ANTOLOGIA CRITICA

 

EMILIO CECCHI, Verde Nilo, in “Corriere della Sera”, 28 giugno 1963

Il primo libro “itinerario” di Cesare Brandi fu quello del suo Viaggio nella Grecia antica (Vallecchi, 1954), al quale seguirono, dopo qualche anno, le Città del deserto (Mondadori, 1958), e questi volumi non mancarono di suscitare subito la dovuta attenzione. Poco c’era voluto ad accorgersi, specialmente dopo il secondo, che la forma del racconto di viaggio, oltre naturalmente a impegnare il Brandi nella sua erudizione ch’è ricchissima, e nella sua curiosità e acutezza di storico dell’arte, si confaceva mirabilmente alle sue virtù di scrittore, e porgeva loro nuovi stimoli e possibilità.

Fino allora il Brandi era stato soprattutto lo storico e il critico della grande pittura senese del Rinascimento; e il direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, al quale una serie di memorabili successi, conseguiti in cotesto gelosissimo campo durante la sua direzione, aveva procurato un’indiscussa autorità internazionale. Alle altre pubblicazioni del Brandi, si stavano frattanto aggiungendo i quattro ben noti “dialoghi” sulla Pittura, sulla Scultura, sull’Architettura e sulla Poesia; pieni di novità e di dottrina, e nei quali all’altezza e finezza speculativa si associa una diretta e quasi artigianale esperienza tecnica, nelle sue infinite varietà e con tutti i suoi misteriosi segreti. Ma ecco che, con la visita alla Grecia antica, a un tratto si apriva anche la serie di questi resoconti di viaggio. E in meno d’un decennio, con una presa sulla realtà sempre più agile e ampia, e una resa letteraria più brillante e animosa, si giungeva ai volumi terzo e quarto, che sono: Pellegrino di Puglia (Laterza, 1960) e l’odierno Verde Nilo (Ed. Leonardo da Vinci, 1963).

Freschi della lettura del Pellegrino di Puglia o di Verde Nilo, se ci avvenga di riaprire il Viaggio nella Grecia antica, si ha tutto l’agio di misurare il cammino in questo tempo percorso dalla prosa del Brandi. Occorre tuttavia che venga anche tenuta presente una decisa diversità d’impianto e struttura. Moltissimo più breve dei tre successivi, e tanto più rigido e sommario nei modi della trattazione critica, quel primo Viaggio nella Grecia antica è come bloccato intorno a un certo numero di complessi problemi riguardanti l’arte greca dei grandi secoli. E deliberatamente rifiuta tutta una quantità d’inviti e occasioni che tanto vivacemente fioriscono invece negli altri tre volumi.

In maniera approssimativa, tanto per fare qualche esempio, tali problemi potrebbero così indicarsi: “Come giudicare, secondo i criteri della pratica attuale, i metodi e i risultati di Sir Arthur Evans, nei suoi audaci e irreparabili scavi e nelle sue ricostruzioni di Cnosso?”. “Chi potranno essere stati e di quale scuola, i grandi maestri dei frontoni d’Olimpia, d’uno cioè fra i maggiori complessi statuari di qualsiasi epoca e paese?” “E può l’Hermes di Olimpia essere considerato in tutto o in parte come un originale di Prassitele (forse l’unico superstite originale di Prassitele), se alla stessa maniera del Cristo della Minerva di Michelangelo, non sia invece passato attraverso una serie di rilavorazioni?” In qualche modo il Viaggio nella Grecia antica restava tutt’altro che inutilmente vincolato a un numeroso gruppo di fondamentali questioni di cotesto genere. E ogni volta che oggi ci accada di riprenderlo sempre ci lascia con il rammarico di non poter nemmeno immaginarci (dato il costante amore del Brandi per la antica grecità, e la sua sempre più profonda preparazione erudita) che sviluppo avrebbe preso, e che cosa sarebbe diventato, in una forma più ampia, più calma e di più libero respiro, come quella del Verde Nilo e del Pellegrino di Puglia.

In Città del deserto, il Brandi ci aveva scortati a Tripoli, Sabratha, Leptis Magna, e a sud fino a Ghirza, per riprendere in altra circostanza il cammino in Siria, con una sosta a Gerusalemme e in Israele, e una punta a oriente fino a Damasco e Palmira. Nel Pellegrino di Puglia, che riunisce alcuni viaggi ed escursioni minori, ci aveva guidati da Bari a Lecce e a Taranto, per passare di costì nella regione delle cosiddette “cripte basiliane”, e risalire nel Vulture e nella Capitanata. In Verde Nilo, su cui più intendiamo intrattenerci, dopo una prima permanenza al Cairo, egli scende ad Assuan e a Philae, e di lì nella Nubia, ai templi di Abu Simbel, dove ha da espletare una sua speciale missione tecnica.

Rientrato al Cairo, riprende le visite ai musei, alle moschee, ecc., con particolare interesse per la zona del Fayum e i famosi ritratti a encausto che vi furono ritrovati, e che forse giustamente ritiene “le più belle pitture dell’antichità”. Avanti di ripartire per l’Italia, fa un’escursione al Sinai, per studiarvi le icone bizantine conservate nel convento di Santa Caterina. E la goffa e balorda comitiva alla quale, per necessità diciamo così logistiche, si trova legato in cotesta spedizione, e i grotteschi incidenti stradali che, uno dietro l’altro, l’accompagnano nella corsa notturna di ritorno verso il Cairo, gli imprestano motivi di saporito divertimento e aggraziata satira sociale, che ormai in questi libri ogni tanto s’incontrano, a svariare le squisite e toccanti notazioni paesistiche, i gravi richiami di natura storica, e le profuse osservazioni di critica d’arte.

Non s’è avuto tempo finora di specificare come, almeno in parte, le egizie fatiche di Brandi abbiano avuto rapporto anche con la divulgatissima faccenda della diga di Assuan, e del futuro innalzamento del corso del Nilo nubiano e sudanese. Si sa che, in conseguenza di tale innalzamento, ad Abu Simbel, inevitabilmente dovranno finire col rimanere sommersi i templi e i colossi dedicati a Ramsete II (XIX dinastia), nei quali è riconosciuta una delle più alte e preziose testimonianze dell’architettura e scultura faraonica. Un progetto francese di salvataggio, più disinvolto e appariscente che davvero persuasivo, era stato quello di isolare, con una grande costruzione muraria a imbuto, l’insieme dei templi, che così si sarebbero trovati come nel fondo di un pozzo essiccato. E scendendovi dalle loro imbarcazioni, i turisti vi avrebbero avuto facile accesso. (Ma la diga a imbuto, osserva il Brandi, “non avrebbe salvato un bel nulla, perché l’umidità capillarmente avrebbe risalito la pietra, passando di sotto la diga… La pietra di tipo arenaria di Abu Simbel è assai friabile: resiste finché non la bagna l’acqua, e allora l’assorbe come una spugna. Così se i templi dovessero andare sott’acqua, nessun dubbio che si scioglierebbero come lo zucchero”.)

