Cesare Brandi nasce a Siena l’8 aprile 1906 in Via di Città 12 (attualmente il palazzo è contrassegnato con il numero 90), “una strada bella, nobile e buia”, racconta Brandi stesso in un suo scritto autobiografico, Siena mi fè, “in un vecchio palazzo con le campanelle di ferro battuto, che, di notte, i passanti amavano di far tintinnare contro il muro. E il suono argentino si spandeva, nel silenzio, naturalmente aumentando l’insonnia. Questo, con i rintocchi delle ore battute sul Campanone, è il ricordo più lontano: e mi stringeva il cuore”. E prosegue: “Era la domenica delle Palme, e tutti stavano a spasso. La mamma non ebbe i dolori che all’ultimo momento, e allora non c’era, in casa, il telefono: né la zia poteva uscire a telefonare. Dunque nacqui non solo senza professore, ma anche senza levatrice: un rotolo di ragazzo con i capelli lunghi e con un occhio più alto e uno più basso. Dopo sono migliorato, ma pare fossi assai brutto”. Quella dei Brandi era una famiglia di antiche origini senesi. Il padre Camillo, avvocato civilista, con la passione della caccia e della buona cucina, si vantava di appartenere dal Cinquecento al patriziato di San Gimignano con antenati scienziati, artisti, filosofi. La madre Nella Matini, fiorentina, veniva da una famiglia di musicisti (il padre Riccardo compositore e insegnante di tromba al Conservatorio di Firenze; la sorella Amina, noto soprano lirico apprezzato anche dalla Duse): “suonava bene il piano e mi ha trasmesso l’amore per la musica”. Il fratello Baldo, di un anno più grande, avvocato (penalista) come il padre e musicista come la madre, suonava l’organo e il piano.
“Quando ebbi sette o otto anni il babbo cominciò a portarmi con sé, se andava in campagna. Ne avevamo due, una in cui non si andava mai a stare, ed era quella fuori Porta Tufi. Il babbo ci aveva passato l’infanzia, e c’era molto affezionato. Ma la villa era piccola e ormai si era tanti che non ci si entrava. Queste passeggiate ai Tufi cominciavano che era già freddo, quando si faceva l’olio, e l’oliviera era dentro Siena, proprio sotto il Convitto Tolomei, dove poi andai a scuola […]. Finché a marzo, quando appena cominciava a mitigare la stagione, il babbo mi portava nell’altra campagna, a Vignano, per tramutare il vino. Si comprava l’agnello e, nella cucina gelata di Vignano, il babbo cucinava l’agnello. Sarebbero potute servire le contadine, ma il babbo preferiva fare da solo. Per la strada, che a un certo momento, prendendo una scorciatoia diveniva di campo, si trovavano già le mammole lungo il borro: e io coglievo le mammole, che a furia di tenerle in pugno, arrivavano poi a sera tutte avvizzite. Ma per me questa passeggiata che significava la primavera era l’avvenimento dell’anno.”
Poi ci fu la guerra per la conquista della Libia (1911-1912) che evidentemente colpì molto la sensibilità del bambino. “Fra i miei ricordi più lontani e in bilico, come quei ruderi a picco sul mare, lì per lì per cadere alla prossima mareggiata, c’è Tripoli, bel suol d’amore. Un nostro contadino era soldato, e ci restò, là, per dieci anni. Io giocavo in giardino, con mio fratello e due bambini di campagna. Tripoli, bel suol d’amore. Così questo viaggio mi turbava, come a rimescolare, in un passato senza presente, in un cassetto dove si conservano, senza avere il coraggio di buttarli, i ricordi della prima Comunione, il nastro della Cresima, i certificati delle elementari. Tripoli, bel suol d’amore. Rivedo la mamma, giovane come una ragazzina; risento come una fitta il terribile fascino che quelle parole, patria, vittoria, hanno sempre suscitato su di me, e su di me fanciullo anche più d’ora.”
L’amore di Brandi per il Sud è un amore che parte da lontano, quando Brandi era ancora un ragazzo. “Il mio incontro con il Sud avvenne a Gaeta, praticamente quasi subito dopo la prima guerra mondiale, sarà stato il 1919 o il 1920. Una mia zia che aveva sposato un colonnello, eroe già della guerra d’Africa, e che era stato nominato vice direttore del carcere militare di Gaeta, ci aveva invitati tutti a passare l’agosto sulla splendida spiaggia di Serapo, ai piedi del monte Orlando, a due passi da Elena e da Gaeta. Io non ero mai stato al di sotto di Grosseto ed era stata dunque la prima incursione in quello che allora sembrava il profondo Sud.” È l’inizio di una testimonianza sulla cultura del Sud che Brandi, già gravemente infermo, affidò a me perché la leggessi a un convegno a Caserta nel 1985. Ma non c’è traccia di sofferenza nelle sue parole. Al contrario, c’è tutto il fervore e lo slancio d’una scoperta, anzi di una rivelazione; e il finale non potrebbe essere più esplicito: “San Gennaro proprio non doveva farmela, di farmi ammalare appena giunto a Napoli. E il babbo, che era già saturo di Sud, appena sfebbrai volle subito ripartire: e neppure si fece scalo a Roma, nella fretta di tornare a casa. Ma intanto io ero stato marcato a fuoco dal Sud e non s’è più cancellato”.
Frequenta il ginnasio e il liceo al Convitto Tolomei. Sempre agli anni del liceo risale l’amicizia con Ranuccio Bianchi Bandinelli, che si rivelerà importante nella formazione del giovane studente. “Gli amici di Ranuccio erano tre scultori, Corsini e Papi e un altro Corsini: nessuno dello strato a cui ap-parteneva. Ma era un uomo vivo, era un uomo giovane, e amava la compagnia delle donne. Per questo lo incontrai – io ero di alcuni anni più ragazzo di lui – a dei tè danzanti, anche se quasi non ballava, in casa del provveditore del Monte dei Paschi, che, a suo modo, non era insensibile né alle arti né alle lettere. La differenza di età fra di noi, a quegli albori giovanili, poteva rappresentare un ostacolo per far nascere un’amicizia: io ero un sedicenne, lui già laureato. Ma non impedì, invece, che nascesse un rapporto stretto fra di noi. Per me era l’unico interlocutore, che potessi trovare a Siena, ma era anche un interlocutore ideale. Il fascino della sua conversazione, piana e di buon senso, colta senza essere pedante, era un fascino, che, tutti che l’hanno conosciuto, hanno provato, in qualsiasi ambiente: dal circolo di famiglia. Così la mia prima gioventù si svolse alla sua ombra.” C’è da dire che fin da principio gli interessi di Brandi non furono mai limitati alla storia dell’arte. Ogni linguaggio, ogni modalità espressiva lo attraeva, fosse pittura o musica, poesia o teatro. “A 18 anni io dipingevo […] facevo dei paesaggi tra Da Chirico e il Sassetta, o alla maniera di Poussin o di Ambrogio Lorenzetti. A un certo momento, però, mi accorsi che vedevo la pittura con gli occhi degli altri e capii che non ero fatto per fare il pittore.” Era incerto se fare il pittore o il critico: e invece, a sorpresa, Brandi nel 1927 si laurea in Legge con una tesi in Filosofia del Diritto. La tesi, conservata nell’Archivio dell’Università di Siena, ha il titolo: Contributo alla teoria del contratto di diritto pubblico con speciale riguardo al contratto di pubblico impiego. Alle attente ricerche di Maria Ida Catalano non sfugge tuttavia che, nonostante la tecnicità dell’argomento, “in questo lavoro Brandi inizia a riflettere sul concetto di riconoscimento che qualificherà la definizione di restauro elaborata dallo studioso nel 1963”. Il 10 novembre 1928, dopo un primo passaggio a Pisa, Brandi si laurea in lettere all’Università di Firenze, con una tesi su Rutilio Manetti, Francesco Vanni e Ventura Salimbeni. A Firenze, in quegli anni, c’era una intensa circolazione culturale, e Brandi ne approfitta per fare nuove conoscenze. “La mia formazione avvenne a Firenze, che allora era una città molto viva, e fu soprattutto letteraria. Ero molto legato al gruppo di ‘Solaria’, agli amici letterati che vedevo al caffè delle Giubbe Rosse, Montale, Gadda, Alessandro Bonsanti, Elio Vittorini. Ma fu soprattutto Gianna Manzini a spingermi a scrivere, e ad apprezzare le prime cose che scrissi. Con lei ho amato quei finissimi scrittori francesi che ora nessuno legge – Léon Paul Fargue, André Gide, Paul Valéry – e soprattutto con lei ho amato moltissimo Marcel Proust che allora pochi conoscevano.” Dopo la prima scelta obbligata, che dai compiuti studi di Giurisprudenza l’aveva portato a quelli di Lettere, un altro bivio si presentava: tra la letteratura e la critica. Prevalse in definitiva la critica, anche se due raccolte di versi avrebbero dovuto assicurare a Brandi (ma così non fu) un posto nella storia della poesia italiana della seconda metà degli anni Trenta: la stagione alta che fu di Montale, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Cardarelli. “Io sono nato poeta. Ho scritto tre libri di poesie: che poi nessuno li ricordi… be’, non voglio cominciare con le lamentele del critico che si lamenta dei critici!”
Nel frattempo, nel 1929-30 Brandi presta il servizio militare a Firenze e a Lucca, e il ricordo di quel periodo rimarrà sempre molto intenso, insieme all’amore per i cavalli. “Ero ufficiale di complemento, ero di artiglieria da campagna, un giovanotto robusto: e mi avevano messo alla someggiata. Certo che andavo a cavallo: si era i migliori cavallerizzi, noi della someggiata. Ma quando si andava al campo, o estivo o invernale, il cavallo ci seguiva tutto bardato, e noi si procedeva a piedi: come i soldati. Erano soldati magnifici, tangani di montanari biondi come pecore e irsuti come cinghiali. Erano forti, infantili, infantili e generosi: i loro ufficiali dovevano avere le spalle larghe come le loro e le gambe robuste e sapere bere un cognacchino dietro l’altro. Ero tutto questo e mi affezionai alla someggiata.”
Esce il suo primo libro, Rutilio Manetti, e l’anno dopo Ugo Ojetti gli pubblica su “Dedalo” il saggio Il pittore Filippo De Pisis. “Io non potrò mai scordare che, avendo scritto nel 1932 un lungo articolo su De Pisis nella rivista che allora sanciva in fatto d’arte, ossia ‘Dedalo’, mi trovai poi quell’articolo puntato su di me, a ogni concorso, come una carabina. La gente seria non si fidava.” In effetti allora era un fatto abbastanza insolito che uno storico dell’arte si occupasse di un contemporaneo. L’unica eccezione era stato Longhi con i suoi scritti giovanili sul Boccioni futurista. Inoltre, anche nell’ambiente artistico, erano in molti a considerare De Pisis un dilettante, un letterato, stravagante per giunta. Fortunatamente, a ristabilire l’equilibrio, ci fu, nell’ottobre di quello stesso anno, l’apertura della Regia Pinacoteca di Siena, “una delle più ricche per qualità, quantità, fra tutte le raccolte di primitivi italiani, preziosissima e gloriosa, maggiore eredità di Siena”, come ebbe a scrivere Brandi, che ne aveva curato anche il riordinamento. Probabilmente fu proprio in quell’occasione che Brandi fece la conoscenza di Argan, che allora era assistente di Pietro Toesca all’Università di Roma. Nasce così un’amicizia che rappresenta un capitolo essenziale e decisivo nella vita di entrambi. Come ricorda lo stesso Argan, “troppo stretto fu l’intreccio dei nostri destini, dal primo incontro a Siena nel giugno del 1932 fino alla sua morte […]. Lavorammo insieme, giorno per giorno, dal 1933: nella Soprintendenza di Bologna, poi nella direzione generale delle Belle Arti (allora si chiamava così) e infine nell’Università di Palermo e di Roma. Né certamente dei più oscuri fu il periodo, subito dopo la guerra, in cui lavorammo insieme a un altro comune amico, allora direttore generale: Ranuccio Bianchi Bandinelli”. Quanto a Brandi, è ancora più esplicito e circostanziato: “È stata sempre una amicizia fondamentale. Fu Argan ad avere l’idea di un Istituto centrale del restauro e a far chiamare me a dirigerlo. Più tardi fu lui a spingermi all’insegnamento universitario”. Un’amicizia fondata “sulla stima innanzitutto. Poi su una certa vicinanza e una certa diversità teorica. Argan si è formato in un ambiente più alto di quello che avevo frequentato io da giovane. L’ambiente della Torino di Gobetti, di tutta la migliore intelligenza liberale. Io mi sono formato stando vicino agli artisti, ai poeti, ai letterati”. Nel 1933 esce il catalogo della Pinacoteca di Siena, che si configura come una sorta di monografia sulla pittura senese e suscita subito un notevole interesse presso gli studiosi e i direttori di musei italiani e stranieri. E tuttavia, pur nel rigore filologico della ricerca, l’indole di Brandi era tutt’altra rispetto a quella di un erudito e raffinato conoscitore. E già da quei primi lavori di argomento senese si capiva come l’immedesimarsi con una tradizione cittadina di tanta altezza non avrebbe mai ridotto il raggio dei suoi interessi, anzi lo avrebbe fatto capace di penetrare nel profondo delle più remote culture trovandosi ovunque come nella propria città.
