Decisi di diventare avvocato a ventidue anni. Immagino che non sia il proposito più convenzionale, per un giovane truffatore senzatetto.
Ricordo l’istante preciso in cui l’illuminazione mi colpì come un raggio di sole che pioveva dal cielo, fu uno di quei momenti in cui ti si accende la lampadina e la tua vita cambia; in realtà il motivo scatenante fu l’ammasso d’acciaio, noce e pelle che si accostò al marciapiede di fianco a me.
Ero appena tornato dall’Europa continentale, la meta che avevo scelto in tutta fretta dopo che mi ero dichiarato colpevole di tentata truffa davanti a un tribunale penale di Nottingham. Per fortuna ero giovane e la condanna a sei mesi di galera che avrei dovuto scontare fu sospesa per due anni, e io non corsi altri rischi. Ottenni un passaporto valido per un anno, raggiunsi Dover in autostop e con i pochi soldi che avevo comprai un biglietto per attraversare la Manica.
Il viaggio non mi servì a “trovare me stesso” in nessun senso grandioso e spirituale, ma del continente vidi tutto ciò che gli anni Ottanta potevano offrire a un ragazzo con una tenda rattoppata e senza un quattrino in tasca; seguii il caldo ovunque mi portasse, dal Jardin du Luxembourg, dove dormii sotto le stelle, al Mediterraneo, dove pulivo barche per quattro soldi. Prima o poi, però, doveva finire.
Non sopportavo l’idea di tornare a casa, dove non avevo più niente, perciò rimasi al Sud; arrivai fino a Londra sul cassone di un autocarro e ricominciai a dormire per strada, o meglio, al Bullring, un po’ più a nord della stazione ferroviaria di Waterloo. Lo chiamano “la città di cartone”, e per l’intera nazione è il simbolo dei senzatetto: ne ospita oltre duecento, che fanno causa comune per bivaccare in quell’enorme spazio aperto, bevendo, fumando e tremando nel freddo notturno. Per sei settimane ci abitai senza fare nulla dalla mattina alla sera, usando lo zaino come cuscino e avvolgendo il sacco a pelo nel cartone e nella plastica per tenerlo caldo, e presto mi ritrovai intrappolato nel circolo vizioso del povero senzatetto: non potevo trovare lavoro senza un domicilio, ma senza lavoro non potevo permettermi una casa.
Ero in stallo, troppo povero per mangiare, troppo orgoglioso per mendicare. Non avevo genitori che mi togliessero dai guai e non sopportavo di causare altra sofferenza alle mie sorelle, delle quali ora si occupava una zia.
Finché non vidi l’auto.
Perché ovviamente fu un’auto a decretare la fine del mio stile di vita itinerante e senza meta.
Una Jaguar XJ6 nuova fiammante, splendido esempio di raffinata ingegneria britannica, che ruggiva forte come l’animale che le dava il nome. Al volante c’era un ragazzo che avrà avuto pochi anni in più di me, in abito di sartoria, in compagnia di uno schianto di ragazza mora. Un’immagine così seducente che mi fece perdere la bussola, come se peraltro io, derelitto vagabondo ventiduenne, sapessi davvero dove stavo andando: ero a zonzo per il West End senza una meta e senza nulla da fare.
«Ehi, capo!» gridai mentre il guidatore usciva dall’auto alla luce del sole.
Lui si voltò, sconcertato e all’erta.
Dovevo essere un bello spettacolo: un tizio che saltellava sulla punta dei piedi nascondendo nell’interno della mano una paglia accesa. «Che lavoro fai?»
«L’avvocato» rispose lui, impassibile e un po’ compiaciuto; poi sparì con la sua compagna nel ristorante affollato dall’altra parte della strada.
E questo è quanto. Per la prima volta in vita mia avevo una prospettiva, la vedevo srotolarsi diritta davanti a me come una galleria alla fine della quale mi aspettava quella Jaguar immacolata.
Alla fine ci sono arrivato.
A ogni modo, me ne sono potuta permettere una soltanto negli anni Novanta, e quando la costrinsi a portarmi a Belmarsh, quella che nel 1987 era un modello nuovissimo aveva trent’anni, 290.000 chilometri sul groppone e il motore spompato. Il rivestimento in pelle color crema degli interni era stinto, macchiato e liso; la carrozzeria, di un audace bordeaux, era rimasta vittima dell’inarrestabile e letale marcia della ruggine; il motore sferragliava e gemeva a ogni sosta. In poche parole, era un cimelio.
Ma era pur sempre il mio cimelio, la ricompensa per i miei sforzi, e ne amavo ogni graffio.
Tra i vantaggi dell’avere un’auto così datata c’era l’accendisigari, sul quale affondai il pollice al primo semaforo rosso che trovammo venendo via da Belmarsh, mentre vessavo la frizione indurita e stanca per non far spegnere il motore. Aveva incominciato a piovere forte, e i tergicristalli slabbrati spazzavano secchiate d’acqua cigolando sul parabrezza. Sui sedili posteriori c’erano le mie mazze da golf senza sacca, mai più toccate da quando il processo per truffa mi aveva travolto, che sbatacchiavano come ossa.
«Ti dà fastidio se fumo?» chiesi, incapace di reggere l’imbarazzo.
«No.» Da quand’eravamo partiti, Zara guardava fuori dal finestrino, e dopo quel breve scambio tornammo al silenzio assordante che aveva per sottofondo il rumore dell’acqua sulla carrozzeria.
«Ne vuoi una?»
«No.»
La accesi e abbassai il finestrino per il far uscire il fumo; mi lasciai infradiciare la spalla dalla pioggia e desiderai che scattasse presto il verde.