Più originale e coraggioso il progetto italiano, elaborato fino negli ultimi dettagli della realizzazione meccanica e della spesa. Si sarebbe trattato di tagliare tutta la piattaforma su cui risiedono i templi e i colossi di Abu Simbel, gradatamente sollevandola di oltre cento metri, per mezzo di argani e martinetti elettrici, e portandola sul crinale della retrostante collina. Intanto il Nilo avrebbe avuto il tempo di diventare qualcosa come un lago, o meglio una palude. (“In mezzo a questo lago sciapìto,” commenta il Brandi “come due denti cariati e rappezzati su una dentiera di cemento, i templi di Abu Simbel: certo una grande, grandissima scultura. In questo naufragio, quasi una stazione spaziale, i colossi seduti, scartati e spolverati, sulla piattaforma di cemento, con un aeroporto alle spalle. Dio mio, che cosa abbiamo fatto! Che salvezza peggiore della morte: che morte civile di una sublime opera d’arte…”)

In realtà, l’accorata deplorazione del Brandi è prematura. Il progetto italiano dell’ingegnere Pietro Gazzola è stato prescelto, sottoposto all’esame degli esperti e approvato. Ma è ben lontano da riuscire a trovare l’indispensabile finanziamento. Il denaro che l’Unesco sarebbe stato capace di raccogliere, è parte esigua del fabbisogno che, secondo John Canaday ( New York Times”, 16 aprile 1963) viene calcolato in settanta milioni di dollari: da considerarsi, dopo tutto, cifra non terrificante, in confronto per esempio ai costi degli ininterrotti esperimenti di navigazione spaziale. Oggi come oggi i templi e i colossi di Abu Simbel stanno sotto la condanna d’un più o meno prossimo allagamento. Strano a dirsi che, nell’assemblea dell’Unesco, alla constatazione di quella impotenza finanziaria, sia stato proprio un delegato inglese a fare dello spirito, parlando di scafandri da mettere a disposizione dei turisti che volessero visitare i templi sommersi, e di rivestimenti di cellofane per proteggere le statue (vedi: Quadrivio, Rassegna delle relazioni culturali con l’Estero, maggio 1963).

Ma volendo spigolare da Verde Nilo una serie ordinata di opinioni e descrizioni riguardanti anche soltanto Abu Simbel, non si finirebbe tanto brevemente, mentre non resta spazio che per qualche nota d’insieme sullo spirito e il tono di questi viaggi. Senza mettersi alla ricerca di nessuna vistosa originalità, senza la minima sforzatura letteraria, ma unicamente per il naturale, armonioso concorso delle diverse parti, con essi il Brandi ha creato qualche cosa che, nel proprio genere, mi sembra avere una sua novità. Non porta in giro i suoi teoremi estetici, a verificarli tecnicamente su un materiale che dorme nelle cattedrali e nei musei. Ma dà l’impressione d’una creatività inesauribile, suscitata da incontri che, come quelli con i frontoni o con l’Hermes di Olimpia, o con i colossi di Abu Simbel, benché preparati da una cultura raffinatissima, ogni volta hanno tutta la sorpresa e lo slancio d’una scoperta, d’una rivelazione. L’ambiente, il paesaggio e perfino le figure quasi incidentali, sono prese nel movimento di queste rivelazioni, sono illuminate dalla loro luce.

Le immagini di certe donne della Nubia in un festino nuziale, la figura dello sceicco Abdullah e il ricevimento nella sua casa a Ismailia, naturalmente sopra un piano vissuto, documentario, fanno tutt’uno con le celebrazioni rituali di Nefertari nei graffiti d’uno dei templi destinati a essere preda delle acque. Una profonda e sottile vitalità intellettuale e sensitiva circola in queste pagine e le completa, dove l’espressione letteraria potesse sembrare rimasta più abbreviata e sommaria. E il raggio nel quale vibra questa complessiva vitalità è perfino più ampio di quello, già vastissimo, dell’antico mondo dell’arte.

DINO BUZZATI, A Martina col professore, in “Corriere della Sera”, 9 febbraio 1969

Ci invitò a visitare con lui Martina Franca, nelle Puglie, rimasi un po’ indeciso. Se lo chiamo professore non è per l’età, credo anzi di avere qualche primavera più di lui; ma è perché, non solo al mio paragone, che significherebbe ben poco, egli è quello che si dice un pozzo di scienza: storia, storia dell’arte, estetica, filosofia, critica, strutturalismo, semiotica e chi più ne ha più ne metta. Insomma, mi intimidiva.

Ho sempre odiato visitare città e musei con l’imbonimento di guide stampate o in carne e ossa, per dotte che siano. La gioia di scoprire, di guardare, di sentire, di capire, ne resta avvelenata. E, in fatto di dottrina, dal professore c’era da attendersi il peggio. L’offerta però era stata così cortese che non era decente rifiutare. Non si era ancora giunti alle porte della città che le mie funeste predizioni parvero cominciare ad avverarsi. Con bei modi, intendiamoci, con la sorridente eleganza che è tipica della sua persona, il professore, a guisa di lasciapassare, intraprese a narrarmi la storia di Martina: come venne fondata da Filippo I d’Angiò e dotata di quei famosi privilegi per cui fu chiamata Franca, come nel 1507 questi privilegi decaddero avendo Ferdinando V assegnata la città in feudo al Caracciolo, come tuttavia i martinesi seppero conservare e dimostrare un coraggioso spirito di indipendenza e di intolleranza per i soprusi del signore; come questa intrepidezza, dal 1799 alla restaurazione borbonica, per due volte, e con gravi rischi, innalzò in piazza l’albero della libertà; e così narrando fino ai nostri giorni. Il professore parlava, è vero, con singolare scioltezza e garbo, ravvivato da frequenti sali d’arguzia. Ma a mia vergogna ammetto che le antiche vicende di Martina, città che a malapena avevo sentito nominare, mi lasciavano del tutto indifferente. Per di più era una giornata calda e sentivo scendermi addosso una cappa di sonnolenza.

Senonché entrammo in città e ben presto mi resi conto perché il professore la amava, dedicandole tanta attenzione e tanto studio. Martina, come appunto egli spiegava, rappresenta un unicum per la stupefacente esplosione del rococò che, superbamente fiorito nella cattedrale di San Martino, si irradiò per tutti i quartieri, realizzando una fisionomia architettonica singolarissima; e quella che sembrava destinata a rimanere “una specie di Lecce minore” acquistò, grazie a quell’innesto, una personalità incantevole che la differenzia da tutte le città del Meridione. Ma il bello è questo: via via che si perlustravano le strade, le piazze, le chiese, i chiostri, e che si rivelavano uno dopo l’altro i fantasiosi, qua aristocratici, là avventurosi, scenari di quell’inaspettato teatro settecentesco intriso di fervida vitalità culturale, intensamente “cittadino”, senza i segni di quell’origine rurale che si avvertono in tanti centri del sud, di minuto in minuto il professore diventava meno professore, il suo volto si accendeva di crescente entusiasmo e perfino di una trascinante allegria. Ma soprattutto come era piacevole starlo ad ascoltare. Spariti anche i più lontani ricordi di cattedra. Era semplicemente un delizioso compagno di viaggio, largamente fornito di humour.A non saperlo, lo si sarebbe potuto credere un romanziere, un poeta, piuttosto che un accademico universitario.

