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Gaudí ti odia

Dopo che Marina e il suo strano incarico sono andati via, sono uscito dall’ufficio sapendo che sarei arrivato tardi all’appuntamento con un ragazzo tenace e affettato nell’agenzia di Bantierra del carrer de Mandri. Come dall’aprire un conto in un’agenzia vicino al mio ufficio e, grazie alla crisi, quella stessa agenzia appaia nel carrer de Mandri, lontanissimo da dove lavoro, è un mistero che, se mi pagassero, cercherei di risolvere. Ho un fondo conservativo che fa soltanto perdere soldi. Dev’essere l’unico fondo conservativo che lo fa. Il tizio ha telefonato per parlarne come se mi chiamassero da scuola per rimproverarmi della condotta di mio figlio. Prendo un taxi. L’autista e io ci lamentiamo per il caldo e, al solito, ci sondiamo sulla situazione politica, su quello che succederà dopo l’estate con la festa catalana della Diada e le urne e il referendum in questo 2017 in cui non doveva succedere niente e succederà di tutto.

In banca, il ragazzo tenace e affettato mi propone un conto mirror, mi suggerisce di essere più aggressivo, di valutare altre possibilità perché il fondo, signor Carvalho, non si è comportato bene.

«Così mi dà appuntamento per parlare male del mio fondo conservativo. È intollerabile.»

«Mi perdoni, signor Carvalho... Forse mi sono spiegato male. Che il suo fondo si è comportato male è un’espressione che...»

«Abbiamo lasciato che ci derubaste, che ci faceste pagare le commissioni, che non ci regalaste più padelle. Vi abbiamo salvato e adesso vi permettete di parlare male dei nostri fondi. Non posso accettarlo: voglio i miei soldi. Adesso esco camminando all’indietro da questo ufficio e la tengo d’occhio in modo che non faccia nessuna sciocchezza. Vado a prendermi un caffè e, quando fra dieci minuti torno, voglio i miei soldi e il fondo e i conti correnti a zero. Mi ha capito?»

«Posso offrirle un altro prodotto?»

«Lo può fare, ma non glielo consiglio.»

Dopo la rapina e con la divertente sensazione di aver fatto una sana stupidaggine, decido di tornare in Territorio Apache, dove ho appuntamento con Laura Barranco. Indirizzo le gambe verso plaça Lesseps e scendo per Torrent de l’Olla, già nel quartiere di Gràcia. A uno dei semafori rossi che mi degno di rispettare, leggo sul muro di una casa okkupata:

GAUDÍ HATES YOU

“Quartiericidio” è la parola di moda questa settimana. Quelle della settimana scorsa sono state due che, pronunciate in fretta, potevano essere considerate una sola: “Ricorda Maiorca”. Forse “Gaudí hates you” saranno quelle della prossima. Questo è un paese di poeti. Poeti e pittori, che diavolo. Come in una sequenza orchestrata dallo sceneggiatore ubriaco e imprevedibile che a volte sembra dirigere questo circo chiamato Vita, appare una famiglia nordica nel suo impeccabile travestimento da turisti. Dietro una mappa, una cavalletta in abiti da padre e una coccinella in abiti da madre, entrambi rubicondi e intenti a ritrovare l’itinerario perduto che li porti al Parc Güell o a chissà quale angolo magico di Barnaland. Si trascinano dietro due figlie lungagnone, pelle arancione per il sole e con più voglia di Beach Festival che di trovare quel maledetto posto sulla mappa. Con loro mi rendo conto della mia mancanza di capacità comparativa con il mondo degli insetti. Vespe? Insetti stecco, forse? La maggiore potrebbe avere un po’ della mantide senza istinto assassino...? La minore si volta verso il palazzo, legge la scritta sul muro e chiede alla sorella di spiegarle di cosa si tratti. Gaudí ti odia. Cosa può esserci di peggio? Il fatto che uno come Gaudí, quel santo folle e inoffensivo con la barba bianca e un perfido tram alle spalle, ti odi dev’essere come se Andrés Iniesta, pieno d’odio, ti conficcasse un paletto in pieno plesso solare.

