da porsi come l’uomo fatale del destino, ad anticipare, con le sue stesse parole, le posizioni che saranno di Saussure e dello Strutturalismo. In questo senso, anche se la critica francese, come si direbbe a Roma, ci marcia, marcia in una direzione giusta. Solo che va accorciato il tiro. Matisse, che si serviva di paragoni azzeccati, non voleva ridurre la pittura a lingua, ma intuì in modo precisissimo che il quadro deve fare sistema, che la sua realtà non sta nell’approssimazione alla natura, al referente, ma che è piuttosto un significante: come un significante che non ha un referente, l’ippogrifo, la Fenice, l’Arpia.
Quel che significa, la pittura, significa in se stessa. Con tutto ciò Matisse aveva bisogno sempre di partirsi dalla natura.
Ma nel rifiuto dell’imitazione e nella necessità di partirsi da un oggetto, Matisse non era contraddittorio, anzi lucidissimo: proprio il paragone linguistico chiarisce che se pure l’ippogrifo non esiste, un referente deve trovarsi, vero o ricostruito, dietro la parola. Si trattava di stabilire una rete di rapporti, in seno all’opera; e questi rapporti non erano delle somiglianze, erano basati sulle differenze. La parola è di Matisse, e per questo non è forzato il parallelo con lo Strutturalismo. “Je ne peins pas les choses, je ne peins que le différences entre les choses.” Si capisce come, su frasi di questo genere, la giovane critica francese, uscita dal fianco di Derrida, ci si sia gettata a pesce (si veda il n. 342 di “Critique”). Matisse tuttavia non voleva dire delle cose intelligenti, quanto delle cose vere. Dava una testimonianza lucidissima dei modi della creazione. Così quando gli domandavano se a lui sarebbero piaciute le donne che dipingeva, rispose che se le avesse incontrate per la strada sarebbe scappato: ma sopraggiungeva (nel 1939): “io non creo una donna, io faccio un quadro”.
Matisse intese l’Impressionismo, e anche il Neoimpressionismo, nella sua essenza e non nelle apparenze fenomeniche, ingannevoli per lo più. Portò alle estreme conseguenze quella inversione spaziale che sta alla base della pittura impressionista, e che giustifica, rispetto alla spazialità prospettica, il divario fondamentale fra la pittura del Rinascimento e quella dell’Impressionismo: non il realismo, ma la spazialità. Il quadro si proietta verso lo spettatore, come sospinto dalla luce che rende i colori trasparenti, fluidi, impastati da una luminosità che li filtra senza snervarli, li distilla, mantenendone purissimo il timbro. Tutto questo si basava sui rapporti: le valenze di luce implicite nel colore, era quello che contava, non la rappresentazione della luce. Matisse e le sue parole rendono conto di come ne fosse cosciente: capì a volo tutto questo. E reimmesse – omaggio a Manet, e a Goya – il nero, riuscendo a farlo diventare un colore di luce e non di ombra. C’è un aneddoto bellissimo che Matisse riportò a Masson: Matisse aveva portato a vedere un suo quadro a Renoir, e Renoir, certo, non era meno perspicace di Matisse. Disse Renoir: “Lei capisce bene che io non posso amare questa sua pittura. Tuttavia ha messo un nero puro che non disturba la luce del suo quadro: se noi avessimo fatto una cosa del genere avremmo fatto un buco!”. Concludeva Matisse: “Il nero non soltanto è un colore, ma anche una luce”.
Ma perché, si potrà chiedere, un nero sfondava un quadro impressionista (il nero di Manet, dell’Olimpia ad esempio, appartiene al momento anteriore alla fase più impressionista) mentre si comportava come un colore di luce in Matisse: perché, occorre rispondere, in Matisse avviene l’ultima precipitazione della inversione spaziale impressionista. Il quadro proiettato sulla superficie del quadro come su uno schermo, si salda alla superficie. La pittura di Matisse diviene una pittura di superficie. Negando la prospettiva, la spazialità di Matisse la contiene ancora come un lievito o una molla segreta, che forza in determinati punti, accetta le diminuzioni spaziali, giustifica un viluppo che non diventa semplicemente un geroglifico, una scrittura; Matisse, e lo dice espressamente anche se parla di segni, non vuole ridurre la pittura a scrittura.