Si ebbe, è vero, una breve ricaduta quando, usciti dal centro abitato, ci si inoltrò per quell’altro miracolo di Martina Franca cioè la sua campagna popolata di trulli. Il professore, sull’argomento appunto dei trulli, non arrestò in tempo la pressione della scienza traboccante in lui e dissertò sull’“asse paradigmatico della capanna neolitica che si era impattato con il sintagma culturale”. Ma fu crisi brevissima. Dopodiché egli si fece ancora più accattivante, geniale, spiritoso. Fu un viaggio in crescendo, per quanto riguarda la bellezza degli spettacoli e la simpatia della guida. Dopo i trulli, visitati di fuori e di dentro, la masseria, e poi il bosco delle Chianelle, e poi una classica cucina in una fattoria delle Murge (dove il professore si rivelò una autorevole e raffinata forchetta), e poi, sulle ali del ricordo, un tuffo nella primavera di laggiù e, finalmente, la visita a Rodrigo, stallone asinino, campione di una razza celebre che “forse apparteneva alla stessa epoca dei dinosauri”, solo che gli asini di Martina, attraverso i cataclismi dei millenni, si sono salvati. In queste ultime tappe il professore, lasciandosi portare dall’estro naturale, toccò forse le corde più amabili e felici. La gita, ahimè, era finita. Il commiato, per me, un vero dispiacere. Arrivederci e grazie, professor Cesare Brandi.

Sì, perché il viaggio, con Cesare Brandi, io l’ho fatto veramente, ma nelle pagine di un libro. Bisogna sapere che Guido Le Noci, direttore della galleria d’arte “Apollinaire” di Milano e alfiere di molti artisti di estrema punta (fu lui a lanciare in Europa Yves Klein) è nato a Martina Franca e alla sua patria, come editore, ha voluto dedicare un magnifico volume che equivalesse, per un lettore anche ignorante come me, a un sopralluogo sul posto. Ce l’ha fatta. E il bellissimo libro è stato presentato ufficialmente ieri da Giulio Carlo Argan nel Palazzo Ducale della stessa Martina Franca, palazzo che Brandi per la verità guarda con occhi sfavorevoli.

ALBERTO ARBASINO, Brandi & Budda, in “Corriere della Sera”, 8 aprile 1973

Questa vacanza ha tutta l’aria di una scommessa vinta. Come per un ammicco fra Brandi e Budda, scoppiano infatti qui diverse convenzioni, prima di tutte quella per cui mai – e poi mai – bisognerebbe ripubblicare gli elzeviri tali e quali, e meno che meno “a caldo”, per evitare che certe paginette un dì tanto letterarie sul giornale appaiano anche troppo giornalistiche una volta sistemate nel Libro. Poi, si smentisce con gaia disinvoltura che quel tremendo paese, il Giappone, sia ormai capace di porgere soltanto raccapriccio e angoscia. E ancora, una malizia culturale serpeggiante e inesausta confuta dall’interno l’eredità di quella prosa d’arte “granducale” per cui ogni viaggiatore “anni Trenta” appariva come un pesce rosso fuor d’acqua, riconducendo ogni aspetto insolito del paesaggio straniero a un qualunque angolino fiorentino o rurale.

Sfuggendo con destrezza a tutti i generi letterari pensabili, il cattedratico illustre si diverte come un ragazzo insonne fra templi e giardini, fra sassi e muschi, si gratifica anche nelle città più spetasciate e sconsolanti. Vibra come uno schedario animato: sotto le sprezzature e velature superficiali della prosa intreccia una trama fittissima di richiami e risvolti e risucchi polimorfi tra scultura e pensiero, natura e tecnica, antichità e vita, scrittura e finzione, Oriente e Occidente, entusiasmi e trappole. E attraverso il frastornato bric-à-brac delle civiltà stilizzate e del turismo charter miniaturizzando le tensioni fra presenza e assenza col tratto infinitesimo della pittura asiatica su seta, o con l’arabesco allusivo di quella gran saggistica mitteleuropea (Benjamin, Bloch, Canetti), così propizia a risolvere l’espressionismo in giapponeseria.

A Kyoto, a Tokyo, a Nara, a Bangkok, davanti allo spazio architettonico giapponese imitato solo formalmente dai più riveriti maestri dell’organicità o del Bauhaus, in riva ai laghetti melmosi o in barchetta fra i mercati flottanti, alle prese con rovine thai, e simulacri khmer, e assortimenti di Budda grandi e piccoli, Brandi allaccia fulminei circuiti culturali che rimettono guizzanti in causa – cotti e mangiati – i momenti più celebrati o più rari della civiltà artistica europea. Come Roland Barthes, “ritorna vincitor” da un’esperienza nipponica che rasenta il traumatico: da quelle isole spaventose riesce a portare a casa estasi profonde e decompressioni esemplari, sempre risolvendo in impeccabile “segno” una dolce violenza intellettuale.

GENO PAMPALONI, La storia abitata della poesia, Prefazione a Città del deserto, Editori Riuniti, Roma, 1990

Nelle pagine, per dirlo con Giorgio Pasquali, “stravaganti” di Cesare Brandi si alternano e si compenetrano il critico d’arte di straordinaria dottrina, il viaggiatore insaziabilmente curioso, il journaliste (da journal più che da giornale), e lo scrittore. Direi che, oltre ad alternarsi e compenetrarsi, si integrano a vicenda, e forse ancora meglio si fanno compagnia. Al vertice, a mio giudizio (e credo che gli farebbe piacere) sta lo scrittore. Per questo anche pagine molto remote conservano una vitale freschezza più forte della datazione.

Il Viaggio nella Grecia antica, del ’54, è dedicato a Emilio Cecchi, il capofila, dopo D’Annunzio, della prosa d’arte. E tuttavia Brandi non appartiene alla schiera canonica dei prosatori d’arte. (Canonica anche nel senso che non gli appartiene quel tipo di evasione, o di alibi, che la caratterizzò, e in qualche misura la legittimò, durante il fascismo.) Per due ragioni soprattutto. Perché i suoi interessi culturali e critici sono in primo piano; urgono i “contenuti”, i confronti, le riflessioni storiografiche, le conferme e le sorprese di un uomo che da sempre è stato abitatore dell’universo dell’arte. E perché al gusto del viaggiare, del vedere, dello scoprire (il vero viaggiatore viaggia non per arrivare ma per viaggiare, diceva Goethe, con sentenza “ovvia e profonda”) Brandi aggiunge l’indole sbarazzina e risentita di toscano di buona razza: “le povere viti stortignaccole” nelle montagne attorno a Delfi, o, in queste Città del deserto, “la sparagiaia di colonne che pullula dietro la scena di Leptis” sarebbero assai piaciute al suo concittadino San Bernardino. Per non parlare di certe clausole felicemente giornalistiche (“Essere in Egitto è davvero come marinare la scuola”); o di notazioni pungenti (i turisti che vagano tra i monumenti “come a cercar le chiocciole o i grilli di maggio”). Da Cecchi, comunque, al di là dell’ammirazione e dell’affetto che gli portava, Brandi era molto diverso. Cecchi era scrittore di formazione e di ingegno sostanzialmente romantici; di fronte alla realtà sembrava provare una sorta di eccitazione del sovrasenso, dell’archetipo, di ciò che si nasconde nell’oscura matrice (“e il mondo non è che un’immensa reliquia”). Formazione e ingegno di Brandi sono invece sostanzialmente razionalistici. È anch’egli sensibile al favoloso, ma si tratta di un favoloso non perdutamente mitico o originario, sibbene sempre analogico, che si colloca nelle misure di un mondo perfettamente verificabile con la mente e la bussola dei sensi.