Nel giugno dello stesso anno vince, per l’appunto insieme ad Argan, il concorso per un posto di ispettore presso l’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti, e il 16 agosto viene assegnato alla Soprintendenza ai Monumenti di Bologna. “Avrei preferito l’Università, ma allora era molto più difficile di oggi entrarci, così mi dovetti per forza orientare sull’Amministrazione, cosa che a me dispiaceva da un unico punto di vista, che uno diventava un burocrate (allora molto più di oggi). Fu una fortuna, intendiamoci, perché andai a Bologna, e mi trovai in una situazione ottima […]. La cosa fu gradevolissima perché io cominciai a viaggiare, tutti i giorni ero in viaggio, l’Emilia e la Romagna non si finisce mai di visitarle […]. Mi occupai anche dei restauri delle opere mobili […] avevo una familiarità con i mezzi tecnici della pittura, in primo luogo perché io stesso ero stato pittore, poi perché da ragazzo avevo visto restauratori all’opera nella nostra villa di Vignano.”
Brandi ricorderà più volte nei suoi scritti, e nelle più diverse circostanze, gli anni di Bologna. Stava solo, in un appartamento di Via Belle Arti, e la sera, quando non ascoltava musica, frequentava i salotti, soprattutto quello della contessa Zucchini Solimeni, “che fino all’ultimo, senza occhiali, vergava bigliettini in uno stile incomparabile, per invitare a cena o a colazione. E, facendo questo, preparava la lista degli invitati, come un menu, anche più sapiente, cercando accordi, incontri, suscitando scoperte: di persone, naturalmente”. In realtà le persone che Brandi più frequentava erano Giuseppe Raimondi e sua moglie, la signora Vittorina; e poi Morandi, “questo grandissimo e modestissimo artista, e fu il povero Gnudi che, mio collega alla Soprintendenza, mi presentò a lui. Da quel felice giorno, in cui fui ammesso nella cameretta-studio diventata poi famosa, e ora dalle impareggiabili sorelle conservata intatta come un museo, i nostri rapporti furono senza ombra, senza la minima nuvola”.
Il 5 maggio 1934, a Roma, consegue la libera docenza in Storia dell’arte medievale e moderna. “Ti sono tanto grato delle parole affettuose”, scrive Brandi ad Argan, “che riesci a trovare per me, per la mia Docenza. Grazie, e grazie per gli auguri: li sento sinceri come quelli di nessun altro.”
Il 20 giugno, al Palazzo dell’Arengo di Rimini si apre la Mostra della pittura riminese del Trecento. Il catalogo è curato integralmente da Brandi con un’ampia introduzione, una guida degli affreschi conservati nella città, e un repertorio illustrato delle opere non esposte.
Carlo Ludovico Ragghianti gli apre le porte della rivista che dirige insieme a Bianchi Bandinelli, “Critica d’arte”, dove nel secondo fascicolo della prima annata (1935) appare il saggio Lo stile di Ambrogio Lorenzetti. Per Michele Cordaro si tratta della “prima organica applicazione del metodo critico di Brandi”. Vi si avverte “l’esigenza di andare oltre gli schemi della pura visibilità”, e non mancano “espliciti riferimenti all’estetica di Croce”.
Esce nel 1935, presso Giuliani editore in Siena, la sua prima raccolta poetica, Poesie, con una prefazione di Giuseppe Raimondi. Il libro non ebbe il successo che meritava. E Maria Luisa Spaziani sostiene che “lo stesso Raimondi non si è reso conto di avere di fronte un vero poeta, di avere di fronte qualcuno che aveva già, giovane, una sua precisa linea di gusto”. Nel 1936 la carriera di Brandi nell’Amministrazione subisce una brusca accelerazione, con un primo trasferimento a Roma, a giugno, e poi, due mesi dopo, a Udine, come Provveditore agli Studi. Per Brandi, che non si aspettava il trasferimento, e in quella veste, come Provveditore, fu una specie di esilio. Ma non tardò ad ambientarsi; e il ricordo che ci ha lasciato di Udine è tra i più vivi e toccanti. “C’ero stato vent’anni prima a Udine, e lì per lì mi era parso un luogo così remoto da assomigliare, il più discretamente possibile, a un esilio. L’ufficio che dovevo reggere era ingrato, la giornata passava tutta in quell’ufficio, dietro una scrivania novecento […]. Alle otto, uscivo da quell’ufficio come tritato dal di dentro, e, nei primi tempi, non m’era mancato anche lo sconforto del ristorante dell’albergo, dove si mangiava alla terza persona, in modo anonimo voglio dire. Finché non scopersi quella trattoria modesta, eccentrica, ma col magnifico focolare friulano, posto in mezzo alla stanza, circolare e con la cappa fatta a imbuto […]. Al momento giusto avevo scoperto quella trattoria, quando, dopo i giorni caldissimi dell’estate, era presto seguito un autunno fresco, come s’addice a una città che, se anche in pianura, resta pedemontana […]. Quel fresco precoce di un autunno montanino avrebbe dovuto intristirmi, con la previsione di un celere inverno certamente nevoso (e lo fu), anzi ghiacciato (e lo fu): invece mi introdusse, come per mano, nel Friuli, quasi senza che me ne accorgessi, e me l’ha fatto amare come luogo della mia infanzia”. Il 1937 comincia con un altro trasferimento, in marzo, a Rodi, addirittura, e con il doppio incarico di Provveditore agli Studi e Soprintendente alle Antichità e Belle Arti. L’Italia ebbe il possedimento di quell’isola sull’Egeo dal 1912 al 1945 e l’allora governatore De Vecchi (che era stato ministro dell’Educazione Nazionale) volle che la tutela delle opere d’arte che in essa si trovavano fosse demandata a Brandi. Un impegno gravoso, che tuttavia non impedì a Brandi d’iniziare la stesura di un saggio su Giotto e di continuare a interessarsi all’arte moderna, chiamando il giovane Afro (che aveva conosciuto a Udine) a decorare la Villa del Profeta e il Grande Albergo delle Rose. Sembrerà strano, ma non esiste uno scritto di Brandi su Rodi, sul tipo di quelli che lui, così sensibile al richiamo dell’isola, ha dedicato a Procida, a Ischia, a Pantelleria, alle Egadi. In compenso ci restano alcune lettere, come questa inviata all’amico Raimondi, che ha il passo e il ritmo, di un diario di viaggio. “Agisco in uno scenario naturale di profumi, colori, scenario da opera dell’Ottocento e se si vuole proprio nobilitare, in grazia ai minareti e alle palme, da Ratto del serraglio o da Italiana in Algeri. Passo da manifestazione a rivista, da saggio ginnico a saggio scolastico, preparo campeggi e premiazioni, e divengo arido come un sasso. Unico aperto sollievo, il mare e il sole, e la carezza di averla ormai scampata, dalla febbre del fieno. Da ieri l’altro ho cominciato il giro delle isole: con Castelrosso a due passi dall’Anatolia. È tutta un sasso scheggiato da fondo ferrarese, senza un albero e con una grotta azzurra, che, mi dicono, è più bella di quella di Capri. Certo è poetica e shakesperiana, con riflessi argentei e muschi fosforescenti; e la luce diviene spessa come una vernice azzurra sopra le stalattiti e lungo le pareti. Il porticciolo poi è una cosa squisita, finto e irreale nella sua modesta, borghese successione delle sue casette rosa, gialle, bianche, tutte egualmente linde e in gran parte disabitate. A un tratto ho saputo da dove ha tolto De Chirico quei bianchi gessosi, quegli azzurri sciolti nel latte e quelle forme fra il tempietto greco e il boccascena di teatro di burattini […]. Mio buon amico, se mi vedeste: mai sono stato forse così bene, mai sono riuscito ad addormentare meglio dentro di me, quel po’ di meglio che ci avevo. Narcosi totale…”
Finalmente, nell’ottobre del 1938, il ritorno a Roma, atteso con ansia. “Speravo sempre di poter prendere qualche giorno per starmene a Ferrara”, scrive Brandi a Luigi Magnani, “e fare quella gita a Venezia, che si era concordato. Ma io dovetti andare, a scappa e fuggi, a fare le consegne, pur con interno gaudio, dovuto al fatto del mio definitivo ritorno nelle Belle Arti. Sono ora comandato al Ministero… e ci potremo vedere quindi con tutto comodo quando verrai a Roma.” Come già nel 1936, ma allora solo per pochi mesi, Brandi si ritrova a lavorare insieme ad Argan, che molto s’era adoperato per il suo rientro in Italia. “Avevamo un ufficio al Ministero dell’Educazione Nazionale, una stessa stanza con due scrivanie, una di fronte all’altra, quella di Argan sempre pulitissima, la mia sempre carica, perché io ero lento e lui velocissimo a sbrigare le pratiche. Ricordo con una certa dolcezza quel periodo, perché noi avevamo l’impressione stando lì di fare tutto il bene che fosse possibile. Di cercare di evitare dei disastri, sì, dei disastri per le opere d’arte, con quei gerarchi stupidi e ignoranti, che ci fosse almeno lì, al ministero, un nucleo di persone coscienti, che non prendessero delle decisioni a vanvera per le opere d’arte. Così non si lavorava male lì. A una certa ora del giorno, arrivava Longhi (Bottai subiva molto il suo ascendente, perché era stato suo allievo); e lì lavorarono per un certo periodo Vasco Pratolini e Antonio Giolitti. Questa era la forza di Bottai, il fatto che lui volesse raggruppare e catalizzare una certa intelligenza dell’epoca, aldilà del credo politico”. E gli amici, nella Roma di quegli anni, erano “soprattutto pittori e letterati, Emilio Cecchi in primo luogo, Libero De Libero, poi Afro, Toti Scialoja, Mario Mafai, Renato Guttuso, Leoncillo, Mirko, gli stessi Giorgio Morandi, Filippo De Pisis, Giacomo Manzù anche se non vivevano a Roma, musicisti come Alfredo Casella, Goffredo Petrassi, Roman Vlad. Era una vita molto familiare, più semplice di quella degli artisti di oggi. Ci si trovava senza bisogno di telefonarsi – già il telefono non lo aveva quasi nessuno allora – nei caffè, nelle trattorie, negli studi dei pittori”. Ma si dava anche il caso che gli amici andassero a trovare Brandi a Vignano, nella casa di campagna, e la cosa lo rendeva felice.
Per limitarsi agli artisti, e ai maggiori, Morandi, Afro, Burri, Manzù, Leoncillo: chi non è stato almeno una volta a Vignano? E Guttuso, con Scialoja, è quello che vi rimase più a lungo, ricavandone lo spunto per una serie di quadretti che si trovano ancora a Vignano. “Renato Guttuso era venuto a Vignano, ospite dei miei genitori, verso la fine della primavera del 1938, quando ancora la campagna era verde e anche il panorama delle crete senesi che si gode dal giardino del palazzo era teneramente verde, né il grano aveva cominciato a ingiallire. Piacque a Guttuso, che lo dipinse in una delle quattro tavolette in cui fissò gli aspetti che più lo avevano interessato in quel breve soggiorno […]. Abitare a Vignano era fare veramente vita di campagna: non c’erano svaghi, se non passeggiare in giardino o lungo le colline che da ogni lato hanno delle vedute interessanti, ora un vecchio castello ora un viale di cipressi, ora un bosco di querce o di castagni: ma non fiumi né laghi. Il senese è una delle campagne più secche d’Italia; ciò che giova al vino che è il Chianti e dunque un vino titolato: a Guttuso piaceva, e anche il mangiare a cui teneva tanto il mio babbo, e certe vecchie ricette di casa. La sera si mangiava fuori e questa era una delle modeste distrazioni di un tempo in cui non c’era neppure la televisione. Guttuso ancora non si era sposato e quindi non era venuta quella cara donna che è Mimise, col suo spirito caustico e la memoria scintillante. Negli anni seguenti, che furono quelli della guerra, i miei rimasero in campagna, ma le cose erano divenute più difficili. Guttuso ritornò a colazione solo molto più tardi, dopo che la villa aveva subito due occupazioni, quella tedesca e quella alleata, e c’erano ancora le ferite da sanare, come i cancelli abbattuti dai tedeschi e le devastazioni interne.”
