Non appena entrammo nel mio ufficio al terzo piano cominciai a scansare dalla scrivania tutte le carte che potevo, ma presto mi rassegnai al fatto che erano troppe per renderla presentabile, tanto più se ai documenti si aggiungevano due pacchetti di sigarette vuoti, il cartone di un pranzo d’asporto che non ricordavo di avere consumato, un cubo di Rubik lasciato a metà e con la maggior parte degli adesivi già staccati, e quattro tazze da tè con la muffa.
Mi schiarii la voce per l’imbarazzo e spiegai che era stata una settimana densa di impegni.
«Non mi aspettavo di avere ospiti.»
Lei, educata, fece cenno che non importava, ma non riuscì a mascherare un certo disgusto e fece scorrere lo sguardo sulle pile traballanti di scatole di cartone, gli scaffali disorganizzati e zeppi di volumi e il malconcio contenitore della parrucca, quello che gli avvocati chiamano “scatola dei biscotti”.
«Bel fedora» commentò mentre aggiungevo il mio cappello al disordine. «Fa molto Chinatown.»
«Grazie» mormorai, ma più che da Chinatown mi sentivo uscito da Ironweed. «È un po’ giovane per ricordarselo, no?»
Lei fece spallucce e si sistemò la giacca, che le stava larga di spalle.
Mentre mi sedevo, mi resi conto di colpo di due cose: primo, ero abituato a un genere diversissimo di colloquio, quello che coinvolge l’avvocato e il presunto furfante, e non sapevo che cosa dire, né da dove cominciare; secondo, le condizioni in cui versava il mio ufficio mi imbarazzavano, come un ministro beccato con del materiale pornografico. Raddrizzai un po’ la schiena, lisciandomi la camicia che tirava sulla pancia. Nell’ambiente degli studi legali – come ovunque, del resto – è pieno di gente pronta ad abusare delle speranze delle giovani candidate praticanti. Lo so perché certi predatori li ho difesi io stesso, e ne avevo la disgustosa consapevolezza già prima che cominciassimo.
«Quindi» esordii, girandomi i pollici, «che cosa…»
«Porca puttana!»
Cercò letteralmente di acchiappare le sue parole prima che mi raggiungessero, tappandosi la bocca con la mano. Calò un silenzio nel quale di sicuro avevamo entrambi la stessa aria sbigottita.
«Mi scusi! Mi scusi davvero, ma è autentico?»
Seguii il suo sguardo fino alla copertina di un libro in bella vista sullo scaffale più alto, vi si scorgevano il titolo e l’illustrazione di un ramo ormai sbiadita. In pochi, tra i clienti che avevo ricevuto in ufficio, si erano accorti della sua presenza, e a quanto ricordavo nessuno ne aveva riconosciuto il valore.
«Posso?» chiese la ragazza, che si alzò e andò a prendere il volume.
Sfiorò con due dita la costa e il retro con la foto di Harper Lee scattata da Truman Capote, come avevo fatto io subito dopo aver tolto la busta protettiva, la mattina in cui avevo superato l’esame di abilitazione; poi lo ripose con cura sullo scaffale.
«Lo sa che di questa prima edizione hanno stampato tipo cinquemila copie?»
«L’ho sentito dire.»
Fischiò. «Dev’essere stato un bell’impegno accaparrarselo!»
Avvertii una fitta tra le costole. Sentii che il mio pollice sinistro mi tradiva come sempre, e istintivamente andava a tastare l’inutile anello d’oro tre dita più in là. «Lei che cosa sa di Miller e Stubbs, Miss Barnes?»
Si sedette lentamente davanti a me, si preparò e recitò la risposta che aveva provato e riprovato.
«È il più importante studio di penalisti londinese. Ci lavorano quattro Queen’s Counsels – lei compreso – e oltre quaranta juniors. Ha clienti in tutta la nazione. Direi che è il massimo.»
«Ha puntato in alto.»
«Ha senso mirare più in basso?»
Non era maleducata, ma sveglia, e mi faceva sentire a mio agio, tanto che le risposi a tono.
«Innanzitutto, mettere piede in qualsiasi altro studio del Paese sarebbe più facile. La vita le costerebbe di meno, se la dovessero assumere. Entri in uno studio come questo, nel cuore degli Inns, e dirà addio a mezzo stipendio soltanto per l’affitto e le spese.»
Annuì assorta, con le guance illuminate dalla luce obliqua della finestra.
«Immagino che lei ambisca a diventare avvocato patrocinatore.»
Annuì di nuovo. «Voglio aiutare chi non ha il potere di difendersi da sé.»
«Anch’io, una volta, ma saprà bene che gli avvocati rispettano la cab-rank rule: come i tassisti, accettiamo il primo caso che arriva, a prescindere dal reato, ed è raro che siamo noi a poter scegliere. Ciò, inevitabilmente, riguarda sia l’accusa che la difesa. I casi ci arrivano dai procuratori tramite gli assistenti. Di tanto in tanto capita che un cliente faccia espressamente richiesta di un certo avvocato, ma il più delle volte il procuratore rimette la decisione all’assistente. Rifiutiamo un caso soltanto se siamo già impegnati, o se lo consideriamo troppo complesso o non all’altezza del nostro prestigio. Posso vedere il suo CV?» chiesi, allungando una mano.
