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Hamburger con patate e Coca

Il 99% è un locale di ambientazione rocker che si trova a cinque minuti dal commissariato delle Corts, nel carrer de Joan Güell, una delle strade che circonda il Corte Inglés, un tempo abitata dalla gente agiata di Barcellona e adesso da impiegati e gente agiata intrappolata nella nostalgia. Il 99% si fa chiamare Motobar perché è muro contro muro con un concessionario della Harley-Davidson. Menù adolescenziale di hamburger, insalate, Coca-Cola, birre e patate tagliate senza amore.

Le braccia tatuate di Jordi Bou mi salutano non appena arrivo. Ci conosciamo da fin troppo tempo, da quando lui aveva la metà dei tatuaggi e io il doppio dei capelli. Sono tentato di sedermi su uno dei divani rossi e aspettare che sia il 1982, che dalla porta entri Diane Lane e che regni ancora Quello della moto di Rusty il Selvaggio. Ma voglio continuare a fumare, perciò ordino un vino bianco senza padre né madre, ma fresco, e decido di restare nel dehors.

«Non sono degno che tu entri nella mia casa, ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato.»

«Sai che non mangerò nel tuo ristorante, Bou.»

«Puro snobismo.»

«Certo.»

«Il tuo Scrittore è venuto una sera. In incognito. E ha fatto il bis di hamburger e ketchup.»

«Non mentire. È ancora peggio se lo fanno i tatuati.»

«Dovresti tatuarti qualcosa. In un detective, spacca. Non sembreresti così démodé. Una rosa rossa. Dei dadi. Una torre. Qualche parola in sanscrito.»

«Sì, qualche parola è meglio.»

«Le hai pensate?»

«Da anni: io non sono lui. Ti piacciono?»

«Sì, mi piace. Con le ragazze funzionerebbe. C’è qualche altra novità nella tua vita?»

«Ho conosciuto Juliette Binoche.»

«Cazzo, racconta.»

«Uff... Che palle. Avrei dovuto starmene zitto. Vediamo... Madrid, Gran Vía. La vedo. Penso a cosa dirle. Cerco di frugare nel mio francese. Non trovo niente se non Tour de France o croissant. Non c’è problema. In inglese. Sono a quattro, cinque metri da lei. L’inglese mi va di traverso. Intimidisce, quella donna. Allora in spagnolo. Arrivo alla sua altezza, lei mi guarda e...»

Una cameriera viene a cercare Bou, che mi fa un cenno.

«Un momento. Ti porto io stesso il vino e finisci di raccontarmelo.»

Dopo pochissimo arriva il vino, però senza notizie di Bou, perché me lo serve una cameriera più tatuata e simpatica di lui. Il vino è più orribile di quanto ricordassi, per cui mi limito a bagnarmi le labbra e accendo l’ennesima Lucky. Do un’occhiata al concessionario della Harley nel caso Max sia già arrivato. Tornando al mio tavolo lo vedo passare ed entrare nel 99%. Aspetto che si sieda, tiro fuori il cellulare e lo metto in modalità registrazione. Poi prendo il mio bicchiere ed entro anch’io. È di spalle alla porta, forse perché in televisione si aggira un Elvis travestito da obeso supereroe, con ghirlande al collo e delle basette a forma di contorno del continente africano. Bou fa un gesto mezzo comprensibile. Quando mi siedo, Max si sorprende un po’, ma neanche quanto mi aspettavo.

«Dovrò cambiare avvocato. Credo che quello che ho sia un po’ indiscreto.»

«Subirats? Pagalo prima. Ma che non sia per questo. È un caso. Sono amico del proprietario e mi piace capitare qui ogni tanto e vedere tutto quello che non ho vissuto e non m’importa minimamente essermi perso. Tu eri di quelli che litigavi con quegli altri, i fighettini con le Vespe?»

«I mods? No, sono un uomo pacifico. Qualche rissa in qualche bar, ma tutte cose da ragazzini. Mi piacevano perfino i Nacha Pop e i Brighton 64.»