La sua “filosofia” lirico-razionale è assai bene riassunta in due brani di A passo d’uomo. Eccolo di notte dinanzi alla serena perfezione, gremita di vita, di Piazza del Campo o di Piazza Navona: “Ritrovo l’unisono con la natura che è passata attraverso l’uomo e attraverso la storia”. E per converso, dinanzi ai graffiti preistorici di Levanzo, nelle Egadi: “Si sente l’umanità che sorge, in quei graffiti, con il meglio di quel che fa uomo l’uomo. La contemplazione, la capacità simbolica, l’immobilizzazione di un attimo e la sua rifusione sintetica, il piacere d’un lavoro pulito, ordinato, la chiarezza di un pensiero sigillato in un’immagine”. Il suo “viaggio” è dunque un peregrinare controllato senza soste, concentrico al tema che lo interessa, perfettamente storico: di una storia, peraltro, abitata dalla poesia.

Caratteristica tipica di Brandi è la figura della duplica zione, adoperata per esprimere con discrezione laica l’enfasi dell’ineffabile. Si è già visto “uomo-l’uomo”; ma gli esempi sono numerosissimi; “asinelli… come ombre di asinelli”; “il cielo come se fosse un vetro da cui si vede il cielo”. Che significa tale frequente espediente stilistico? Che la realtà si rispecchia in se stessa, per esprimersi compiutamente. L’emozione si arricchisce di un sovrasenso che coincide con la realtà, la duplica, e la rivela nella sua essenza, arcana e al tempo stesso accessibile. È la medesima operazione che compiono i grandi artisti, di cui il critico era interprete e fedele. Il discorso di Brandi è strutturalmente dialogico, perché fondato sulla disponibilità dell’intelligenza quale ancella del sentimento della poesia. Esso si articola in illuminazioni improvvise; definizioni e immagini (che, ricordiamo, “sigillano un pensiero”) funzionano nella prosa come guizzanti schiarite quasi che lo scrittore si diverta a mettersi la maschera di grande improvvisatore. Il suo indiscusso prestigio di critico e di esperto non gli impedisce di esercitarsi in un giuoco stilistico quasi di danza. Egli si pone ugualmente di fronte all’opera d’arte e allo spettacolo del mondo con la fiducia allegra che l’intelligenza della fantasia non lo tradirà.

Niente di più congeniale, dunque, del “viaggio” per uno scrittore il quale, sontuosamente preparato sul piano critico, si libera del proprio carico di cultura inchiodandolo, come nell’a fondo di un’elegante partita di scherma, nell’emozione di un’immagine. L’esperienza e la consuetudine con l’arte le ritroviamo qui spoglie sino all’essenziale, ridotte a stimolo fantastico, ombra luminosa di un giudizio critico rifluito direttamente nel piacere del viverlo (benché quel giudizio sia scrupolosamente, persino a volte puntigliosamente, definito, argomentato e difeso). Il suo intento, e la sua passione, si concentrano nell’additare e celebrare i “capolavori” della realtà. Se mi è consentito lasciarmi andare a una formula, per Brandi la bellezza è sempre un episodio, un fiorire di giovinezza. Ciò è controbilanciato dal vigore del sentimento civile, contro, per esempio, il malcostume e la colpevole indifferenza nell’amministrazione del patrimonio artistico. Lo scrittore partecipa a questi problemi in modo antipedantesco, scevro da purismi e nostalgie, in modo attuale, come ricchezza e stimolo del vivere, responsabilità di ciascuno di fronte alla storia. Quando si legge che “ognuno dovrebbe essere il proprio governo”, si avverte nella prosa di Brandi un attimo rivelatore: un accento risorgimentale, desanctisiano (rifiuto di addossare le colpe, pur gravemente ingiustificabili, agli altri, e facendosene carico, ciascuno per la sua parte). La sensibilità dello scrittore, affinata da aggiornatissimi strumenti di analisi, si innesta su una moralità solidamente costruita su antiche certezze di valori: il gusto artistico risulta in piena sintonia con il gusto morale.

Negli ultimi anni, consolidata ormai la fama di critico, Cesare Brandi era affezionato soprattutto al suo lavoro di scrittore. Credo che non avesse torto: la scrittura letteraria, mi confessò una volta a mezza voce, e quasi vergognandosi, lo faceva sentire più libero. È indiscutibile, come più volte ho osservato in queste brevi note, la consustanzialità del critico con lo scrittore. Ecco, perentorio, in Verde Nilo, il giudizio sulle Sfingi delle Piramidi: “al limite estremo dell’architettura e della geometria, sono scultura”. L’Auriga greco: “quegli occhi impensati d’agata, quegli occhi marroni, di cane più che di uomo, di angelo più che di cane”. I mosaici nel pavimento della basilica giustinianea di Sabratha: “i tralci, i pampani, le zocche d’uva, sono come disegnati col lapis rosso e blu… una listatura più che un segno. Ma fra quei pampani e zocche d’uva ci sono uccelli, uccelletti, papere, pernici, oche, pavoncelle, e infine due spettacolose faraone… vestite a scacchi bianchi e neri, che non si sa più se sia un quadro di Klee o un tailleur all’inglese”. Le otto Vittorie di un tempio libico: “anatomicamente impossibile, quella torsione del corpo (il modulo femminile è ormai diverso da quello euritmico della tradizione prassitelica e lisippea) offre un partito plastico sfolgorante e immediato come una rasoiata: un solco che attraversa il seno fino al grembo castissimo, implume si direbbe, quanto disposto e materno”.

In pagine come questa, la simbiosi del critico e dello scrittore è pressoché totale. “Dissotterrare l’uomo in noi stessi” è la poetica comune a entrambi. Oserei arrivare a dire che Brandi non sarebbe stato così lucido critico se non avesse avuto in sé, come ispiratore, lo scrittore e l’artista. Mistrà: “rovine davvero diroccate di un passato che è il più diroccato e perento fra quanti ne conti la nostra storia. Mistrà, lacera, tragica come un cadavere dissepolto, e che invochi sepoltura”. Che cosa si intende quando si dice “scrittore”? La presenza di un magistero stilistico che finisce con il prevalere su ogni altra connotazione e qualità. Il temporale a Tripolis: “le nuvole sono un pelago arruffato, un branco di bisonti: versano acqua, versano inchiostro, versano vento”. “Ecco l’Attica, con gli ulivi tarchiati e i campi di viti basse, tutte uguali come croci di un cimitero.” La danza di nozze in Egitto: “Le giovinette.. uccellini sembrano, quando né pedinano né volano e becchettano: quei piccoli piedi con le babbucce rosa o celesti, becchettano in minuto accordo. Vanno e vengono, becchettano e sembrano si sostengano sul ritmo scandito, come su trampolini di suono”.

