Alex stava tornando dalla sua corsa lungo il crinale che partiva da Hatterall Hill, con le rovine dell’abbazia di Llanthony piú sotto, tende azzurre e arancioni sparse qua e là. La cartina mostrava un sentiero che si snodava lungo il versante opposto, dunque non era necessario tornare indietro all’altezza del tumulo di pietre ma da lassú il sentiero non si vedeva. Cazzo. Cominciò a scendere tra le felci e l’erba alta. Di lí a due settimane sarebbe andato a fare un giro in mountain bike nel parco di Coed-y-Brenin. Con Melissa aveva fatto la figura del coglione, adesso se ne rendeva conto. C’era ancora molto da imparare. Aveva fatto sesso solo due volte in vita sua, nel senso che era riuscito a infilarlo dentro. Dopo aveva evitato Kelly Robinson per due settimane perché si erano sbronzati di brutto e lei era obesa, anche se ci pensava spesso quando si faceva una sega. Ma c’era qualcuno che camminava lungo la strada, laggiú dove correva in piano verso Longtown, una ragazza con una borsa a tracolla.
Louisa si svegliò sognando di Il mio amico alce, convinta che fosse il 1969 e sua madre fosse seduta ai piedi del letto e glielo stesse leggendo ad alta voce, invece era Richard coi pantaloni del pigiama a righe che lo facevano sembrare un pirata, solo che non sorrideva e lei si domandò se non stesse per darle una cattiva notizia. – Mi dispiace per ieri sera.
Lei si sollevò sui gomiti. Quella che doveva scusarsi era sua figlia, chiaramente.
– Mi ha detto che hai fumato marijuana. E volevo dirti… – Si interruppe e cercò di concentrarsi. – Non devi avere segreti con me. – Una risatina. – Meno dipendenza e meno danni fisici di alcol e sigarette, secondo il famigerato articolo del professor Nutt su «Lancet». Oddio. – Si strofinò la faccia. – Sembro proprio un moralista del cavolo.
Lei si scostò i capelli dagli occhi. Aveva la mente annebbiata. Sentiva sulla guancia la ruga lasciata dal cuscino.
– Comunque. – Richard si alzò in piedi. – Per quanto riguarda Melissa, manterrò le distanze.
Lei si mise a sedere, spostò i piedi oltre il bordo del letto e sentí chiaramente un bambino, vicinissimo a lei, che diceva: – Papà…?
«Voglio tagliarle la testa ed estrarle il cuore. Ah! Sei un chirurgo, e sei scioccato! Proprio tu, che senza un tremito della mano o del cuore ho sempre visto fare operazioni che erano questione di vita o di morte e che fanno rabbrividire il resto di noi…» Ma le parole non avevano piú senso, perciò Daisy chiuse il libro e si mise a leggere il retro del pacchetto dei corn flakes: «Tiamina (B1) 7 g, Riboflavina (B2)». Capitava mai che qualcuno chiamasse il Servizio clienti? Vecchie signore che facevano amicizia con ragazzotti di Calcutta.
Il mondo appariva sfocato quella mattina, aggrapparvisi era difficile. Quel borbottio nell’addome. Aveva voglia di avere intorno le sue cose, la Principessa Leila di cartone malconcio e a grandezza naturale che papà aveva rubato da un cinema quando era studente, le insegne di smalto del negozio del bisnonno a Manchester, Keener’s Kola e biscotti sbriciolati.
A scuola avevano girato un film, La scelta di Gemma, su una ragazza che rimaneva incinta a quattordici anni. A Daisy era toccato il ruolo della madre. Il brivido di indossare quel cardigan verde acido, mentre lei scompariva, e pensava: «Potrei baciare chiunque, potrei uccidere chiunque». Sullo schermo non si riconobbe. Sembrava posseduta. Adesso studiava Economia per la maturità. Adam Smith e le curve di trasformazione. Riaprí il libro. «La ragazza è morta. Perché mutilare inutilmente il suo povero corpo?»
Alex comparve sulla porta, in calzini, sudato. – Mi sa che Melissa se l’è squagliata.
– In che senso?
– Camminava per la strada con una borsa a tracolla.
All’improvviso vide tutta la situazione dal punto di vista di Alex. – Oh, mi dispiace.
Lui stava ancora cercando di riprendere fiato. – È quasi un sollievo, a essere sincero.
E lei si rese conto che ad avere un tuffo al cuore era lei.
Angela sta sognando. Hanno messo la creatura in un asciugamano bianco pulito e l’infermiera gliela porge, ignara che ci sia qualcosa che non va. «Sindrome della sirena». Ma in quale truce fiaba potrebbe trovare dimora questo mostro? Occhi ridotti a due tagli in una testa d’argilla fresca, una pinna sbrindellata che attraversa la sommità del cranio, braccia macilente, le gambe fuse in un moncone. «Sirenomelia». Quelle voci soavi che echeggiano dagli scogli acuminati. La creatura strilla. Vuole essere presa in braccio ma lei non riesce a toccarla. È atterrita all’idea che possa aggrapparsi, mordere, lacerare. È un sogno che fa ogni due settimane circa ma al risveglio non se lo ricorda mai. Gli uccellini la fanno piangere, certi tagli di carne, il frammento mutilato dell’anima di Voldemort in Harry Potter e i doni della morte. Non ha idea del perché. Non ha mai fatto l’amniocentesi, e nemmeno un’ecografia. Non si è presentata alle visite, ha detto che aveva problemi familiari, ha mentito all’assistente sanitaria che veniva a domicilio, al medico di base, a Dominic. Il suo corpo sapeva che c’era qualcosa che non andava ma lei sarebbe stata una buona madre e una buona madre non rifiuterebbe mai un figlio.
Melissa camminò per venti minuti, poi la borsa cominciò a pesarle sul serio e, non avendo nessuna intenzione di tornare sui suoi passi, mise fuori il pollice per fare l’autostop, sperando che si fermasse un essere umano e non qualche bifolco stupratore frutto di generazioni di incesti. Passò un trattore, un furgone della posta, il camion di una ditta di traslochi, una Datsun decrepita, e infine un’Alfa Romeo nera lucidissima che rallentò fermandosi. – Dove vai? – La donna portava un paio di pantaloni di pelle e aveva un accento spagnolo, non certo il tipo che Melissa si aspettava di incontrare.