Il 1939 è un anno che si rivelerà decisivo per lo sviluppo della personalità di Brandi, e nelle direzioni più diverse. Come studioso si cimenta con lo stesso impegno, e gli stessi risultati, nell’antico e nel moderno. Così, dopo il Giotto, esce il memorabile saggio su Morandi, accompagnato, nella stessa rivista, dalle note “su alcuni giovani”, due pittori (Afro e Mafai) e due scultori (Manzù e Mirko). Frattanto, su un altro piano, insieme ad Argan getta le basi di quello che sarà l’Istituto Centrale del Restauro, e si prepara a diventarne il direttore. Da ultimo, proprio sul finire dell’anno, e prima di partire per l’America, pubblica un secondo libro di poesie, Voce sola.
Ma procediamo con ordine, dal Cammino di Morandi. Pochi lo ricordano, ma quando uscì il saggio si era in periodo fascista, e l’autore fu vivacemente attaccato dalla stampa più vicina al regime. Ma che si tratti di un testo fondamentale per la conoscenza dell’artista, è lo stesso Morandi a ribadirlo, nel 1961. E ancora, in una lettera datata 6 febbraio 1963 (Morandi morirà nel giugno dell’anno dopo): “Carissimo Brandi, grazie della Sua lettera, di quanto mi dice e della Sua amicizia. Riguardo alla dolorosa faccenda del testo di Arcangeli […] le confermo che il primo dissidio nacque dalle ingiustificate e sciocche polemiche contro di Lei e contro Argan. Contro di Lei particolarmente riguardo al testo della monografia edita da Le Monnier e che, come Lei sa, ho sempre approvato e approvo ancora pienamente”. (E Marilena Pasquali che per prima, nel 1990, ha pubblicato il carteggio tra Brandi e Morandi, e di recente è ritornata sull’argomento con un libro di saggi e ricerche su Morandi, giustamente si domanda: “Che sia per questa ragione – la rilettura quasi a conforto e a confronto con lo scritto di Arcangeli che proprio in quel periodo sta via via esaminando – che i foglietti di appunti sul nuovo, attesissimo e per l’artista non soddisfacente scritto, sono rimasti tra le pagine dell’amata monografia brandiana?”).
Morandi, si sa, è stato l’artista più vicino a Brandi, il più amato e studiato. Non è il solo, certamente. E lo dimostrano le note che nel numero di febbraio-marzo della stessa rivista, “Le Arti”, Brandi dedica ad Afro, Mafai, Manzù e Mirko: artisti che, seppure non si possano staccare dal contesto europeo, delineano un nuovo corso dell’arte italiana, una nuova attualità di cultura, di gusto, di orientamento. A parte Manzù, che allora viveva a Milano, erano artisti che Brandi frequentava abitualmente a Roma “nel ristretto cenacolo della Cometa, retto da una donna straordinaria, Mimì Pecci-Blunt, pronipote di Leone XIII e amante della nuova pittura e della nuova poesia. Più o meno, da Libero De Libero a Scipione e a Mafai, da Cagli a Capogrossi, da Mirko a Afro, tutti i componenti di quel gruppuscolo di artisti sono diventati famosi. E rigenerò Roma, quella Roma che era assai provinciale”.
Il 29 agosto1939 Brandi approfitta di un breve soggiorno a Stresa per mandare a Magnani “un saluto da questo lago signorile e velato, quasi inafferrabile nella sua leggera appannatura già settembrina. È un’aria emolliente e sedativa: quanto c’è di meglio per allentare la tensione e risolvere l’attesa angosciosa nella melanconia senza tempo”. (È il primo accenno, sia pure indiretto, alla Seconda guerra mondiale, che scoppierà solo tre giorni dopo.)
Il 15 dicembre esce, per le Edizioni della Cometa, Voce sola. Ricorda Brandi: “La mia attività poetica fu proprio rivolta verso la tecnica della poesia: in Voce sola […] ci sono delle poesie nelle quali, senza saperlo, ho reinventato il sistema francese del triolet, ossia due quartine di cui una ripete tutte le stesse parole finali della prima […]. A dir la verità la persona che apprezzava molto questi sonetti segreti era Bobi Bazlen, di cui sono stato amico, il quale veniva apposta da me perché gli leggessi qualcuno dei miei componimenti”.
16 dicembre. Partenza per l’America: scopo del viaggio, seguire l’allestimento della mostra degli antichi capolavori italiani a New York e Chicago, e visitare gli Istituti e i Gabinetti di restauro esistenti nei musei americani. Successe questo: “Longhi era stato chiamato da Bottai come consulente al Ministero e su suo consiglio fu organizzata una grande mostra itinerante, una mostra tutta di capolavori d’arte italiana che doveva girare le maggiori città americane. (In realtà la mostra la volle Mussolini per cercare d’ingraziarsi gli americani.) Basterebbe dire che c’era il Tondo Doni in marmo di Michelangelo, la Nascita di Venere di Botticelli, la Madonna della Seggiola di Raffaello per capire l’entità, e la follia, dell’impresa. Nessuna assicurazione italiana si sentì di sopportarne il peso. Si sarebbe dovuto assicurare le opere ai Lloyd’s di Londra, ma questo non rientrava nella politica autarchica del regime. Così le opere partirono senza assicurazione e con il milione previsto per la polizza si mise in piedi l’Istituto del restauro”.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, e Brandi fa riferimento alla situazione che si era creata, di attesa, di incertezza, in una lettera inviata a Morandi il 6 luglio: “In quanto a me continuo a non far niente e a non aver voglia di far niente: come si fa ad aver voglia, a credere nell’utilità di un lavoro critico esautorato e ozioso rispetto alle cose del momento?”. E a Magnani, il 18 luglio: “In quanto alle nostre ferie, regna sempre molta incertezza. Sembra che ci sarebbero una diecina di giorni a testa, e allora vorrei andare a passarli al mare, sentendo urgenza di sole, di vento salato e di immersioni fresche. E, se questo potrà realizzarsi, data la mia invincibile passione per le isole, e dovendo eliminare Sicilia ed Elba, finirei per andare a Capri o a Procida”. Cosa che poi puntualmente avvenne, ma con una preferenza per Procida: “Sono tornato ieri l’altro da Anacapri e da Procida: quest’ultima soave e intatta, verde e rosa”.
Nonostante la guerra, Roma continuava a essere un vero centro culturale, le stagioni musicali al Teatro delle Arti erano seguite da un pubblico scelto e interessato, e Brandi non mancò di recensire le scene di Guttuso per l’Histoire du soldat di Stravinskij. Roman Vlad, che era giunto da poco a Roma dalla Romania, ma si era già perfettamente inserito nella vita della città, ricorda che “non pochi musicisti frequentavano la casa di Brandi. E non solo romani, come Goffredo Petrassi, ma pure stranieri di passaggio. Ricordo un’indimenticabile serata con il grande pianista svizzero Edwin Fischer. Per me furono però importanti soprattutto le lunghe conversazioni con Brandi su argomenti che toccavano l’estetica, la filosofia in generale e, ovviamente, la musica. Si sviscerava la teoria e la storia della musica, le concezioni riguardanti il suo specifico linguaggio, le sue modalità espressive, i suoi possibili significati. E fummo d’accordo sulla sua fondamentale asemanticità”.
L’8 marzo 1941 s’inaugura alla Società Amici dell’Arte di Torino una mostra di Toti Scialoja, presentato in catalogo da Cesare Brandi. (“Caro Cesare […] tutta Torino intelligente è venuta, grande valore, entusiasmo, fermento […] Tutto questo naturalmente è quasi esclusivamente opera tua. Ma io spero di meritarmi la tua amicizia sempre di più.”) L’amore per la pittura si lega a quello non meno intenso per il mare, e così Brandi (ma presto nascono dei dissapori) passa il Ferragosto a Procida con Scialoja. Tornato dalle vacanze, Brandi lavora in pieno alla realizzazione dell’Istituto del Restauro, di cui nel frattempo è stato nominato direttore: “Questo Istituto, che il 18 s’inaugura ma che fino a quel giorno mi terrà in pena per certi gravi ritardi nelle spedizioni e nella consegna di tanti, troppi materiali, esige la mia continua assistenza: proprio come un neonato, ma di che mole!”.
L’inaugurazione avviene puntualmente il 18 ottobre 1941, alla presenza del ministro Bottai, e Brandi nel suo discorso d’apertura sottolinea come l’Istituto debba “soddisfare a tre esigenze fondamentali: assicurare all’esecuzione del restauro delle opere d’arte tutti i mezzi sussidiari della scienza moderna; promuovere e intensificare le ricerche sui metodi di restauro e sulle materie autarchiche da impiegarsi; formare gradatamente una maestranza di restauratori che garantisca la diffusione dei metodi scientifici elaborati dall’Istituto”.
Febbraio 1942: escono, da Vallecchi, le Elegie. “Sono state per un anno la mia vita segreta, non amavo che alcuno le leggesse, e avevo il senso che mai avrei ritrovato una violenza tanta amara e appassionata dentro di me. Come fossero l’ultima soglia della gioventù.” Il libro, come già era accaduto per le due precedenti raccolte di poesie, passa pressoché inosservato e Brandi, in una lettera all’amico Raimondi, dà sfogo a tutta la sua amarezza. “Passato il primo momento di gioia infantile, quel libretto mi è parsa una fiala di veleni, per me. Perché insomma io potrei essere vittima di un miraggio, in quanto riguarda la poesia, ma non mi sento affatto facile a ingannarmi sulla mia intelligenza: perciò ti dicevo né per solo moto di dispetto, che volevo lasciare la letteratura e passare in blocco alla filosofia, dove almeno sarò sicuro di capire di non capire, e non mi angustierò troppo se nessuno se ne accorgerà.”
Esce presso Le Monnier la monografia su Giorgio Morandi, che riprende, precisato e ampliato, il saggio del ’39.
Nel luglio, a Venezia, Brandi partecipa al Primo Convegno dei Critici d’Arte Antica, e nell’occasione visita la Biennale d’arte, “pessima fra le pessime”, come scrive a Manzù.
Il 19 maggio 1943, Brandi finisce di scrivere Carmine o della pittura, il primo dei suoi Dialoghi sulle arti. Nello stesso anno (ed è interessante notare come sia lo stesso Brandi a fissare le date in calce ai suoi scritti) finisce i saggi su Duccio (19 ottobre) e Picasso (7 dicembre), nonché la prima stesura del secondo dialogo, Arcadio o della scultura (21 dicembre).
Nello stesso mese di maggio si apre al Palazzo delle Esposizioni di Roma la Quarta Quadriennale Nazionale d’Arte. Ma Brandi ha occhi solo per Morandi. “Sono stato alla Quadriennale. Mio caro Morandi […] con viva commozione, ma non con meraviglia, ho notato come il suo livello resti inarrivabile dagli altri. Ma il crollo degli altri è impressionante: perfino Mafai si volgarizza con quell’autoritratto.”
Frattanto la guerra incombe, con le sue devastazioni e il tramonto delle speranze. Il 25 luglio cade il Fascismo. Ma con la firma dell’armistizio, l’8 settembre, l’Italia è allo sbando. Roman Vlad ricorda benissimo quel giorno: “Quando una volta mi hanno chiesto di scrivere un articolo su un pittore, ho parlato di un quadro di Giovanni di Paolo, e mi ricordo che conservo ancora il piccolo libriccino di Brandi che mi regalò con dedica l’otto settembre, mentre in una trattoria romana ascoltavamo alla radio il maresciallo Badoglio che annunciava l’armistizio”. Anche per Brandi fu quello il momento delle decisioni, per gravi che fossero: “Intanto nel settembre 1943, avvenuta, dopo l’armistizio, la capitolazione di Roma ai tedeschi, ritenni di non poter assolutamente riprendere una attività, che, per quanto svolta in favore delle opere d’arte, costituiva sempre una collaborazione col nemico e avrebbe più facilmente esposto l’Istituto alle devastazioni tedesche”. Così Brandi si ritira momentaneamente a Siena, nella sua villa di Vignano, in campagna. Ma l’umore è dei più cupi, come risulta evidente da una lettera a Magnani, del 16 ottobre 1943: “Quando una simile angoscia entra nel cuore il mondo può veramente crollare: in un certo senso è già crollato. A noi, di razzolare tra le macerie, ricomporre i frammenti, ricostruire una patria ideale. Ma quale sterminio, quale rovina. È allora che si resta istupiditi e anche un gesto, anche un tratto di penna sembra di doverlo riscavare come le statue di Ercolano”. E ancora, il 9 novembre: “Come trovare la calma per pensare di fronte a questo sfacelo? Dovette essere una cosa assai più semplice la caduta dell’Impero romano: non fosse altro ci vollero dei secoli. E qui in pochi anni, che dico? in pochi mesi, si congestionano tanti di quei fatti tremendi che sembra impossibile non ne scoppino i giorni, come sacchi troppo pieni”.