Ma Brandi scrittore non è soltanto in queste felici illuminazioni impressionistiche. C’è, più in alto, la “religione della sacralità”, che si contrappone alla “sacralità del profano”. Non si dà grande spirito, grande personalità, senza una propria religiosità. Il capitolo religioso di Brandi è complesso e geloso, tale da non poter essere analizzato in questa sede. Basterà qui ricordare che, nell’orto di Getsemani, egli si confessa un uomo che, non avendo la fede rivelata da Dio, “è la sua stessa fede”; si immedesima con essa: “donde la più grande fede può celarsi nel non avere fede: cecità fatta di luce”. Soprattutto di fronte alla misteriosa solitudine e infinità del deserto quella religiosità affiora inarrestabile: “Io divenivo, senza enfasi alcuna, il centro stesso dell’universo… l’albero della vita… Una rivelazione che non poteva rivelare nulla che già non sapessi, e tuttavia rivelazione”. Né si può dimenticare questa altra “rivelazione”: “la contemplazione vera non è mai ricettiva; è solo un modo di lasciarsi daccanto come se si dormisse, e capire quel che non si vede, e vedere quello che è nascosto”. Anche il critico capisce nell’opera d’arte quel che non si vede, e vede quello che è nascosto. Ma qui c’è una vibrazione più fonda, di natura appunto religiosa: la lettura critica, per acuta e rabdomantica che sia, trascolora in una dimensione più intima, la contemplazione. Ce n’è abbastanza, credo, anche da questa rapida antologia, per concludere che a Cesare Brandi va fatto un posto di rilievo nella prosa del nostro Novecento. Sia benemerita l’idea di ristampare le sue pagine “stravaganti”, che ci restituiscono la figura di un uomo insieme sicuro e inquieto, ancorato alla severa dottrina e viaggiatore, storicista di una storia perennemente abitata dalla poesia.

ENZO SICILIANO, Prefazione a Viaggio nella Grecia antica, Editori Riuniti, Roma, 2001

Poteva essere l’inverno del 1955 o quello del 1956, ero in procinto di laurearmi; ed era una domenica pomeriggio. Nei foyer del loggione all’Opera di Roma, durante un intervallo, incontrai un amico d’università, Vittorio Rubiu. Rubiu accompagnava Cesare Brandi, e me lo presentò. In scena andava non ricordo se l’Alceste o una delle due Ifigenie di Gluck: ricordo che il direttore era Vittorio Gui e la protagonista Gabriella Gatti.

La conversazione di Brandi fioccava metafore. Mi ricordo la grisaglia chiara, la giacca a tre bottoni, un busto forse un po’ troppo stipato in quella giacca, un profilo da uccello migratore. Di Brandi conoscevo, oltre ad alcuni suoi libri, la fama come direttore dell’Istituto del Restauro. Conoscevo ragazze, ragazzi che si preparavano con passione e sofferenza al difficile esame d’ammissione all’Istituto. Lì, nel foyer, parlammo dello spettacolo, di Gluck. Mi ero appassionato a Gluck, mai abbastanza eseguito nei teatri italiani. Su quel mio calore Brandi gettò una doccia fredda: “Ma Gluck è il sublime contraffatto”. Queste parole stracciarono d’un colpo tutto un corso di pensieri, perché al fondo del mio calore di neofita gluckista correva un rivolo di dubbio cui mancavano nomi. La tinta senese della voce diede un tocco di bravata all’esclamazione di Brandi. Provavo simpatia per lui: ma rimasi a difendere le quattro ideuzze che avevo imbastito. Le difendevo con tatto obbligato in presenza di un professore chiarissimo. Quel che mi aveva colpito era la sua conversazione affabile, cordiale: a quel tempo i professori chiarissimi avevano altro tono (e non che oggi sia cambiato). Brandi era fuori norma. Buttava là le proprie idee con l’audacia di un adolescente. Ma la distanza scorreva tuttavia, fra noi due studenti e lui: e correva naturalmente, poiché era una distanza disegnata dall’esperienza, dalla finezza del sapere. L’agilità nella dottrina era lo stile di Brandi.

Mi laureavo in Filosofia Teoretica ma con una tesi che confrontava le Philosophical Investigations di Wittgenstein e la Critica del giudizio di Kant. Di questo parlai con Brandi, e Brandi mi rispose così che andai a leggermi anzitutto il suo Celso o della poesia, quindi gli altri dialoghi, sulla pittura sulla scultura e sull’architettura. Non che quelle siano oggi letture da me dimenticate, né posso dire che mi furono inutili – tutt’altro. Il pensiero di Brandi voleva forzare le porte chiuse dell’attualismo gentiliano e del crocianesimo, e metteva in luce le qualità tecniche dei diversi linguaggi artistici, la loro peculiarità, da cui è deducibile un filo teorico che di per sé ogni arte secerne come un baco il proprio spurgo di seta.

Quelle prime letture, comunque, fecero in modo che fra il professore e me si intrecciasse un rapporto intellettuale. Ma altro rapporto nel tempo doveva intrecciarsi, il rapporto con lo scrittore, nella lettura dei suoi libri di viaggio, – anzitutto l’Italia, poi la Grecia, e le “città del deserto”.

Si può dire che scrittore di viaggio sia un “genere”? Certo che lo è – oggi è materia per saggi accademici e tesi di laurea: da Moravia a Parise, da Cecchi a Manganelli, argomenti ve ne sono a sufficienza. Ma non di questo voglio parlare.

Nella lettura del Brandi scrittore mi guidò proprio quel suo scatto su Gluck nel foyer del loggione all’Opera, in quella domenica d’inverno.

Brandi viaggiando cerca la bellezza e la trova sempre nel disincanto delle proprie parole – che poi sono incantevoli per freschezza e vigore, nella purezza del gesto, nel nitore delle immagini.

“Nulla è meno arcaico di questa Arcadia solo geografica, nulla di meno idillico e pastorale. Già, la Grecia – è un suo vantaggio – non è mai pittoresca. Rude, improvvisamente fiorita come per presentare un ostaggio, rigogliosa come se spendesse tutte le forze, come se ogni volta morisse annunciando la vittoria di Maratona, la primavera: ma le nequizie della Côte d’Azur, queste mai.”

Brandi scrive per riportare visioni sublimi alla realtà della loro esistenza materiale, fuori dell’alone d’una qualche leggenda – e in questo resiste o si decanta in scrittura viva il suo lato di teoreta, il teorico delle forme d’arte. Ma la cultura, la conoscenza storica sono da lui utilizzate sempre per ridefinire il vero nel suo affiorare apparentemente astorico.

Il viaggio è per Brandi una perpetua riduzione a verità dei miti – Sparta, per esempio: “questa specie di Viareggio di terraferma, con i viali di aranci amari a alberello, stupida, ottoniana, tedescaccia…” – ma questa verità in Brandi, appunto, assume un tratto anche provocatorio – per esempio, sempre per Sparta, “altro che Eurota, altro che corse sui ciottoli”. Lo sprezzo toscano diventa empito stilistico, spessore della parola, e visione. Ma la visione di questo suo viaggiare non è fenomenologica, non isola gli oggetti nel loro subliminale apparire. Brandi va diretto ai significati. Se Sparta niente oggi ha del suo mito, ciò è accaduto perché il carro della storia è passato su di essa e ne ha travolto i segni augusti, lasciando sul terreno quelle briciole di cultura tedesca che sovrani d’importazione imposero alla Grecia.

In filigrana, Brandi legge quel che gli eventi hanno depositato e spazzato via, e la sua lingua, quel suo accento di Siena che motiva uno stile, contribuiscono a dare senso a tanto accanito repulisti. La storia passa e sbaracca – e se si va a spiare fra i suoi detriti mostra una rilevanza plastica inconsueta. L’occhiuto Brandi scalpella questi rilievi.

Sparta, dunque, è murata dentro il suo presente “ottoniano”: ma in alto, sul suo panorama, “pende Mistrà”, con le proprie memorie bizantine e rovine “davvero diroccate di un passato che è il più diroccato e perento fra quanti ne conta la nostra storia. Mistrà lacera, tragica come un cadavere dissepolto, e che invochi sepoltura”.