Non ho la minima idea di chi parli.

Max prende gli occhiali e li lascia sul tavolo che c’è tra di noi, anch’esso rosso, con il logo del bar. Guardo gli occhiali. Sting. È la prima volta che non li tiene appesi al collo. Liberi sul tavolo senza cordino né trapezio. Sulla mano con cui si sfrega la faccia, come se volesse cancellarne i tratti, spicca un anello argentato. Un’altra novità. Glielo dico.

«Ce l’ho da anni.»

«È piccolo. Da donna.»

«È di Merche.»

«La Povera Merche.»

«Sì. Non ti è mai successo di odiare la tua impossibilità di amare chi ti farebbe felice e di farlo con chi ti distrugge?»

«Parli della Povera Merche, di Amèlia o di chi, Max?»

«Parlo in generale. Parlo della vita in generale.»

«Oggi non m’interessa parlare della vita in generale.»

«Di cosa vuoi parlare?»

Arriva la cameriera con l’ordinazione di Max. Un piatto combinato che si chiama Cadillac solitaria. La ragazza mi chiede se voglio altro vino. Manco morto.

«Non so, raccontami cose. Della Povera Merche, per esempio.»

«Perché non la smettiamo di giocare, Carvalho?»

«Ho la sensazione che a te piaccia giocare soltanto quando sei tu a condurre il gioco. Magari piace anche a noialtri, di tanto in tanto, divertirci.»

«Merche è stata una grande donna che mi ha voluto molto bene. Che mi vuole ancora bene. Ha perso un figlio e il marito in una rapina. Questa è Merche.»

«Stavi già con lei quando è successo?»

«Sei molto patetico, Carvalho, lo sai, vero? Perché te la sei scopata? Era necessario?»

«Non devo chiederti il permesso. Ti sorprenderà sapere che nessuno ha un padrone.»

«Stavi lavorando per me.»

«Tranquillo. Quei momenti non te li ho fatti pagare.»

«Vaffanculo.»

«Tu non vuoi che io vada affanculo. Vuoi che ti dica cosa so. Cosa sanno. Vuoi stare tranquillo. Vuoi godertela. Vuoi quello che vogliono tutti: non morire di sbadigli.»

«Sto voltando pagina. Da stamattina. Perciò, meno so e meglio è.»

Gli indico l’anello. «Vecchie promesse, antiche amanti. Non chiudi mai una porta, vero? Sicuramente non sai neanche farlo. Sei il tipico giocatore approfittatore che non lascia né perdere né vincere gli altri.» Mangia il primo boccone dell’hamburger. Quello che dico non sembra importargli. Fa bene. «Dov’è Amèlia?»

«Non ne ho idea.»

«So che stamattina ci hai parlato.»

«Sì, abbiamo parlato. Dopo che è stata con te. Si è degnata di rispondermi e abbiamo avuto una discussione abbastanza sgradevole e ho mandato affanculo anche lei. Quello sì, le ho chiesto di restituirmi appena può tutti i soldi che le ho dato. Qualcosa di simbolico, almeno.»

«Dove vi siete visti?»

«Da nessuna parte. Ti ho detto che abbiamo parlato al telefono. Non cercare di farmi i trabocchetti. So ancora quello che dico. Lei era nel suo appartamento. Non fare quella faccia. Sappiamo tutti e due dove siamo in ogni momento. Per sicurezza. E lei lo sapeva. Sei un ingenuo. Ma ormai l’ho bloccata e cancellata dappertutto. Che vada a quel paese.»

«Stavate così bene insieme.»

«Sei un cinico.»

«Nella tua nuova fase dovresti attualizzare gli insulti. È da un secolo che essere cinico è una virtù.»

Beve un lungo e rumoroso sorso di Coca-Cola e decide di non continuare nello scambio di colpi. Allarga lo zoom. Indica un poster dietro di noi con un rocker sopra una Triumph.