Il 1944 si apre, il 4 gennaio, con una lettera di Brandi a Raimondi. L’amicizia tra Brandi e Raimondi s’era già stretta negli anni bolognesi, tra il ’33 e il ’36: un’amicizia che aveva la sue ragioni intellettuali e morali profonde. Ma ora c’era di mezzo la guerra, la lontananza, l’Italia spaccata in due, dispiaceri e trepidazioni per amici e parenti non mancano. E in questo contesto la lettera di Brandi assume un rilievo speciale, ha il valore di una testimonianza, di una tranche da vie. (E si noti l’orgogliosa rivendicazione del lavoro compiuto, anche in proiezione futura.) “Carissimo Peppino, io non so come sia che mai forse ho pensato con tanta insistenza e tanta nostalgia agli amici e mai sono stato così lento e impacciato a scrivergli. Te, primo fra tutti. In questa solitudine (e forse non immagini quanto grande sia) mi sono accorto come fosse giusta la divisione canonica della giornata: è lunga e bisogna assestarla, trovarle le occupazioni. Veramente il mattutino lo passo a letto, e dormendo. Cosa vuoi, la villa è fredda, la legna scarsa; se si comincia ad accendere di mattina, chi ci arriva alla fine dell’inverno? Allora la sera faccio tardi – tu sai che non è un sacrificio per me – la mattina dormo. Nel pomeriggio qualche passeggiata e lavoro: la sera lavoro. Ed ho lavorato: finito il Duccio, finito il Picasso (a parte gli inevitabili rimaneggiamenti quando riavrò dei libri): finita la prima stesura del 2° Dialogo: l’Arcadio o della Scultura. E poi letture, serie e gravi. In quanto ai Dialoghi non posso non essere contento: il pensiero è limpido, susciterà bufere, ma non si scavalca. Ormai bisogna passare di lì. Questa non è vanagloria: infinite sono le lacune che presenterà, ma non mi spaventa. Io non chiuderò mai il cerchio del mio pensiero: se lo farò sarò finito. Questo il mio attivo. Del passivo è meglio non parlarne. Lì veramente, se potremo vederci avremo da fare delle lunghe veglie.”
Il 7 gennaio Brandi è di nuovo a Roma, e poiché ha deciso di non riprendere servizio per non collaborare con i tedeschi, si nasconde nella casa dell’amico Giorgio Rosi, Soprintendente ai Monumenti di Napoli, che era rimasto tagliato fuori dalla sua città. Vero è che, anche se a distanza, e in forma privata, Brandi continua a vigilare sull’attività dell’Istituto, favorito anche dal fatto che nel frattempo Rosi era stato messo provvisoriamente al suo posto come Commissario. Certo, la tentazione di lasciare Roma e tornare a Siena, per stare vicino ai genitori, vecchi e malati, era forte. In questo senso è importante una lettera a Magnani, datata 21 aprile 1944, e proprio in quanto documenta un lato forse meno conosciuto della personalità di Brandi, il suo impegno etico e civile, la sua integrità di funzionario dello Stato. “Certamente io non intendo muovermi, per quanto rappresenti per me il più costoso dei sacrifici; per quanto la mia situazione familiare mi consiglierebbe di tornare dai miei vecchi a assisterli nelle quotidiane ansie degli allarmi. Ma la vita è costruita in modo che non si riesca quasi mai a soprammettere il desiderio più legittimo con la necessità legittima. Intendo dire che io devo restare qua: il mio dovere – puramente ideale – è questo, anche se contrasta con ogni altro interesse materiale e morale.”
Giugno 1944. Finalmente, liberata Roma dagli Alleati, Brandi può riprendere l’attività all’Istituto del Restauro. E fu così che, appena un mese dopo, l’Istituto poté iniziare l’opera di salvataggio dei resti degli affreschi di Lorenzo da Viterbo del Museo Civico di Viterbo, il primo di tutta una serie. Erano anni difficili, con l’Italia uscita dalla guerra ed entrata nella ricostruzione; nessuno meglio di Licia Borrelli Vlad è ancora oggi in grado di rievocarli. “Erano anni esaltanti per tutti noi che lavoravamo in quel cantiere. Vi approdavano opere eccelse, di Antonello da Messina, Caravaggio, Piero, l’Angelico e tante altre […] Ai corsi di restauro affluivano allievi e borsisti stranieri. Iniziarono le prime campagne di restauro all’estero, ove la fama dell’eccellenza dell’Istituto si andava diffondendo. E in questo contesto si palesò la vocazione di Brandi per il diario di viaggio e nacquero quei libri che segnarono l’inizio di uno dei filoni più felici della sua multiforme creatività.”
Il 1945 è l’anno del Carmine o della pittura, che apre la serie delle grandi opere teoriche. “Questo libro è da raccomandare agli studiosi della teoria dell’arte così per le molte cose giuste e calzanti che dice come per lo spirito che lo anima”. Espresso da Benedetto Croce, non è riconoscimento da poco, “visto che il libro (sebbene, questo, Croce cerchi di velarlo)”, scrive Brandi al suo editore, “rappresenta un radicale capovolgimento dell’estetica crociana”. Fanno seguito recensori del calibro di Argan o di Cecchi, per citare soltanto i maggiori. Argan, la cui vita scorre parallela a quella di Brandi anche quando sembra prendere una direzione diversa, come sempre è il più logico e consequenziale: “Carmine rappresenta anzitutto l’integrità di un’esperienza, e della più rigorosa e impegnata che possa darsi dei fatti della pittura: tanto rigorosa e impegnata, appunto, da costituirsi necessariamente in una formulazione teoretica”. E Cecchi arriva a dire che “molto di rado, da autori di qualsiasi tempo e paese, il districarsi e l’obbiettivarsi del fantasma pittorico e poetico nel corso indistinto della realtà quotidiana, fu caratterizzato con evidenza maggiore”. Eppure, nonostante i giudizi positivi e i riconoscimenti autorevoli (e altri ne verranno, come quello di Gianfranco Contini, che dieci anni dopo, nel 1955, parlerà del Dialogo come dell’opera di estetica più importante uscita dopo quella del Croce), il Carmine correva il rischio di vedere sostanzialmente oscurata la sua novità, e proprio in ragione della “accaparrante interpretazione crociana” (Contini). Il primo a esserne consapevole fu lo stesso Brandi, che infatti si affrettò a preparare entro l’anno (anche se poi dovrà attenderne l’uscita fino al 1947) una seconda edizione corredata dei due saggi su Duccio e Picasso, ritenuti indispensabili dall’Autore “per fornire l’esemplificazione, non la norma, del metodo critico propugnato nei dialoghi stessi”. Ma soprattutto Brandi si preoccupò di dar vita a una rivista, “L’immagine”, che non si limitasse alla storia dell’arte ma servisse a individuare una linea di pensiero in controtendenza rispetto alle idee allora dominanti. “L’Italia è il paese degli antemarcia. Prima c’erano stati gli antemarcia del fascismo, in quel momento c’erano gli antemarcia dell’antifascismo. Io avevo detestato gli uni e ora detestavo gli altri. Questa rivista era molto chiusa, molto lontana dall’idea sartriana di engagement, allora in ascesa. Chiamai a scriverci i miei più cari amici, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Luigi Magnani, Roman Vlad, Giuseppe Raimondi. E alcuni artisti (Morandi, de Pisis, Manzù, Marini, Cassinari) che collaborarono gratis, dando un’incisione per ogni numero. Pubblicavamo testi letterari, filosofici, poetici, Sartre, Montale, Eliot, Thomas Mann, per citare qualche nome. Mai un articolo di politica.” La rivista ebbe vita breve, dal 1947 al 1951; tuttavia è giusto riconoscerne i meriti, e non solo per la nobiltà dell’assunto, che era quello, appunto, di coltivare interessi letterari e culturali generali. Con questo non è che venne meno l’interesse di Brandi per la storia dell’arte. Nel 1947 pubblica la monografia su Giovanni di Paolo, e nel 1949 i Quattrocentisti senesi, il cui “impianto storico-artistico, che è forte, ricco e di ampio respiro, si intreccia compiutamente e in modo esemplare”, osserva Maria Andaloro, “con l’esposto teorico del Carmine”. Ma una posizione di assoluto rilievo spetta al saggio su La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, in cui Brandi precisa – con un approccio teorico che non esclude però una forte carica polemica – la sua posizione nei confronti dell’arte moderno-contemporanea.
Siamo quasi ai primi anni Cinquanta. E qui mi sia concesso di aprire una parentesi di carattere personale. È del 1950 infatti (il 18 settembre, per l’esattezza: certe date non si dimenticano) il mio incontro con Cesare Brandi, al Teatro La Fenice di Venezia, in occasione della Biennale di Musica e della prima tournée italiana del New York City Ballet di Georges Balanchine. All’epoca ero un giovane studente iscritto al terzo anno di Medicina, ma con un solo esame all’attivo: la mia passione era il mondo dell’arte e dello spettacolo in tutte le sue forme, dal cinema alla danza, appunto. Così non fu difficile per Brandi convincermi a lasciare Medicina per iscrivermi a Filosofia (a Venezia avevo portato con me il Breviario di estetica di Croce, e la cosa colpì molto il Professore). Insomma, una storia a lieto fine, perché di lì a qualche anno potei laurearmi in filosofia con una tesi sull’estetica di Brandi (la prima!), con il massimo dei voti e con Mario Praz come correlatore (fatto abbastanza insolito, trattandosi di un anglista).
Ma per tornare al 1950, all’anno cioè in cui lo conobbi, bisogna aggiungere che anche il Professore (come io lo chiamavo) veniva da un periodo piuttosto difficile. Aveva perso nel giro di due anni i genitori, prima il babbo e poi la mamma, e ricordo che me ne parlò con infinita tristezza. “Da quando non ci sono più, i miei sogni sono sempre di frustrazione.” E forse fu anche per questo che, non appena se ne presentò l’occasione (nel luglio 1950), decise di acquistare una casa a Procida: una casa a picco sul mare, che per lui era il mare più bello del mondo: e a un prezzo accessibile.
Come un post-scriptum.
Lettera di Pier Paolo Pasolini a Gianfranco Contini:
“Roma, 3 giugno 1950. Gentile Sig. Contini, questo eterno, diabolico, Ignoto: Cesare Brandi è l’uomo meno raro e difficoltoso che abbia incontrato. Dopo i primi minuti allarmanti, anzi per me quasi terrificanti, egli è stato di una precisione e calore di lingua come raramente ho riscontrato. Mi ha parlato del Friuli, delle sue villotte – subito dopo il breve dialogo burocratico che ha avuto esito negativo (al Ministero, sembra, mi avevano date informazioni inesatte, cose di cui Brandi si mostrava sinceramente afflitto, promettendomi comunque un suo aiuto). Così, secondo i dati del colloquio, dovrei essere avvilito e sono invece particolarmente disposto a una sia pur lieve combustione di spe ranze… Quanto alla Sua lettera e al Suo articolo – cui accenna nel biglietto, nel fortunato biglietto – Brandi ha detto letteralmente che era sanscrito; ha detto che in proposito Le scriverà (che si tratti di un banale disguido postale?); e infine, verso di Lei, mi è parso pieno di confidenza e di affetto…”.
