Per poco non mi accorgo della telefonata. Non ho ancora identificato quello stupido suono – nell’apparecchio ha il suggestivo nome di Westlake – che Briongos mi ha messo nel cellulare. Il segnale che mi avvisa che si tratta di un numero sconosciuto si accende e si spegne. Rispondo. Una voce di donna mi passa Jordi Matacañas. Saluta e domanda o forse domanda soltanto, anche se dal tono può darsi che pretenda solo, probabilmente nemmeno lui sa più differenziare quelle sfumature nella propria voce.
«Dobbiamo localizzare Amèlia Torras. Non risponde al telefono e non sappiamo dove vive. Avevi detto che stava da una tua amica.»
«Conosco soltanto un’Amèlia e non so se è quella che stai cercando.»
«Rendimi la cosa facile e non mando una pattuglia a cercarla.»
«Perché la vuoi?»
«Questo non ti interessa.»
«Non sono modi di chiedere le cose, non credi?»
Silenzio. Posso notare come si va esaurendo la pazienza del poliziotto quasi contemporaneamente alla mia. Nel poco che mantengo incolume c’è il non essere il lacchè di nessuno e che le cose mi vengano chieste per favore. C’è uno specchio in tutti i film di John Ford e io voglio potermi guardare in quello specchio per molti anni ancora.
«Non ho il suo cellulare. L’hai detto tu: è amica di una mia amica.»
«Chiamala. Mi preoccupa che non risponda al telefono. Temo per la sua integrità fisica. Ogni secondo che esiti, aumenta la tua responsabilità rispetto alla sua sicurezza. Vedi tu.»
«Non ho mai retto bene le pene del mondo, Matacañas. Faccio la telefonata perché si metta in contatto con voi se ne ha voglia.»
«D’accordo.»
«Però fammi un favore.»
«Dimmi.»
«Vattene affanculo.»
Riaggancio. Un’altra delle tue grandi imprese, Carvalho: metterti di traverso alla polizia. Do un’occhiata all’ufficio e penso che, senza Biscúter, magari decido di traslocare o di chiuderlo una buona volta, far fuori i risparmi in una vacanza da sogno cafone e aspettare la faccenda di morire mentre mi si scioglie il trucco al sole cubano. Se pure mi fanno entrare a Cuba. O uscire. Anche se, se ci vado, è per non uscire e, almeno, morire in terra santa. Mi vince la curiosità di sapere perché adesso vogliono parlare con Amèlia. Decido di chiamare Marina, ma prima mi lascio trasportare da un’iniziativa di cui mi sto già pentendo mentre compongo un altro numero.
«Subirats, dimmi che non sei occupato nelle prossime tre ore.»
Fra un’ora Subirats sarà al commissariato delle Corts. So che non è molto gradito da quelle parti da quando si è occupato dei ceffoni male assestati a una ragazza russa da parte di Mossos con poca pazienza e poca conoscenza del fatto che l’allora conseller agli Interni aveva piazzato delle telecamere e che le suddette telecamere registravano. Tento di localizzare Marina, ma non ci riesco. Lascio un messaggio. Passano i minuti in cui mi domando perché mi sto immischiando in questa faccenda senza ricavarne soldi. Mi do risposte come appena uscite da un’infermeria – debolucce, tremanti, facili da far crollare –, forse perché conosco già la risposta giusta: cerco soltanto di tenere la testa occupata. L’unica cosa che ho in previsione sono alcuni rappresentanti di un comitato di abitanti del carrer d’En Roig per non so quale casino che Biscúter mi ha segnalato con la sua minuta grafia da lemure dopo un tot di punti interrogativi.
È già passato un quarto d’ora senza che Marina abbia risposto al mio messaggio. Non voglio far aspettare Subirats e provo con la seconda opzione, che invece risponde. Max sembra di buonumore. In tutti i modi, si fa fatica a immaginarselo taciturno o, semplicemente, disincantato nei confronti del mondo che trova ogni giorno quando si sveglia.
«Sì, è qui con me.»
«Non risponde al cellulare.»
«L’abbiamo lasciato a casa. Siamo andati con la moto a trascorrere la giornata fuori. Vuoi che te la passi? È per la valutazione?»
Pigrizia sistemica di reggere la bugia contro la quale non combatto neanche. Per non parlare di quel tono ironico nella sua voce che mi dice che ormai sa dell’imbroglio. Certo che lo sa.
