Non posso andare a salvare nessuno. Non posso lasciare le cose così come stanno da queste parti. Non me lo ripeterò altre volte. È così. Non posso avvelenarmi con i suoi giochetti. Non posso starci. No.
La telefonata era di Lidia, la collega di lavoro di Fidanzata Zombie. Secondo lei, aveva chiamato di sua spontanea volontà. Non dovevo dire niente all’amica. Non andava al lavoro da giorni. Non rispondeva alle telefonate. Non ha risposto neanche alla mia dopo che ho riagganciato con Lidia.
Mi dispiace, ma adesso no.
Se stai affogando nel pozzo, trattieni il respiro. Se il pendolo avvicina pericolosamente la sua lama al tuo corpo, schiacciati a terra. Se l’assassino è entrato nella stanza, resta sotto il letto e non fare il minimo rumore. E via così.
Squilla il cellulare. È Mónica, la mosso che era presente all’ultimo incontro con Matacañas. È ovvio che non si umilierà a chiamare lui di persona dopo la mia maleducazione. Mi suggerisce di andare immediatamente da loro. Se non ho soldi per il taxi, mi mettono una macchina a disposizione. No, grazie. Verrò con i miei mezzi. Subito. Fermo un pachistano coperto da una macchina e in men che non si dica sono in commissariato. Non riesco a focalizzare la testa su due pensieri che mi portino in qualche posto da cui poter edificare l’impalcatura di quello che è successo, di quello che probabilmente sta succedendo.
Do il mio nome e dico il motivo della mia presenza lì. Mi danno un pass, mi accompagnano nella stanza in cui attendono interpreti e avvocati e non ho neanche il tempo di sedermi che già sono in ascensore diretto al terzo piano. Stavolta c’è solo Matacañas. Non sembra avere né molta voglia di chiacchierare né di giocare a vedere chi è più abile con la scherma. Perfetto, perché non ne ho voglia nemmeno io.
Tuttavia, comincia con un soliloquio. Mi dico che sopporterò un paio di interruzioni pubblicitarie prima del film. Due, ma non una di più.
«Perché sempre la stessa cosa? Perché tutti voi rompete i coglioni? Giornalisti, opinionisti, detective, politici... Lasciateci lavorare, cazzo.»
Dobbiamo cominciare così?
«Io faccio il mio lavoro e tu il tuo. Però in questa faccenda non ho interferito per nulla nelle indagini che state conducendo...»
«Tranne che nascondendo l’esistenza delle prime lettere anonime.»
«Per proteggere la mia cliente.»
«Amèlia non era, non è una tua cliente. Almeno fino a ieri sera, quando siete diventati un po’ più intimi.»
«È vero, non era una mia cliente. Così mi sento un po’ meglio.»
«Magari quella scopata ti costa un po’ cara. Per il momento, sei stato l’ultimo a vederla viva.»
«Ci ho appena parlato al telefono.»
«Dov’è?»
«Nel suo appartamento.»
Matacañas prende il telefono e dà indicazioni perché si presentino al domicilio di Amèlia nel più breve tempo possibile e la portino in commissariato. Non ho idea del perché, ma non lo chiederò.
«Poi il tuo amico avvocato e tu andate a trovare il vigile. Lo sai che ha già una denuncia al Collegio degli Avvocati?»
Era prevedibile. Non sarà né la prima né l’ultima di Subirats. L’investigatore si siede sulla scrivania lasciando pendere i piedi. Io sono su una sedia a un paio di metri da lui. È accesa l’aria condizionata e i calzini di Matacañas sono rossi. Per il resto, il solito.
«Non credo di sapere qualcosa che voi non sappiate. Sapete della doppia vita di Amèlia. La faccenda delle lettere anonime. Ha un fidanzato balordo e violento in carcere e uno controllante sulla collottola. E c’è qualcuno, uno dei due, da soli o accompagnati, c’è qualcuno che ha ucciso in maniera violenta la nonna e la sorella di Amèlia. Nessuno dei due ha un movente abbastanza forte da giustificare la violenza. Magari non è nessuno di loro due. Le lettere anonime parlano di un poliziotto. Questo punta verso Del Río. Forse con troppa evidenza. Non lo so.»
«Tutto questo lo sappiamo. Questo e altro.»
«Non ho alcun interesse a vincere il premio per il lavoratore del mese, Matacañas. Voglio che non succeda più niente a nessuno. E credo che Amèlia sia in pericolo.»
«Lo è e ce l’hai messa tu.»