– Vado da qualsiasi parte, – disse Melissa, come in un film.
– Metti la borsa sul sedile posteriore.
Appiccicato al cruscotto c’era un cammello con le zampe di gomma che tremolavano a ogni curva. A terra c’era un collare da gatto coi brillantini. – Allora… – La donna si accese una sigaretta. – Stai scappando di casa?
«ἀλλόὅτε τόσσον ἀπῆμην, ὅσον τε γέγωνε βοήσας, ῥίμφα διώϰοντες, τὰς δό οὐ λάϑεν ώϰύαλος νηῦς ἐγγύϑεν ὀρνυμένη, λιγυρὴν δό ἔντυνον ἀοιδήν. Δεῦρό ἄγ ἰών, πολύαινό Όδυσεῦ, μέγα ϰῦδος Άχαιῶν»: «Ma come tanto fummo lontani, quanto s’arriva col grido, | correndo in fretta, alle Sirene non sfuggí l’agile nave | che s’accostava: e un armonioso canto intonarono. | “Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, | ferma la nave, la nostra voce a sentire. | Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, | se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce…”».
Angela entrò in cucina e trovò Louisa che preparava caffè e pane tostato. Un improvviso ricordo della casa che condivideva quando era all’università. Dahl e i bastoncini d’incenso, Carol che si era beccata la scabbia all’ostello. – Stai bene?
– Certo, – disse Louisa. – Perché?
– Ieri sera. Richard e Melissa.
– Non è successo niente.
– Non è divertente ritrovarsi in mezzo.
– Davvero, non è successo niente di grave.
– Nessuno dei due si è comportato al meglio, però –. Ma che razza di frase era quella?
Louisa si girò e guardò Angela negli occhi. – Richard è una brava persona.
– Nessuno lo nega –. Invece era proprio quello che stava facendo, o no?
Louisa infilò il filtro nella caffettiera. – Anche Melissa è una brava ragazza.
– Lo so –. Un’altra bugia.
– Ci sono due fette nel tostapane, se ne vuoi –. Louisa prese la caffettiera e uscí con sussiego.
Era gelosia, forse, quel desiderio infantile di mettere zizzania tra quei due, la consapevolezza che possedevano qualcosa che invece lei e Dominic si erano lasciati sfuggire dalle dita?
Un ricordo improvviso: 92 Hensham Lane. Donny ubriaco, una sera, che per scommessa tagliava l’erba del prato con un paio di forbici. Quella ragazza tedesca che aveva messo il lucchetto alla porta della sua stanza. Angela ricordava il giorno in cui lei e Dominic si erano trasferiti nel loro appartamento. C’erano delle forfecchie nel contenitore del pane e qualcuno ascoltava London Calling a tutto volume al piano di sopra, ma era casa loro, e provava sollievo ancora adesso, quasi trent’anni dopo.
Dominic mandò giú una cucchiaiata di cereali. «Siamo convinti che questo sia un tragico caso di scambio di identità. Preghiamo chiunque appartenga alla nostra comunità e abbia qualche informazione di farsi avanti». Crack e genocidio, poi giravi pagina e c’erano pecore clonate ed energia solare, tutto che andava a puttane e poi zac, il paradiso era dietro l’angolo. Alla fine era tutto uguale. La gente smetteva di fumare e ingrassava. Si guariva di poliomielite e in Africa l’Aids uccideva milioni di persone. Insomma, qual era l’Età dell’Oro? Prostituzione minorile, alcolismo, le Crociate… Alex si sedette vicino a lui con una ciotola di Sugar Puffs e un tazzone di tè. – Com’è andata la corsa?
– Bene. Grande, sí.
– Non ti viene mai voglia di startene a letto e basta?
– Certo. Ma non si può, no?
Non aveva distrutto la macchina né messo incinta una ragazza, e questo avrebbe dovuto consolarli, ma erano distanti. All’inizio pensava fosse una questione genetica, la stessa riservatezza che vedeva in Richard. Ma forse rientrava tutto nel suo essere un adolescente. «Il tuo compito è avere completamente, platealmente torto». Alla fine non avevano bisogno di te: generazioni come foglie, i giovani assumevano il controllo di un mondo di cui a te in realtà non importava piú niente.
Tutte quelle fotografie di Andrew a casa di Amy. Ricoverato sette volte per asma e infezioni alle vie respiratorie. Da principio le attenzioni che Amy aveva per lui l’avevano commosso, e solo dopo un po’ aveva cominciato a trovare insopportabile il modo in cui quel ragazzotto mai visto e mai conosciuto si intrometteva nei loro momenti piú intimi, e gli era venuto il sospetto che i continui problemi di Andrew coi suoi datori di lavoro, i coinquilini e le ragazze non fossero un sintomo delle sue condizioni di salute ma scene di un lungo dramma di dipendenza reciproca a confronto del quale Dominic era solo uno spettacolo secondario.
– A proposito, – disse Alex, – mi sembra di aver visto Melissa che se ne andava.
Il padre di Richard era morto di cancro ai testicoli a quarant’anni. Richard aveva otto anni, Angela nove. 1972. Hewlett Packard produceva la prima calcolatrice tascabile e Eugene Cernan faceva l’ultima passeggiata sulla Luna. In quel periodo suo padre lavorava nei reparti armati della polizia e per qualche anno Richard fu convinto che l’avessero ucciso in un conflitto a fuoco, e se questa fosse una bugia di sua madre, oppure un’invenzione sua che la madre non aveva smentito, non lo seppe mai.
Ha ancora l’album coi ritagli di giornale di quell’anno, il 1972, con la copertina argentata. Il Vietnam, la Baader Meinhof, il Watergate. Della morte di suo padre non c’è traccia. Nemmeno un’interruzione nelle annotazioni settimanali, perché non era stata la morte di suo padre a dividere in due la sua infanzia, non direttamente.
