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Tapas spagnole cinesi

Alfons Subirats probabilmente è bigamo e beve duro e mangia a tutte le ore e in qualunque circostanza. La storia della bigamia è una cosa su cui scherza quasi fin dal primo istante in cui l’ho conosciuto, per cui è probabile che sia vera. Non ho ancora deciso se mi è simpatico o no. Probabilmente non lo saprò mai. Subirats è un bugiardo fin da bambino. “Mento per ingannare.” La frase, per la sua onestà, mi sembra sensazionale. Mi dico che è soltanto uno con il quale, di tanto in tanto, mi piace stare, condividere qualche ora, ma con ogni probabilità mi inganno ed è ormai qualcosa di più nei miei affetti. Non ricordo con esattezza come ci siamo conosciuti. Lui dice che è stato per un incarico professionale. Subirats è un avvocato divorzista e penalista. Sua moglie si chiama Josefina ed è procuratrice. Non ho mai conosciuto questa Josefina. Magari è l’autostoppista fantasma di cui si parla tanto. Una sera mi ha detto di essere omosessuale. E un’altra che suo padre era di legno e si chiamava Pinocchio.

Subirats è un uomo pieno di ossessioni, ma diverso da Biscúter: un altro girone infernale. Un figlio unico che ha dovuto convivere con amici immaginari e madri dai baci drammatici e feroci, ed è ancora lì: nuovi attori, stessi personaggi. Un giorno ha partorito l’idea di confezionare un itinerario gastronomico di tapas spagnole cinesi. Ha una tesi, e la tesi è che le tapas spagnole fatte e servite come si deve attualmente si trovano, unicamente ed esclusivamente, nei bar di quartiere gestiti da cinesi. Gli sono andato dietro per autolesionismo, per maltrattare il personaggio, però adesso lo scherzo si è fatto pesante e noioso. Glielo dico, ma lui persevera. Non per nulla è un avvocato.

Non entriamo mai in troppe valutazioni sulla situazione imprenditoriale o commerciale della famiglia cinese che di solito gestisce il locale in questione. In fondo tutto questo è come la vita di Subirats: menzogne su verità e mezze verità per coprire menzogne. La goccia malese degli azionisti cinesi sui vecchi gestori del bar. Una settimana, poi un’altra e un’altra e un’altra. La loro offerta al rialzo. Il loro impegno di rispettare il personale autoctono previa epurazione. Indennizzo di quarantacinque giorni per anno di lavoro. Firma dal notaio. Dove ti ho detto cinque saranno due o tre. Prendere o lasciare. Il venditore che ha bruciato i ponti dietro di lui accetta, certo che accetta. Il personale che rimane dopo la cessione scompare appena il personale cinese – cellula base: moglie, marito, figli e cognato – ha imparato i rudimenti del chorizo leggero, della chistorra, delle patatas bravas con due salse, delle seppioline e di una seppia aglio e prezzemolo, oltre alle “bombe”, ai peperoni di Padrón e ai pesciolini fritti. «Scòrdatene, Carvalho. Non fare quello di sinistra. Open your mind. Tutto questo ci svia dalla questione» insiste e insiste Subirats. E la questione è come alcuni riescano a conservare il tocco alle tapas di tutta la vita, mentre il personale catalano, murciano o di Calahorra l’ha perso in maniera inversamente proporzionale. Secondo lui, la decadenza ispanica sulle tapas è identitaria e gravissima: «Se perdiamo le tapas, perdiamo la Spagna».

Il baretto in cui ci troviamo non è molto più di un corridoio che si apre sul carrer Caldes de Montbui, vicino a plaça Maragall, dietro Navas de Tolosa. Lo chiamiamo Cinque Euro perché così recita il cartello, e molte volte, qualunque cosa ordini, se chi ti serve è il cognato del proprietario, il prezzo è cinque euro. Da buon patriota e buon cocainomane, Subirats è un pesantone. Mi nasconde male entrambe le cose. Cambia spesso bandiera perché la sua specialità è la veemenza frenata però da un senso acuto dell’imbarazzo che genera negli interlocutori. Può schierarsi contro il salvataggio delle banche e la legge sui mutui fino alla prima performance in una manifestazione. In quello stesso momento, ordinerebbe cento sgomberi e tre pene di morte.