«Questione di prospettiva, ma temo che non ci sia più spazio per nessuno nella mia cattiva coscienza.»
«Un po’ di spazio rimane sempre.»
Esce dalla stanza per cinque, forse dieci minuti. Approfitto della temperatura gradevole per chiudere gli occhi e lasciar passare il tempo con la mente sgombra. Mi strappa dal limbo lo stesso Matacañas. Lo hanno informato che nell’appartamento non c’è nessuno. Sono riusciti a entrarci e niente, a eccezione del suo cellulare sul tavolo da pranzo.
«Ti si oscura un po’ la coscienza.»
«Non rompere. Se era in pericolo, avreste dovuto metterla sotto sorveglianza.»
«Qui non siamo a Hollywood. Con i tagli e la paura degli jihadisti stiamo lavorando tre volte di più di quello che potremmo. Possiamo tenerla più o meno sotto controllo, ma non sorvegliarla giorno e notte.»
«Sarà con Max.»
«Se lo fosse, lo sapremmo, e non è con lui.»
«Lui è sotto sorveglianza?»
«Fin dal primo momento.»
«Ma perché mi ha assunto?»
«C’è una risposta ovvia e una malata. La ovvia è che così poteva avere accesso a tutto quello che non poteva controllare. Quella malata te la spiegherebbe meglio uno psichiatra. Uno psicopatico può perfettamente assassinare un tizio, farlo a pezzi, spargere le membra per tutto il paese e poi, siccome non lo beccano, raccontarlo al bar sotto casa. Il nemico di questi tipi non è la polizia. Ma la noia. Perciò amano giocare. Con te. Con noi. Probabilmente la faccenda delle lettere anonime è cosa sua.»
«Erano esagerate, un misto...»
«Saltava agli occhi. Ma poteva essere un gioco. Difatti lo era, per spaventare Amèlia, ma poteva non essere lui il colpevole degli omicidi. Agli effetti probatori non abbiamo niente contro di lui. Lo capiamo perfino noi. Dobbiamo aspettare.»
«È stato implicato in una strana storia con la sua precedente compagna.»
«Siamo la polizia, Carvalho. Sappiamo tutto.»
«Allora...?»
«Neanche su quello abbiamo qualche prova che lo incrimini. L’ho detto: dobbiamo aspettare che commetta un errore.»
«Posso cercare di farlo parlare.»
«Puoi. Registrarlo. Cose del genere. Sì, ma chissà se poi serve. Se è stato lui, ha dimostrato un sangue freddo assoluto. Le conosceva. Le ha uccise a bastonate.»
«Perciò gli ha coperto il viso.»
«Se non fosse stato qualcuno di molto vicino, non l’avrebbe fatto. Ma questo è già territorio minato. Ci sono cose che possono essere fatte per depistare, altre no. Niente di conclusivo.»
«Ha fatto la doccia. Ha portato il cane via dalla scena. Un cane che lo conosce e non abbaia.»
«Se l’è portato in macchina. Può sembrare strano, ma stava dando fastidio e sguazzando nel sangue. In realtà, è una decisione sensata. Ma così si copriva anche nel caso in cui fossero rimasti resti delle vittime nella macchina.»
«Ma a che scopo?» chiedo, nel caso il mosso mi dia un’altra risposta rispetto a quella che io penso.
«Controllo. Egocentrismo. Psicopatia. Dobbiamo aspettare che dica o faccia qualcosa che non deve.»
«Per esempio?»
«Nonostante giornalisti e avvocati, in un’indagine si omette qualche informazione in attesa che il colpevole o i colpevoli ne parlino o facciano domande.»
Mentre Matacañas va avanti con le lamentazioni, ripenso a tutto quello che ho letto sui giornali. A quello che ho dedotto. Alle conversazioni di Max. Mi accorgo di una cosa che, al momento, mi era sembrata nuova. Una cosa che, ne sono sicuro, ho saputo sicuramente da lui.
«Lui mi ha detto che la luce se n’era andata a causa della lampada sul tavolino. Un cortocircuito nella colluttazione, con tutto quel casino. Non l’ha detto come una possibilità e, anche se fosse stato così, lui come faceva a saperlo? Non ricordo che sia uscito sui giornali o alla tele. Mi è suonato nuovo quando gliel’ho sentito dire.»
«Non è uscito sui giornali. Sicuro. Potrebbe essere qualcosa perché effettivamente è così che è andata.»
«Posso cercare di farglielo ripetere, registrarlo...»
«Dovremmo pensarci bene, preparare tutto.»
