Arredato come una sauna secca, il Green Spot occupa una di quelle stradine vicine al porto e al cuore della Barceloneta dove prima si annidavano bazar per comprare radio, frigoriferi e stufe. Prima di arrivare ho guardato di sottecchi un ristorante messicano e ho incrociato raggi laser con un uomo orso dallo sguardo malinconico e l’aria di seguirmi, ma è pura paranoia e lo so e mi dico di rilassarmi un po’. Per il resto, piatti fuori menù costosi, visto che è un ristorante caro di cibo messicano. Ogni franchising globalizzato ha i suoi piatti fuori menù e il Green Spot ha i suoi, vegani, vegetariani o dietetici. Ah, di nuovo i miei pregiudizi. Ecco lì il tavolo tondo con due giovani avvocati e una coppia di clienti pronti a brevettare una modalità online di vivere senza ossigeno gestita dalla loro impresa in un locale a piano terra con pareti di vetro. Ci sono due tizi con i rispettivi portatili Apple che succhiano da una cannuccia un succo verde uno, arancione l’altro. Un imbecille con appiccicata la sua bicicletta e una famiglia fighetta composta da nonna ricca, figlio traumatizzato, figlia che sta superando il divorzio e nipote ricchissima e stupidissima che cerca di far capire i filtri di Instagram alla vecchia, che si atteggia a contemporanea perché sa sintonizzare la tele e premere, quando si vede messa male, il pulsante della teleassistenza. Completano la natura morta un tavolo di colleghi di lavoro giovani e divertenti, e una donna che legge una rivista a un tavolino basso.
Biscúter e io siamo stati accolti da una cameriera simpatica ed estranea allo scoraggiamento della vita e dell’amore. Ci offre due bicchierini – shots – di superalimenti concentrati che mi ricordano quello che diceva di bere Supertopo alla fine del suo quarto d’ora di cartoni animati. No, grazie. Biscúter accetta e se lo scola. Scegliamo i piatti, vado alla toilette in un lungo corridoio con porte nascoste per propiziare momenti esilaranti di cinema muto, pardon, silente.
Al ritorno, appena seduto, il loquace Biscúter ha già ordinato i nostri piatti. È possibile che io abbia tardato in bagno più dell’ammissibile o che il servizio sia immediato. Devo avere una brutta faccia. Vomitare prima di mangiare va bene soltanto se sei una modella e hai quindici anni. Arrivano i primi piatti. Per un attimo sembra che mangeremo cappelli di Ascot.
«Ho pensato che le sarebbe piaciuto. È un vegetariano per non vegetariani. È tutto naturale.»
«Anche un cinghiale è naturale, ma devo riconoscere che non avevo mai provato dei cavoli rapa come questi.»
«Dice sul serio?»
«Certo.»
«Sono cavoli rapa spirulina.»
«A parte il fatto che hanno un nome da cospiratrice romana, sono deliziosi. Ci sono anche i pistacchi e l’aceto di tamarindo. Tu cos’hai preso? Così, a prima vista, sembra la ghirlanda di fiori dell’asinello Platero, ma posso sbagliarmi. Cos’è? Non dirmi il nome, dimmi cosa c’è dentro.»
«Un po’ di tutto. Si chiama insalata di verdure selvatiche.»
«Sei un sovversivo, Biscúter. Mi fai venire i complessi. Dico sul serio.»
«Deve aprire la mente. E prendersi cura di se stesso. Dovrebbe andare dal medico e sapere cosa diavolo le sta succedendo. Magari non è grave quanto crede.»
«Io non credo che sia grave. È la macchina che comincia a perdere colpi, tutto qua. Non preoccuparti: sto bene.»
«Continua a vomitare? L’ha fatto adesso?»