Visto quanto impiegò a estrarlo dal disordine della sua sacca di tela mi aspettavo un fascicolo stropicciato; invece mi sorprese sfoderando la cartellina rigida che lo proteggeva.
Mi appoggiai allo schienale della poltroncina e diedi una scorsa ai paragrafi ordinati. «Laurea in giurisprudenza a Hull?»
«Sì.»
«E lei viene da?»
«Nottingham.»
«Che zona?»
«St Ann’s» mormorò, e l’imbarazzo le fece avvampare le guance. «È un sobborgo vicino al centro. La capitale inglese delle armi da fuoco, dicono!» Una risata esile, tremula, non riuscì a cancellarle il rossore dalla faccia.
«Insieme al quartiere dei Meadows dietro l’angolo, o sbaglio?»
Inclinò la testa. «Ehm, sì, proprio così. La maggior parte della gente non l’ha mai nemmeno sentito nominare…»
«Io non sono la maggior parte della gente» dissi, e andai avanti a leggere.
Non era sempre stata la capitale delle armi da fuoco. Non quando ci sono nato io: all’epoca era un ammasso di tuguri senza acqua calda.
«Diploma di laurea piuttosto ordinario, direi, ma vedo che era brava nei dibattiti. Non sapevo nemmeno che a Hull esistesse un circolo dei dibattiti.»
«Huddle University Debate Society» disse lei, fiera. «Ho vinto anche il torneo interuniversitario del Middle Temple.»
«Anch’io» ribattei orgoglioso prima di notare, con un sussulto che mi ridiede lucidità, che sul curriculum diceva di avere ventiquattro anni. Io quel premio l’avevo vinto prima ancora che lei nascesse. «Questo sarebbe il suo secondo semestre, giusto?»
«Ehm… non esattamente.» Si pizzicò il nylon smagliato sulle ginocchia.
«Ah.»
Tra il giorno dell’esame di abilitazione e quello in cui si può definire junior barrister, un avvocato deve esercitare almeno un anno di praticantato diviso in due periodi da sei mesi, alla fine del quale, se è bravo, solitamente gli viene offerto di rimanere nello studio in cui l’ha svolto.
«Tecnicamente sarebbe il terzo. Durante i primi sei mesi sono stata l’ombra di Roger Walsh al King Edward, e nel secondo semestre, sempre con Walsh, ho imparato a seguire da sola le cause al tribunale civile, a presentare semplici richieste di libertà su cauzione e di patteggiamento, e ho seguito sei processi abbreviati sia per l’accusa sia per la difesa.»
«E non le hanno chiesto di rimanere?»
Scosse la testa. «Il posto è andato a un altro praticante del mio anno.»
«Ha idea del perché?»
Fece un sorriso sardonico. «Io non ero “chic”, lui invece sì. Hanno detto proprio così, “chic”. Scommetto che un po’ c’entrava il fatto che fosse Monty Sudworth, il figlio del giudice.»
Annuii, tamburellando con le dita sui fogli che invadevano la scrivania; desiderai di avere una segretaria alla quale chiedere un caffè con il mio interfono inesistente. «Massimo dei voti in giurisprudenza, inglese, cinema, psicologia e drammaturgia?»
«Ah, sì.» Si schiarì la voce. «So che in teoria cerchereste qualcosa di più accademico…»
«Niente affatto» risposi, perfettamente conscio che Percy sarebbe stato nauseato da quelle materie. «Trovo che sia davvero pertinente.»
Strinse impercettibilmente gli occhi luminosi. «In che senso?»
«Nel senso che in tribunale certi avvocati se la cavano affidandosi soltanto all’erudizione e alla procedura formale. Conoscono i manuali dalla prima all’ultima pagina e sanno citare ogni precedente, ma per diventare bravi davvero serve qualcosa in più. I migliori, in sostanza, sono uomini di spettacolo. E non intendo cabarettisti, ma a volte l’istrionismo è fondamentale per far pendere i giurati dalle tue labbra. Difendere un imputato a un processo penale non avrà il fascino delle scene da telefilm americano, noi abbiamo conservato parecchie delle nostre tradizioni, ma la teatralità riveste una certa importanza. Il più delle volte, per vincere un processo basta una buona arringa conclusiva.»
«Ah…»
Fui contento di vederla più rilassata.
«Al momento, su indicazione di alcuni importanti procuratori, sto lavorando a una serie di denunce per appropriazione indebita di milioni di sterline, il che implica ricerche approfondite e la lettura di centinaia di migliaia di pagine di prove.» Con una mano indicai il disordine in giro. «È un compito impegnativo, ma può anche risultare di una noia insopportabile. Mi servirebbe l’aiuto di qualcuno che non ha paura di lavorare fino a tardi in mezzo alle scartoffie. Detto questo, ho bisogno anche di qualcuno che sia disposto a difendere criminali e assassini tra i più disgustosi che si possano immaginare.»