«Magari non c’è tempo.»
«Se è lui, credo che stia già pensando ad altro. Mi riferisco all’ultima lettera anonima. Dà Amèlia in pasto ai leoni. A cosa gli serve Amèlia in carcere? Lì non può proteggerla.»
«La terrorizza. Le impedisce di allontanarsi da lui. Ci controlla tutti. È questo il gioco.»
«Può darsi. Lasciami ripensare all’operazione. Non fare nulla di tua iniziativa, Pepe. Te lo chiedo per favore.»
«D’accordo. Cercherò di comportarmi bene.»
«Se ti comporti male, almeno fagli dire qualcosa di compromettente e registralo. Sai come si fa?»
Non penso di rispondere mai più a questa domanda.
«Poi c’è la faccenda di Amèlia.»
«Che succede con Amèlia?»
«Non possiamo sottovalutare la sua partecipazione a quello che è successo. Al furto e agli omicidi. Cerca di infilare il tuo uccello da qualche altra parte.»
«Cosa fai stasera?»
Quando esco dal commissariato, il sole picchia, e molto. Sono sconcertato. Troppe cose in testa, troppi castelli senza fondamenta. È come avere diversi cerchi disegnati con un unico compasso puntato su Amèlia. Chiamo Max e, inspiegabilmente e per la prima volta in tutto questo tempo, non risponde. Non mi piace. Per nulla. Non mi piace che non sappia nemmeno dove localizzare il mio ex cliente.
Mi accendo una sigaretta sulla porta del commissariato. Qualunque cosa dicano i pacchetti, fumare continua a essere il modo migliore per cercare di instradare i pensieri. I veicoli circolano per l’avinguda de Les Corts in direzione Numancia e, da lì, giù verso plaça Espanya. Suppongo che debba essere una buona idea andare a piedi fino in ufficio per decidere cosa fare dopo. Di chi seguire le tracce. Devo riconoscere che si è risvegliata una facoltà che ignoravo di possedere, faccio sparire la gente: Mocciosa, Zombie, Amèlia e, è molto probabile, anche Max.
Attraverso il viale e tagliando scenderò fino alle Ramblas e magari andrò a farmi una paella in un locale che valga la pena, i soldi e il tempo. Il mio corpo non mi dà brutte sensazioni da abbastanza tempo perché mi dimentichi di lui. Penso anche che non sappiamo se il colpevole o presunto colpevole è solo, se Amèlia è intervenuta in qualche modo. È un colpevole senza prova decisiva. Un avvocato brillante lo caverebbe dai guai a meno che Amèlia non fosse coinvolta e le si sciogliesse la lingua. Oppure che si trovi qualche prova decisiva. Qualunque prova che non sia stata trovata. La macchina è piena di sangue, ma fin qui è stato il cane. Nessuno ha visto niente. L’unico filo che lega Max e quelle due povere donne è il fatto che ritenesse necessario isolare Amèlia per tenerla accanto a sé. È un filo stupido, morboso, suscettibile di essere tagliato dalla prima sforbiciata con un po’ di polso di un avvocato. Ma questo è tutto. La questione di Del Río, dei sicari, del pagamento per assassinare una e soltanto una delle vittime, le lettere anonime, era tutto semplice spettacolo. Cattiva interpretazione, cattiva quanto Amèlia brava cattiva attrice, interpretazione rumorosa quanto Maximiliano Artigas che imita Presley.
Westlake che mi vibra nella tasca della giacca mi avvisa che Subirats mi sta chiamando.
«L’abbiamo fatta finita con il Cowboy di mezzanotte?»
«Sì, proprio stamattina mi ha detto che domani avrebbe fatto il bonifico. Mi sa che non lo farà.»
«Mi ha chiamato all’alba e abbiamo appuntamento fra mezz’ora. Per altre questioni. Un finanziamento bancario. Si compra una moto vera. Da cowboy.»
«Hai appuntamento nel tuo ufficio?»
«No, da un concessionario della Harley.»
«È così chiassoso. Non può evitare di richiamare l’attenzione. Cosa si compra?»
«Non ne ho idea. Però a rate, così non usciamo pazzi con la storia di follow the money.»
«Dove avete appuntamento?»
«Conosci il 99%?»
«Sì. Arriva mezz’ora dopo. Devo parlare con lui.»
«Non lo fregare prima che prendiamo i soldi.»
«A proposito, sai che hai una denuncia al Collegio degli Avvocati?»
«È una mia impressione o dal ’92 nessuno ha più il senso dell’umorismo?»