Per fortuna, il bourguignon di funghi e castagne con spätzle freschi arriva in tempo e non devo mentirgli perché mi lasci in pace. Per sé, Biscu ha ordinato un piatto di peperoni rossi con noci servite con pita e crudités di carota e sedano. Con il cambio di scena, mi sforzo di cambiare repertorio. Tutti i piatti sono eccellenti. Se Biscu me lo domanda, lo riconoscerò. Se continuo a comportarmi come un coglione è probabile che finisca per diventare un coglione, se non lo sono già. Apprezzo, e molto, quello che fa, quello che ha fatto Biscúter per me in tutti questi anni. Ma da un po’ di tempo le sue attenzioni mi fanno uscire dai gangheri. La devozione e la dedizione hanno preso la deriva verso una certa tirannia morale. E sia chiaro – mi dico come se dovessi scriverlo nel mio diario – che l’ho accolto con il sorriso sulle labbra. Mi è sembrato geniale l’apparecchio che mi ha portato con il suo Pin, il suo Puk e la sua santissima madre. Ho finto di aver dimenticato questo pranzo, ho sopportato la sua smorfietta da Castafiore ed eccoci qui in questo posto pulito, elegante e adatto a comparire in qualunque programma culturale tedesco su Barcellona. Sto dando il meglio di me. Il problema è che non è molto.
È stato un errore – lo è sempre – condividere un segreto con qualcuno. Spiegargli prima le mie cattive digestioni, poi le mie presunte intolleranze, infine lo sporadico sangue nelle feci, e l’immensa assurdità tattica di chiedergli di ricordarmi in anticipo le visite dal dottor Vargas e le sue sciamaniche prove di suono, colore e cinemascope. Anche se forse tutto viene da più lontano. Da anni siamo arrabbiati l’uno con l’altro. Lo siamo dalla faccenda di Charo. Così la chiamiamo tutti e due quando ne parliamo: la faccenda di Charo. Ma siamo uomini vecchio stampo e possiamo andare alla ricerca di un’adolescente sequestrata dagli indiani, ma non ci mettiamo a parlare del perché Charo è ciò che fa male a tutti e due. Charo era la mia storia d’amore e di docilità. Charo era sua amica. Le corde che stringevano le due relazioni erano differenti. L’ho trattata male? Ho fatto quello che ho potuto. Quello che ho saputo. A volte, trattare male è l’ultimo modo dignitoso per far sì che qualcuno si allontani e non affondi con te. Ma non mi piace ricordare quella storia. Sta lì, senza chiudersi, suppurando, senza che se ne parli, in attesa di fare il primo passo e chiedere scusa e spiegarsi o ormai è tardi per tutto. Sta lì e continuerà a stare lì. E questo non importa a nessun altro che a me e, immagino, a Charo.
Ma non è soltanto questo. Ci sono cose che escono così già dalla fabbrica e Biscu è sempre stato un tipo ossessivo. Controllo, vigilanza esaustiva e morale senza alcun tipo di misura, a fiotti. La vendetta sul figliol prodigo. Castigo gesuita sul dissoluto in rovina e abbandonato. Non è che il “te l’avevo detto” di tutta la vita. Non posso bere alcol in ufficio senza notare il suo sguardo né sentire lo schiocco della sua lingua, ogni sigaretta in sua presenza è un chiodo nella croce. È ovvio che nel resto della giornata, quando sfuggo alla sua presenza, faccio quello che mi gira e mi godo il mio rivoltolarmi nell’olio, nella salsa e nel sale quanto il mio organismo lo permette. Però Biscúter mi ha somatizzato l’anima, mi ha trasformato in un marito infedele, ha vampirizzato i miei desideri a colpi di rimorso. Mi nascondo da lui o cerco il momento in cui non c’è. È, in definitiva, la mia madre ebrea. Come ho fatto a permettere che succedesse? Ho rinunciato ai miei doveri di datore di lavoro, di maschio alfa, di persona stronza e intrattabile. E queste cose si finiscono per pagare. Forse è un buon momento per cominciare a recuperare il terreno perduto. In ogni modo, se il motivo del pranzo è darmi la buona notizia delle sue dimissioni, che senso ha adesso mostrare le zanne?
«Me lo dici o no?»
«È che non so da dove iniziare. Volevo arrivare al dessert per non rendere difficile il pranzo.»