Appunto: è il paesaggio della storia che sta nel cuore di Brandi – quel paesaggio che trascorre sul presente come una risultanza drammatica di cui è necessario, per immagini, ripercorrere le trame.

“Ma quanti fiori su quelle povere ossa: quando ci si entra, è come in un giardino selvatico, cresciuto da sé, per l’irruenza incontrollata di crescere. Le stradette che s’impennano a rampa ripidissima, acciottolate di grossi sassi che luccicano come marmi rari, per questa pioggia a singhiozzi, fra le commessure, ai bordi dei muretti pencolanti, dai pavimenti delle stanze scoperchiate, emettono asfodeli, margheritine gialle, primavere, e anche anemoni rossi, delicati e intensi come fatti di gusci di cocciniglia.”

Brandi sta parlando ancora di Mistrà, e l’accento affettuoso della scoperta ritaglia uno spazio purissimo di pietà, quasi musica sottintesa alla sintassi: e la soluzione del dettato tutto trattiene all’interno di sé e te lo offre, così che il viaggio è tuo per via di chi lo ha scritto. Così lo scritto ti invade gli occhi, o le narici, poiché accade pure che il racconto tracimi sugli odori (“Berlino odorava di caserma, come Parigi ha il sentore delle piazze dove c’è stato il mercato; a Firenze, l’aria delle colline entra come una carrozza a cavalli, a Bologna, la polvere rigogliosa e sensuale delle campagne…”).

Questo, però, è proprio quel che uno scrittore fa, riempirti dei suoi sensi, possederti, suggerirti un’alterità di spazi e tempi dentro cui ti ci ritrovi soltanto per immaginazione.

Penso all’apertura del viaggio in Libia:

“Fra i miei ricordi più lontani e in bilico, come quei ruderi a picco sul mare, lì lì per cadere alla prossima mareggiata, c’è ‘Tripoli, bel suol d’amore’. Un nostro contadino era soldato, e ci restò, là, per dieci anni. Io giocavo in giardino, con mio fratello e due bambini di campagna. ‘Tripoli, bel suol d’amore’.”

C’è un movimento da recherche du temps perdu – l’intermittenza del cuore innesta il primo agitarsi della scrittura. Ma, proprio in quell’aura di ricordi, dove si profila persino “la mamma, giovane come una ragazzina”, erompe quel bisogno di verità assillante, un bruciatura vitale che deve rendere il vero nella sua crudezza – togliere via tutte le contraffazioni, le incrostazioni che a quel vero impediscono di essere tale. Cioè, nel caso di Tripoli, “l’indubitabile angustia della città coloniale, in cui tutto è sbagliato, tutto falso, con l’architettura di Brasini, la spocchia dei vialoni di palme, lo stile arabico fasullo: prima di arrivarci lo sento il colpo proibito, all’inguine più che al fegato”. Un’ira addirittura – Brandi scrive la propria ira: la sigla con “spocchia”, con un “fasullo” a schiaffo, e parla di “colpo all’inguine”. Il viaggio, dunque, diventa una forma di assillo per la propria ferocia morale – ed è su questo, quasi una tavolozza, che lo scrittore dipinge per verba le epifanie cui assiste.

Su di lui Geno Pampaloni scrisse pagine penetranti e persuasive. Disse che lo scrittore in Brandi nasceva dalla capacità, verissima, di sciogliere la propria cultura nelle sensazioni, ma anche dal lasciar trapelare in questo una forma alta di religiosità. Credo che tale richiamo vada fatto sempre – non solo per Brandi. Intendo che non c’è scrittore, laico o credente, per il quale il sentirsi tale non lo porti a un’intima convinzione – per cui scopre sempre nel fondo di sé un barlume d’essere che chiede di venire trascinato dentro la trama della vita. Questa fede nutrita di cose spesso così concrete da apparire trascurabili si fa parola, diventa conoscenza, mette in rapporto l’infinito del sentimento con la radicale limitatezza del mondo. In uno scrittore, la fede è sempre un esacerbante bisogno di verità.

Ecco perché quell’esclamazione da me ascoltata in un lontanissimo pomeriggio di domenica su nel foyer del loggione dell’Opera mi ritorna chiara nella mente davanti alle pagine di Brandi. La questione non riguardava Gluck, seppure Gluck ne era l’occasione: riguardava un’intima, luminosa urgenza di verità, un sentire la classicità come il luogo necessario allo spirito – e necessario, appunto, per quel che la storia, col suo corso di violenze, lo ha reso, un vissuto di tragedie e beatitudini, cioè la classicità sparita di Sparta, la classicità che più “diroccata” non si potrebbe pensare di Mistrà, e Tripoli “bel suol d’amore”.

Ma questo è il modo realista d’essere uno scrittore di storia, e non soltanto uno scrittore di viaggio.

MASSIMO ONOFRI, Prefazione a Pellegrino di Puglia, Editori Riuniti, Roma 2002

Quando nel 1960 appariva, peri tipi di Laterza, Pellegrino di Puglia di Cesare Brandi, resisteva ancora nella mente dei lettori italiani l’immagine che di quella regione aveva restituito Tommaso Fiore in Un popolo di formiche (1951), pubblicato dallo stesso editore barese. Quel volume, dedicato alla memoria di Piero Gobetti e Guido Dorso, s’affiancava ad altri, di medesima temperatura civile, dentro una collana diventata subito celebre, i “Libri del tempo”, secondo un programma meridionalistico di riappropriazione polemica del sud d’Italia, che avrebbe tenuto banco, culturalmente parlando, lungo tutti gli anni Cinquanta. Basterebbe pensare, per rendersene conto, all’impatto che ebbero sull’opinione pubblica colta, quanto a forza di testimonianza sul nostro meridione, testi come Contadini del sud (1954) e L’uva puttanella (1956) di Rocco Scotellaro, Baroni e contadini (1955) di Giovanni Russo, I minatori della Maremma (1956) di Carlo Cassola e Luciano Bianciardi, Le parrocchie di Regalpetra (1956) di Leonardo Sciascia. La rappresentazione di Fiore – ritagliata sulla zona dei “trulli”, l’alta Murgia, il Metapontino, le città di Taranto e Lecce – maturava negli anni Venti, quelli di una fiera ma inutile resistenza all’affermazione del fascismo, secondo un’idea di immobilismo che vede protrarsi, da un passato quasi atavico, e verso un futuro chissà quanto ancora lungo, i mali di sempre: che sono poi quelli, dentro un lento ed esitante ritmo della vita, d’una regione quasi esclusivamente agricola, le cui prospettive economiche e di classe dominano anche le città, danno un’impronta all’intera compagine sociale, orientano i comportamenti politici e amministrativi delle classi dirigenti, condizionano perfino le abitudini morali e intellettuali dei più colti. Le convinzioni di Fiore sono quelle tipiche del più ortodosso meridionalismo e lamentano, tra i più gravi problemi del Sud, la persistenza di “rapporti a sostanza feudale”, nella drastica e drammatica contrapposizione tra la massa dei contadini e i grandi proprietari terrieri, i beati possidentes riluttanti al pur minimo cambiamento sociale.