Il tizio all’estremità del corridoio ha vinto alla macchinetta mangiasoldi. Sopra di lui, il televisore è acceso senza audio, per cui non si sente su cosa litighi quella donna che litiga e si arrabbia. Neorealismo fuori e dentro il televisore. Penso che da qui a pochissimo in quell’apparecchio vedrò Biscúter che fa smorfiette con il grembiule e la forchetta in resta. Sono tentato di raccontarlo all’avvocato, ma mi vince una pigrizia immensa.

«Se possono falsificare una Louis Vuitton, possono falsificare una morcilla al riso di Burgos. È genetica: pura capacità di mimesi.»

«La chistorra è buona. Mi mancava. Con quel gusto di padella bruciata e cancerogena. Mi sta piacendo da matti. Vedremo domani.»

«Domani non la noterai neanche, Pepe. Lo includiamo nella guida. Come si chiama? Sul serio si chiama Cinque Euro? Non ho visto l’insegna.»

«Quanti bar ti sei fatto?»

«Sette. Erano otto, però il Verde di Virgen de Montserrat ha cambiato di nuovo cinese: dovremmo ritornarci.»

«È quello che succede sempre con i commandos: arriva quello meticoloso che li fa tornare sui propri passi e allora li beccano.»

«Possiamo darlo per buono, ma genereremmo informazioni che possono portare fuori strada i futuri commandos rivoluzionari delle tapas. Ogni proprietario dà il suo tocco alle patatas bravas in modo che continuino a essere le stesse. Però, Pepe, mangia qualcosa. Vuoi che ordiniamo una seppia? Un polpo...?»

«Stai parlando con un galiziano, per l’amor di Dio. E poi stasera voglio cucinare.»

A volte lo invito a cena a casa. Ma oggi non è una di quelle sere e forse questo lo infastidisce. Non ho il tempo di saperlo perché, con un balzo, si alza per andare alla toilette. Di nuovo. Ovviamente. Tornerà mezzo fatto, amara la saliva delle prime parole e attento a che io non veda né faccia domande. Come se me ne fregasse. Nelle nostre prime scorrerie mi aveva offerto un po’ della sua cocaina. Avevo rifiutato, immagino con un atteggiamento patrizio, perché non ci ha mai più riprovato. Nel mio cervello – ancora debitore di strutture e sovrastrutture della Storia – sniffare cocaina è assegnato allo stesso rango di praticare l’ippica, di indossare una polo Lacoste o di mandare i tuoi figli a fare un master nello Iowa. Tutti quei ragazzini che saltano con la rete di protezione. Tutta quella boria. So che è una stupidaggine. Un’enorme stupidaggine. La droga è interclassista. I trafficanti amano il capitalismo selvaggio. E in questo paese sniffa e traffica cocaina anche tua madre, ma c’è dell’imbecillità manifesta in tutto questo. È facile indignarci con i nostri governanti e le nostre istituzioni mentre non facciamo nulla per impedire i furti e le umiliazioni del dealer in questione. Ma sentiti, Carvalho...

Sì, a volte non mi sopporto nemmeno io.

Sono un vecchio scontroso e risentito. A mia difesa, dirò che lo sono fin da quando avevo sette anni. Prima di quell’età, non ricordo quasi nulla tranne una bruciatura di sigaretta sulla mano da parte di mio padre, involontaria, ovviamente, e come mio nonno Eusebio mi tirava fuori le caramelle da dietro le orecchie.

Torna in te, Pepe: l’avvocato ha già pagato.