«Sai? Sono stato a scuola con lui. All’Alpe.»

«Ma che bello.»

«Anche se non la pensi così, io sono trasparente, Carvalho. Che tu ci creda o no. Ho molti difetti, ma sono trasparente. E l’amavo e la amo, cazzo, ma dagli e dagli, ti rendi conto che non c’è niente da fare. Le piace che la sfruttino. E allora è fatta, ora ha quello che vuole. Ha il magnaccia in carcere e, se non si dà una mossa, ci va anche lei. Non mi riguarda più.»

«Credi che abbia avuto qualcosa a che fare con gli omicidi?»

«Sinceramente? Credo di no. Ma il suo fidanzato sì. La abbagliava con la grana e con la storia di derubare la vecchia. In questi giorni l’ho vista con dei soldi che non quadrano con la miseria in cui era sempre. Può anche darsi che li abbia presi per la casa, non lo so. Ma questo è il meno. Però non credo che Amèlia sia un’assassina, anche se, come dice il luogo comune, nessuno conosce nessuno.»

«Come facevi a sapere che la luce se n’era andata per un cortocircuito della lampada sul tavolino?»

«Non ne ho idea. Non lo sapevo.»

«Me l’hai detto tu stesso.»

«Io non ti ho detto niente.» Altri uno, due, tre bocconi all’hamburger di vitello. «Non cercare di fregarmi, detective. Mi stai registrando, non è vero? Salve, come va? Delizioso l’hamburger. L’ho quasi finito e passo subito alle patate.»

Lui me l’ha detto e adesso lo nega.

È stato lui.

Le ha uccise lui.

Lui ha aperto la porta e ha salutato Valent – pat, pat – e l’ha lasciato in corridoio. Con delle chiavi che ha potuto tranquillamente sottrarre a Elsa. Facilissimo. Senza problemi. È entrato in sala da pranzo e c’era la nonna Merçè che guardava la tele o cuciva o qualunque cosa stesse facendo sul suo divano preferito. E sei arrivato e l’hai colpita sul volto con un oggetto contundente. Cos’era? Una mazza da baseball, una sbarra di metallo? Cos’era...? Hai sentito dei rumori dietro di te, i passi di Elsa che voleva chiudersi nella sua stanza, cercare di chiamare da un cellulare che non aveva: che gran colpo di fortuna, Max, o forse glielo avevi preso perché la perdita delle chiavi non fosse così sospetta e ti è stato provvidenziale. Sei arrivato nella sua stanza e l’hai vista stesa sul letto, raggomitolata, che si proteggeva la testa, che supplicava, che gridava.

Tu le volevi bene.

Le volevi molto bene.

Per questo. Per quanto le volevi bene, piangevi e piangevi mentre la uccidevi.

Mentre la colpivi, mentre il sangue ti schizzava la faccia, le mani, i vestiti, mentre succedeva tutto questo, tu piangevi.

Piangevi perché non lo volevi.

La picchiavi più forte per la rabbia di non volerla picchiare fino a ucciderla, perché lei non doveva essere lì dov’era.

A quell’ora doveva essere a scuola.

Le volevi molto bene e lei ti voleva molto bene.

Ma nessuno poteva vedere tutto quello e rimanere vivo e quanto sarebbe stato bello essere insieme tutti e tre, Amèlia, Elsa e tu, quante volte l’avevi sognato. Le due ragazze e tu.

Loro due e tu.

Ma non è stato possibile. Come l’altra volta in quel parcheggio, anche lì non è stato possibile perché un bambino stava guardando. Non può essere che ci siano persone che stanno dove non devono stare, a guardare. Non può essere. No.

E, ormai morta, le hai coperto la faccia per non continuare a vedere quegli occhi aperti nel groviglio di capelli insanguinati e pezzetti di osso e massa encefalica. L’hai coperta con una delle sue magliette. Una nera che diceva non sai bene cosa a lettere gialle.