Ma il suo intento di abolire la differenza fra figura e fondo, di dare al fondo la stessa importanza della figura, è consentito dalla riduzione alla superficie in cui gioca una rete di rapporti, basati in gran parte sui colori puri, spremuti dal tubetto, che faranno “campo”, in cui non sono le parti che contano ma i rapporti che intercorrono fra di loro. Così si darà il fatto che ridipingerà con altri colori tutto il quadro perché, evidentemente, quel determinato “campo”, che intendeva realizzare, non funzionava. Così i rapporti di forma, la vecchia opposizione di forma e contenuto, si trasferiscono alleggerendosi alla superficie e qui, a Matisse, sembra di risolvere definitivamente, quando ricorre alle carte dipinte e ritagliate con le forbici, come negli ultimi quadri, anche l’opposizione fra disegno e colore. Ho invertito il rapporto – ebbe a dire – perché prima si disegnava e poi si riempiva, il disegno, di colore; ma io prima faccio il colore e poi lo ritaglio; disegno con le forbici.
Si capirà meglio, allora, cosa intendeva dire Rothko quando dichiarò “Matisse è stato il primo pittore che abbia realizzato dei quadri di superficie”. Ma si è visto che tali quadri di superficie non erano un’inversione di rotta, ma l’approdo naturale, direi, inevitabile dell’Impressionismo, come l’atonalità era stata lo sfocio inevitabile del cromatismo wagneriano. Che poi da questi quadri di superficie si sia ora scesi, con la cosidetta Nuova pittura, a superfici bianche appena punteggiate, come dalle mosche, o con le aste dell’asilo infantile, questo è un altro discorso.
Un ometto così, con le guance di un colore fra la pesca e lo zafferano, rubizzo, e con certi occhietti vispi, come i bruchi di notte nel buio di una siepe: vestito, poi, di tutto punto, col gilet perfino, cravatta, camicia bianca, i pochi capelli lisciati con cura. Questo è Miró, il pittore forse più rivoluzionario del secolo. Anche più di Picasso. Quando cominciò, cominciò dal nulla; la sua fantasia gli creava un vocabolario semplice fino a essere primario, ma proprio perché primario, sconvolgente. Era una fantasia lirica, come può essere lirica quella di un bambino che con due sassi e una foglia improvvisa una pietanza. Dava senso alla macchia, ai punti disseminati come stelle di risulta: non si riusciva a collegare questi antefatti di figure che metteva insieme.
Eppure stavano insieme: un valore nuovo, dissueto, scaturiva da quelle accozzaglie fluttuanti su un fondo inespresso. Non certo la precisione quasi taccagna di Klee. Spesso erano ampie superfici abbandonate a se stesse, come lievitanti, come lo specchio di una strada bagnata su cui si incollano le foglie dell’autunno, su cui le luci scivolano senza far presa. Indimenticabili quadri pieni di un mistero che non era mistero, non era allegoria, non era simbolo: erano niente ed erano pittura. Perché non ci poteva esser dubbio che fossero pittura. E oggi sono i quadri moderni più cari: anche quelli che fa ora, che sono ormai un’eco affievolita di quanto fu trovato e dipinto da lui senza cercarlo e quasi senza dipingerlo.
Ed io pensavo a tutto questo, forse con incredulità, sedendo a quel tavolino accanto a lui e a sua moglie, con una bella ragazza toscana di fronte e ciascuno col piatto dove avevamo radunato un po’ di cibo, come si fa nelle cene in piedi, che poi ci si mette a sedere. La moglie di Miró cominciò subito a diradare il piatto di suo marito, con garbo ma con autorità inflessibile. A ottant’anni basta poco: infatti gli lasciò pochissimo. Via la rotella di carne, via metà della rotella di una specie di polpettone di pollo: le patatine, ecco, che erano quasi lesse. Miró non si ribellò affatto: si capiva che la scena si ripete da molto tempo, è attesa, e solo ogni volta il tentativo disarmato e innocente di mangiare un po’ di più, di bere un bicchiere di vino tinto, rosso cioè. Quello bianco farebbe meglio al caso, ma no, mezzo bicchiere, sia pure, purché tinto.
La sua faccia non era scontenta, anzi vivace, anzi con un’aria mezzo divertita: e gli occhietti brillavano guardando in giro.
Ma il discorso era difficile. Il suo silenzio non imbarazza, ma si riforma subito, dopo detto una parola, come si richiude l’acqua buttandoci sopra un sasso. No, non era mai stato a Roma, in altre città d’Italia, sì. Come domandare quale città avesse visto? Era indiscreto. Se voleva dirlo, l’avrebbe detto da sé. Il mangiare allora: gli dicevo della voga fasulla che in Italia avevano preso certe cose spagnole, il gaspacho, la sangria, la paella. Gli era perfettamente indifferente, si vedeva, ma senza dirlo. Giovanissimo ero stato in Spagna, avevo voluto imparare a cucinare la paella. “E come fa la paella” chiese la signora Miró. Cominciai a raccontarlo, ma era tutto sbagliato. Non si fa così, si fa… si accostò uno spagnolo e il discorso della paella non proseguì.