Dato che i suoi genitori avevano l’abitudine di bere, a casa, al ristorante, al circolo di squash, la cosa all’inizio non sembrava strana, ma arrivato ai dieci anni si era ormai reso conto che le madri degli altri bambini non aprivano una bottiglia di sherry nel pomeriggio per finirla prima di andare a dormire. Lui e Angela non ne avevano mai parlato. Parlavano delle pulizie e dei piatti da lavare e delle bollette da pagare, faccende che sempre di piú toccava a loro risolvere. Nel giro di un paio d’anni lui era in grado di fare la firma di sua madre sugli assegni, e anche ora quando non trova le chiavi della macchina si sorprende a cercarle nei posti in cui le nascondeva trent’anni prima perché sua madre non le scovasse, nella lavatrice, nel barattolo dello zucchero. Era a disagio quando invitava gli amici e ugualmente a disagio quando andava da loro, perché si domandava tutto il tempo cosa stesse succedendo a casa, e la scuola diventò presto il rifugio dove i compiti erano chiari e le gratificazioni immediate. Diagrammi geometrici. Il Casato di Hannover. Preparava regolarmente da mangiare a sua madre, la metteva a letto, qualche volta le faceva il bagno e piú l’incombenza era intima piú lei provava fastidio per l’intrusione. Almeno quando cercava di picchiarlo era ubriaca e del tutto scoordinata e lui riusciva a schivare il secondo colpo.
– Melissa se ne è andata –. Era Louisa, alle sue spalle.
– Come sarebbe, se ne è andata?
– Si è portata via la borsa con tutta la sua roba. Alex dice di averla vista per strada.
– Quindi non l’hanno rapita.
– Sono seria.
– Anch’io. – Deformazione professionale. Considerare tutte le possibilità. Si alzò. – Entriamo e vediamo di raccogliere qualche informazione.
Mentre entravano dalla porta principale Alex scese le scale agitando il cellulare di Louisa. – Nella nostra stanza con Vodafone riesci ad arrivare a un paio di tacche quando il vento soffia nella direzione giusta. – Lo diede a Louisa. – Ho lasciato un messaggio.
Si erano riuniti tutti nella sala da pranzo. A Richard sembrava che stessero un po’ drammatizzando. – Scompare una volta alla settimana, quando siamo a casa.
– Ma qui siamo completamente isolati, – disse Louisa.
– E quindi è molto piú al sicuro che in pieno centro il venerdí sera. – Richard parlava con una voce marcatamente piú lenta e piú bassa del solito. – Sarà seduta in un caffè da qualche parte, ridendosela perché noi siamo qui a preoccuparci. Ha sedici anni. Se chiamiamo la polizia ci ridono in faccia e ci rispondono di telefonare domani –. Sembrava che a Louisa mancasse il fiato. Le strofinò la mano. – Ci lascerà qui ad angustiarci per un po’, poi si metterà in contatto con noi.
Angela stava pensando «È colpa tua» e cercando in tutti i modi di non dirlo, ma Dominic era ammirato. Come faceva Richard a rassicurare tutti quanti pur non sapendo niente? Lo fanno tutti i medici?
– Se non sentiamo niente, – disse Richard, – le telefoniamo da Raglan.
– Va bene, – disse Louisa, – va bene.
Ma non andava bene per niente, pensò Angela, stava solo obbedendo a degli ordini, come un cane con un padrone severo.
Benjy era fermo sul pavimento di pietra della lavanderia tra la cucina e il bagno del pianterreno. C’erano un grosso congelatore, una lavastoviglie e un profondo lavandino di ceramica incassato in un lungo scolatoio di legno spesso come una vecchia bibbia. Il congelatore era della Indesit. Prese una lattina ottagonale ammaccata dal davanzale della finestra. Sul coperchio c’era un’etichetta con sopra scritto: «Pastiglie per Lavastoviglie», e un’altra arancione che diceva: «In caso di ingestione consultare immediatamente il medico». Quando capovolse la lattina si sentí un rumore di ferraglia. L’etichetta sul fondo diceva: «Praline, Cioccolatini al Caffè e Gelatine».
Angela annunciò che avrebbe saltato il castello e sarebbe andata a Hay in autobus. – C’è un autobus? – aveva detto Richard, incredulo. – Forse trainato dalle mucche, – aveva risposto lei, un po’ troppo acida, e nella stanza era calato improvvisamente il gelo. Daisy disse a bassa voce: – Io vado con la mamma, – perché non era certo piú entusiasta di Angela all’idea di rimanere con Richard, e questo significava che Dominic sarebbe dovuto andare a Raglan con Benjy, che non si sarebbe certo perso un castello.
E cosí Angela e Daisy si ritrovarono a scendere per la collina in direzione del ponticello di pietra, accompagnate dallo scalpiccio degli stivali e dal fruscio degli impermeabili. Un cavallo bianco sporco le osservava da dietro un cancello. Angela era arrabbiata con Daisy per aver boicottato la sua spedizione solitaria e allo stesso tempo sollevata di non essere sola. Incredibile quanta parte di sé dipendesse dal vaso di piante e dallo stendibiancheria girevole che si muoveva al vento, e lei stava mollando un po’ gli ormeggi. A Daisy piaceva il silenzio ma Angela era abituata al vocio e all’eco di quattrocento bambini tutti sotto lo stesso tetto. A un certo punto le sorpassò la Mercedes di Richard diretta a Raglan, con dentro Dominic, Alex e Benjy che le salutarono agitando la mano come passeggeri su un treno a vapore.
– Dove credi che sia Melissa? – disse Daisy.
Ma Angela si era completamente dimenticata di Melissa.
Melissa si fermò all’angolo, paralizzata. Dove cazzo sarebbe andata? Papà non avrebbe cacciato soldi per un biglietto aereo per la Francia senza una spiegazione. Da Donna a Stirling? Si guardò intorno. Un negozio che vendeva campanelle cinesi. Un altro che vendeva stivali di gomma verdi e schifosi foulard di seta come quelli che si metteva la regina quando portava a cagare i suoi corgi. Cessi pubblici incrostati. Londinesi che fingevano di godersi la campagna. Controllò il portafoglio: ventidue sterline e sessantotto pence e un bancomat che se avesse provato a usare allo sportello in fondo alla via avrebbe potuto anche non vedere mai piú. Dio, che fame.
– Pensi che Benjy stia bene? – chiese Daisy.
– Credo di sí, – disse Angela.
– Ho l’impressione che si senta solo.