«Non voglio dessert. Non sopporterei un gelato al cavolfiore, bietola e porro.»
«Lasci perdere il cinismo con le verdure ecologiche, capo.»
«Vuoi smetterla di chiamarmi capo? Chiamami Pepe.»
«Non mi viene.»
«Pepe ha lo stesso numero di lettere di capo.»
«Ma non è la stessa cosa. Lei mi chiama Biscu, Biscúter.»
«Perché ti piace. Ti ha incantato il soprannome. Carvalho. Chiamami Carvalho. Guarda se ci sono dessert che ti piacciono e me lo dici al dessert o al caffè. Non farmi quella faccia. Pagheremo alla romana.»
«No, no, ho invitato io, signor Carvalho.»
«Senza signore: Carvalho.»
«Però poi non mi viene di darle del lei.»
«Nessuno più dà del lei. Soltanto gli imputati al giudice, i preti pederasti e tu.»
«Non faccia paragoni, signor... eh... Carvalho.»
«È uguale, Biscu. Parlami come quando i bambini ti chiedono di ridargli il pallone in un parco: ehi, signore, signore...»
«D’accordo, capo.»
«Cazzo.»
Arriva il cameriere, affettato e sbadato, visto che a ogni andirivieni una delle porte o delle sedie riceve un colpo di fianco, di gamba o di braccio, quasi come un tic. Ritira i piatti. Tra un attimo arriveranno i dessert con tutti gli onori fatui: fanfare e coriandoli.
«Non so cosa mi dirai al momento del dessert, ma me lo posso immaginare.»
«Invece non credo che lo immagini» mi risponde, malizioso.
«Non sono in vena di troppe sorprese. Guarda, ne approfitto e ti dico quello che sto pensando da un po’. Biscu... So che lo fai in buona fede, ma voglio che abbassi il livello di controllo, la sorveglianza, capisci? La mia vita è mia e voglio viverla come voglio. Non ti offendere. O, se ti offendi, è un tuo problema. Invece di aiutarmi, mi fai sentire malato. È come la storia dei medici, degli appuntamenti programmati, dei risultati degli esami, di andare dallo stregone che te li interpreti. Basta, finito. Non andrò più dal medico. Non andrò più in ospedale. Non so se sto morendo o se sono soltanto i disastri dell’età in un corpo che non ho curato molto perché non ho voluto farlo. È stata, è, una scelta. Preferisco crepare adesso che arrivare bollito e in condizioni precarie a settant’anni senza ricordarmi di niente e di nessuno. Non voglio fare l’epico, Biscu, ma ho sempre scelto come vivere e, quando arriverà la mia ora, voglio scegliere anche come morire.»
«Come vuole... capo. Però badare un po’ a se stessi non è di troppo. La sua posizione mi sembra un po’..., adesso non si offenda lei, da bambino viziato.»
«Sì, l’hai già detto prima e ieri e l’altroieri, te lo consento perché paghi tu. Sai che ti stimo, però c’est fini, mon ami. So cosa mi faccio e non mi faccio. Chiuso l’argomento, e riporta in ufficio un po’ di carne rossa e di allegria, cazzo, perché sei tu che mi stai seppellendo vivo.»
«Ma i medici...»
«Come diceva Bromuro: soltanto se vai dal dottore ti viene diagnosticato il cancro.»
«Tornano i baccanali dell’antica Roma, allora» butta là, non so se con tristezza o un pelo entusiasta.
«Sei un puritano. Forse lo sei sempre stato. Mi piacerebbe che tornasse il ladro di auto di lusso che si aggirava per la Valle d’Aran.» Biscu sorride. Il ritratto di Dorian Gray risveglia sempre simpatia. «Sai che, in realtà, i Romani considerarono per molto tempo il cuoco come il meno prezioso degli schiavi? Per i valori repubblicani la fama dei cuochi non era che l’espressione della decadenza.»
Biscu sta per parlare, però tace. Abbassa lo sguardo sul piatto dove erano stati, con più presenza che gloria, i peperoni rossi.