Si era in una Galleria dove si teneva una mostra di Miró, e si mangiava nella galleria, con i quadri appesi, né spaventosi, né appetitosi, certo luminosissimi, quasi con colori catarifrangenti. Avrei voluto tanto sentirlo parlare, non di quei quadri certo, né della pittura, né dei colleghi: ma ogni discorso cadeva a terra senza fiato.
Perché sarebbe stato assurdo attendersi che una persona così naturalmente riservata, parlasse di sé, del suo modo di intendere la pittura, di come si sentiva nel mondo contemporaneo, che, fino a pochi anni or sono, attingeva abbondantemente al suo mondo senza idee, senza figure, ma pieno di spunti segreti come un cielo stellato.
Sapevo benissimo che, i veri artisti non amano parlare di sé in questo modo: quello che fanno, lo fanno, non lo raccontano. Morandi era così, ad esempio. Se si parlava d’arte, si parlava di Piero della Francesca o di Giotto o di Masaccio, ma non di lui, non della sua pittura; i trapassi, le svolte improvvise che pure vi furono, nessuno si aspettasse che Morandi li avrebbe elucidati. Ma con Miró non viene neppure fatto di chiedergli chi possa interessarlo della pittura antica: a Picasso, certo, lo si può chiedere, che guarda tutto e rimastica tutto, dai vasi greci a Velázquez, da Delacroix a Matisse. Ma, a Miró, cosa mai chiedergli? Se gli piaccia Goya? Certo che gli piacerà: è troppo cortese per dirti che se ne infischia. Gli piacerà, andrà anche a rivederselo al Prado… Ma a trovarlo davanti a un quadro non suo, Miró, c’è da trasecolare. Chi sa cosa ci possa vedere, chi sa cosa può strizzarne fuori, come strizzando un limone, che poi si butta via. Miró si trova da un altro lato della pittura: c’è come un fosso fra mezzo, Miró sta di là, non c’è dubbio. Accanto a lui si ha la sensazione come di affacciarsi alla finestra: ti saluta cortesemente e poi richiude la persiana. Resta dietro la persiana? Ma dietro la persiana non c’è niente, c’è solo quella persiana. Dietro quella di Picasso, c’è Picasso che dipingerà le cose che vede attraverso le stecche, ricomponendole come fa delle teste, con i due occhi dalla stessa parte. Dietro la persiana di Miró, quando si spalanca, c’è una macchia irregolare, scurissima, e una specie di stella su un lato. Queste macchie, queste stelle, Miró è come le dipingesse sulla notte, quasi su una lavagna, o su un cielo pieno di stracci di nuvole, e allora i colori splendono come le lanterne rosse delle interruzioni stradali: di lì non si passerà mai.
Né si vuole passare. Ci si arresta, davanti a un quadro di Miró, come su un precipizio; guardare acquista un valore a sé, non per quello che si guarda, ma perché si guarda. Nessuno potrà mai raccontare uno di quei quadri. Miró non parla, perché quando parla, parla come si veste, come un bravo borghese dell’inizio del secolo, impeccabile, spazzolato dalla moglie, festeggiato da figli e nipoti. Miró sta in campagna, a Maiorca: è un’isola in un’isola, come i suoi occhietti vispi sono un’isola nel suo volto color di un tramonto autunnale.
Il tempo di Miró non è finito, perché non è mai incominciato: Miró nasce senza nesso, quasi al di fuori della sua persona fisica, come se i suoi quadri si formassero al di fuori di lui, al modo che si legge il pensiero.
Così, dopo un poco mi ero sdato: non cercavo più argomenti di cui parlare. Con Miró non si parla e non si ascolta. Lo guardavo come si guarda un pesce in un acquario, a cui non verrebbe mai in mente di rivolgere la parola: si parla a un cane, a un gatto, a un cavallo. Ma non si può parlare a una essenza misteriosa e sfuggente, che a un tratto si manifesta, con una serie di segni indecifrabili eppure comprensibili, con figure che sono sull’orlo di significare e non significare: poesia senza parole, come la musica senza parole.