Gli anni Cinquanta sono gli anni della continuità. Dopo il Carmine che trattava della Pittura, ecco allora l’Arcadio e l’Eliante, dedicati rispettivamente alla Scultura e all’Architettura, e infine il Celso o della poesia (1957), che estende all’arte della parola la concezione estetica di Brandi. Quanto ai primi due Dialoghi, a parte il comune presupposto filosofico, c’è da dire che la serie di riferimenti e analisi – dalla statuaria greca, assira, egiziana a Medardo Rosso, dai trulli di Alberobello alle cattedrali bizantine e a Santa Sofia – li rende così affini ai libri di viaggio da rievocarli in continuazione, quasi che fra viaggio reale e percorso intellettuale non ci sia divario. La verità è che in quegli anni Brandi sta poco in Italia, chiamato a Gerusalemme e al Cairo, a New York e a Parigi, in Grecia e in Turchia. Sono viaggi compiuti non da semplice turista, ma per ragioni di lavoro, per “richieste consultazioni sul restauro dei monumenti antichi”. La maggior parte dei suoi libri di viaggio è dedicata proprio a questi monumenti: l’esperto di restauro e lo storico dell’arte hanno continue occasioni per aprire un discorso critico, ma sono poi le qualità dello scrittore a renderlo agevole e comprensibile anche a un profano. Ma è interessante notare (e qui riprendiamo un’osservazione di Cecchi) che nel passaggio da Viaggio nella Grecia antica, del 1954, a Città del deserto, del 1958, si registra un cambiamento di tono: più concreto e nello stesso tempo disinvolto. Cambiamento dovuto anche al fatto che proprio in quegli anni inizia la collaborazione con periodici e quotidiani, prima su “Cronache” (maggio 1954), e poi sul “Resto del Carlino” (aprile 1955) e sul “Corriere della Sera” (novembre 1957). Lo stesso Brandi non aveva difficoltà a riconoscere che il giornalismo fu per lui una grande scuola; e in effetti lo aiutò a liberarsi di quel lato un po’ collet monté che qualche volta appesantisce i suoi scritti più specificamente critici.
Si diceva di Brandi sempre in giro per il mondo, dove lo portava la sua missione di salvatore delle opere d’arte. Ma ecco, per completare il quadro, ampi stralci delle lettere inviate da Brandi all’autore di queste note, che ci sembra costituiscano un documento non privo di interesse, proprio perché di quei viaggi forniscono una sorta di primo commento a caldo, in uno stile più intimo e confidenziale. E con quei momenti di poesia che non mancano mai negli scritti di Brandi.
Ankara, 10.VI.1953
“Sono felice tre volte al giorno, e infelice dieci volte al giorno. Il ritmo di questo viaggio è disumano. La mia sete di vedere è sfruttata fino all’estenuazione. Non ho tempo neppure per scrivere. Ti scrivo oggi, dopo 8 ore di automobile, 4 di visita archeologica… e domani altre 8 ore di automobile: arrivo a Adana, partenza il giorno dopo per Caratepé, poi Antiochia, poi Gheremé, Costantinopoli, Salonicco, Atene, Roma: Roma, finalmente, il 25: arriverò con l’aereo. Che fare? Che dire? Ormai sono in ballo, e, cosa fatta, capo ha. Questo squallido résumé che ti ho dato, deve per altro farti comprendere la inevitabile stanchezza fisica, stanchezza naturale bene inteso, perché sto benissimo […]. E oggi ho visto un tempio ittita, che faceva rivivere al 13° secolo a.C.”
New York, 23.XII. 53
“Il tempo è bello, ventosissimo, ma col sole e neppure freddo. La gente è tutta indaffarata a farsi regali inutili e costosi; la città, coi suoi grattacieli, sembra sempre in vena di fuggire da se stessa, un’evasione pietrificata. Ora le poche persone che conoscevo partono per fare il Natale in campagna o al mare: anche se a questi nomi non corrispondono esattamente quello che noi chiamiamo campagna o mare. Quando avevo la tua età trovarmi in una città ignota mi esaltava: e certo, ancora mi ha esaltato a Costantinopoli. Ma questa città di commercianti pacchiani, dove tutto si volgarizza come per un malefico incanto, mi seguita a urtare da ogni lato, anche con i ricordi del tempo che ci passai, in cui conobbi una vita un po’ zingaresca e calda, ora impossibile e d’altronde indesiderabile. Mi sono rimesso a scrivere il Dialogo, ed è questa l’unica cosa buona che possa fare.”
New York, 28.XII.53
“Se è passato il primo momento di solitudine ispida, in cui ogni cosa sembra farsi tediosa e difficile, anche la più semplice, resta il fatto che mi sembrano dei giorni stranamente gratuiti e senza il necessario peso umano. Però lavoro molto e spero di concludere il Dialogo sull’Architettura prima che cominci la parte francamente tediosa, il congresso cioè. Ricevo anche molti inviti, dai vari diplomatici, che si risolvono tutti allo stesso modo: incontro chi non aspetto, qualche dimenticata amica d’infanzia, come quella che sposò un vecchio e ora sembra più vecchia di lui. Domani avrò la conferenza al Consolato, e perciò sarà una giornata perduta del tutto. Per la fine dell’anno dovrei andare dall’Ambasciatore Guidotti, e così d’invito in invito, i giorni rotoleranno l’uno sull’altro […]. Mi ha fatto piacere di ritrovare Richard e Floriano: non so se ti ho maiparlato di loro. È una situazione straordinaria. Stasera andrò con tutti e due a uno spettacolo negro di Harlem: mi attira molto, finalmente una cosa autentica. Oggi sono stato al Museum of Modern Art, dove ho visto che hanno fatto molti nuovi acquisti, soprattutto due Matisse del ’12-’13, bellissimi, e tre Cézanne almeno di eccellente qualità. C’è un Morandi del ’16… ci sono poi dei Boccioni, i De Chirico che già conoscevo, e un Cavaliere di Marino, oltre che un piccolo e mediocre Martini. Ho tentato di raccontarti qualcosa, proprio per il rimorso che, mentre adoro lettere piene di notizie, io non riesco a scriverle, come se ci fosse bisogno della presa della Bastiglia per scrivere delle cose interessanti.”
Atene, 2.IV.54
“Il viaggio a Creta è stato una di quelle discese nella storia, come all’Inferno. E dico questo non solo per il fatto che Minos andò a finire lì: ma perché questi luoghi sono mitici anche senza saperlo. Knossós e Festós, e Górtina e Hagía Triáda sono delle tappe misteriose e viventi, mute e loquaci, della nostra storia umana: vanno troppo al di là dell’archeologia, e anche dell’arte. Per questo riescono a ottenere ascolto, al di là dei miserrimi avanzi che restano dei palazzi. Poi c’è una natura, a scoppio di primavera – dopo un mese sarà tutto secco – ma ora così intensa: non sarei partito da Creta. E non perché sia più bella della Sicilia o di Procida – non lo è – ma perché mi sentivo riassorbito da un tempo così appartato dalla vita usuale, da far vedere il beneficio di una sospensione nel tempo […]. Ci torneremo insieme. Creta è spersa in un mare mezzo italiano e mezzo libico, dove si pescano pesci saporiti e i carciofi sanno d’incenso come a Procida […]. Il mio programma ora è questo: domani ho la conferenza, e poi resterò ad Atene fino a mercoledì, forse anche giovedì. Poi ripartirò per il Peloponneso (Mistrà, Micene, Sparta, Olimpia, Patrasso). Oggi l’Acropoli, al sole che tramontava, aveva il colore caldo e la lindura estrema di questo paese arido, di quest’aria secca; colore e trasparenza che sono come un pensiero netto, una illuminazione interna. Non si sente nulla: ma ci si sente terribilmente se stessi.”
Gerusalemme, 13.IX.56
“Qua le cose sono andate in modo assai diverso da come ci si poteva attendere: ho dovuto far fronte a un’azione sistematica di ostruzionismo, soprattutto da parte dei cosiddetti restauratori egiziani. Ho riportato parziali e sudati successi: insomma non tornerò senza aver fatto nulla. Questo, in primo luogo, e la situazione, che, come puoi immaginare, non è proprio quella ideale, mi hanno reso i giorni lunghi, per lo più tediosi, tolti i momenti della visita a opere d’arte. Ma la giornata è lunghissima e quando abbuia, che fare? Passeggiare non è prudente, il cinema è lacrimevole. Leggere e scrivere: e infatti ho letto e ho scritto molto. Con ciò non vorrei che equivocassi sul fatto che non mi avesse interessato Gerusalemme: la quale è una città stupenda, e anche ben conservata. Il viaggio, insomma, è pieno d’interesse. Domenica sera o lunedì partirò per Amman, non credo che sarà possibile Petra, data la distanza e il caldo. Qui però non ho sofferto per il caldo: le notti sono fresche e il giorno non è mai afoso, anche se il sole è violento. Si mangia di peste e bere, anche solo la birra, costa carissimo.”
Beirut, 22.IX.56
“A Beirut, in ogni senso, mi sento già in porto. Ora te lo posso dire, ma da Gerusalemme avevo avuto quasi l’ordine di partire, dal Ministro e dal Console Generale. Non un ordine, ma un pressante consiglio, che, in questi casi, è anche peggio. Io però non volli perdere Damasco e Palmira, dal momento che avevo dovuto perdere Petra. Ho fatto bene. A Damasco non c’era la psicosi di Gerusalemme. Ho visto, ho girato, sono pieno di cose come un’ape di miele […]. Il Libano è un paese molto civile, davvero non sembra sia abitato da gente che in parte è affine a quella della Siria. Perfino il mangiare arabo ha un’altra accuratezza, una scelta più fine d’ingredienti. Ieri fui ricevuto dalla moglie del Presidente della Repubblica che mi volle conoscere: poi una colazione al Bristol con altre sette persone: stamani, proprio fra dieci minuti, in gita a Baalbek. Ieri sera ho scritto sino a mezzanotte, perché la escursione a Palmira (300 km nel deserto) bisognava che non la lasciassi freddare.”
Amsterdam, 20.IX.57
“Ti scrivo, per non ritardare, queste due righe, dopo una giornata carica di riunioni: alle 9, alle 15, alle 21.30. Ho dovuto prendere anche una decisione assai importante sul famigerato Centre dell’Unesco: è stata una decisione grave, ma credo di aver fatto bene a prenderla. Ti spiegherò meglio: ma insomma si trattava di scegliere la persona che dovrà dirigere il Centro: e siamo cascati su un inglese. La stagione ci ha regalato, dopo due giorni di pioggia, uno di sole: Amsterdam ha un suo fascino di vecchia città tirata a lucido. In questo senso è come una persona che vuole essere più giovane di quella che è: pure ha un fascino lontano […]. Domani faremo una gita a Delft: la rivedo volentieri, non fosse che per rivedere il più bel paesaggio che esista, la veduta di Delft, di Vermeer.”
Cairo, 27.X.58
“Pensa che siamo partiti da Assuan in un battello, quasi panfilo, e che tutto il tempo (fino a oggi cioè) siamo rimasti sul battello: fermandoci a vedere i templi egiziani che si incontrava per il cammino acqueo, fino ad Abu Simbel, davvero uno dei luoghi più straordinari del mondo. Si era al confine del Sudan, con una temperatura fra i 35 e i 40 gradi all’ombra: ma ti dirò che quasi non me ne sono accorto. Ora che sono tornato, già acquista come una prospettiva favolosa, un alcunché di remoto: una tappa fuori del tempo. Non rimpiango perciò di avere dovuto allungare il viaggio, se non perché temo di non essere in tempo a tornare per la discussione della tua tesi. Questa forzata assenza è quanto un po’ mi amareggia, perché per il resto, è questo un viaggio favoloso, devo ripeterlo […]. Mi sono spesso domandato se tu avresti o non avresti gradito questo viaggio. La vita sul battello comportava assai sacrifici per il mangiare, il bere, il dormire: pensa per dieci giorni ad acqua, e per di più acqua calda! Sono perfino dimagrito un poco, e sono con un viso nero come a Procida.”
Post-scriptum (con qualche notizia e qualche data in più da ricordare).
1951. Esce, pubblicato da Vallecchi, la monografia su Duccio. Il testo, ma completato da un ricco apparato di note, è lo stesso che figura, assieme al saggio su Picasso, nella seconda edizione del Carmine.
Nel febbraio-marzo del 1956, Brandi tiene un ciclo di conferenze dal titolo complessivo Il vecchio e il nuovo nelle antiche città italiane, per conto dell’Associazione Culturale Italiana. (Da una lettera all’editore Vallecchi: “Per l’Architettura c’è una grande attesa, suscitata anche dal mio giro di conferenze. Sarebbe un ennesimo guaio attendere. Ma proprio a questo proposito ti ricordo che l’idea di fare le conferenze dell’A.C.I. sull’architettura era proprio nata dal desiderio che serviva a lanciare il Dialogo. Ora tu non hai l’idea – e un po’ arrossisco a scriverlo – del successo che ha avuto a Torino, Genova, Milano, Roma, la conferenza stessa. Il Carignano, il Manzoni, l’Eliseo erano colmi: ci furono persino gli applausi a scena aperta! E recensioni in tutti i giornali come non ne ho mai avute!”).