«Hanno chiamato i Mossos. Dev’essere tra mezz’ora al commissariato delle Corts. Alla porta ci sarà un signore in giacca e cravatta, pochi capelli e l’aria di chiamarsi Alfons Subirats. È un avvocato. Non mi hanno detto che era necessaria la sua presenza, ma preferisco che ci sia.»
«Sai di cosa si tratta?»
«No.»
«D’accordo, ci saremo. Poi ti diciamo com’è andata... Carvalho?»
Non ce n’è bisogno, cowboy. Mi basterà la fragile etica professionale di Subirats. Tra pochissimo arriveranno i visitatori. Lo dico a Briongos perché stia attenta al campanello, alla porta, eccetera. Mi chiudo dentro e mi arriva la telefonata di Marina, a cui non rispondo. Suona il campanello. Briongos fa entrare tre uomini. Manca una sedia. Estefanía è attenta a queste cose. Il gruppo consiste di tre tizi: due sessantenni magri e cerulei, uno alto e con tratti da zingaro e l’altro rubicondo e molto più basso, tanto che quasi non appoggia i piedi a terra quando è seduto. Il terzo, quaranta e rotti, sfoggia una pettinatura e una rasatura accurate e una maglietta rock con un trio in posizione cartoccio che a quanto pare risponde all’inventivo nome di Stray Cats. Porta gli occhiali e delle scarpe di camoscio nere che gli devono far sudare i piedi in maniera immisericordiosa visto il caldo che sta già facendo. Dà segni di non volersi trovare qui. Gli altri, probabilmente, nemmeno, ma sanno che alle ultime partite a bocce davanti al Tribunale ci potranno arrivare se ci diamo un po’ tutti una mossa. Quando pronuncio il fatidico «Ditemi tutto», comincia uno dei giocatori di bocce mentre il giovane curiosa con lo sguardo per il mio ufficio. Il discorso è già pronto. Forgiato nei comitati di quartiere e sull’incudine degli sportelli dell’Amministrazione. Comunque sia, lo tengono già masticato e sanno sputarlo fuori con quello stile alla Podemos tipo “ora dico tutto e via e, se per caso mi rimane del tempo, allora respiro”. Indicano numero civico e via mentre mi metto le mani sotto il mento e, al primo pianerottolo che trovo, li faccio scendere dal discorso preparato.
«Siamo sempre stati una comunità con le nostre cose, ma onesta e che sapeva convivere. Ciascuno con le sue storie. Se lei è di qui, del quartiere, sa già a cosa mi riferisco. E la stessa cosa quando è arrivata la gente da fuori. Ecuadoregni, nigeriani, marocchini, di tutte le parti. Io non sono razzista...»
«Io, sì» dice l’altro giocatore di bocce.
«Questo non importa.»
«No, non importa,» intervengo «ma se gli si comincia ad alzare il braccio destro lo butto giù dalle scale.»
Nessuno ride. A volte, uno si merita il pubblico che ha.
«Insomma, il nostro problema sono gli appartamenti vuoti. Avrà sentito parlare dei narcoappartamenti.» Annuisco. «Siamo in una situazione disperata, signor...»
«Carvalho.»
«Signor Carvalho. Troviamo siringhe dovunque. L’altro giorno abbiamo visto uno degli spacciatori che faceva la guardia e aveva infilato così» esemplifica con la mano nei pantaloni «un machete impressionante. Un machete. Vai in vacanza e ti occupano la casa e poi, per cacciarli, la mano di Dio. Conoscono le leggi per filo e per segno.»
«Sono appartamenti per drogarsi, per vendere droga. Li derubano, ci fanno di tutto. Vengono da tutt’Europa. Anche i mendicanti o i ladri usano quello che rubano per comprare la droga e s’infilano nelle case.»
«Narcoturismo» interviene il giovane, e così sento per la prima volta la sua bella voce.
«Denunciateli. Parlate con i proprietari. Quelle case devono pur essere di qualcuno.» Lancio la domanda, ma conosco o dovrei conoscere a memoria la risposta.
«L’altro giorno è uscito su “La Vanguardia”. Soltanto nel quartiere ci sono centosette proprietà vuote, ottantasette...»
«Ottantaquattro.»