Firenze, marzo. Mi ricordo come fosse ora, di quando Rufino Tamayo, ancora ignoto in Italia, espose alla Biennale di Venezia e Giorgio Morandi, di tutti il più schizzinoso per gli artisti a lui contemporanei, imprevedibilmente l’apprezzò. E dico imprevedibilmente perché, pittore raffinato come era, non si poteva mai sapere dove si sarebbe rivolta la sua lode e il suo biasimo, così come non gli piaceva Van Gogh e stimava i pasticcetti di Longanesi. Si può pensare allora che quel che ammorbidì il suo giudizio per Tamayo, sia stata l’eleganza cromatica, quel mutuo assestamento di tinte tenere, di colori trasparenti, che Tamayo mostrava e mostra: perché, a distanza di tanti anni, la sua pittura è un po’ cambiata, ma la tavolozza è sempre quella.
La Mostra che è stata organizzata a Palazzo Strozzi si estende a questi ultimi quindici anni, ed è una mostra assai grande, cento opere e alcune di cospicue dimensioni; per reggere una mostra simile, ci vogliono solide spalle, soprattutto perché, una pittura basata sui mezzi toni, ritiene qualcosa di umbratile e di delicato, che facilmente può affossarsi nelle ripetizioni. Non dico che questo non accada talora anche se i dipinti sono molto bene smistati, e non se ne vede quasi mai più di due alla volta, ma l’illuminazione di piccoli riflettori con la lente produce quell’effetto noto di quadri dipinti su vetro, che certo non allevia anzi accentua il lato decorativo e un tantino futile della pittura di Tamayo. La quale, per situarla, va vista anche in contrapposto a quella pesantemente naturalistica di Rivera, Orozco e Siqueiros, che sono magari più famosi di Tamayo, ma soprattutto per ragioni politiche, più che di fattura pittorica.
Pittura aristocratica
La pittura di Tamayo non è invece populista, anzi aristocratica nel senso migliore, della selezione, del rispetto ai valori formali della pittura. Ed è una pittura europea, sebbene il suo autore sia messicano, ed echeggi qui e là, quasi per decenza, motivi che si ispirano, ma molto alla lontana, all’arte azteca.
Del resto, per rendersi conto della manipolazione culturale di Tamayo basta pensare ad altri artisti che si ispirino a una cultura figurativa simile, Baj ad esempio, e si vedrà come i risultati non collimino, restando uguale la matrice, come dire Dubuffet.
Ma appunto, in Tamayo, c’è un elemento, il colore, che sta alla base, e che non viene direttamente da nessuno. Si dice direttamente perché, certo, il colore di Tamayo ha una genesi postimpressionista; quei giallini limone, quei verdi orticanti, quei viola teneri di mammole marzoline, li abbiamo visti in Bonnard e in Vuillard, ma così bene rimpastati e, qui, velati come da una nebbia leggera, allontanati dalla ribalta del quadro, quel tanto che ti sembra di guardarli a occhi semichiusi, fra il battito delle ciglia. E allora quei colori affascinano e suscitano altri accostamenti, come fossero la madeleine di Proust che induce una catena di memorie. Codeste memorie involontarie, emerse dall’intimo, diventano allora sapori e odori; a un tratto ti senti in bocca il gusto delle fragole e dei lamponi, il profumo dei narcisi, l’odore polveroso della mimosa.
Al di là del quadro
Ecco che la pittura di Tamayo ha come cambiato di registro, e va al di là del quadro, e si può perfino ascoltare. Infatti l’impaginatura del quadro di Tamayo, così discreta, sempre, e chiara, a strati sovrapposti, è anche una scenografia, dove affiorano e scompaiono strani, mutili personaggi, la cui aura spetta ugualmente alla musica come alla pittura. È una musica impercettibile – meglio, in questo senso, che non vi fossero quei suoni e parole diffusi, seppure discretamente – una musica di ultrasuoni, ma a cui si tende l’orecchio anche se non si può ascoltare.
Tutto questo si dice senza invenzione e senza sforzo, perché è quanto distingue, nella sua grazia segreta, la pittura di Tamayo, ma proprio per poter riconoscere che è un petit maître, che è già un miracolo se non stramazza citando i nomi di Picasso o di Klee o di Dubuffet, e perfino, rimanendo a una altezza diversa di un gentile pittore francese, che anche lui usò la gamma dei postimpressionisti, Estève cioè, che subito dopo la guerra fu il migliore se non il più fortunato del manipolo di punta francese, Manessier, Gischia, Singer e altri.