Nella sua auto, una Hyundai che il renting fa sempre odorare di nuovo, gli dico di andare al Milano. Comincia a suonare una musica che sopporto, una specie di jazz per arrivare a casa dove ti aspetta qualcuno meraviglioso che ti dice che la cena dai Turner è stata annullata e perché non ti metti comodo e rimaniamo qui noi due. Una donna canta le sue pene in inglese, troppo bene perché tu ci creda. La città che passa dai finestrini ha molto della dolce imboscata. Subirats guida bene, tranquillo, e ha aperto una parentesi nella logorrea che è il suo marchio di fabbrica. Restiamo entrambi, per alcuni minuti, nella stessa bolla di silenzio e raccoglimento mentre le strade ci avvicinano alla cockteleria probabilmente troppo presto. Gli edifici sembrano costruzioni civilizzate di una città sensata, in un certo qual modo irreale, quasi aliena. Barcellona, adesso, assomiglia a un posto gradevole in cui vivere, a patto che lo si faccia in un’auto di gamma alta. Senza rumori meccanici. Riusciamo a parcheggiare a Balmes, a pochi passi dal Milano, locale a cui si accede scendendo delle scale newyorkesi con un’architettura da profezia che si autoavvera. Facciamo scorrere le tende e verifico che, per fortuna, oggi non c’è spettacolo.

«Ti ho controllato la faccenda del pezzo grosso di Madrid. Vado in bagno e ti racconto.»

Non ricordavo di averglielo chiesto.

Avrei preferito rimanere al bancone, ma al Milano Subirats gode di qualcosa di simile alla considerazione di una persona importante e il cameriere ci conduce a un tavolo. Un tavolo, va detto, come qualunque altro. Devo scegliere fra sedia e divano e faccio il pigro. Un divano è sempre il posto migliore per sopportare un cocainomane appena tornato dal bagno.

«Ti interessa ancora o cosa?»

«Dipende. In questo momento non so se ho o non ho l’incarico, ma dimmi.»

«Apparentemente è come il Signor Perfettini. Impeccabile, ma si parla di un fascicolo che avrebbe in mano Pedro J., l’ex direttore di “El Mundo”.»

«Pedro J. ha fascicoli su tutto e tutti.»

«Cose sensibili per l’opinione pubblica. Niente direttamente contro di lui. Però ha frequentato posti in cui non avrebbe dovuto essere. Posti dove succedevano cose che non sarebbero dovute succedere in sua presenza. Posti dove si prendevano cose che non si sarebbero dovute prendere. È sposato. Terzo matrimonio. Due figli con la prima moglie. Una figlia con la seconda. Più giovani di lui la seconda e la terza, cosa che sicuramente già sai. Non ha molte proprietà, ma spende i soldi che ha e che avrà. Profilo double-face: progressista per quanto concerne i diritti sociali e la libertà individuale, e chiusura per quello che riguarda l’identità e l’integrità della Madre Patria. Un signorino di quelle parti, insomma. Si dice con molta insistenza che entrerà nel governo della Comunità di Madrid, ma non si sa mai.»

«Poca roba.»

«Viene da una famiglia ricca, ma meno di quanto si vanta e di quanto appare. Qualche scheletro nell’armadio ce l’avrà, ma insomma, non è Idi Amin.»

Visualizzo Estefanía che cerca Idi Amin su Google.

La coca comincia a tendere e allentare i comandi del flipper dell’avvocato e la molla percuote già palline extra sotto forma, per esempio, di brusche sterzate per cambiare argomento: «L’altra sera hanno dato un documentario molto interessante sulle mogli dei dittatori. C’erano figlie di puttana di tutti i tipi. Evita, per esempio, ha approfittato del viaggio in Spagna per portarci della carne, far visita al papa e lasciare in Svizzera qualche piccolo risparmio di alcuni amici tedeschi in esilio. L’hai visto? Hai la faccia di uno che non guarda molto la tele, no?».

«No.»

«Ma ce l’hai un televisore in casa?»

«Sì, ma soltanto per guardare i film.»

«I film che danno in televisione?»

«No, li prendo alla filmoteca.»

«Ah, un vero intellettuale.»

«Io non ti ho insultato.»

«Sai chi era una donna perbene e perciò si è suicidata quando ha scoperto che mostro aveva accanto?»

«Yoko Ono.»

«La moglie di Stalin. Cazzo, Yoko Ono è viva.»