«Come fa a sapere tutte queste cose?»
«Le ho lette nei libri. Perciò adesso li brucio. Per punire la felicità dell’inutile. Dai, dimmelo. Chiedi finalmente la mia mano.»
«Oggi, almeno, la vedo di buon umore.»
«È perché non ho il cellulare. Appena Estefanía me lo consegna riconfigurato e pronto a intossicarmi la vita, il mio umore cambierà. Lo so, ti assicuro che lo so.»
Dico questa spacconata come un tentativo di scherzare con me stesso, ma la battuta mi si fa amara in bocca essendo alla fin fine tanto vera. Ieri sera, mentre rompevo il telefono, mi liberavo della Mia Fidanzata Zombie, della sua tragedia, del vincolo che mi univa a lei. Oggi, chiedendo a Biscu di procurarmene un altro, sto implorando di legarmi di nuovo, cieco, alla noria.
«Glielo dico, ma non si arrabbi. Me lo promette?»
«Te lo prometto.»
Biscu si pulisce la bocca con il tovagliolo su cui lascia il cerchio umido di un’arancia più chimica che citrica. Mi aspetto qualunque cosa. Non mi arrabbierò. Un lavoro migliore, un cambio di sesso, una nuova nazionalità. Qualunque cosa. Non ci saranno problemi, non ci sarà arrabbiatura possibile.
«Capo, parteciperò a MasterChef. Sa cos’è MasterChef? È un programma televisivo di cucina, uno di quelli che ti insegnano a diventare chef. Alla televisione spagnola. L’ha mai visto? Credo che le piacerebbe. Parla di cibo e di cuochi e...»
«Lo so cos’è. So perfettamente cos’è. Pianti, pubblicità, risate, competizione, vessazioni, vanità, scherno, messinscena, cretinismo, fama, stupidità: vale a dire, pura televisione.»
Estefanía era entrata in ufficio quando Biscúter e io stavamo uscendo per andare a pranzo. Non le avevo chiesto il motivo del suo assenteismo, né lei aveva fatto il minimo cenno di spiegarlo o di nominarlo. A che scopo? Le pago soltanto lo stipendio. L’avevo incaricata di configurarmi un minimo il cellulare e di stamparmi tutto quello che riusciva a trovare sul delitto dell’amica di Marina, un incarico sul quale, avendolo accettato, devo lavorare, anche se non so come focalizzarlo. A Marina ho chiesto di invitarmi a cena a casa sua alla prima occasione in cui possiamo essere sicuri della presenza di Amèlia. Dubito che nei prossimi giorni il fidanzato lanciatore di venditori ambulanti si faccia vedere da quelle parti, però chissà.
Dovrei anche concentrarmi su come mettere a fuoco la storia della Mocciosa, su qualunque cosa possa accreditare quello che si sa sull’accaduto, quattro righe e una sinossi credibile per la povera donna, che non vuole sapere quello che già sa. L’argomentazione “se fosse morta me l’avrebbe detto”, al di là del terreno della metafisica e dell’esoterismo, ha poco fiato.
Dovrei chiamare Laura ed essere chiamato da Laura.
Dovrei, dopo la mia dichiarazione d’intenti di mezzogiorno, telefonare ad Alfons Subirats e andare avanti con la nostra sottospecie di guida gastronomica, con più voglia adesso che conosco le pretese da diva dell’alta cucina di questo mostro di Biscúter, che va in giro sollecito e pensando ad alta voce per tutto il pomeriggio, come quando da bambino il mio verbo si faceva carne e fingevo di essere diligente per ottenere che mi lasciassero uscire a dare calci a un pallone con chiunque si trovasse per strada in quel momento.
Dovrei lavorare più che posso, vedere Alfons, arrivare tardi e ubriaco a casa e addormentarmi di botto o quasi di botto, previo film di Béla Tarr, perché quelli non tradiscono mai. Mi sono addormentato con qualcuno dei suoi film guardando una porta, ho sognato e mi sono svegliato e c’era ancora la stessa porta. Sguardo cosmico, lo chiamano. Qualunque cosa per non pensare, non ricordare, non sentire, non rimuginare ancora su tutto, non divagare su quello che non so, analizzando ogni frase, ogni situazione, sventrato.