1959. Vince, ex aequo con Argan, il Premio Feltrinelli per la critica d’arte. (Da una lettera a Guttuso: “Caro Renato, grazie di aver voluto farmi sentire l’afflato della tua amicizia in un’occasione che è stata veramente unica nella mia vita. Ed è vero che la gioia come i dolori hanno bisogno di eco: tanto più che la gioia si consuma in un attimo e, a differenza della vendetta, va consumata calda. Spero di vederti presto, e intanto ti saluto e ti abbraccio insieme con Mimise”.)
Nel 1960 Brandi lascia la direzione dell’Istituto Centrale del Restauro per passare all’Università. Non fu una decisione facile, ma i tempi erano maturi per un cambiamento. “Quando vinsi la cattedra di storia dell’arte a Palermo l’Istituto ormai funzionava molto bene. Ma erano stati vent’anni di reali sofferenze, problemi, discussioni. C’era stata la drammatica parentesi della guerra, il lavoro da riprendere faticosamente nel dopoguerra, ma ormai una scuola di restauratori si era creata. Potevo andarmene tranquillamente e l’insegnamento mi attirava. Ho molto amato insegnare. Smettere è stato un trauma per me. Non sono mai stato contestato, non ho mai fatto esami di gruppo, non ho mai dato voti politici. Il mio rapporto con gli allievi è sempre stato ottimo. A Palermo per esempio non ho mai avuto pressioni o noie dalla mafia. La mia opinione è che la mafia agisce su chi ha bisogna della mafia.” Ma sentiamo Elisabetta Rasy, che di Brandi fu allieva all’Università di Roma: “Il Professore, così lo chiamavamo, aveva tra altre caratteristiche molto personali, questa: di incutere uno straordinario rispetto senza che mai fosse chiamato in causa, o per così dire messo sul piatto della partita maestro-allievo, alcun principio di autorità – accademica, didattica, gerarchica […]. Proprio perché l’autorità di Brandi non aveva neanche la più lontana parentela con l’autoritarismo professorale, lui poté permettersi di continuare a tenere regolarmente i suoi corsi durante tutti i tumulti dell’anno Sessantotto, e noi allievi ci permettemmo di seguirlo regolarmente, scavalcando serenamente picchetti assemblee collettivi”. Non meno interessante la testimonianza di Ferdinando Scianna, il grande fotografo: “All’Università che non ho mai finito, ebbi incontri fondamentali. Con Cesare Brandi, per esempio. Ricordo benissimo la prima volta che andai a una lezione di Cesare Brandi. Questo grande critico d’arte che parlava un italiano elegante, nervoso, di forte accento toscano, nel buio proiettava diapositive su Masaccio […] Credo di essere rimasto con la bocca spalancata per tutto il tempo della lezione. Per la prima volta sentivo parlare di immagini in quel modo, di rapporto tra la storia e il fare artistico, tra le immagini e la società, di forma, di strutture significanti rivelate dalla forma. Finita la lezione andai dal professore e gli dissi: da qui non mi muovo più”. Il 1960 è anche l’anno di due preziosi libretti, il Ritratto di Morandi, in cui rifulgono le doti dello scrittore, e il Canaletto che ha un impianto storico-filologico, ed è noto soltanto alla cerchia degli specialisti. Soprattutto, però, è l’anno di Segno e immagine, che continua felicemente i Dialoghi sulle arti, ma abbandonando la forma dialogica per una trattazione più articolata e distesa. Ed è lo stesso Brandi a farci da guida, nella prefazione alla ristampa del 1986: “Rileggendo ora queste lontane pagine, nate da una fedeltà, tuttora mantenuta, allo schematismo trascendentale kantiano […] sento la necessità di riaffermare oltre al nome di Kant quello di Heidegger al cui lume metafisico indirizzai la Teoria generale della critica, ultimo gradino della scala che iniziò con Segno e immagine. E un altro nome, ma di artista, mi piace riaffermare, dopo che fece scandalo che ne parlassi come ne parlai più di venticinque anni orsono in questo libro: il nome di Burri, come il pittore che chiude l’arte del Novecento con la pittura di pura astanza e non di significazione”. Non è un caso allora che la monumentale monografia su Alberto Burri uscita nel 1963 sia di poco posteriore a Segno e immagine. Né sarà un caso che un libro come Le due vie, che sei anni dopo riprende e sviluppa il discorso iniziato con Segno e immagine, porti in copertina la riproduzione di un’opera di quel grande artista, quasi a sottolinearne l’aspetto problematico. Perché veramente con il saggio su Burri qualcosa è cambiato nel metodo critico di Brandi. Soprattutto è cambiato il suo approccio all’opera d’arte, che mantiene la sua autonomia formale, ma in un contesto più allargato, meno avulso dalla realtà e dalla vita.
Brandi, si sa, ai suoi libri di viaggio ci teneva particolarmente. E se ne capisce la ragione. Viaggiare, per lui, era un modo, anche fisico, di sentirsi pienamente realizzato, significava dare sfogo al suo desiderio di conoscere, inoltrarsi nel tempo oltre che nello spazio: “Quando mi sveglio ho sempre curiosità per qualche cosa, il tedium vitae io non lo conosco”. Viaggiava solo dove sapeva di poter trovare opere d’arte. La natura non era una spinta sufficiente. Ma anche se la meta privilegiata erano sempre le opere d’arte, il suo approccio cercava di restituirle per così dire nell’ambiente e nel costume della gente, evitando la specificità dello storico d’arte che si occupa e parla solo del suo oggetto di studio, ed evitando anche il gergo per gli addetti ai lavori. Nascono così libri come Pellegrino di Puglia e Verde Nilo, che sono certamente opere letterarie di alto livello, ma sono anche opere tra le più istruttive e insieme divertenti, tali da “rendere gradevolissima come un libro di avventure una materia che di solito viene convertita in faticosi mattoni” (Dino Buzzati).
Infine, come abbiamo avuto già occasione di notare, ci sono le lettere, la cui importanza non è secondaria, proprio in quanto registrano i fatti, anche i più piccoli e apparentemente insignificanti, e ne scandiscono l’anno, il mese, il giorno. Sono quasi tutte di Brandi: e da sole valgono come un’autobiografia.
Da Cesare Brandi a Luigi Magnani:
Roma, 17.II.61
“Caro Gino, non ti ho più scritto nulla sulla Spagna, perché nel frattempo sono accaduti alcuni fatti che mi hanno sconsigliato di muovermi. Il primo di questi fatti è che il concorso per Palermo si è svolto come s’immaginava. Sono risultato primo assoluto, con gli altri due a grande distanza, Martinelli e Carli e cioè solo a maggioranza. Quello che invece nessuno immaginava è la resistenza del Ministro a lasciarmi all’Istituto […]. Non credevo che ci fosse nessuno che potesse disconoscere quello che avevo fatto per l’Istituto: questa persona si è trovata nella persona di un Ministro ottuso e taccagno, ma sempre Ministro, e quindi arbitro in questo caso. Così il piacere della vittoria si è trasformato in amarezza: non ultima, quella di dover lasciare la casa.”
Da Cesare Brandi a Giorgio Morandi:
Roma, 30.X.61
“Carissimo Morandi […] la mia casa attuale è in Via del Pellegrino 67 (Tel. 651.364), vicinissimo alla Cancelleria, e dunque nella Roma vecchia e assai centrale. A me piacciono le case vecchie, per abitarci, anche se ammiro i grattacieli di Mies Van des Rohe. E questa è una casa vecchia, un po’ rimodernata, dove i suoi quadri brillano come gemme, assai più in luce che in quella bella e umidissima e oscurissima casa di prima. Non tutti, poiché il paesaggio grande verrà con me a Vignano e perciò non l’ho appeso. (Le faccio poi sapere che la Cesarina, a Roma, non è più la stessa: ossia lei è sempre più grassa, un vero transatlantico – è il nome del Restaurant – ma alle cose che si mangia, ci manca quel sapore particolare… Peccato!)”
Da Cesare Brandi a Vittorio Rubiu:
Palermo, 5.V.62
“Carissimo Vittorio, qua il tempo è al solito freddino, ventoso, nuvoloso: niente bagni e niente mare. Lavoro molto, ho finito la conferenza sulla tutela dei centri storici, e, adattata a Palermo, la reciterò giovedì sera alla Facoltà di Architettura […]. Qui la mia sola consolazione sono le fragole e gli asparagi selvatici, amari come il veleno. Stasera dobbiamo andare a provare una nuova trattoria a Bagheria: domani a Monreale a sentire – che noia! – la Seconda di Mahler. Ma Rognoni è un tifoso di Mahler e bisogna adattarsi… Ho visto Non uccidere e ho pianto come una vite tagliata: film bellissimo, assai superiore all’attesa.”
Da Gianfranco Contini a Cesare Brandi:
8.VII.62
“Da Domodossola ti mandiamo un ricordo affettuoso e un ringraziamento (anche tecnico-culinario) per la mirabile recidiva dell’agape vignanese.”
Da Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi:
Roma, 5.I.63
“Carissimo Cesare, non devi assolutamente preoccuparti: la pressione a 185 è un po’ alta ma, alla nostra età, è ancora normale; e la rapidità con cui ti sei ripreso dal malessere cardiaco dimostra che non c’è lesione, ma soltanto spasmo. Certo, dovrai, nei primi tempi, seguire una dieta noiosa: poco sale, soprattutto, e poco o niente alcool. Ma è escluso che ci sia qualcosa di serio; e io ti consiglierei, appena il medico te lo consentirà, di venire a Roma dove hai amici che ti distrarranno dai brutti pensieri […]. Quello che hai avuto, come quello che ho avuto io, sono avvisi che non abbiamo più trent’anni, nient’altro; e sono quasi provvidenziali perché consigliano la prudenza. A Roma, vedrai prima Condorelli per l’esame specifico del cuore; e poi, se lo vorrai, Frugoni (Palma ti otterrà l’appuntamento nel giro di pochi giorni) […]. Ora senti, Cesare: devi riguardarti, si capisce; ma appena te la senti e te lo permettono, lascia Vignano dove la solitudine, la campagna (e lo spazio dell’infanzia) ti mettono in codesta malinconia del ‘ritorno nel grembo’. Qui starai meglio, te lo assicuro. Avrei voluto scriverti più a lungo, ma devo correre via. A presto, caro; ci rimangono, credi, varie cose da fare insieme. Ti abbraccia forte il tuo Carlo.”
Da Cesare Brandi a Vittorio Rubiu:
Palermo, 20.II.64
“Caro Vittorio, credo che ormai sarai tornato dal tuo viaggio torinese: io invece sono qua da trentacinque giorni. In fondo non sto male, ma i giorni sono lunghissimi. Poi, fino a ieri il tempo era stupendo: venti gradi, via il cappotto, via il pullover. Ora è ancora caldo, ma piove come piove al Sud, improvvise sferzate, poi brontolii, poi vento, poi di nuovo pioggia. Ho ricevuto una lettera da Burri che agogna di ritornare via, e mi dà ragione di non andare in America. Quest’altr’anno, mi dice, ci torniamo insieme. Allinea tutti i difetti del libro, che meriterebbe che non gli fosse stato fatto, da quanto esagera. Ma dice che lavora tanto, anche se è oltrecorrente (è la sua espressione). In fondo c’era una poesia di Minsa. Il Fernando dovrà venire in Italia, a Bari, collo Sciascia perché dovrebbero fare insieme un libro per Laterza, sulla Sicilia: e allora farebbe una puntata a Roma. Ma deve studiare, e lo vedo poco.”
San Paolo, 29.VIII.65
“Caro Vittorio, ti scrivo oggi che è domenica e ho finito di sistemare la sezione italiana alla Biennale, che è stata una grossa fatica, in piedi dalla mattina alla sera. La sala di Burri è venuta magnifica; ma io ho poche speranze, perché, per il Gran Premio, occorrono i 9/10 e siamo in 20! I rivali più forti sono due, Vasarely e Pasmore. D’altronde le plastiche incontrano le solite, note resistenze […]. San Paolo è una città orrida, dove un furgone celeste ha scaricato centinaia di grattacieli in una volta sola. Quelli si sono raddrizzati ma sono rimasti dove furono messi: è un’urbanistica inimmaginabile, perché le strade sono in genere diritte ma i grattacieli sono in tutte le direzioni, come mossi dal vento. L’unica cosa bella sono le piante, e il clima. Le piante sono inattese, splendide, fiorite, in questo strano inverno che è come il giugno a Roma: e non si mangia male. L’abacate è una specie di curioso popone verde prodotto da un albero che non ho ancora visto: mangiato con l’aceto è un unguento, ma non sgradevole; mangiato con lo zucchero e il limone è una crema verde squisita. La papaia sembra ancora un popone, un po’ sciapo, ma con sottili aromi interni, nel senso che non si avvertono alla prima, ma si scoprono assaporando. A colazione è ottima. Poi c’è il pesce abbastanza buono e anche la carne è discreta. Alle verdure bisogna premettere i deliziosi palmitos: cuori di palma che ogni volta costano la vita a una pianta. Non so quanto potranno durare con questo sperpero: è certo che sono meravigliosi, un po’ come i fondi di carciofo […].”