– Lui sta bene, da solo, – disse Angela. Il piccolo autobus bofonchiò inerpicandosi per l’improvvisa pendenza. Una chiesetta con accanto una rimessa al posto del campanile. Una donna che lavava una Land Rover con il flessibile di gomma in un giardino fangoso. – Se non riesci a stare solo entri a far parte di una banda, bevi invece di andare a casa, sposi la prima persona che ti capita perché hai paura di tornare in una casa vuota.
Daisy considerava sua madre una stupida. Che altra ragione poteva esserci per quell’attrito continuo? Poi diceva una cosa del genere e Daisy si ricordava che era una brava insegnante, e quello che Daisy provava non era ammirazione o senso di colpa ma paura, perché se sua madre era nel giusto allora era lei a essere in torto.
L’autobus si fermò mentre una Transit rossa entrava a marcia indietro in un passo carrabile per permettere a loro di passare. Case coloniche con rose e dondoli. Case coloniche con cani alla catena e macchine arrugginite. Una donna gobba seduta sul sedile davanti, cosí vecchia e stracciata che arrivava di sicuro da uno di quei vecchi cottage sulle colline.
– Tu e papà state bene? – Il tono voleva essere premuroso ma voleva che in cambio sua madre ammettesse qualche piccolo fallimento.
– Ma… sí, certo, – disse Angela circospetta.
E d’un tratto a Daisy si aprirono gli occhi. Sua madre era un essere umano. Se ne accorgeva cosí di rado. Aveva voglia di toccarla e abbracciarla e che tutto tornasse a posto ma gli anni passati sembravano improvvisamente un sogno e lei aveva cinque anni, e stava andando a fare la spesa in città con la mamma. Allora si girò a guardare fuori dal finestrino e osservò l’autobus alzarsi sopra gli alberi e le siepi e inoltrarsi in una specie di brughiera, il nastro grigio della strada e i boschi di conifere sull’altro lato della valle come ritagli di feltro verde.
– Mi dispiace per Richard, – disse Angela.
– Non ha importanza, – disse Daisy. – Me la so cavare da sola –. Il solito balletto che facevano lei e la mamma. Offrire una mano e poi ritrarsi. Una carezza e un morso.
– Si è comportato da prepotente.
– Non riesco a credere che sia tuo fratello.
– Ho qualche problema anch’io al riguardo.
Dominic veniva giudicato dagli altri un amico ma nessuno lo considerava il proprio migliore amico. Angela pensava fosse una questione di vigliaccheria, anche se cercava di non pensarci troppo spesso. Un’incapacità di mettersi davvero in gioco col resto del mondo. Gli arretrati del mutuo, la macchina ormai da rottamare (sul sedile posteriore Benjy e Alex giocavano alla versione di Sasso, Carta, Forbice inventata da Benjy, Pipí, Pupú, Vomito). Lui un tempo la considerava una benedizione, il fatto di non essere perseguitato da quella brama terribile che affliggeva tante vite, ma poi vedeva la fede distorta di Daisy, Alex che veniva portato via in ambulanza dopo quella gara, Angela che cercava di salvare quel piccolo farabutto bianco che prima o poi sarebbe finito comunque in galera, e si rendeva conto che tutti loro avevano una ragione per essere vivi, a differenza di lui.
«Il castello di Raglan fu costruito intorno al 1435 da Sir William ap Thomas, “Il Cavaliere Azzurro di Gwent”, che combatté al fianco di Enrico V nella battaglia di Agincourt… (Richard sta leggendo attentamente l’opuscolo informativo gratuito)… ma il castello fu danneggiato da un lungo assedio durante la Guerra Civile e ciò che rimane sono piú che altro le pittoresche rovine…» Di conseguenza ci vuole un’immaginazione storica particolare per fermarsi sui ciottoli muschiosi della Pitched Court ed evocare i falconieri e il pane bianco e lo sferragliare delle roncole, e quello che piú colpisce Louisa è la mancanza di un caffè dove potersi sedere al caldo con un cappuccino e una rivista e liberarsi dell’immagine di Melissa nuda e massacrata in un fosso.
Alex cammina lungo la merlatura della Great Tower, «che sorge al centro del suo fossato ed è collegata alle fortificazioni principali da un ponte levatoio». Un piccolo monomotore sta sorvolando la zona con un ronzio simile a quello di un tagliaerba. Pensa al volo dello scorso anno sul Piper Cherokee, insieme allo zio di Josh, alla paura durante il decollo, e poi alla soddisfazione di non provare piú paura, al divertimento seguito dalla noia perché di fatto non c’era molto altro da fare se non starsene seduti rannicchiati a guardare le nuvole. China lo sguardo dentro la grande scatola di pietra che è il salone principale del castello e vede Louisa che vi si aggira. Ora che Melissa se ne è andata sta cominciando a rendersi conto di quanto sia in forma sua madre. Ha quasi cinquant’anni, il che ha qualcosa di raccapricciante a dirlo ad alta voce, ma si mantiene alla grande e lui continua a immaginarsela mentre si toglie quel maglione dolcevita color panna. Grandi tette. Tutti quei capelli.
Ma Dominic sta ascoltando Joe Pass. Stella by Starlight da Virtuoso, il primo album. BbMaj7… Em7b5… A7… Quelle incredibili sequenze di accordi, abbastanza sporchi da percepirli come umani. Da quando sono arrivati al castello non ha smesso di provare una sensazione inquietante di déjà vu che non riesce a spiegarsi, perché non è mai stato in Galles prima d’ora, finché non si ricorda di Robert Plant e il combattimento a colpi di spada in The Song Remains the Same. L’hanno girato qui, no? Nel suo periodo Dungeons and Dragons aveva una fattoria in Galles. Bron-Y-Aur-Stomp e cosí via. Ma qui non c’è nessuno con cui condividere questa piccola e ghiotta perla pop.
Benjy non riesce a concentrarsi sul castello perché uno strano bambino dai capelli rossi sta cercando di fare amicizia con lui. – Noi siamo del Devon… Hai visto Pirati dei Caraibi? Mio papà ha un quad –. Indossa una maglietta con un delfino e praticamente è senza sopracciglia. Benjy vuole esser lasciato in pace perché se ti concentri e nessuno ti disturba i cavalieri escono dalle tombe e oltre il fossato si erge un campo di lance.