Perché questa ossessione, Carvalho? Non vedi l’esagerazione, la dismisura, il ridicolo della commedia che tu stesso stai scrivendo?
Non ci sono risposte.
Forse il fatto è che nessuno in tutta la tua maledetta vita ti aveva letto così bene. Forse perché sei vecchio e stupido e lei giovane e stupida. Forse perché hai paura di morire senza avere provato neanche una volta qualcosa che tu non abbia potuto assaggiare, deludere e mettere via.
«Mi stai ascoltando?»
«Sì. No. Ho la testa alla faccenda di quello stupido.»
«Se gli fa piacere partecipare, che te ne importa? Almeno ha degli entusiasmi e non è sempre bilioso come te. Lascialo in pace.»
«Lo lascio in pace. Chiamare e ricevere chiamate. Non voglio altro.»
«Vedrai che hai perso dei numeri. Quelli che non erano nella Sim, però, te li avevo messi un paio di settimane fa nel Cloud. Devi andarli a recuperare.»
«Fallo tu. Non ho la minima idea di cosa sia questo Cloud.»
«Sembri uno scemo, Pepe. Sai almeno il Pin?»
«Due volte il numero di maglia di Cruyff: 1414. È lo stesso che per sbloccarlo.»
Estefanía sbuffa mentre mi chiede l’apparecchio. Ci smanetta mentre io mi ritiro con quello che ha vomitato la stampante sull’assassinio della nonna e della sorella dell’amica di Marina.
«Ti metto una protezione. In modo che non sappiano le tue abitudini d’acquisto e cose del genere. Compri su Amazon?»
«Cos’è Amazon?»
«Non fare il coglione.»
Il rivelatore di insolenze va alle stelle. S’illumina in rosso nella mia testa. Prima di fare qualunque cosa, mi lascio cadere sulla sedia, quella che era ergonomica e adesso a stento mi regge sopra i suoi ferri, mi accendo una sigaretta, che oggi – è chiaro, ovviamente – non provoca nessuno schiocco di lingua, e inizio con una lettura in diagonale di tutti i media che hanno parlato del caso. Tutti copiano il primo. Alcuni non si impegnano neanche a dissimularlo. I più diligenti trasformano una frase attiva in passiva e giochicchiano con l’ellissi del soggetto. Segue lo show di Biscúter per vedere se a papà è passata l’incazzatura.
«Hanno arrestato un adolescente nell’Arabia Saudita perché ballava la macarena, e in Marocco l’opinione pubblica è turbata per un video in cui si vedono sei minorenni che violentano una minorenne disabile su un autobus. Dicono che Messi lo comprerà il Manchester City.»
Che tipo di casting fanno alla televisione?
Non gli rispondo. Sono arrabbiato con lui, anche se so che la mia presa di posizione è sproporzionata, che finirò per rendermi ridicolo se la mantengo, ma non mi importa. Non sopporto quando qualcosa di privato, personale o istintivo viene inscatolato, servito e consumato soltanto allo scopo di essere visto, sistemato in un’urna trasparente ed esposto allo sguardo di tutti. È populismo. È quartiericidio. È Gaudí ti odia. La cucina non dovrebbe andare oltre la sala da pranzo famigliare o un ristorante con cinque tavoli e coda massima di quindici minuti per essere servito. Oltre l’“èbuono-come-l’hai-fatto-cosa-ci-hai-messo”, è petulanza e snobismo. Le persone si dichiarano, si sposano, fornicano, si insultano, si picchiano, si abbracciano, piangono, stuprano e assassinano per farsi vedere in televisione. Adesso cucinano anche. Blindano la loro intimità per governi e associazioni di genitori e la consegnano con allegria insana a Apple e a quell’imbecille di Facebook.
In politica interna il mio consulente interiore mi segnala che dovrei allentare la tensione.