«Sicuro?»

Arrivano il mio Ardbeg con il mescitore d’acqua e l’Alexander al whisky dell’avvocato. Mi bagno le labbra. Eccellente. Poco cibo nello stomaco, devo ricordarlo. Oggi sono dovuto andare dal calzolaio per farmi fare un altro paio di fori alla cintura. Dovrei cercare di mangiare di più, almeno di quello che mi fa bene. Dovrei, è chiaro. Ma qui deep inside compaiono, rigurgitate, le chistorras.

E Mussolini, e Trump, e Maduro.

«Trump finirà per essere il miglior presidente della storia degli Stati Uniti. È pazzo, però fa cose che nessuno avrebbe osato fare. Ci saranno altri Trump in Europa, nel mondo. Vedrai.»

Non gli rispondo. Non mi va di ascoltare la mia voce in quella conversazione. Non so neanche se sono d’accordo o no con lui. Non me ne importa niente. A un paio di tavoli di distanza ci sono due donne che per me sono più interessanti di Subirats, delle sue mogli di macellai e del pagliaccio alla Casa Bianca.

Nuova sterzata, adesso in direzione dell’Argomento per antonomasia.

«Noi catalani non vogliamo l’indipendenza. Non sul serio. Alcuni sì, ma la maggioranza, la grande maggioranza, no. Quello che vogliamo davvero è reclamarla. Chiederla, pretenderla, una volta e poi un’altra, generazione dopo generazione. Pensaci bene. Quando l’avremmo potuta avere, ci siamo tirati indietro. Manifestare, fare catene umane, una V maiuscola, indossare le magliette, interrompere con gli applausi la partita del Barça al minuto 17.14, la data della resa di Barcellona, quello sì. Siamo stati un paese in cui noi ragazzi crescevamo in gruppi escoltes, centri parrocchiali e boyscout. Sappiamo fare escursioni, sappiamo camminare in fila. E siamo cattolici. Abbiamo mossens, Junqueras, Guardiola. Suore soldato come Rahola e perfino dei santi, guarda i due Jordi. Vedrai, Carvalho, quando li metteranno in prigione, quanti caganers venderemo, e perpetueremo il martirio a bassa intensità e il folclore che è la nostra salsa, te l’ho detto. Non ci sconfiggono nel 1714 e ci fanno a pezzi. Quello che ci piace è sentirci moralmente superiori agli spagnoli. Ed è così facile sentirsi moralmente superiori a tutta la casta fascista spagnola.»

Tento di dire qualcosa mentre non smetto di guardare una delle donne, che se ne accorge e mi restituisce lo sguardo, con curiosità più che interesse predatorio, va detto.

«Io penso che la gente voglia che succeda qualcosa, anche se si tratta di una tragedia o di una commedia buffa. Tutto tranne che questo andazzo. Io penso che ci siano due milioni di persone che si sono già rese indipendenti dalla Spagna e non è che mi meravigli.»

«Allora è fatta: perché vuoi formalizzare il divorzio? Fate vite separate. Come me, Pepe. Come i baschi.»

«Loro hanno gli accordi sui trasferimenti finanziari dello stato. Io voterei per un partito il cui unico punto di programma di governo fosse l’abolizione di quegli accordi e poi farei sprofondare tutto il paese in mare come Atlantide.»

«Cioè?»

«Lo dico tanto per rompere i coglioni.»

«Ai baschi?»

«A tutti, Subirats. Non mi piacciono le bandiere. Per quanto mi riguarda, non ho neanche compatrioti. Un’idea con cui sono d’accordo più di tre persone mi sembra già altamente sospetta.»

«Ma hai fatto politica. Sei stato comunista.»

«Lo sono stato prima di essere giovane. In realtà scrivevo i discorsi al Lenin più malinconico. Sono anche stato il fidanzato della moglie di Stalin. Mi hanno sempre attirato le suicide.»

«Sei uno stronzo. Non so mai se parli sul serio o per scherzo. Sai se Lenin aveva una moglie? Perché il documentario non lo diceva. Non ha avuto neanche il tempo di diventare dittatore. Tu hai moglie?»