Palermo, 1.XII.65
“Caro Vittorio, il viaggio da Napoli fu quasi un disastro, mai avevo fatto un viaggio peggiore… Poi, nei pressi di Palermo, la calma, il sole, il caldo. Sono ancora senza impermeabile, e le sere sono dolcissime. Anche questo è qualcosa. La tesi di Russo è andata in modo trionfale (110 e lode e pubblicazione): così come quella della fidanzata. Poi oggi ho cominciato le lezioni strutturaliste. Stasera andremo a cena, Rognoni e io, con Russo e la fidanzata: domani sera da Buttitta: venerdì a colazione da Ugo Dall’Ara. Il Festival va avanti, e vedi un po’ che alla fine la Minsa si trasferirà a Palermo, invece che a Los Angeles. Ricevuto lettera in stile telegrafico e quasi disperato da Burri: non ce la fa a stare là senza amici, non ce la fa a lavorare […].”
Palermo 4.V.66
“Carissimo Vittorio, ti puoi facilmente immaginare il piacere che mi ha fatto la tua lettera, dopo la lettura delle mie Due vie, che conoscevi troppo a pezzi e bocconi per poterne avere una visione d’insieme. Ora puoi capire meglio perché ci tenga tanto a questo libro e perché mi affliggesse, oltre che offendermi, la vicenda editoriale […]. Veniamo ora alle notizie. Intanto una telefonata da Lisbona, per cui attesi tre ore, che mi sposta le due conferenze al 20 e al 23 maggio. C’è poi una novità poco gradita. Un po’ preoccupato del mio piede gonfio, mi son fatto vedere… Niente di grave, in sé, una ciste (non un tumore! Era la mia paura) composta da un piccolo versamento: ora tutti i giorni devo andare a farmi estrarre il liquido e a farmi fare un’iniezione di idrocortisone. Avrai ricevuto la cartolina da Cefalù, dove andai con Tony e feci anche il bagno: il sole era splendido e la temperatura dell’acqua del mare sopportabile, per un tuffo naturalmente. Del resto il tempo qua è già estivo, devo stare con la finestra aperta e sono, quindi, sommerso da un maledetto giradischi a pieno volume, ahimè!…”
Procida, 22.VIII.66
“Vittorio, si è prodotto un fatto che ancora mi lascia incredulo, anche se mi dà sprazzi di gioia quasi disperata, perché la cosa in sé è incredibile. E finirà, finirà, il 28 agosto, se non prima. Un capriccio, certamente, oltre ad altre ragioni ben più prosaiche. Ma davvero questa vicinanza nuova, il chiarore d’un’alba giovane come la prima alba della terra. Ma non sono innamorato (sarebbe un guaio) è solo come quando, per errore, a novembre, un raggio imprudente di sole, fioriscono i peri. Questo vecchio albero è fiorito. Sta tutto qui. In quanto alla situazione procidana, i Calvesi sono partiti, come sai, il Tacchi partirà domani, Plinio si è rotto un dito ed è a Napoli con Ciro a farsi radiografare. Il Ceroli, premuto con soldi e telegrammi ha telefonato che arriverà il 27, un giorno prima che Plinio parta!… In compenso abbiamo acquistato Rotella (anch’egli chiede di te) che è un buffo tipo che fringuella canti fonetici assai curiosi: vera nuova musica in fumetti. Mi sembra di non aver dimenticato nulla: a parte che il motore è al solito in ospedale e domattina lo riprenderò. Naturalmente non avevo visto il ‘Corriere’ del 15: suppongo, dalle tue parole, che ci fosse il mio Donatello. Al quale, ogni giorno, per due ore, sono legato con una catena abbastanza ingrata. Poi alle 8 ricevo la visita incredibile…”
Da Libero De Libero a Cesare Brandi:
Roma, 22.IV.68
“Carissimo, il vocativo non è d’occasione. Credimi. D’altronde, se si continuasse a vedersi con più frequenza, me la caverei con una telefonata, e non ti direi che sei tra quei pochissimi che leggo nel ‘Corriere’: eppoi, dopo la scomparsa del nostro dilettissimo Cecchi, quali? Lasciamo andare. E per questi tuoi scritti in S.O.S. per la salvezza dei nostri monumenti, ogni volta è la buona per esserti grato; e non soltanto io, certo. Stamattina, però, non t’ho fatto gran festa per ‘L’Efebo di Selinunte’ (che stupidi a non pubblicare nella pagina una bella fotografia!). Davvero stupendo… ma da stupire più che essere bello, e attivante in questi tempi di magra, ovvero tutto da ammirare… be’, non sono uno specialista né un recensore. È vero soltanto che sono un lettore gratissimo, e basta così. Buon lavoro; affettuosamente, Libero.”
Da Renato Guttuso a Cesare Brandi:
Amburgo, 2.VII.68
“Caro Cesare, noi non ci vediamo mai e a volte non posso fare a meno di pensare che tra noi scorra qualche oscuro malinteso imprecisabile. Tuttavia so bene che siamo amici e sempre quando, semel in anno, accade di incontrarci ritroviamo qualcosa dell’antico calore della nostra amicizia. Ti scrivo ora per dirti che ho letto il tuo Rileggendo Foucault sul ‘Corriere’ (qua ad Amburgo dove sono gastdozent, ma già alla fine del corso). Debbo dirti che non avevo finora letto niente di più giusto, di più preciso, di più condensato delle tue considerazioni sul movimento degli studenti. Condivido questo tuo scritto, parola per parola, e ne sono felice. È come ritrovarsi bene, in un vero nuovo incontro con te. Se ne sono lette tante, in questi giorni, sulla rivolta studentesca, a diritto e a rovescio. Da poeti, scrittori, saggisti, politici. Posizioni stravaganti, paurose, strumentali, ciniche, meschine ecc. L’avere colto con tanta esattezza l’essenza della questione è un grande merito tuo…”
Da Cesare Brandi a Renato Guttuso:
Roma, 7.VII.68
“Caro Renato, un grandissimo piacere mi ha fatto la tua lettera, così inattesa. Quell’articolo lo scrissi di getto, all’improvviso, e lo mandai al ‘Corriere’, sicuro che non me l’avrebbero stampato. Invece l’ha pubblicato e per di più ha riscosso un consenso che davvero mi lusinga. Io ho vissuto molto dolorosamente la vicenda universitaria e, come saprai, non ho esitato a guastarmi con i D’Avack, che pure volevano festeggiarmi, perché l’inconsulto ricorso alla polizia doveva essere respinto nel più netto dei modi. L’articolo del ‘Corriere’ era quella aperta dichiarazione, con tutti i rischi di errore che comporta, a suggello di un atteggiamento, che forse nella fatua società romana fece scandalo. La bella franchezza della tua lettera merita una risposta a tutti i suoi punti. Il silenzio fra noi: è inevitabile, dopo trent’anni di amicizia fra due persone nettamente differenziate, che si producano delle pause. Sinceramente, preferisco una pausa di silenzio a uno scontro sgradevole. Nessuno è perfetto e tutti si sbaglia: né mi piace pormi sul podio del censore infallibile. Così quando le tue cose mi piacciono, lo dico, quando mi piacciono meno o non mi piacciono affatto taccio. Ma io so che c’è una carica vitale in te, che non si esaurisce: ogni tanto tocchi terra, e per te forse consiste nel toccare il fondo, ma ti fa bene lo stesso e riprendi forza. Certo ti nuoce l’indiscriminato favore con cui a occhi chiusi ti accolgono certi tuoi amici: ma tu sei più saggio di loro. Questa stima di fondo e questa fiducia nelle tue possibilità tutt’altro che esaurite, era quello che voglio dirti a suggello d’un silenzio e ad apertura nuova. Le tue caute osservazioni su Foucault mi hanno molto interessato; sei l’unico fra gli artisti, che conservi ancora queste curiosità, questi slanci verso il nuovo; ora i giovani sono ignoranti come zucche, e si vantano di esserlo. Dunque, caro Renato, non è che io accetti in blocco Foucault, non è che l’accettazione del concetto di episteme porti alla negazione totale della dialetticità della storia. Episteme e dialetticità sono concetti in opposizione, eppure indispensabili per capire la storia. Non deve scandalizzare questo sinecismo di concetti antinomici: siamo nell’epoca dell’indeterminazione, nell’epoca in cui gli scienziati non si scandalizzano di dover utilizzare due ipotesi contraddittorie sulla natura della luce — l’ipotesi ondulatoria, l’ipotesi corpuscolare — e dunque, se non si vuole bendarsi di fronte alla storia, bisogna pure riconoscere che avvengono dei cambiamenti di direzione radicali e immediati senza che si possa stabilire un rapporto di causa ed effetto del tutto univoco. Concause, certo, ma non una causa unica ed efficiente. […] Il merito di Foucault è stato di porsi chiaramente al centro del problema. Spero di essere stato chiaro, nei limiti e nell’apertura alle idee di Foucault. Oh certo non è una nuova episteme quella che s’è prodotta in Francia. Là le cause sono limpide come l’acqua di fonte: voglio dire, certo, la reazione oscurantista, quietista, di fronte alla bandiera nera degli studenti. Sono sicuro, caro Renato, che dopo questo scambio di lettere ci ritroveremo molto facilmente. Starò a Procida dal 20 luglio al 30 agosto, e poi a Vignano in settembre e ottobre. Felice di vederti là se vorrai venire con Mimise, alla quale, insieme a te, invio un abbraccio affettuoso, Cesare.”
Da Cesare Brandi a Luigi Magnani:
Roma, 1.IX.68
“Caro Gino, quando ho ricevuto la tua lettera stavo vivacchiando a Procida, con un tempo incostante, ma dentro di me sostanzialmente sereno. Si è ora abbattuta su di noi amici, e parlo anche degli altri perché la cosa ha colpito intensamente, il dispiacere grandissimo del grave, temo mortale, incidente che ha travolto Pino Pascali, appunto travolto da un automobile. È in coma, né so se scamperà, né so, se scamperà, come starà dopo. In questi ultimi mesi non si è avuto molto tempo per parlare degli artisti nuovi, e quindi il nome di Pino, soprattutto se non hai letto la presentazione che gli feci alla Galleria Iolas di Milano, a te non dirà niente. Ma era un amico valido e impetuoso, a suo modo affezionato: ed era stato a Procida con me e Vittorio fino a quattro giorni fa. Siamo tornati ieri, sotto il colpo della notizia: e praticamente si vive all’ospedale, questi primi ansiosissimi giorni. Ma stasera non ho quasi più speranza […]. Da questa disgrazia di Pascali tutto il mio programma è alterato: ma il 6 devo essere a Berna e prima vorrei passare da Bologna per vedere questa grossa zuppa del Guercino. Poi andrei a Vignano. Non verresti a trovarmi? Lo sai quanto sarei lieto. Ora ti abbraccio, Cesare.”
Da Giulia Mafai a Cesare Brandi:
Roma, 15.III.69
“Caro Brandi, seguo sempre con grande piacere e grande interesse i suoi scritti; il suo ultimo articolo su Mafai così acuto, obbiettivo e senza falsi sentimentalismi mi ha profondamente colpito e commosso. Io sono sinceramente convinta dell’arte di Mafai e sono sicura che passate le mode e le tempeste la buona pittura tornerà al suo posto, così come lei ha previsto nel suo scritto di critico sensibile e di vero grande amico di mio padre.”
Da Cesare Brandi a Luigi Magnani:
Roma 29 settembre 1969
“Caro Gino […]. Le mie vacanze sono state molto tranquille: a Procida per tutto agosto, e, devo dire, molto bene. Poi a Vignano: ma ora devo muovermi per tutta la prima metà di Ottobre. Il 2 andrò a Genova, poi dal 9 all’11 sarò a Roma per una noiosa commissione: subito dopo a Milano, Venezia, Trieste. La causa di questi spostamenti è uno scritto che ho accettato di fare per l’Italsider, sulle città dove opera, ma senza che debba essere un inno all’Italsider. Questi pezzi che dedico alle città, senza altra preoccupazione della scrittura, mi divertono, come già mi divertì scrivere Martinafranca.”