Dire qualcosa di opportuno.
Non sembrare un faraone bambino, capriccioso e noioso, ma ormai sono un po’ stufo di relativizzare tutto e che tutto abbia lo stesso prezzo.
«E oggi Trump nemmeno un brutto tweet, e poi la Catalogna... Lei cosa crede che succederà, capo, voglio dire, Carvalho?»
Bisogna riconoscere che si sta sforzando. Ma non claudicherò. Perciò mi alzo e chiudo la porta. Prima che torni alla mia scrivania è di nuovo aperta. Estefanía e il cellulare. È su di giri, la ragazza. Lo noto.
«Sei uno stronzo.»
«Siediti.»
«Ora non posso: ho delle cose da fare.»
«Ti ho detto di sederti.»
Il tono della mia voce le indica che deve farlo.
«Non sono un maestro di usi e costumi, ma credo di essere abbastanza educato. Credo che nell’ultimo quarto d’ora tu mi abbia insultato troppe volte. Forse il problema è stato mio per averti dato troppa confidenza. A partire da adesso cerca di mantenere un poco le distanze.»
«Embè? Che ti è venuto...?»
«Ti pago lo stipendio ogni mese. Chiudo un occhio sui tuoi orari e la tua musica e le tue stupidaggini da bambina maleducata che crede di avere diritto a tutto. Su quella rabbia cronica generazionale di perché devo lavorare se è una cosa da anziani. Ma c’è un limite. Educazione, si chiama. Rispettalo o vattene.»
«Credo che stai riversando i tuoi problemi personali su di noi. Prima su Biscu, e ora su di me.»
«Ti assicuro di no.»
«Se vuoi me ne vado.
«Fa’ quello che vuoi. Non ti sto licenziando. Ti sto dicendo di ricordare, di tanto in tanto, che potrei essere tuo padre, ma non lo sono e invece sono il tuo capo. Controllati. Hai capito?»
La faccenda di suo padre è perfettamente e automaticamente mal interpretabile e non servirebbe a nulla dire che l’ho detta senza pensarci. Fa lo stesso. Se se ne vuole andare, se ne vada. Sono stufo di trascinare fardelli. Agita la testa. Potrebbe darsi che stia annuendo. Lo do per buono. È troppo orgogliosa per qualcosa di più.
«Ora puoi andare.» Quando arriva all’altezza della porta le dico: «Piano con la porta».
Estefanía non si volta. Ha afferrato il pomello ed esce, chiudendo un po’ troppo forte per i miei gusti. Grande giornata, quella di oggi, per quanto riguarda i rapporti di lavoro. Peccato non aver preso dalla filmoteca Sciopero! e guardare e riguardare il cadavere del povero cavallo in bilico sul ponte levatoio come un qualunque Velux. Metto in carica il cellulare in una delle poche prese libere. Mi procuro un pennarello e comincio a prendere appunti.
Cose che ricordavo male. Cose che non sapevo. Cose. Se non è per lavoro remunerato non mostro grande interesse nel conoscere il genere umano, e tanto meno quello che uccide, ruba o distrugge.
Nonna e nipote. La nonna morta in sala da pranzo e la nipote nella sua stanza. Il cane mansueto i cui latrati nessuno ha sentito. Un’adolescente dell’appartamento di fronte quella mattina aveva sentito una lite in un tono più elevato del solito. A quanto pare, era una famiglia di tre donne urlatrici e attaccabrighe. Il delitto potrebbe essere stato perpetrato verso le undici perché la vicina si stava scrivendo con il suo ragazzo quando ha sentito la lite monumentale, e lo ha confermato il corrispondente whatsapp. Alla fine, certo che c’è stato il furto. Soldi di un investimento a scadenza fissa che la vecchia aveva ritirato il giorno prima non si sa bene a che scopo, circa quattromila euro e dei gioielli, secondo la nipote sopravvissuta. Le chiavi e il cellulare rubati. Ambiente della minore. Movimenti antagonisti. I corpi erano senza vita da ore. Dalla mattina. Amèlia aveva un alibi. Era stata a lezione e, nel pomeriggio, con quel suo amico che poi ha chiamato i Mossos, visto che Amèlia era paralizzata, in un comprensibile stato di shock.