Poi sei andato in sala da pranzo perché avevi il presentimento che la vecchia boccheggiasse ancora, e ci avevi preso. E l’hai colpita di nuovo e lei voleva fermarti con le braccia e ti dava fastidio che ti disturbasse, che non si lasciasse assestare un colpo definitivo in testa. Le hai rotto le dita, la mano, il braccio si è scheggiato e con quella stessa mazza o sbarra di metallo hai fatto cadere con tanta violenza la lampada del tavolino, quella che la nonna Merçè usava per leggere o lavorare a maglia o piegare calzini e mutande, che la presa si è staccata dal muro, scintille e il blackout perché erano saltati i fusibili. Però la donna è rimasta ferma. Era finito tutto. Ma l’hai colpita di nuovo per il puro piacere di farlo senza l’opposizione dei vecchi rami di quell’albero.

Il buio era adatto alla scena, anche se eravate in pieno giorno; quegli appartamenti dell’Eixample, grandi, bui e tristi, da figli unici, domeniche terribili e zie zitelle.

E la vecchia che ti aveva sempre trattato bene, che ti faceva confidenze, che era entusiasta del fatto che la tua storia con Amèlia stesse diventando qualcosa di serio, anche lei ti marchiava con il suo sguardo e hai coperto anche lei e hai pensato di andare a fare una doccia.

Con tutto il tempo che non sapevi di avere.

Dovevi toglierti il sangue dalla faccia, dalla pelle, dai vestiti. Ti sei tolto gli occhiali, l’orologio, le scarpe e i calzini, il resto dei vestiti che poi avresti pulito a casa, e hai lasciato che l’acqua ti assolvesse. Non t’importava che il tempo si allungasse. Che entrasse qualcuno. Che ti punissero per quello che avevi fatto. Che entrasse qualcuno, tranne Amèlia.

Amèlia no.

Amèlia da sola era tua.

Amèlia come una bambina nella fiera, di nuovo orfana.

Amèlia che cercava la tua mano, che la trovava, protetta.

«Non potevi accettare nemmeno la semplice possibilità di perdere Amèlia. Sapevi che continuava a vedersi con Del Río. Avevi paura di perderla.»

«Cominci a darmi fastidio, Carvalho: perché non te ne vai?»

«Hai ucciso la ragazzina.»

«Io non ho ucciso nessuno. Se sapessi quanto volevo bene a Elsa non diresti queste stronzate.»

«Probabilmente è vero. Le volevi bene e, nonostante questo, l’hai uccisa. Non c’era altra scelta. Ti aveva visto uccidere sua nonna.»

«Sai cosa sto pensando?» chiede tra sé mentre con una mano sposta il piatto vuoto dopo aver liquidato hamburger, insalata, quasi tutte le patate. «Che sei molto patetico. A cosa stai giocando? Al detective? È questo? Vuoi assomigliare a qualcuno, Carvalho? Non rompermi i coglioni. Lasciami mangiare tranquillo. Non ho niente, assolutamente niente a che vedere con questa storia. Se la polizia ha dei dubbi, che mi convochi e andrò con il mio avvocato, che non sarà il tuo amico, te lo posso assicurare, e basta. Siamo in uno stato di diritto in cui la presunzione d’innocenza è sacra. Lo sai cos’è la presunzione d’innocenza? Ripassatela in qualcuno dei libri in cui ci sei anche tu. Reciti molto male la parte di te stesso.»

«Ti prenderanno. Le lettere anonime erano da barzelletta.»

«Sì che lo erano. E anche quanto le abbiamo prese sul serio. Speriamo che siano false. Per Amèlia.»

«Amèlia non la trovano.»

«Chiamatela sul cellulare.»

«Diciamo che il cellulare e Amèlia sono in posti diversi. Il primo è al commissariato. Amèlia, nessuno lo sa. Tu lo sai?»

«Ti assicuro di no.»

«È morta, Amèlia?»

«Magari.»