«No.»

«Divorziato?»

«No.»

«Figli?»

«Una, che io sappia. Negli Stati Uniti. E non continuare a fare domande.»

«Perché mai ci piacciono tanto le donne? A me fanno perdere la testa. Mi fanno diventare matto. Non le desidero tutte, ma mi piacciono tutte. Sono sempre, a parte la bigamia istituzionale, in sei o sette letti allo stesso tempo. È una malattia da cui non guarisco. Gli uomini non mi piacciono. Mi annoiano. Siamo cafoni, monotematici, canini.»

«...e alcuni perfino spagnoli.»

«Senti, io posso essere indipendentista, ma non nazionalista.»

«Prima ti ascoltavo e mi sembravi di Ciudadanos. E a tratti omosessuale. Me l’hai detto tu.»

«Sono di Podemos, ma benestante. Sono quelli che scopano di più. A Madrid, almeno. La mia fase omosessuale è stata breve. Non appena ho smesso di vedere film di Brad Pitt, mi è passata. Ancora da bere...?»

«Ovviamente.»

«Qui o andiamo da un’altra parte?»

«Qui e andiamo da un’altra parte.»

«È la donna del tizio di Madrid quella che ti interessa...?»

La domanda mi spiazza. Faccio cenno di servirci ancora da bere.

«No, non mi interessa» dico, sapendo che il mio bluff è scoperto.

«Non abbiamo imparato niente, amico. Non hai letto Il grande Gatsby, Stendhal...?»

«Conosco un medico del Vall d’Hebrón che legge molto, anche se in modo confuso.»

«L’arrivista finisce per uscirne a pezzi. Sempre: non c’è via d’uscita. È come i sequestratori di ostaggi che chiedono un aereo per uscire dal paese. Perché chiedi un aereo, coglione? Se la cosa non è mai riuscita, e invece eccoli lì, gli idioti, che chiedono l’aereo del cazzo...»

«I rapinatori non hanno visto Quel pomeriggio di un giorno da cani

«Neanch’io.»

«Ma stai tranquillo. Le donne dalla doppia vita mi annoiano. Tu mi annoi, e tanto, quando parli della tua.»

«Sai cosa penso? Cambio argomento, eh?» Almeno stavolta avvisa. «Che se fai sprofondare la Spagna. Se la fai sprofondare in mare, cosa succede al Portogallo?

«Sarà un’isola. Nessuno noterà la differenza.»

«Azzorre e Lusitania. Suona bene. Una volta, da adolescente, ho avuto una ragazza portoghese. Sai come si chiamava?»

«Constança?»

«No, Kátia. Sì, Kátia... Uff, è finita male. Mi ha fatto a pezzi, la portoghese. All’epoca non lo sapevo ancora, ma mi ha insegnato che in amore ci sono soltanto due opzioni: morire o uccidere.»

«“L’amore è un massacro”.»

«Just can’t get enough. Tu recita Pavese, io i Depeche Mode. Qualche problema, detective?»

Prime sere di giugno, prossime le sagre popolari. Le finestre aperte in modo che il calore del camino acceso sia sopportabile. Mi sono concesso il lusso di avere qualcuno nel mio letto. Dorme placidamente. Mi giunge il suo russare, quasi lamenti o scricchiolii di molle di un letto vecchio. Si chiama Ruth, lavora in non so cosa e ha due figli. Divorziata in maniera amichevole. Guadagna molti soldi, su questo ha insistito, ma ciò non la rende felice, per cui sta pensando di cambiare vita e lavoro. Nel fare l’amore, non è taccagna né impostata. È stata sfortunata: la prima sera che va al Milano incontra me. Subirats, che proponeva di passare per il Boadas, non se l’è presa per la mia defezione. Probabilmente gli è servita da scusa per andare a letto con la sua donna numero tre o cinque. Non ho chiesto. Rispetto, e tanto, la gestione delle proprie immondizie.