Gli anni Settanta si aprono con una serie di libri che hanno in comune il fatto di presentarsi come una raccolta di testi, di cui solo alcuni inediti, insieme ad altri già usciti in occasioni e in tempi diversi. È il caso di Morandi lungo il cammino (finalista al Premio Estense), di La prima architettura barocca, e di Struttura e architettura, la cui seconda edizione del 1971 è opportunamente integrata con gli ultimi scritti.
A passo d’uomo appartiene invece alla serie dei racconti di viaggio; e anche qui si tratta di testi in parte inediti, in parte apparsi su settimanali o quotidiani, o in edizioni fuori commercio. Seguiranno, nel 1973, Budda sorride, dedicato al Giappone, “questo popolo di formiche operaie”, il meno amato, forse, da Brandi; e Persia mirabile, che in realtà è un doppio viaggio, il primo in Persia, con tappe a Teheran, Persepoli, Isfahan, Shiraz, e il secondo in India, organizzato da Fabio Sargentini, a cui si deve anche il più bel ritratto dal vivo di Brandi: “Un gesto, un gesto in particolare, gli ho visto ripetere, inconscio, davanti alla primizia, alla novità del bello, sia esso opera d’arte o spettacolo naturale. Un gesto che l’occhio fotografico non può cogliere, soltanto l’occhio umano può, e infatti si è impresso nella mia memoria come una foto […]. E quale era questo gesto? Era come uno stringere le labbra e umettarsele, come se il Professore, di fronte alla novità del bello, avesse l’acquolina in bocca, assaporasse questo oggetto, quest’opera, l’assaporasse fisicamente, sensualmente, e cioè la percezione passasse anche attraverso questo senso, questo senso labiale”. Quanto agli Scritti sull’arte contemporanea, che Brandi ha raccolto in due volumi, nel 1976 e nel 1979, si potrebbe dire che sono un po’ come la sua biografia: e proprio perché in essi si rispecchia, come in un diario, la vitalità stessa di un pensiero critico via via che si delineava, giorno dopo giorno, sulle pagine di settimanali e quotidiani, non meno che in saggi e monografie (l’ultima, su Afro, è del 1977). Pochi lo sanno, ma il libro che Brandi considerava più riuscito è la Teoria generale della critica del 1974. Certo, qui è il filosofo che parla, anche se Brandi lo era a modo suo. “Un libro – rilievo tutt’altro che estrinseco o marginale – dove a un’indagine ad alto gradiente estetico e filosofico”, sostiene Massimo Carboni che ne ha curato la seconda edizione, “si affianca il riferimento mai semplicemente didascalico-esemplificativo a un panorama artistico contemporaneo di prima scelta: da Burri a Cage, dagli happenings al Living Theatre.” Ha scritto Eugenio Montale che nella Teoria “l’erudizione e la finezza del gusto dominano una materia che non potrebbe essere più complessa e fermentante […] un’opera che è una sintesi e insieme un’apertura […] un libro di grande onestà intellettuale”. Un riconoscimento importante, che Brandi, legatissimo al poeta, avrà sicuramente gradito.
Il 1975 è l’anno di A tu per tu con l’opera d’arte, un ciclo di 13 trasmissioni televisive in onda settimanalmente dal 20 marzo al 12 agosto. Il programma di Franco Simongini – dedicato all’illustrazione di tredici capolavori dell’arte italiana dall’Alto Medioevo fino a Burri – aggiunge alla fama e alla figura di Brandi un carattere colloquiale e domestico, quasi una popolarità. La trasmissione ottenne infatti un grande successo (venne anche replicata) e furono in molti ad apprezzarne la chiarezza espositiva. E appare quasi incredibile che uno dei critici più tenacemente fedeli a una terminologia esclusiva e talora di personale conio com’è appunto Brandi, sia diventato un esempio (televisivo, per giunta) di comprensibilità e di chiarezza.
1977. Vince il Premio Viareggio per la saggistica con gli Scritti sull’arte contemporanea.
Il 14 dicembre 1978 tiene il Discorso per i 70 anni di Giacomo Manzù a Roma, in Campidoglio.
1980. Pubblica il Disegno della pittura italiana. “Quest’ultimo mio libro è scritto in modo non accademico, per persone colte, non per gli addetti ai lavori. Ho voluto dargli un taglio diverso, ossia un libro che desse un’informazione generale, per certe determinate epoche, sull’argomento, ma poi offrisse una lettura di opere particolarmente importanti in quel momento. Ho voluto trasferire in un libro l’esperienza di letture fatte ai miei studenti, di opere singole con visite guidate che avevano suscitato un grande interesse.”
L’8 aprile 1981 Brandi compie settantacinque anni, ma è ancora attivissimo, oggi qui, domani là. Né ha perso lo spirito caustico e pungente; anzi, ne ha per tutti, e non risparmia nemmeno se stesso. Scrive a Magnani: “Carissimo Gino, ho ricevuto le splendide saporitissime mele, giunte in perfetto stato: te ne sono infinitamente grato. E come va la faccenda della tua vista? Io spero che, dopo il primo allarme, le cose vadano meglio. Spesso i medici, per una ragione o per l’altra, esagerano […]. Io resterò a Vignano fino al 18 ottobre: dopo vado a Roma, perché il 20 devo parlare ai Lincei sul Peruzzi: il 22 poi devo essere a Messina per questa inutile Mostra di Antonello: è mai possibile che, a distanza di venti anni, si ripeta, nello stesso luogo, la stessa mostra con gli stessi quadri? A questo porta la presuntuosa, stupida autonomia dell’isola, che non ha fruttato niente di buono. Poi tornerò a Vignano per i Santi e per i Morti, ma resterò poco. Sarei dovuto andare a Londra il 4 Nov. per la Mostra dei Gonzaga, insieme a Ilaria Toesca: ma non ho alcuna voglia di andarci. Si risolverebbe in due giorni di parata, che non mi allettano affatto, con quei bambocci di Carlo e Diana, il ricevimento dell’ambasciata e altre banalità, con in più, la noia dell’abito da sera che non so neanche più se mi stia ancora”.
Il 12 settembre muore Eugenio Montale, e Brandi, insieme ad altri, lo ricorda sul “Corriere della Sera”: “La nostra amicizia co minciò alle Giubbe Rosse. Mi presentò a lui Gianna Manzini. Io non ero nessuno, appena laureato in lettere. Montale era già notissimo e rispettato: burbero e affabile, fu aperto come un cielo nuvoloso con tante schiarite. Poi ci siamo rivisti, non solo a Firenze, ma a Roma, a Milano, dove andavo a trovarlo al ‘Corriere’, in quel bugigattolo in cui stava come in un nido. Quando gli dedicai il fascicolo dell’‘Immagine’, lo ebbi ospite a Roma, e a Roma, a Firenze, a Procida cantavamo insieme dei duetti verdiani, nei rari duetti fra tenore e baritono o basso. Amava cantare da basso, con una voce atona e cavernosa scendeva fino allo Sparafucile del Rigoletto. Sono ricordi tumultuosi e amari. Era l’unico poeta italiano che amassi dal profondo, quasi incredulo che fosse mio amico, che potessi, come pochi altri intimi, chiamarlo Eusebio. Ancora non riesco a rassegnarmi. Da Leopardi, il più grande poeta italiano”.
Intanto gli anni passano, anche se a Brandi sembrano non pesare. “Se dovessi dire, io non me ne ricordo d’essere vecchio; forse la mia forza sta in questo: che non me ne ricordo. Di una frase di uno scrittore che amo molto, Gide, ho fatto uno slogan di vita. Scriveva Gide, alla soglia degli ottant’anni: mi sembra impossibile avere ora l’età delle persone che mi parevano tanto vecchie quando io ero giovane.”
Brandi forse presumeva troppo da se stesso; e però la prudenza gli consigliò di vendere la casa a picco sul mare, a Procida, e di passare l’estate a Siena, nella campagna di Vignano.
La salute, infatti, cominciava a vacillare. Nell’aprile del 1982 un attacco di gotta lo tiene immobilizzato a letto per qualche giorno, ma non gli impedisce, ancora sofferente, di andare a Venezia per la mostra di Guttuso a Palazzo Grassi, e pronunciare il discorso d’inaugurazione. Nel giugno dello stesso anno viene operato per un ematoma alla testa, conseguenza di una brutta aggressione subita qualche mese prima a Palermo. Ma a settembre sta già molto meglio e si rimette al lavoro. Nel frattempo è uscito il Diario cinese, e non gli resta, come ultimo desiderio, che andare a Samarcanda, per vedere la civiltà mongola dei tempi di Gengis Khan. Del viaggio in Cina, in un’intervista, si mostra comunque appagato: “mi ha permesso di soddisfare due passioni insieme: oltre a visitare un paese bellissimo, carico di storia, mi ha fatto desiderare, costantemente, il momento di andare a tavola, la felicità del mangiare, sempre diverso e sempre uguale, un mangiare saporito e leggero, che non lasciava mai uno strascico in bocca, o un ricordo importuno di ciò che uno aveva mangiato”.
Nel 1983 esce il Giotto, anche se il libro era già pronto da due anni, come risulta da una lettera inviata alla signora De Battisti, della casa editrice Mondadori: “Di ritorno dalla campagna, Le inoltro il sudato manoscritto del Giotto, che ho composto tenendo presente i ‘modelli’ che Lei mi ha inviato, e cioè evitando nel testo note a pie’ di pagina e digressioni erudite, così che il libro possa essere letto agevolmente anche da persone che non sono del mestiere”.
1985. Si diceva della salute, che vacillava. Ai primi di gennaio Brandi subisce l’amputazione di una gamba, causatagli dall’occlusione dell’arteria femorale. (Irascibile, incredibilmente impaziente nelle piccole cose, nelle grandi sviluppava un’incomparabile capacità di adattamento e di sopportazione. Costretto – lui, così vitale – su una sedia a rotelle, mai una volta l’ho sentito lamentarsi. Talché, parlandone con mia moglie, qualche tempo dopo l’operazione, siamo arrivati al punto di dubitare che si fosse reso conto della disgrazia: più semplicemente l’aveva come rimossa.)
8 aprile 1986. Il Comune di Siena festeggia i suoi 80 anni con una cerimonia semplice e affettuosa, alla quale prendono parte Alberto Arbasino, Giulio Carlo Argan e Roberto Barzanti. Tra il pubblico, ad ascoltare i discorsi, Giacomo Manzù e Giovanni Urbani. Poi Brandi ringrazia: ed è il momento più commovente della serata.
Lo stesso giorno esce, a mia cura, Umbria vera, che Brandi ha voluto introdurre con un suo breve scritto, forse il suo ultimo: “Il mio amore per l’Umbria cominciò tantissimi anni or sono, quando feci un piccolo e povero viaggio in treno e in autobus, per vedere Montefalco e Bevagna, e altri piccoli e squisiti luoghi di questo straordinario paese come trapunto di perle. Avevo con me, per il viaggio, un libro che allora puzzava di zolfo, L’Immoraliste di Gide, e si sposò benissimo a quella campagna che è sorella gemella della Toscana e dove appena l’arsura è minore che in Toscana”.
Gennaio 1987. Gli Editori Riuniti pubblicano Aria di Siena, a cura di Roberto Barzanti: “Autobiografia e ricordo di perdute atmosfere, evocazioni di amicizie e personalità stanno accanto a notazioni ambientali, a recensioni di mostre, ad analisi dei risultati di un restauro o di un prodotto urbanistico”. Il libro, uscito a gennaio, voleva essere di buon augurio per il nuovo anno. Ma ormai Brandi s’era come ammutolito, e se ne stava tutto rannicchiato sulla sua poltrona a rotelle, immobile, lo sguardo fisso nel vuoto. Una sera, era la vigilia di Natale, mi chiamò solo per dirmi, “non so più cosa pensare”. E poi, mezz’ora dopo, con un filo di voce, “questa attesa senza fine”. Ma sino all’ultimo non perse quella “precisione e calore di lingua” che Pasolini gli riconobbe in anni lontani.
Cesare Brandi muore a Siena, nella sua casa di Vignano, nel primo pomeriggio del 19 gennaio 1988. La tomba è nella cappella di famiglia, a Vignano. Sulla lapide, la scritta: “E anch’io amo quest’urna, e sebbene non abiti più a Siena, i miei affetti, quasi tutti morti, sono ancora là: e i miei sogni, quando sogno. Il figlio adottivo Vittorio Rubiu in memoriam”.