«Vabbè, ottantaquattro sono di fondi d’investimento e il resto delle banche. Con la crisi e gli sfratti, quelle case sono rimaste senza proprietari e adesso come fai a parlare con un fondo d’investimento? Chi cazzo è un fondo d’investimento?»
«Sono supermercati della droga: ventiquattr’ore su ventiquattro» interviene di nuovo, stavolta con più impeto, il giovane. «Abbiamo fatto di tutto. L’altro giorno in un po’ di persone abbiamo fatto irruzione in uno di quegli appartamenti e abbiamo cacciato tutti i tossici a mazzate. Non le dico com’era ridotto. E il terrazzino che avevano. È da una settimana che portano via macerie e non hanno ancora finito. Ma non importa, i drogati dormono sulle scale. La droga la controllano romeni, pachistani e adesso dominicani.»
«Già, ma non riesco a capire in cosa...»
«Cerchiamo di essere uniti, però ognuno va per conto suo. E loro sanno benissimo cosa significa.»
«Lo sanno perfettamente» sottolinea il giocatore di bocce, che prende la parola forse volendo riprendere l’iniziativa. «E, per di più, i colpevoli di tutto questo, le maledette banche, ci prendono di nuovo in giro. Se occupano la casa di una famiglia, questa fa la denuncia prima possibile o butta giù la porta. E la denuncia va avanti se trova un giudice per bene che la cataloga come violazione di domicilio e non come occupazione...»
«Non ce ne sono tanti così.»
«Ma almeno adesso ce ne sono. Prima, neanche questo.»
«Ma siccome sono banche, i procedimenti si allungano. Loro non hanno interesse. Per loro è indifferente. Se la polizia entra e ci sono tossici, li arrestano, però, altrimenti, se c’è gente normale, ha il diritto di restare e la causa diventa civile e allora sono mesi, anni. Dilazioni, citazioni non consegnate perché non li si trova, o a cui non si presentano e i processi vengono sospesi in continuazione. È una faccenda che sta per esplodere e nessuno fa niente.»
«Vediamo, mi rendo conto della situazione, ma non capisco come posso entrarci e perché avete bisogno...»
«Mi ha fatto il suo nome un mio amico» rivela il giovane. «Mi ha detto che lei era un combattente. Di quelli che non si arrendono.»
«Signor Carvalho, noi siamo una comunità di venti abitanti, però l’idea è di metterne insieme diverse e abbiamo bisogno di un amministratore di proprietà che non ci abbandoni come gli ultimi tre.»
«Quattro, sono stati quattro, Xavier.»
Quando rimango da solo, allungo una gamba e con il piede che Dio mi ha concesso alla sua estremità apro di più la finestra per vedere se passa un po’ d’aria di metà pomeriggio. Però la canicola rende immobile l’atmosfera. Sono tentato di non chiamare, ma finisco per farlo.
«Non mi piacciono gli scherzi, quando non sono in vena. Mi devi il costo di un appuntamento. Sono cento euro.»
«Non parlerai sul serio. Non penso di pagarti. Tu mi hai preso in giro. Tu e Marina avete preso in giro me e Amèlia, e adesso vi restituisco il favore. In realtà, a quanto pare, adesso abbiamo più bisogno di un detective che di un agente immobiliare. Aspetta, ti chiamo ora che esce il tuo amico avvocato.»
Riaggancia. Faccio passare il tempo. Alla fine è Subirats a telefonare.
«L’hanno trattenuta.» Silenzio per il tiro alla sigaretta che negli scantinati del commissariato non ha potuto fumare. «Domani la liberano, dopo essere stata messa a disposizione del giudice. Aveva bisogno di un avvocato, Pepe. Ne avevano chiamato uno d’ufficio. Gli ho dovuto chiedere il permesso e promettere che l’avremmo pagato.»
«Parlane con il cowboy. Di cosa si tratta?»
«A quanto pare, oggi sono state ricevute delle lettere anonime che possono implicare la ragazza.»
«Oggi?»
«Sì.»
«Chi li ha ricevute?»
«Loro. In commissariato. Lettere anonime alla vecchia maniera: vintage. Per posta. Non so altro. È quello che mi hanno voluto dire, sai come vanno queste cose.»
QUEBRAMOS 2X1 CALLE BAILÉN. NIÑA FRESA NON FARE L’EBREA. IL RATI NON CONTA. PAGÁ.