Da dove iniziare, detective?
Dalla brutalità degli omicidi e dall’ora in cui sono stati commessi. Amèlia è fuori questione. Almeno come esecutrice diretta. Avrebbe il movente di rimanere sola soletta al mondo, che di solito è una motivazione sufficiente per commettere violenze, ma non di questa entità, senza eredità milionaria di mezzo. Questo, in verità, non lo sappiamo, però, se eredità ci fosse, Amèlia starebbe dormendo in albergo e non rifugiata a casa di Marina. C’è la scomparsa del cellulare e delle chiavi e risulta che la porta non è stata forzata. Vale a dire, è abbastanza probabile che siano entrati con quelle chiavi. Può essere stato chiunque. Al menù aggiungiamo un vigile urbano violento che, probabilmente, è implicato in una serie di estorsioni e furti, uno che, chissà, vedendosi colto di sorpresa, può decidere di utilizzare la violenza, ma a questi estremi? Una cosa è scagliare venditori ambulanti di colore giù per la collina e avere le mani lunghe, e tutt’altra perpetrare questa bestialità.
In tutti i modi: qual era l’incarico? Proteggere Marina da Amèlia e dalle sue amicizie pericolose? Scoprire il grado di partecipazione attiva o passiva della donna o il suo consenso? Poteva trattarsi di un caso risolto con intuizione e quattro telefonate o del classico enigma irresolubile.
Verifico la mia situazione bancaria. Un disastro salvato soltanto perché sia la madre della Mocciosa sia Marina hanno versato l’anticipo dovuto. Vale a dire che ho degli incarichi. Verifico i miei risparmi. Banco Santander e altri gangster in cui ho le bollette domiciliate e un piano pensione che mi consentirà di dar da mangiare ai piccioni al carrer Marqués de Barberá un paio di volte alla settimana.
Decido di accertare chi segue il caso per i Mossos. Mi potrebbero cadere le dita se faccio il numero di Laura, perciò mi rivolgo alla concorrenza. Individuo quello di Alex Ferrer, a “El Periódico”, e lui, sollecito, mi risponde con la sua caratteristica voce da baritono mancato per l’avidità di un agente artistico.
Non mi sorprende il nome che mi fornisce: Jordi Matacañas. Un buon investigatore. Tranquillo, sicuro di sé, innamorato del suono delle sue parole quando le pronuncia. Sul lavoro è coscienzioso, disperatamente lento per i suoi superiori. Sembra preso da una serie televisiva europea, di quelle che quando fanno la versione americana la rovinano. Niente ostentazioni, per Dio, a che scopo. Padre di Burgos, madre catalana. Quarant’anni appena compiuti, al massimo. Nato a Santa Coloma come il Super Intendente Vicente. Nessuno sa in che momento ha inghiottito una scopa.
Cosa faccio?
Muovo il culo e vado al commissariato delle Corts. Un po’ di lavoro prima di una serata Subirats che ho da poco convocato e mi è stata confermata. Sempre se dà quello che dice di dare: magari Subirats fosse stato il mio fondo bancario.
«Avevamo un appuntamento?»
«L’ultima volta mi hai detto di venire senza avvisare.»
«Ti dispiace se c’è Mónica?»
«Chi è Mónica?»
«È una collega delle pubbliche relazioni. Registrerà quello che diremo. Cose dai piani alti.»
In pochi secondi Mónica entra nella sala del primo piano del commissariato delle Corts dove Matacañas mi ha ricevuto. Mónica ha i capelli corti, è alta e ben fatta, ha gli occhiali e un taccuino. Mi sembra commovente finché non tira fuori un cellulare e preme il pulsante per registrare.
«Cominciamo subito? Ho due faccende per le mani. Una mi hanno detto che la segui tu, la seconda non lo so, ma è possibile che tu segua anche quella. Si tratta degli omicidi delle prostitute di Montjuïc. Cominciamo da questo.»