Semaforo verde. La coccinella avvisa la cavalletta che possono attraversare e sto per offrirmi di aiutarli o, almeno, di avvertirli dell’esistenza di cecchini, malocchi e contenitori di pece e piume d’oca. Quel pensiero, soltanto quello, fa sì che mi senta come un collaborazionista del governo di Vichy. C’è sempre meno spazio per i liberi pensatori, Carvalho, in questi tempi di fame nera e pene di poveri al di là delle muraglie, ma qui, al loro interno, fame nera e pene di poveri senza fame nera, bambini senza padri morti, bambini con padri eterni, male educati nel volere è potere, senza il tempo per annoiarsi e rassegnarsi a essere se stessi. E per questa impresa bandiere, inni, banche, dittatori, canaglie, calciatori, tatuaggi, politici, zar, orsi, sette, muri, schiavi e caporali, palestre, lezioni di lingue, inquisitori, messe adamitiche, presidenti, allenatori, messia, illuminati, attrezzisti, bollette del gas, dichiarazioni alla stampa, dichiarazioni di pace, di amore e menzogne e paura e, finalmente, un senso a tutto questo, alla nostra vita, al nostro rapporto, un’opportunità a poco prezzo di redimere i nostri peccati di votare e rivotare in continuazione Augusto, Livia e i suoi cento insaziabili figli, mentre brucia Roma in vetroceramica, riforma sanitaria, ristrutturazioni e tagli, gommoni affondati, partiamo in elicottero, cavalchiamo la tigre, la Grecia schiava e som un poble, e il Loro e Noi e Spagna Una, Grande e Libera, e meglio a pezzi che rossa e Raúl, la Nazionale, andalusi vagabondi, aragonesi cocciuti, cinesi lavoratori, catalani vigliacchi, marocchini ladri, polacchi, ungheresi, turchi, tutti nazisti.

Oh, basta, Geremia di plastilina.

Zitto, per favore.

È tutta una merda, ma perfino il più miserabile ci si aggrappa, cazzo.

Smettila di lamentarti.

Tu non eri così.

Prima non eri così.

Scritto, non eri così.

Almeno non tanto così.

Senza rendermene conto, ho lasciato Gràcia per la Diagonal, ma prima mi imbatto, nel carrer de Córcega, nella sede del PDECAT, il Partito democratico europeo catalano, l’ex Convergència, e si ha quasi paura di passarci davanti, per il pericolo di implosione e depurazione, ma sembra che sia tutto tranquillo. Almeno per qualche ora.

Mi chiedo spessissimo cosa penserebbe lo Scrittore di questo e di quello. Cosa direbbe di tutto ciò che succede adesso in questa città, in questo paese, in questo mondo nel quale sarebbe dovuta finire la Storia...? Cosa direbbe di Trump, del re e dell’amante, di Messi, di tutto...? Parlare con lui mi tranquillizzava. Fin dal primo giorno, quando ci eravamo incrociati nell’androne ed eravamo saliti a piedi fino al suo pianerottolo. Lo Scrittore aveva affittato l’appartamento sotto il nostro da un mese e Biscúter e io approfittavamo da neanche un anno di quell’affarone a basso affitto. Credo che avesse già scritto dei libri. Era un giornalista e mi disse che si era cercato quel buco, che chiamava, non senza un po’ di sarcasmo, “studio” – era la metà del nostro ufficio – per scrivere più tranquillamente che in casa ed essere più vicino al quartiere in cui era nato e cresciuto, “cucendo tristi vestiti vecchi per corpi mutilati” del suo dopoguerra, territorio mitico santificato da Jean Genet e dove tutto sembrava bollire in pentola. Si mostrò molto interessato al fatto che io fossi un investigatore privato, un detective, e gli fui grato per non aver tirato subito fuori l’impermeabile o il cappello di Bogart né Marlowe o Spade. Gli confessai che neanch’io sapevo se avrei continuato a lungo a fare quel mestiere. Non ero arrivato in tempo per fare da guardaspalle a un sindaco franchista, ma l’avevo fatto per un sindaco ex franchista. Quell’esperienza mi aveva fornito dei contatti e il sapere da dove scendevano le acque fecali delle fogne, i chi e i perché delle cose che succedevano o che stavano per succedere. Da quell’incontro a una scampanellata verso le nove di sera erano passate un paio di settimane. Aprii e me lo trovai di fronte: con i suoi occhiali, i suoi baffi e un amico scozzese imbottigliato. Ci rifornimmo di ghiaccio e ci sedemmo su un divano che Biscúter aveva scovato in una liquidazione nel carrer Nou de la Rambla. Parlammo del più e del meno e poi mi interrogò su una questione di cui stava scrivendo in quel momento: l’intervento yankee negli affari interni. Prima era un argomento e adesso non è nulla. Mi chiese il mio parere. Casualmente – o, conoscendolo, forse in maniera non tanto casuale – io mi ero trovato coinvolto in una faccenda marginale e conoscevo aspetti che forse lo avrebbero aiutato a far sì che tutto avesse un senso, un perché. Ricordo quello che mi disse, non so se di sua paternità o citando altri, cosa che gli è sempre piaciuta.