Vederlo ora a Firenze, in questa fila sterminata di sale di Palazzo Strozzi, capisco che faccia l’impressione di una resa dei conti, in un ambiente, quello fiorentino, che al colore così inteso non è mai stato molto propenso. Ma Tamayo è uno degli ultimi pittori di pennello, di opere e non di concetti, e qui, che è stata la patria della pittura italiana, di tutta la pittura italiana, anche di quella veneziana, Tamayo è come sciogliesse il voto: anche lui, come Moore, deve riferirsi a Firenze per collocarsi nella storia.
Moore è un nome grande come un monte e come un monte sta all’orizzonte dell’arte contemporanea: non sembra possibile che scompaia. Anche perché la sua attualità era ormai come differita: nessuno pensava che potesse cambiare; c’era una persistenza mirabile, che mirabilmente riusciva a evitare la monotonia.
Moore era sempre monumentale, anche nelle piccole cose che, appunto, sembravano riduzioni da quelle più grandi. Era monumentale nel senso buono e non quantitativo: il suo spazio era sempre dilatato, la forma gli cresceva dentro come un fiore bianco e mostruoso. Perché l’elemento mostruoso era fondamentale in Moore, un riscatto da quella liscia e compatta forma marmorea, che pareva ricollegarlo di necessità a un passato da cui si eccettuava: con tutte le forze.
Per questo le sue fonti d’ispirazione furono le più desuete: la scultura etrusca dei sepolcri di Tarquinia, con le teste piccole e l’enorme involucro del corpo, più che panneggiato, come in una camicia di forza. Oppure il profilo di un vulcano, giacente, simile a una statua sepolcrale: oppure i fori che il mare, la pioggia, il vento fanno in uno scoglio.
Il gusto dei vuoti, come li intendeva Moore, era una trasposizione del pieno in vuoto, come quei buchi neri delle stelle. E c’era nella sua ciclopica immaginazione una forza aggregante o disgregante cosmica: la sua scultura nasceva come da un’eruzione, si bloccava come la lava quando si raffredda. Ma questo non faceva che aumentarne il sottofondo vitale: poteva piacere o non piacere, attirare o respingere, tutto fuorché essere accusata di inerzia, di gravare sul suolo come un macigno.
È stata una grande avventura dello spirito, anche se questa parola non è più di moda: ha restituito a un presente che è privo di grandezza, anche se capace di eroismo, il senso della grandezza, dell’offerta sublime come un sacrificio umano. È questa sublimità, che oltrepassa la miseria della cronaca, che dava il senso dell’opera fuori del normale, eccezionale in tutto e per tutto. Basterebbe a dimostrarlo la serie dei disegni dei rifugi contraerei; di colpo, quella miserabile e maleodorante adunata di gente impaurita, vestita di coperte strappate al letto, appariva come un’adunata di spiriti nobili, aveva di dantesco l’imperturbabile mestizia serena del limbo.
Surrealismo di quei disegni quasi di gusto neoclassico, così diversi dalla sua scultura, ma così simili in quel senso di tellurico, di sotterraneo, di attesa profonda e oscura.
Quando a Firenze fu organizzata la mostra memorabile al Forte del Belvedere, tanto memorabile che il ricordo di quella mostra annichila tutte le altre che sono state fatte, il contrasto che si poneva fra il gruppo colossale di Moore e la cupola del Brunelleschi, il campanile di Giotto o la torre cosiddetta di Arnolfo, era la migliore pietra di paragone, della reale grandezza, della interna consistenza formale.
Non ho mai conosciuto di persona Moore, ne ho ora un grande rimpianto. Ma sono sicuro che un rapporto diretto con un simile misterioso e arcano maestro (ha quasi rivissuto dal paleolitico, e doveva la sua modernità a un’antichità così lontana) sarebbe stato o esaltante o agghiacciante; il rapporto con un artista essendo sempre esposto a questa alternativa.
Ma ho conosciuto Moore ugualmente; quando la sua scultura diveniva evocata da un monte, da una perforazione strana di una pietra, e subito la sua presenza s’imponeva non perché fossero la stessa cosa, ma proprio perché in Moore, quel monte, quella pietra perforata erano elevati a potenza, come il non finito di Michelangelo non è pietra ma la sublimazione della pietra.
Moore rimarrà nella storia dell’arte come un meteorite piovuto dal cielo, che lo spazio e l’attrito dell’aria hanno modellato, ma sarà anche la testimonianza del potere dell’uomo sulla natura, volontà e non caso, tenore morale e non arbitrio, fantasia e non meccanica associazione. Moore ha rivalutato l’uomo in un nuovo rinascimento su un baratro della barbarie, della guerra, della follia atomica.