– Ti piace il calcio?
Lui non ha ancora capito bene la politica del campo da gioco, quella zuffa plebea per aggiudicarsi spazio e posizione. Si aspetta piú logica, una tattica migliore. Ha passato troppo tempo coi fratelli piú grandi. Sa parecchie cose sull’omosessualità, il comunismo e l’imposta sul reddito, e con Pavel è facile perché a entrambi piace preparare pozioni e inscenare massacri con i mattoncini Lego, ma se Wayne Goodrich gli dà dell’idiota…
– Quello è mio papà, – dice il bambino coi capelli rossi, girandosi un attimo, – quello laggiú.
– Il problema con Jennifer… – Richard si interruppe. Non ne aveva mai parlato seriamente se non con Louisa. – A lei non importava davvero degli altri esseri umani. Non sto parlando di come ha trattato me. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Ma gli amici, i pazienti –. L’immagine di quella ragazza in sedia a rotelle attraversò per un attimo i fanali della sua mente.
Dominic era affascinato dalla visione di Richard alle prese con idee difficili in tempo reale. – Ma perché ti sei sposato?
– Eravamo tutti e due ambiziosi, decisamente poco sentimentali, nessuno dei due voleva figli. Viste le circostanze, credo sia stato saggio. Lei sarebbe stata una madre terribile. E io non sono sicuro che sarei stato un padre perfetto, ma nei momenti piú neri provo molto rimpianto.
Dominic si domandò se raccontare a Richard di Amy, ma non sapeva se il distacco del medico l’avrebbe avuta vinta sulla lealtà fraterna.
– Oltretutto, – aggiunse Richard ridendo, – era una donna molto determinata ed era abituata a ottenere quello che voleva.
Dominic aveva incontrato Jennifer solo due volte, non sapeva parlare del piú e del meno e guardava i bambini come un serpente potrebbe guardare un gatto. Sí, ma se gli avesse concesso la sua attenzione esclusiva? Se avesse voluto che lui…? Benjy sbucò dal nulla e gli tirò la manica. – Adesso possiamo andare?
– Te la ricordi quella tedesca spaventosa? – disse Daisy. – O forse era olandese. Quella che buttava sempre il figlio in acqua e gridava: «Schwim! Schwim!»
– Tu e Alex avevate fatto una gara.
– E io ho vinto.
– E da allora lui ha smesso di nuotare. Gli uomini. Veramente –. Angela si mise a ridere. Ma cos’era? La liberazione carnevalesca delle vacanze? L’uscita dall’abituale serietà? Perché non potevano essere cosí anche a casa?
– C’era quell’incredibile tostapane. In albergo.
– Non credo di ricordarmi addirittura i dettagli del buffet.
– Benjy lo adorava. Mettevi il pane sul nastro e usciva dall’altra parte tostato. Diceva che era il tostapane di Wallace e Gromit. Ne mangiava tipo dieci fette ogni mattina, credo.
Diede un’occhiata oltre la spalla di Daisy… – Ore nove aereo nemico –. Daisy si girò. Melissa, seduta in un caffè dall’altra parte della strada, a un tavolo vicino alla vetrina, vagamente chiusa in se stessa, abbattuta.
Daisy disse: – Vado a parlarle.
– Cosa? Adesso? – Ma Daisy non se ne era accorta? Le loro vite stavano cambiando corso proprio in quel momento.
– Forse dovresti dare un colpo di telefono a Louisa, – disse Daisy, attraversando la strada perché sua madre era ridiventata sua madre e basta, la persona a cui si torna dopo l’avventura.
– Per favore, – disse Benjy sollevando una corta spada di legno con un guardamano di corda intrecciata.
– Benjy. – Dominic si strofinò gli occhi. – Ne hai già sei.
– Ne ho cinque e sono diverse –. Aveva due spadoni, una katana, una sciabola e un pugnale, mentre questo era un gladio per i combattimenti corpo a corpo con una scanalatura al centro della lama per lasciare entrare aria nella ferita ed estrarla facilmente senza che il vuoto, risucchiandola, la trattenesse all’interno.
– È solo per il gusto di ottenere qualcosa, no? – Richard aveva in mano un volume che parlava del castello. – Ti ricordi? – Era scivolato in un tono piú informale, come se parlare di Jennifer li avesse resi amici. – Le figurine dei calciatori che ti regalavano con la gomma da masticare? In fondo sapevi benissimo che ti saresti beccato un altro Peter Shilton, ma non aveva importanza.
– Hai promesso, – disse Benjy. – Hai detto che mi davi dieci sterline da spendere durante le vacanze.
– Lo so, ma… – Dieci sterline erano un sacco di soldi. – Perché non aspetti qualche giorno e poi decidi cosa vuoi comprarti?
Sul lato opposto della vetrina Louisa studiava il terreno di fronte ai suoi piedi e si stringeva nella giacca.
– Ma qui non ci torneremo piú. Mai piú –. Benjy adesso era disperato.
Lui voleva dire che no è no, ma ormai era una frase che non si poteva piú dire. Bisognava essere amici dei propri figli. Si accovacciò. – Lo sai cosa succede tutte le volte. Domani o dopodomani entri in un altro negozio di giocattoli…
– Te la compro io, – disse Richard. – Te la regalo per il tuo compleanno.
Squillò il cellulare di Dominic. Le prime note del Volo del calabrone. Lo pescò dalla tasca. Richard stava passando la spada alla cassiera. – Pronto?
– Fine del panico. – Era Angela. – Abbiamo trovato Melissa in un caffè.
Lui provò una vaga delusione. Se fosse stata assassinata, avrebbero potuto tornarsene tutti quanti a casa. – Riferisco la buona notizia anche agli altri –. Anche se, quando lo fece, Richard si limitò a dire: – Ottimo, – senza mostrare né sorpresa né sollievo, tanto che per un momento Dominic si domandò se non si potesse dar forma al futuro prevedendo le cose con sufficiente certezza.
– Grazie, zio Richard, – disse Benjy.
– Prego.
Ma Benjy era già uscito dalla porta a vetri nel sole del parcheggio, menando e schivando colpi. – Uuf…! Yah…!