Si dice questo per rimarcare il più possibile la distanza tra Cesare Brandi, meravigliato e liberissimo viaggiatore in terra di Puglia in quegli stessi impegnatissimi anni Cinquanta, e il gobettiano Tommaso Fiore: per sottolineare, poi, la refrattarietà di Pellegrino di Puglia a ogni reportage, inchiesta socio-politica o saggio-denuncia così in voga allora, e per registrarne l’assoluta assenza di qualsivoglia condizionamento ideologico.Non per niente Brandi, che è uno scrittore prensile e mobilissimo come il Piovene d’un altro contemporaneo e intenso pellegrinaggio, Viaggio in Italia (1957), è consapevole sin da subito, e cioè dalla Prefazione sui viaggi in Puglia, del fatto che si sta confrontando con un genere letterario molto preciso, per di più antichissimo. E infatti, a bandire il pericolo che il libro possa “facilmente cadere in un colloquio privato”, una volta rifiutatosi a fungere da guida storica e geografica, così annota in prima pagina: “Chi scrive ha dunque inteso o preteso di costituire il filtro di queste candidature varie che di se stessa pone la Puglia a chiunque la percorra né con occhio distratto né col cuore altrove. Per questo, proprio sulla soglia del libro mi piace di presentare un repertorio, per quanto veloce e niente affatto completo, dei viaggi, quali si sono susseguiti in Puglia da epoca ormai lontana”. Ecco, allora, Orazio, Antonio De Ferraris detto il Galateo, Swinburne, Gregorovius, Lenormant, Schubring, Bertaux: per dimostrarci che tutto si giuoca in letteratura, mentre l’ipotesi d’una scrittura vergine e in presa diretta sulla realtà sarà da consegnare al repertorio delle più pie illusioni.

Insomma: quella di viaggio è sempre, per Brandi, una prosa di secondo grado. E che vive di complesse, seppur velocissime, mediazioni: le mediazioni di una storia dell’arte e dell’architettura intimamente rivissute, certo, ma anche quelle d’una più vasta e articolata storia della cultura. Guardate come un momento della festa di S. Nicola di Bari, attraverso un rapidissimo riferimento pittorico, acquisti profondità di visione e nuova luce di verità: “Il pubblico straboccante, meravigliosamente nero e rosso, brulicava sul lungomare, fitto come i puntini di un quadro di Seurat”. Ecco perché l’occasione – i libri di viaggio di Brandi sono sempre gremiti d’occasioni: la scoperta di un’opera che non si conosceva, un’improvvisa curva del paesaggio, un dettaglio del costume, un monumento mal restaurato – finisce sempre per trasformarsi in un formidabile catalizzatore, mentre il colpo d’occhio, d’un occhio avidissimo, vale immediatamente come una specie d’avamposto della ragione e della cultura. Quando Dino Buzzati attribuì a Brandi, proprio in relazione a questo viaggio pugliese, la capacità di “rendere gradevolissima come un libro di avventure una materia che di consueto viene convertita in faticosi mattoni”, non aveva torto. Come si fa, del resto, a non cedere alle lusinghe di certe ariosissime aperture? Come è possibile resistere agli scatti di questa fertilissima immaginazione? Sentite qua: “Per chi non lo sapesse, Gallipoli, con la sua fonte a due facce, l’una greca, l’altra rinascimentale, è come una fortezza ridotta a giardino d’infanzia su un mare tenero, basso, trasparente”. Occorrerà intendersi, però, su tale nozione d’avventura. Brandi, per quanto animato da una pertinace disposizione edonistica, non è Comisso: la sua non è un’epopea del senso, o, per dirla meglio, d’un io tradotto in senso. ma converrà, forse, osservare più da vicino le strategie che Brandi allestisce nei suoi resoconti di viaggio, particolarmente in questo Pellegrino di Puglia, per mettere capo a un processo che è sempre eminentemente critico-conoscitivo, ma anche per guadagnare, grazie a una confidenza con la bellezza davvero impressionante, quel piacere d’avventura che è, prima di tutto, suo di scrittore, poi nostro di lettori.

Prendete, qui, il capitolo intitolato “I tendoni”, che stanno a indicare quei “tappeti di pampani, a non finire, tesi a mezz’altezza da fili di zinco coi picchetti a terra, giusto come i tiranti di una tenda da campo, donde il nome”. Brandi parte con un passo quasi da agronomo: e ha l’aria di misurare con attenzione, come gli è già capitato in precedenza, il livello d'aspirazione di norme e principi razionali all'articolato, i modi attraverso cui l’uomo sa coniugare e armonizzare natura e tecnologia. Invece la scrittura raggiunge subito i toni del più classico elzeviro, al punto da sembrare quasi quella del Cecchi di Pesci rossi e Qualche cosa. Si sta parlando del colore dei pampani e della qualità delle foglie: “Mi sovvenziona allora la curiosa etimologia del nome della Puglia, che riferisce, senza crederci troppo, l'umanità Galateo: Apulia, perché gli alberi vi si spoglierebbero, prima che altrove, delle foglie. E non è vero, come non è vera questa etimologia, soltanto degna d’essere ricordata alla pari di quella famosa di ‘ludus a non lucendo’. Anzi mi pareva che questi alberi riuscissero a mantenere le foglie, come a denti stretti: così quei ciliegi avvinazzati, ma chiomatissimi. E tutto aveva per base, quasi per scendiletto, prese lunghe d’una cicoria verde e forcuta, e i flabelli celestini e crocchianti dei cavolfiori”. Ci si rende subito conto, però, che l’impennata da prosa d’arte ha qui una funzione precisa, come di contrappunto: a introdurci dentro un paesaggio squallido e desolato, a sottolineare quasi ironicamente certi infelici interventi dell’uomo su un’antica e nobile realtà monumentale. Continuiamo nella lettura: “Era questo un autunno di rivalsa, d’impeto si direbbe, sull’insinuante primavera del giorno prima. Ma si trovò che era una fanfara troppo chiassosa per Gioia del Colle, uno dei rari paesi smorti, per l’appunto senza gioia, della Puglia: a parte quel Castello che sembra fatto di quadrucci di zucchero d’orzo tanto è dorato, implacabile e regolare, nei suoi conci. E sarebbe forse il più bello, dopo Castel del Monte, se quei malaugurati restauri di fantasia – e che pessima fantasia – non ne avessero fatto una costruzione che sembra inventata anche dove è sincera. E con certe trovate stupide: figurarsi le inferriate con un anello all’incrocio dei ferri, che sembrano campanelle nel naso dei negri. Non parliamo poi della sala del trono, che non andrebbe bene neanche per qualche boiata di film, in tecnicolor. Sicché quando si osservano tutte le altre stranezze, gli elementi autentici, gli splendidi rosoncini smerlati, le graziose centine tremolanti, quasi indostane, si prova un disagio, come quando si teme che un cibo sia corrotto. E ora che lo Stato se l’è accollato, il bel Castello, solo per levargli il falso di dosso ci vuole più che a comprarlo”.