«È mio. Più omicidi, meno poliziotti.»
Vuole impressionare Mónica, che sembra abbastanza impressionabile.
«Quello di Montjuïc è quasi un favore che faccio alla madre di una delle ragazze. È convinta che sua figlia sia viva. È quella che chiamavano la Mocciosa.»
«È da confermare. Non abbiamo il cadavere, ma ci sono testimoni che dicono che il Gueño è andato in giro a vantarsi di averla uccisa.»
«Però dove ha detto di averla seppellita non si è trovato niente.»
«Per questo è da confermare. C’è stato uno smottamento di terra. Questo, almeno, dovresti saperlo.»
«Parlare con te mi fa sentire un imbecille.»
«Mi dispiace.»
«L’altro giorno abbiamo visto il Gueño. Era lì lì per far fuori un’altra delle donne.»
«Lo sappiamo. L’hai quasi investito. Portate ancora la pistola voi detective privati o è ormai soltanto un’altra applicazione dell’iPhone?»
Che risate. Anche Mónica ride. Hanno una tresca. La vecchia storia di sempre. E io, la bottiglietta d’acqua di plastica a terra, che nessuno ha perduto e a cui tutti tirano calci.
«La porto, però non la uso a caso. A volte può far male a qualcuno.»
«Fine della conversazione. Talla, Mónica.»
Mónica obbedisce.
«Non scherzare, Matacañas. Tu mi prendi in giro, io ti prendo in giro. Pensa bene a chi ha aperto il fuoco. Io ero già qui quando tu hai iniziato. Non rompere. Qualche battuta, non c’è problema, tutti ridiamo, però anch’io merito rispetto.»
Mónica attende un’indicazione per rimettere in funzione il registratore del cellulare. Il mosso gli fa un cenno di dissuasione: continuerà a parlare, ma non vuole registrazioni.
«Non so altro. Siamo convinti che quel sadico abbia ucciso la Mocciosa e un paio di altre donne, ma non possiamo esserne certi. Stiamo smuovendo la montagna da cima a fondo. In tutti i modi, verrà giudicato, e se la giudice e il procuratore se lo lavorano per bene potrebbero applicare la dottrina Nani e processarlo anche se non si trovano i corpi. È difficile, ma non impossibile.»
«D’accordo. L’altra faccenda è più complessa. Gli omicidi del carrer Provença, la nonna e la nipote.»
«Su questo non posso dirti niente. Ci sono indagini in corso. Non c’è segreto istruttorio, ma non ti dirò niente. A proposito... chi ti ha assunto? Amèlia?»
«No. Amèlia sta vivendo a casa di una mia cliente e lei non si sente sicura.»
«Logico: le vittime sono morte a causa di un trauma cranico con un oggetto contundente.»
Il poliziotto sorride compiacente. Non so se dire qualcosa che immagino già sappiano: il vigile urbano e la sua relazione con Amèlia. Decido di stare zitto e di aspettare qualche altro commento, ma passa un’eternità e poi un’altra.
«E lei?»
«Lei cosa?»
«È sospettata o le avete fatto credere che lo sia?»
«Ha un alibi. Quella mattina è andata alle sue lezioni. Lei non le ha uccise.»
«Interverrò soltanto per tranquillizzare la mia cliente. Presto mi vedrò con lei o con loro. Possiamo collaborare.»
«Il miglior modo per collaborare sarebbe che tu non intervenissi.»
«Hai ragione. Mi è sempre andata male con il collaborazionismo e non imparo mai. E il cane?»
«Il cane non è stato. Questo sì che te lo posso assicurare.»
Altra risata di Mónica. Prima che io arrivi giù in strada, quei due staranno raccogliendo le loro battute migliori in un I grandi umoristi. Cerco di rovinargli il bel momento: «Bene, me ne vado. Buona fortuna con le urne per il referendum. Tiratele fuori alla fine, che è sempre più emozionante».