Ho bruciato Imperatori di Bisanzio, uno di Paul Theroux, My Secret History, e ne ho appena lanciato nel fuoco uno dello Scrittore, uno che non ho mai sopportato, quello del Comitato Centrale. Tutto un po’ arbitrario, ma posso arrivare ad accettarlo.

In cucina faccio più rumore di quanto vorrei finché trovo la padella con il coperchio che sto cercando. Via via che dispongo le fette di bacon nel premeditatamente ironico olio Carbonell a fuoco medio, sento quanto avvertissi la mancanza di tutto questo. Non scaldarti, ora ti aggiungo. Salto e salto finché rilascia la maggior parte della massa sotto forma di grasso, signor Bacon, consigliere, uomo scelto per dominare i sollevati. Doratura del bacon, dorato il suo profumo, mescolandolo con un mestolo di legno. Non è la stessa cosa farlo con un mestolo di metallo o di legno, allo stesso modo che i bicchieri di plastica dovrebbero contenere soltanto campioni di orina e, in casi di emergenza nazionale, cubetti di ghiaccio. Ritiro il bacon e lo metto in un piatto foderato di carta del supplemento culturale perché faccia scorrere ciò che resta del grasso e impregni le novità da leggere in spiaggia. I fegatini di vitello che ho promesso a Biscúter di giustiziare sulla griglia e non mi ha creduto, e ha fatto bene, vengono salati e pepati su ogni lato e spolverati di farina. Uno di questi giorni crepa a forza di “farina”, l’avvocato tarato, l’avvocato che s’innamoricchia ogni settimana. Alzo la temperatura per l’olio, una cucchiaiata da minestra, e in ordine militare sistemo via via i fegatini a due a due. Non bisogna farli cuocere molto, Charo, dammi retta per l’amor di Dio, si deve conservare quel colore rosaceo di gloria benedetta all’interno. Correggo con olio: sono un cazzone, ecco qua. Tolgo i fegatini, che dicono sia un organo che si rigenera. Porri nella padella a fuoco alto. Li mescolo e raschio tutto quello che si brucia. Di nuovo quel mestolo di legno. Anche i pettini dovrebbero essere di legno e le gambe dei pirati. Sale e pepe. Aggiungo una mela golden che passava da quelle parti e il bacon e altro fuoco alto finché i succhi evaporano. Un po’ di Calvados nella padella calda e una meravigliosa fiammata mi dà ragione nella decisione di cucinare a quest’ora di notte. Quando si smorza, copro la padella. Fine delle fiamme a Bisanzio. Mezzo minuto di cottura. Verso il brodo e riduco. Aggiungo burro e mescolo il tutto: fuoco alto al di sopra delle muraglie. Assaggio e condisco. Cerco un vassoio, vi sistemo il composto insieme ai fegatini. Prima di coprirlo c’infilo il naso. Ha un profumo meraviglioso. Forse un purè di patate sarebbe l’ideale per accompagnare il tutto. Forse. Ma adesso non mi va di farmi un purè.

Torno in camera da letto. Rimangono un paio d’ore prima che faccia giorno. Afferro un dito del piede di Ruth e lo stringo finché non si sveglia. Mi domanda cosa succede.

«Devi andartene: mia moglie sta per arrivare.»

«Pensavo che vivessi da solo.»

«Anch’io.»

Si veste e se ne va. Se mi saluta, sotto la doccia non la sento.

Acqua e sapone, sporcizia, paura e pensieri che vorticano ai miei piedi. Esco, mi asciugo e mi vesto in camera da letto. Mi passo le dita sui capelli e m’infilo le mie Oxford Martinelli, il resto quasi non importa. Pettinato, vestito e pulito, entro in cucina. Sul marmo c’è il vassoio con quel meraviglioso fegato di vitello con bacon, porri, mela golden e Calvados. Prendo il vassoio e con un ugualmente meraviglioso mestolo di legno faccio scivolare il contenuto nel secchio della spazzatura. Come due notti fa. Come quattro. Come sabato scorso.

In sette ore di macchina, se uno è pazzo, può perfettamente arrivare a Madrid.