S’è visto sulla scorta di questo veloce esempio, quanti siano i panni indossati, all’occorrenza, dallo scrittore: da tecnico dell’agricoltura a elzevirista, da elzevirista a teorico del restauro. Si tratta d’un processo stilistico che in Brandi è consueto: attraverso cui una stremata erudizione, un’intuizione estetica preliminare, un giudizio storico, un sentimento etico, un’attitudine antropologica, si fondono completamente a che l’intelligenza d’un fatto, non solo d’arte, possa tradursi anche in azione intellettuale, se non addirittura, come in questo caso, in monito morale e polemica civile. Il risultato è una percezione, la più vivida possibile, del paesaggio naturale e umano, per una valutazione, la più esatta e appassionata, di quante possibilità restino ancora per una corrispondenza, nel senso della bellezza e della civiltà, tra uomo e ambiente. Questo per dire che le qualità dell’esteta e del saggista, i suoi irrinunciabili diritti, non sono mai disgiunti, insomma, dai doveri di chi ritiene necessario un dialogo, nemmeno troppo muto, tra coloro che possiedono le competenze e chi ha la responsabilità morale e politica di amministrare. Il critico e lo storico dell’arte implicano sempre il cittadino: per una nozione di cittadinanza, e di civitas, che proviene dalla fede di uno strenuo e intramontabile umanesimo. Questo è un altro punto importante, da sottolineare con forza: e spiega perché tanto Giotto e Duccio, quanto Picasso e Max Ernst, per Brandi, possano e debbano essere letti entro una stessa prospettiva estetica, secondo medesimi parametri. Gli strumenti antichi non perdono d’efficacia in riferimento agli oggetti nuovissimi: se così non fosse, non avremo mai avuto quelle pagine della Teoria generale della critica (1974) in cui il critico s’industria a vanificare, quanto alla “costituzione d’oggetto”, la distinzione tra la pittura astratta e quella “correntemente” figurativa, per una piena legittimazione dei collages di Schwitters e dei Sacchi di Burri. Non è questo il luogo per addentrarci nella complessa estetica di Brandi, si vuole soltanto ricordare che quella raffinata strumentazione è sempre a disposizione anche del viaggiatore in terra di Puglia: e costituisce la ragione prima per cui il suo atteggiamento mentale resta comunque invariato, si tratti del dolmen preistorico di Giurdignano, o dei modernissimi scempi di piazza Sant’Oronzo a Lecce.

Per quanto novecentesche fossero molte delle frequentazioni di Brandi, resta ostinatamente classica la sua antropologia, se la anima la speranza, decisamente antifreudiana, che la coscienza, e, su un piano diverso, l’intera società possano valere come sistemi di facoltà regolate da un principio d’ordine e d’armonia, che solo eccezionalmente, solo patologicamente, possono entrare in conflitto tra loro: non sarebbe, questo critico d’arte d’eccezione, l’autore di Carmine o della pittura (1945) e di Celso o della poesia (1957), che recuperano con calcolato e raffinatissimo anacronismo, nel secolo del massimo disordine epistemologico, la forma del dialogo platonico. Così come decisamente antinovecentesca resiste, in Brandi, l’idea che la bellezza esista davvero, la bellezza che il viaggiatore, come s’evince bene in questo Pellegrino di Puglia, insegue in tutte le sue rifrazioni, accostando e comparando realtà diverse, e come allestendo, oltre le vincolanti coordinate dello spazio e del tempo, una sua ideale geografia, per metterla al riparo, quella bellezza sempiterna, dalle minaccie di una nuova barbarie. Siamo a Trani, al porto: “E certo vorreste sottrarre e possedere per voi un tal geloso gioiello: almeno decretargli l’avvenire di consorelle città dedicate solo alle musiche meravigliose che accolgono, espungerlo dalla grossolanità dei nuovi ricchi e del cemento armato, requisirlo per pubblica inutilità né mai restituirlo all’uso; poi nettarlo, curarlo, lustrarlo, porgli alate sentinelle alle porte, darvi l’ingresso solo con lascipassare di intelligenza, di gusto, di senno; assumerlo infine e durevolmente nello stato bizzarro e incorruttibile dove, a dispetto di meridiani e paralleli, Cordoba sta a un tiro di schioppo da Lecce, Toledo da Siena o da Perugia e, da Oxford, Viterbo. Dove, scendendo dall’Acropoli, invece del sozzo Pireo, s’incontra Pesto o Agrigento, e sulla Cuba si sporge la Giralda. In questa geografia privilegiata e imbattibile, Trani, umile perla delle Puglie, è lo scalo della Magna Grecia, costruita con l’oro dei Nibelunghi in una magica selva di mandorli e di ulivi, nei cui nubili tronchi ancora si leggono incisi, teneri, fatali nomi, Angelica e Medoro”.

Se le cose stanno così, se è proprio questo il processo di catalizzazione estetica che si consuma su tali pagine, si può capire meglio, adesso, quanto distante da quella della tradizione meridionalistica dei Tommaso Fiore sia l’immagine della Puglia che qui Brandi ci restituisce. E si tratta di una Puglia moltiplicata nella grande varietà dei paesaggi. Ma attenzione: quando si pronuncia la parola paesaggio, lo si fa nel senso della più rigorosa accezione filosofica ed estetica. Sicché per paesaggio, secondo un’occorrenza già pacifica ne L’uomo al punto del grande barocco Daniello Bartoli (“Per lo vano d’una finestra, e per qualunque altra apertura di lor capriccio, mostrare una lontananza di paesaggio in isfuggita”), si vuole proprio intendere un paese (o un ambiente) in quanto viene considerato, da chi lo osserva, con la stessa intenzionalità che mettiamo nell’osservare un quadro o altra opera d’arte visiva. C’è da scommetterci: per quanto Brandi si disponga alla più grande libertà interdisciplinare, a cominciare da un robusto controllo delle fonti storiche – si vedano a questo proposito le belle pagine su Federico II e Lucera –, ogni capitolo del libro trova il suo vero baricentro in quella specie di clausola ideale, in quella sorta di formula ad alta intensità pittorica o plastica, che coincide esattamente con la costituzione d’un ambiente in paesaggio. Si potrebbero citare molti esempi: mi limito a qualcuno. “Gallipoli”: “Se allorea si pensasse a Comacchio o a Chioggia si sbaglierebbe. L’acqua non entra in Gallipoli: i bastioni non lo permettono. Resta, Gallipoli, una città di terra dentro il mare, avventurata sul mare, circondata dai suoi bastioni come un bambino nella carriola”. “Inverno a Taranto”: “Io non vorrei parlare che il meno possibile di Taranto, perché la congiuntura del porto militare e dell’architettura di Brasini e di Bazzani ne hanno fatto in parte una bandita militare, e in parte una grottesca parata di retorica architettonica”. “Rodi Garganica”: “Ma il Gargano è una calamita, attira le nubi come il becchime le galline. E quelle erano galline nere, grasse, gonfie”. E si potrebbe continuare.

Qualora si volesse proprio trovare un pensiero unificante nella mente del viaggiatore che qui scopre la Puglia, incantato o indignato che sia, bisognrebbe parlare più d’una preoccupazione che di un’idea: “Di contro alla Puglia sta Bari. Bari non è l’espressione della Puglia, anche se Bari assomma l’orgoglio della Puglia: Bari è l’avamposto della nuova invasione ariana, quella della civiltà delle macchine. Così, come ultima ondata. Ma la terra vera di Puglia è quella arcaica, non arretrata ma immemoriale, che riesce a sopravvivere anche ai grattacieli di Bari, a insinuarsi nelle sue strade lucenti”. Questo dell’arcaicità, dell’arcaicità minacciata, è uno dei pochissimi motivi ricorrenti d’un libro vibratile e sempre diverso: ed è il segno d’una grande inquietudine. Quella d’uno scrittore gentilissimo cui non stavano più per quadrare i conti tra progresso e bellezza. Pellegrino di Puglia è anche il libro in cui si avvertono i primi segni del cedimento d’una civiltà: l’antica civiltà italica. Il libro di una intelligenza ironica e sorvegliatissima, ma, a tratti, lancinante.