Mentre cercava di telefonare a Cally, Melissa vide entrare Daisy. Ne fu irritata e sollevata allo stesso tempo. Riattaccò.
Daisy si avvicinò senza fretta. – Vado a prendermi un caffè. Ti va di mangiare o bere qualcosa? – Che perfetta nonchalance, come se fossero ancora a casa. Se ne sarebbe dovuta andare in maniera piú teatrale, no? – Va bene un biscotto di avena. – Da un’ora era aggrappata a un tazzone di tè freddo. – E un caffè.
Guardò Daisy che si avviava al banco. Quell’essere d’acciaio la metteva a disagio. Non aveva la piú pallida idea di cosa pensasse, provasse o progettasse. A scuola c’erano dei cristiani ma non si sognavano di alzare la cresta, Daisy invece… e non era nemmeno una racchia, non era una culona con una faccia assurda. E lo sapeva anche lei, si vedeva dal modo in cui andava in giro, conciandosi di merda di proposito, una provocazione, quasi.
Daisy tornò al tavolo con due caffè e due biscotti. – Mettono sempre il tovagliolo sotto le cose da mangiare. Il che non ha senso, non credi? – Come se avesse trentacinque anni. – Come va?
– Alla grande. Alla grande, davvero.
– E Ian McEwan?
Melissa pensò che Daisy stesse parlando di una persona in carne e ossa finché si ricordò del libro chiuso che aveva sotto la mano. – Bene, anche lui. – Stavano facendo un gioco, ma dichiararlo era contro le regole. – Lo stiamo facendo a scuola.
– Io sto leggendo una cosa sui vampiri.
Melissa prese un sorso di caffè e si rilassò un po’. – Twilight?
Daisy tirò fuori dalla borsa Dracula. – Jonathan Harker va in Transilvania a sbrigare delle faccende per un misterioso conte e da quel momento va tutto piú o meno a catafascio.
– OK, – disse Melissa, cauta.
Il fatto era che Daisy non stava giocando affatto. Quella era una cosa seria. Di solito quando voleva piacere a qualcuno ammutoliva facendo la figura della stupida, ma con Melissa… Era una messinscena anche quella? Mostrare il proprio lato migliore ed essere su di giri? Era lo Spirito Santo? E il Signore mi disse: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca…» – Mi dispiace per Alex.
– Ti dispiace in che senso?
– Sbava per te.
– Oh, credo di poterlo gestire –. Melissa si domandò se per qualche giorno non potesse usare Daisy come complice. Questo avrebbe completamente spiazzato la mamma e Richard. Il cellulare vibrò. cally. Lo guardarono danzare sul tavolo. Melissa guardò Daisy. Qual era il suo punto debole? Non certo la religione. Però la prima sera, il modo in cui Angela aveva allungato la mano per impedirle di recitare la preghiera… – Tua madre pensa che tu sia una stupida, vero?
– Non andiamo esattamente d’accordo.
– Tuo padre sembra un tipo a posto ma tua madre… ma cos’è, terribilmente infelice o qualcosa del genere?
– Proprio cosí. – Perché Melissa aveva ragione, e nessun altro aveva il coraggio di dirlo, no? – Non le piace niente, non si entusiasma. – Diede un morso al biscotto. – Tua madre invece sembra piuttosto contenta.
– Non le do piú di due anni.
– Sí?
– Dimmi una sola cosa che hanno in comune.
Daisy si mise a ridere. Anche questo nessuno aveva il coraggio di dirlo. – Allora… stai ancora scappando, o stai tornando a casa?
Melissa la guardò. – Scema.
A Daisy sembrava di essere in un film. C’era qualcosa di ipnotico in quello sguardo. Il serpente nel Libro della giungla.
– Secondo te cosa dovrei fare? – chiese Melissa.
– Secondo me dovresti tornare.
– Allora torno.
Angela finí il secondo Twix e si ficcò in tasca l’involucro appallottolato. Quadretti di donne nude che danzavano, pecore fatte di chiodi saldati insieme. Voleva comprare la grossa ciotola con le anatre perché è quello che uno fa normalmente in vacanza, compra cose che non gli servono. Cucchiai di legno con intarsi a forma di cuore e piatti da appendere al muro. Peccato che in quel momento non se lo potessero permettere. Avevano smesso di parlare di soldi. Lui aveva ricominciato a ragionare. A caval donato… Ancora cinque anni di mutuo, sempre che si mettessero in pari con le rate. A quel punto avrebbe potuto comprare pecore fatte di chiodi saldati. Inclinò la testa di lato, come se il gusto fosse una questione di punti di vista, ma riuscí solo a pensare: «Mi piacciono le anatre».
Il viandante di porcellana. L’ananasso. Si era proprio sbagliata. Non era casa sua, no? Come scendere da un aereo. Era la casa di Juliette. Andò fino al muretto e si sedette accanto a una vecchia coppia che mangiava un cono gelato. Si sentiva frastornata, sconvolta. Era il padre di Juliette quello che suonava Oscar Peterson. Cercò di ricordarsi che musica suonasse il suo, di padre, cercò di ricordarsi la sua camera. Per la prima volta si rese conto che i suoi genitori erano morti portandosi dietro dei segreti. Dov’era Juliette adesso? In Nuova Zelanda? Morta? Gli spiccioli, il treno per Sheffield, quella era casa sua, sí. Ma la porta da cui spariva sempre suo padre, cosa c’era dall’altra parte? Se solo avesse potuto avvicinarsi e vedere nel buio.
Aveva bisogno di dirlo a qualcuno, aveva bisogno di dirlo a Daisy, e in quello stato d’animo incontrollato sembrava del tutto naturale che fosse bastato quel pensiero a far materializzare sua figlia a una cinquantina di metri da lei, in High Street; ma era gomito a gomito con Melissa e stavano ridendo e Angela si sentiva come se l’avessero presa a schiaffi.