«Intende presunti assassini?»
«No, assassini, punto. Non facciamo gli ingenui. Spesso confessano di aver ammazzato qualcuno, ma come concetto puramente giuridico l’omicidio si può smontare in nome della legittima difesa, della reazione a una provocazione o per motivi di seminfermità mentale. Soltanto la giuria ha la facoltà di stabilire se un assassino reo confesso che si dichiara non colpevole è un omicida o no, ma spesso e volentieri è con gli assassini che facciamo affari.»
Mi accorsi che il mio modo di parlare ricadeva nel familiare ritmo accusatore del controinterrogatorio. Mi domandai quanto tempo era passato dalla mia ultima conversazione con uno sconosciuto, a parte i colloqui formali sul lavoro. E quanto dall’ultima volta che ero stato solo insieme a una ragazza. L’ultimo bicchiere o l’ultima cena insieme a qualcuno che non frequentasse l’ambiente legale risaliva a oltre un anno prima. Mi domandai quali competenze sociali avevo conservato, da quando Jenny se n’era andata.
«La spiacevole realtà» continuai «è che la maggior parte dei clienti che difendo ha davvero commesso alcuni degli atti più depravati che si possano immaginare. Nel costruire una tesi difensiva corretta, il distacco emotivo è cruciale.» Vidi il suo sguardo farsi più torvo e andai avanti a parlare prima che potesse interrompermi. «Io sono diventato Queen’s Counsel dopo aver difeso un uomo accusato di avere ucciso due ragazze, una di diciassette anni, l’altra di ventuno.»
«Terribile» commentò lei a bassa voce, «ma tutti hanno diritto a una…»
«Se le era mangiate.»
La guardai ammutolire.
«Ne aveva mangiato la carne cucinandola in varie maniere, che annotava e recensiva su un diario. Sono riuscito a smontare le accuse appellandomi alla seminfermità mentale, la stessa tesi difensiva che poi ho usato per una giovane madre che aveva bollito vivo il suo neonato dentro la lavastoviglie.
«Il tipo di persone che lei avrà il compito di difendere è questo, e ancora oggi sono certo che entrambi questi miei clienti fossero del tutto compos mentis quando hanno agito. Per fortuna non sta a me pronunciare sentenze. Noi avvocati dobbiamo confidare che il sistema faccia giustizia e imparare a scindere le nostre opinioni personali dal verdetto che vogliamo ottenere, oltre che a sopportare il rancore che inevitabilmente ci attiriamo.»
Per un attimo si mordicchiò l’unghia del pollice; smalto blu sbeccato contro il bianco dei denti.
«In che senso rancore?»
Con la mano destra cominciai ad armeggiare con il cubo di Rubik.
«Non è un azzardo dire che gli avvocati difensori sono i professionisti più insultati del mondo, terzi in classifica dopo i vigili urbani e gli esattori delle tasse. Per come ci dipinge la stampa, noi siamo quelli che entrano in scena dopo che il caso è chiuso, quando la Macchina del Mistero è ormai quasi ai titoli di coda, a scatenare di nuovo il mostro cannibale nel parco divertimenti. Mi dispiace dirglielo, ma lei aspira a far parte di quella che i più considerano la feccia parassita del sistema giudiziario.»
Si asciugò i palmi delle mani sulle calze e sbuffò. «Porca puzzola!»
Scoppiai in una risata calorosa e spontanea, di pancia; non si addiceva al contesto, e non ricordavo neanche se mi fossi mai lasciato così andare in studio. Lei rise con me, e quel suono, come il suo accento, mi riportò alla memoria una vita quasi dimenticata. E in un istante mi arresi.
«Al King Edward non me ne hanno mai parlato» disse. «Lei saprebbe darmi qualche consiglio al riguardo?»
«So solo una cosa…» smisi di gingillarmi con il cubo e lo feci rotolare sulla scrivania. «Quando accusa, ricordi sempre che agisce in qualità di rappresentante della giustizia, e che il suo dovere è garantire che giustizia sia fatta. Quando difende, difenda con coraggio, ma anche con onestà. Affronti i suoi processi e li vinca, ma senza barare, mai. Sia amichevole con gli imputati, ma non dimentichi mai e poi mai un punto cruciale: non sono suoi amici. Qualunque cosa faccia, non si esponga mai in prima persona per loro.»
«D’accordo» sillabò, raddrizzandosi gli occhiali, «mi sta bene.»
Sorrisi di nuovo. «Allora penso che qui si ambienterà in fretta.»
In seguito, l’ultima parte del mio discorso sarebbe venuta a tormentarmi in frangenti di grande rimpianto e vergogna, mentre mi esponevo in primissima persona per il cliente che stava per cambiare tutto.