«La vita è magia perché non conosciamo i trucchi.»

Per qualche secondo, mi dibattei fra il segreto professionale e il compiacere il mio vicino, un tipo con gli occhi da talpa e dalla parlata rauca, con note doti da sciamano. Non diceva mai nulla tanto per dirla. Parlava per capire e farsi capire. Sull’argomento a cui era interessato e di cui stava scrivendo per la rivista “Interviú”, credo di ricordare, gli fornii quattro dati che non poteva includere nel suo articolo, e da lì trasse delle conclusioni che, pur essendo vere, non potevano essere dette.

«Questo è uno dei motivi per cui il romanzo è potente. Si può accedere alla verità attraverso menzogne, immaginazioni, finzioni. Con quello che mi hai detto, detective, entrambi sappiamo chi ha dato l’ordine, perché e a chi. Ma non posso pubblicarlo. Non ho fonti. Non eravamo lì. Non sappiamo quali parole hanno pronunciato. Se erano soli o in compagnia. In un romanzo me lo posso inventare e indicare il colpevole, il responsabile. La virtù del giornalismo è ciò che gli permette di camminare, correre, ma non di volare. La letteratura deve volare, e non in un volo da gallinaceo. O vola oppure è un manuale di istruzioni per l’uso di un video Beta, amico Carvalho. A proposito, lei di dov’è? Carvalho non è galiziano. Sembra galiziano di scena. So quello che dico: mio padre è un galiziano compensato da un matrimonio con una murciana.»

«La faccenda del Carvalho scritto così si deve a mio padre. Gli erano girate le palle e ci ha voluto portoghesi piuttosto che spagnoli. Erano tutti e due galiziani. Non c’è stata di mezzo una murciana.»

«Ai tempi, i salvapatria dovettero scegliere se dirigere i cannoni verso Lisbona o verso Barcellona. Lo sapeva?»

No, non lo sapevo. Come la maggior parte delle cose che mi avrebbe spiegato a partire da quel momento. Ci vedemmo sempre più spesso. A volte gli raccontavo questioni dei casi in cui ero coinvolto e tutto sembrava interessargli, come se nel suo studio avesse una mappa della città, del paese e del mondo, e ogni dato, per quanto sembrasse insignificante, avesse qualche significato in uno sguardo globale sui rapporti della società. A volte, al calore del vino che portavamo entrambi, tra il fumo delle sigarette e i piatti che Biscúter – che non era stato ancora battezzato così e che era la terza gamba di quello sgabello – ci preparava nel suo cucinino a gas, ci mettevamo a parlare tanto per parlare, a fare commenti su argomenti di attualità, a filosofare utopie, come diceva Biscu, o, nel suo caso, a recitare poesie a memoria in catalano, galiziano o castigliano. Era un lusso averlo a portata di mano e poi, con orgoglio, leggerlo sui giornali o sulle riviste dal barbiere.