Benjy adora la campagna, non tanto per quello che c’è, i cavalli, i mulini a vento, bastoni belli grossi, panorami, ma piú che altro per l’assenza di tutto quello che a casa lo opprime tanto. Occupa ancora un cerchio di attenzione ristretto, un raggio di quattro metri al massimo. Se succede qualcosa al di fuori di questa circonferenza, semplicemente non se ne accorge a meno che implichi un’esplosione o il fatto che qualcuno urli infuriato il suo nome. A casa, a scuola, per strada fra l’una e l’altra, il mondo lo coglie sempre di sorpresa, con gli insegnanti, i bambini piú grandi, gli ubriachi che gli si parano di fronte all’improvviso, cosí che la sua espressione piú frequente è di stupita perplessità. Ma in campagna tutto è meno importante e accade piú lentamente e puoi prevedere con relativa certezza chi può o non può capitarti di fronte. E lui anela a tal punto a questa tranquillità che a casa tiene sulla libreria una piccola fila di cartoline. Buttermere, Loch Ness, Dartmoor. Non tanto finestre su luoghi in cui preferirebbe trovarsi quanto stati d’animo in cui vorrebbe essere.
Quei primi cinque anni con Dominic furono la prima felicità duratura che avesse mai provato. Lei lavorava in un’agenzia di viaggi, lui suonava in due gruppi jazz e dava lezioni private di pianoforte. Ricorda pochissimo di quello che facevano insieme, niente settimane romantiche a Siviglia, niente natali sotto la neve, e adesso ha difficoltà a immaginare loro due che fanno qualcosa insieme che non sia documentato in un album fotografico da qualche parte, ma era proprio questo il bello, la facilità di tutto quanto, finalmente senza il bisogno di accorgersi di ogni cosa. A Dio piacendo a ventiquattro anni non doveva piú rendere conto a nessuno, porca miseria. E oggi quando pensa al suo matrimonio, è questo a deprimerla, il fatto di essere di nuovo in servizio. E Dominic è cambiato? O la sua assenza è proprio quello che una volta trovava cosí consolante? Non le importa la mancanza d’amore, non le importa la mancanza di attenzioni fisiche, non le importa nemmeno dei litigi. Vuole solo mollare tutto per una volta, vuole non essere costretta a pensare e pianificare e ricordare e organizzare. Mucche che sembrano giocattoli sulla collina in lontananza. Quando immagina il futuro, quando immagina i ragazzi che se ne vanno da casa, la verità è che lei è sola. Quella casetta rosa sbiadito lassú, infilata ai margini del bosco, per esempio, un po’ cadente. Immagina di abitare lí, lo immagina in maniera cosí vivida che è come un sapore in bocca. Caramelle mou. Marmellata d’arance. Un lavoro in una scuola di paese, nelle vicinanze. Una casa ordinata, un giardinetto, ogni giorno beatamente identico a quello successivo e dover accontentare solo se stessa.
Daisy e Melissa sono sedute sul sedile posteriore dell’autobus e stanno parlando di Juno e Pete Doherty e Justin Bieber e il ragazzo con le stampelle che va a scuola con Daisy. Angela è seduta cinque file piú avanti e si sente abbandonata e meschina per il fatto di sentirsi abbandonata; cerca di leggere un articolo sulla possibilità di una coalizione ma viene distratta da un’intervista a Gemma Arterton («Mi hanno fatto una statua con i Lego»).
Dalla fermata dell’autobus a casa ci vogliono venticinque minuti e le ragazze chiacchierano per tutto il tragitto, oppure sembrano godersi il reciproco silenzio mentre Angela si trascina alle loro spalle. A un certo punto si sorprende a pensare che Melissa sia Karen. Si domanda com’è Karen adesso, come potrebbe essere Karen adesso. Uguale a Daisy ma con la sicurezza di Melissa, forse, la sua disinvoltura fisica. Le tornano in mente i versi di quella tesina di poesia all’ultimo anno di superiori. «Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca c’è sempre un altro che ti cammina accanto». O qualcosa di simile. Fantasmi e angeli custodi, come quelle persone nelle Torri gemelle, intrappolate nella tromba delle scale piena di fumo. Qualcuno le prende per mano e dice «Non aver paura», poi attraversano insieme le fiamme e si trovano sole e al sicuro.
Si dimentica del tutto della scomparsa di Melissa finché entrano nella sala da pranzo e Alex, Angela e Richard alzano gli occhi e Melissa e Daisy sono chiaramente insieme, il che prende tutti in contropiede ed è evidente che Melissa non ha nessuna intenzione di scusarsi o dare spiegazioni non richieste, e Angela si rende conto che è tutta una lunga messinscena. Melissa dice: – Vado a rinfrescarmi, – e si avvia teatralmente verso le scale con la borsa a tracolla, e Angela vede Richard che si morde forte la lingua.
Dominic e Benjy escono e si siedono uno accanto all’altro sul rullo arrugginito di fianco alla legnaia e Benjy usa il coltello multiuso di Dominic per tagliuzzare un bastone. L’attrezzo è poco maneggevole e Benjy è maldestro ma il bastone è buono perché Benjy è un esperto in questo genere di cose (Dominic gli regalerà il suo temperino per il prossimo compleanno), non troppo verde e flessibile e nemmeno troppo secco e friabile. Dominic lo lascia fare senza offrirsi al suo posto, perché non è un cattivo padre. Ha davvero la capacità di entrare nel mondo di Benjy come nessun altro della famiglia riesce a fare, forse perché il mondo adulto su di lui ha meno presa che sugli altri, forse perché una parte di lui non è mai cresciuta del tutto. E adesso Benjy ha finito di fabbricare la spada, strappando via la corteccia e affilando la punta. – Ecco qua –. Dominic la prende in mano. Il legno nudo ha il colore della margarina e sembra di cera sotto le dita. Gli fa pensare ai porcellini di terra, al pongo e agli aeroplanini di carta. – In guardia –. Benjy muore quattro volte, Dominic cinque. Poi si sdraiano nell’erba umida a guardare il cielo grigio e uniforme perché è cosí che a Benjy piace parlare, qualche volta. – Ho pensato alla nonna.
– E in che modo hai pensato alla nonna?
– Perché tu hai detto che per fortuna è morta.
– In realtà non era piú la nonna, vero?
Lei lo chiamava «il bambino», ma lui voleva che la mamma le spiegasse ogni volta chi era. Gli piaceva anche la foto del cocker e le rotelline dentate della sveglia da viaggio che si muovevano silenziosamente nella loro cassa di vetro e i biscotti che le infermiere portavano alle quattro con un carrello. – Qualche volta di notte la vedo.