«Quello che è appena successo è imperdonabile» dissi. «Se preferisci non assistermi, posso farti sostituire e cercarti un altro incarico.»
Non rispose subito. Quando sbirciai verso di lei ne intravidi l’espressione nello specchietto laterale, chiazzato di gocce. Anziché turbata sembrava offesa, e ciò mi fece sentire molto peggio.
«Quando sono uscita dalla scuola di giurisprudenza, insieme a me si sono diplomati in più di mille» disse, «più altri tremila allievi degli anni precedenti in attesa di un incarico da praticante, e in tutta la nazione i posti disponibili erano soltanto quattrocento. L’anno scorso ero convinta di essere stata accettata dal King Edward perché non avevo mai perso una discussione o un singolo dibattito, e non a caso: mi sono fatta un mazzo così, Mr Rook. Quando gli altri studenti uscivano a bere, io studiavo. E prima, a Hull, oltre a frequentare a tempo pieno l’uni facevo tre lavori per pagarmi la retta da ventimila sterline della scuola di giurisprudenza. Non glielo sto dicendo per farle un sermone da eroina proletaria, ma il fatto è che…»
«Ci tenevi davvero tantissimo?»
«Sì.» Annuì senza voltarsi. «Non avevo scelta. Laurea ordinaria, famiglia ordinaria. Dopo tutta quella fatica, sa cosa mi hanno detto alla fine dell’anno al King Edward?»
«Che cosa ti hanno detto?»
Fece un lungo respiro per calmarsi e si tolse gli occhiali. «Che ero la candidata perfetta perché quell’anno cercavano un po’ di diversità tra i loro praticanti. Soltanto qualche tempo dopo ho saputo che il Comitato uguaglianza e parità stava indagando sullo studio legale. La decisione di accettarmi come praticante non c’entrava niente con i miei risultati. Sono stata semplicemente la prima proletaria di sangue misto che si è presentata a fare un colloquio da loro. Mi hanno trattata come una mascotte, hanno pubblicato la mia foto sul loro sito, poi mi hanno mollata.»
Sospirai esalando fumo. «Sicura che sia andata così? L’hai detto anche tu che la concorrenza per un posto fisso è spietata.»
«Lo so per certo» rispose lei. «Mi sa che lo sapevo sin dall’inizio.»
Adesso la pioggia faceva quasi il rumore della grandine; il semaforo era ancora rosso ma non c’erano auto che attraversavano l’incrocio.
«Non tutti gli studi legali sono così» ribattei io. «La tua prima esperienza è stata pessima, certe persone al tuo posto si sarebbero tenute per sempre alla larga dalla giustizia penale, ma tu non hai mollato. Per arrivarci ti sei fatta in quattro. Dovresti essere fiera di te.»
«Non lo faccio solo per me» disse. «È per…»
Aspettai che finisse. Non finì. Scattò il verde.
Buttai la sigaretta, chiusi il finestrino e dagli specchietti guardai le recinzioni di Belmarsh rimpicciolirsi e sbiadire nel grigio. «Per cosa?»
«Qualche anno fa ho perso un cugino da parte di madre. Hazeem» disse, dopo una breve incertezza.
«Ah.»
«È tutto okay» aggiunse subito. «Nel senso, abitava con mio zio a Birmingham, ci frequentavamo da bambini e poi non ci siamo più visti tanto, eppure… una cosa del genere è comunque un brutto colpo per tutta la famiglia, sa?»
Annuii. «Com’è successo?»
«Un litigio del cavolo tra ragazzi, sfociato in rissa, mi pare. Qualcuno ha tirato fuori il coltello, ci è scappato il morto. Hazeem non era presente, conosceva a stento le persone coinvolte. Però un testimone ha fatto il suo nome, così, tanto per aggiungere un immigrato alla lista, e lo hanno accusato di collusione. Il suo difensore non si è sbattuto e lo ha convinto subito a dichiararsi colpevole in cambio di uno sconto di pena. Hazeem era spaventatissimo e ha accettato. È finito a Wormwood Scrubs, dove ha cominciato a drogarsi, e dopo cinque mesi si è suicidato. Aveva diciannove anni e non si era mai cacciato in un guaio in vita sua. Voleva fare il chirurgo.»
«Diamine.» Non sapevo cos’altro dire.
«Se mio cugino avesse avuto l’avvocato giusto, uno disposto a non accontentarsi e a fare il suo mestiere come si deve anche da difensore d’ufficio, forse sarebbe finita in un altro modo. O forse no. Io so soltanto che se mi toccherà affrontare mille assassini, in un modo o nell’altro, perlomeno potrò dire di aver lavorato al meglio delle mie possibilità. Quindi, se vuole togliermi da questo caso per motivi professionali, cioè se pensa che la mia presenza possa scatenare nel cliente reazioni tali da intralciare eventuali progressi, va bene. Ma se me lo sta consigliando “per il mio bene”, allora sappia che finora niente e nessuno mi ha mai scoraggiata, e che non ho intenzione di farmi bullizzare proprio adesso. Io diventerò avvocato, Mr Rook, e sarò un bravo avvocato.» Inforcò gli occhiali, incrociò le braccia e abbassò la voce. «Quanto a William Barber… avrei dovuto dirgli di andarsene affanculo.»
Sorrisi. Trovavo un po’ sciocco che a incoraggiarmi fossero le parole di una praticante ventiquattrenne che avevo assoldato per aiutarmi con le scartoffie, ma non potei farne a meno. In lei c’era qualcosa che mi ricordava una persona che non vedevo da tantissimo. Aveva lo slancio e l’ingenuità del giovane avvocato Elliot Rook, che un tempo si era sentito pronto a conquistare il mondo.