Un pomeriggio me lo propose. Era nervoso, con quella timidezza così tipicamente sua, quasi da bambino, il che dava alla scena una certa ilarità. Avevamo quasi vent’anni di differenza, eppure io sembravo un professore e lui un alunno sul punto di fornirmi una scusa inaccettabile. Mi parlò di una scommessa con gli amici, adesso non ricordo se fossero anche loro giornalisti o scrittori. Una scommessa sotto forma di libro di quelli di una volta. Nella Spagna di cui parliamo, quella degli anni Settanta, un poliziotto come protagonista era una cosa un po’ difficile da mandar giù. La polizia continuava a essere di chi era stata e la gente lo sapeva. Nella sede di Vía Laietana avevano torturato e continuavano ad avere le mani lunghe. Il romanzo poliziesco doveva avere come protagonista un personaggio ambiguo, ma dalla parte dei buoni, e quando mi aveva conosciuto – così mi disse – aveva pensato che potesse essere un detective privato. Voleva che avesse il mio nome, gli pareva affascinante quel Carvalho importoghesito, e così si permetteva di lasciarsi trasportare dalla sua particolare nostalgia. Non sarei stato del tutto io, insisteva e insisteva, perché come scrittore voleva che fosse una porta sui suoi ricordi e sui suoi fantasmi, sul suo sguardo e sulla sua generazione. Io ero troppo giovane e non voleva i miei occhi: soltanto il mio cognome, il mio ufficio e qualche caso rocambolesco come quello del cadavere tatuato o quello del nonno di Estefanía o quello del marinaio mercantile cantante di canzonette. A partire da quel momento, tutto andò molto in fretta. La mia vita e la sua si mescolarono, si agitarono e vennero servite sempre più fredde. Ci allontanammo. Molte volte mi metteva a disagio stare con lui. Stavo in guardia o nudo tutto il tempo mentre di lui, sempre così riservato, non sapevo quasi nulla. E lui non poteva sempre continuare a sostenere che quel Carvalho non ero io, non del tutto io perché né lui né io sapevamo più dove finiva uno e dove cominciava l’altro. Sentii che mi aveva rubato l’anima e, sebbene continuassi a fornirgli informazioni e argomenti, la sensazione era quella di essere murato vivo. Dovetti perfino cambiare cognome perché nessuno voleva assumere un detective da romanzo e recuperai il Larios materno. Conobbi Poncela e Charo López, quello sì, con la quale diventai intimo e soffrii, e con cui soffrì anche l’altra Charo. Ero, in certo qual modo, famoso, un famoso nell’anonimato, e all’inizio non mi importò; poi andavo a giornate. Però cominciai a trovarmi in quella situazione in cui non sai se la tua vita è tua e se agisci come agisci è perché sei così o perché vuoi essere ciò che credi che gli altri pensano che tu sia. Il suo Carvalho ero io e non ero io. C’erano, nei libri, frasi puntuali dette nelle nostre chiacchierate, parecchi aspetti del mio modo di essere, i miei casi, il mio rapporto distorto con Charo o Biscúter. Ma c’era anche lui. I suoi ricordi, i suoi complessi, la sua infanzia, la sua rabbia nascosta. Il cinismo, la tenerezza e la malinconia, il suo sguardo amaro su una città come un paesaggio sentimentale che gli andavano strappando via, un territorio sconfitto che solo chi è passato per una guerra e per un’altra guerra dopo quella guerra può capire e spiegare, mi confessò più di una notte con gli occhi vitrei. Io leggevo finché non smisi di leggere. Non sopportavo di andare a Buenos Aires e poi leggerlo. Ma non sopportavo nemmeno di non leggermi perché la vita senza che lo Scrittore me la spiegasse mi faceva sentire perduto, senza un regista che trasformasse tutto in qualcosa che valesse la pena.

“Chi sei?” mi domandavo ogni volta con maggiore insistenza, come il gatto del Cheshire ad Alice.

Chi sono adesso?

A volte ho voluto assomigliare a quello che stava nei libri, convinto che mi decifrassero. A volte ho voluto scoprire chi sarei stato se lo Scrittore non avesse preso in affitto lo studio sotto il nostro appartamento.

Riconosco che quando è morto ho provato qualcosa di simile al sollievo. Poi, solitudine. Non quella del personaggio o dello schiavo manipolato, o non del tutto. Mi è mancato parlare con lui, che mi spiegasse cosa succedeva, ho avuto nostalgia delle poesie recitate, delle cene e delle sbronze. Passato qualche mese, ho rimesso il cognome di mio padre fra il mio nome e il Larios sulla targa dell’ufficio e sull’intestazione delle fatture che, quando ne ha voglia, emette Estefanía.

Fuster, il fedele Fuster, ha sospettato di me: era un finale perfetto, quello di Bangkok. Personaggio uccide Autore. Ma io non sono un personaggio. Sono un uomo. Non sono uno sguardo, ma un modo di vivere le ventiquattr’ore di ogni giorno. Non l’ho ucciso, ma, come ho detto a Fuster: “Non ho alibi, soltanto la mia parola”. Sembra che si sia accontentato, ma da allora non ci siamo più visti molto.

Lo Scrittore. Magari fosse qui adesso. Magari mi dicesse cosa fare della mia vita. Magari facesse con la mia vita un romanzo che io possa capire e che, dopo trecento pagine, si risolva con un po’ di verosimiglianza, entrando dopo un po’ nell’oblio, senza cicatrici.