– Te la sogni?
Sí, era un sogno, credeva Benjy. – Ma è in piedi in camera mia.
– Hai paura che possa non essere morta?
– È possibile?
– No, non è possibile.
Pensò al papà e alla mamma che morivano e a degli estranei che si occupavano di loro ed era come se qualcuno gli montasse con tutto il peso sul torace. Strofinò il polsino della camicia di papà ma non era quella bella. Poi sentirono Melissa che gridava «Vaffanculo», che era la seconda parola peggiore che uno poteva dire, cosí gli scappò da ridere e il papà si alzò in piedi e disse: – Aspetta lí, capitano.
Melissa diede un colpetto accanto a lei sulla panchina.
Daisy, obbediente, si sedette. – Mi dicevi di Michelle.
– È una che fa sempre tragedie per niente, ecco la verità.
Daisy aveva accettato un bicchiere di vino per non fare la figura della suora e il mondo le appariva già un po’ sfocato. – Comunque.
– Eravamo a quella festa –. Era un sollievo parlarne con qualcuno che sarebbe scomparso di lí a cinque giorni. – Michelle sparisce di sopra con ’sto tipo davvero repellente che nessuno di noi aveva mai visto.
Quel tipo di feste aveva sempre spaventato Daisy, l’odore sui vestiti il giorno dopo e qualcos’altro che non si poteva lavar via.
– Entriamo in camera da letto e lei gli sta facendo un pompino. – Si interruppe per sondare la reazione di Daisy, ma era difficile da decifrare. – Lui ci guarda e sorride. Tipo prego, entrate, perché no, come se si stesse facendo un panino. Io scatto una foto e Michelle nemmeno se ne accorge perché è, come dire, troppo impegnata là sotto.
Daisy stava pensando allo scarafaggio gigante alla festa di Benjy con gli animali, il modo in cui i piccoli segmenti duri del corpo brillavano come legno antico lucido.
– Un paio di giorni dopo c’è una stupida lite e Cally mi prende il telefono e sbatte la foto in faccia a Michelle. Michelle si incazza come una iena e prende a pugni Cally, le tira i capelli. A quel punto è guerra e Cally invia la foto a cani e porci.
– Non mi sorprende che abbia cercato di uccidersi –. Daisy si sentiva sporca solo per aver ascoltato la storia.
Melissa aveva sentito bene?
– È stata una cosa davvero orribile.
– Ehi, sentila, lei! – Era questa la ricompensa per la sua amicizia? Si alzò. – Be’, allora puoi andartene affanculo, cara la mia santerellina –. E stizzita si allontanò con aria maestosa verso casa.
Di colpo ogni cosa nel giardino prese vita, come se fosse stata rimossa una membrana generale. Il raschietto per pulire le scarpe, l’edera. Poi papà sbucò da dietro il muretto. – È proprio scoppiato un casino, eh?
A Daisy sembrò di essere un libro aperto. Facile per lui.
Lui si sedette e l’abbracciò. – Ehi.
– È una persona cattiva.
– Conosco bene il tipo, – disse papà. – È il caso di vendicarsi?
– No. – Lei stava lentamente recuperando la calma. – Credo che essere Melissa possa bastare, come castigo.
– Benjy, tu ti accovacci davanti, – disse Alex, – come se tenessi il pallone.
– Forse dovresti toglierti il grembiule, – disse Louisa, ma a Richard piaceva l’idea di essere un uomo moderno. In grado di occuparsi di tutto. – Dov’è Melissa?
– Non preoccupatevi, – disse Dominic. – Alex può aggiungerla dopo col Photoshop. Il quadratino nell’angolo in alto a destra. Come il portiere di riserva.
Era una bella fortuna, pensò Alex, perché allora avrebbe dovuto fotografarla da sola, uno non può mica farsi una sega su una foto in cui ci sono i suoi genitori. – Fermi.
Tutti davano per scontato che Melissa fosse vegetariana per cocciutaggine, o forse per dar libero sfogo all’empatia che non provava per gli esseri umani, ma in realtà quello che non sopportava era l’incoerenza. Non gliene fregava piú di tanto che i vitelli e le pecore soffrissero, ma perché allora non mangiare anche i cani? Non era questione di convinzioni, era semplicemente ovvio. Detestava le ingiustizie pur non provando particolare solidarietà verso chi le aveva subite. Era convinta che qualunque droga andasse legalizzata e che dare soldi in beneficienza non avesse senso. E le piaceva il fatto che queste opinioni fossero un tratto distintivo e un segno di intelligenza. Per molti versi assomigliava a suo padre. Non aveva le unghie sporche né la permalosa fierezza della sua misera istruzione ma, come per lui, il suo senso di identità dipendeva dal fatto che ad aver torto fossero gli altri.
– A Ian hanno offerto quattrocentomila sterline per tutta la baracca, – disse Louisa.
– Quindi sarebbe un imbecille a rifiutare.
– Ma poi cosa fa? – Rimise il latte nel frigorifero. – Ha cinquantun anni. Troppo giovane per andare in pensione, troppo vecchio per ricominciare da capo.
Richard tagliò in quattro una cipolla e la posò tra una pastinaca e una patata dolce. – Lo terrebbero sicuramente come amministratore. O lo troverebbe indignitoso?
Angela entrò con un bicchiere di vino e si sedette vicino alla finestra. – Vi disturbo?
– Niente affatto, – disse Louisa. Prese una pila di piatti bianchi dallo scaffale. – Preparo la tavola.
Angela si concentrò. – Senti. A proposito di Juliette. – Si rese conto di quanto fosse raro per lei scusarsi con qualcuno, per qualsiasi cosa. – Avevi ragione, è vero che passavo un sacco di tempo a casa sua –. Poi cominciò a spiegare: l’ananasso, Oscar Peterson.
– Non importa ormai. Ne è passata di acqua sotto i ponti.
Lei si adombrò. – Invece importa. – Lui non stava dando abbastanza peso alla cosa. – Sto dicendo che mi dispiace.
Richard si mise sull’attenti, batté i tacchi e chinò di scatto la testa come un soldatino di stagno. – Allora ti perdono. – Si appoggiò con tutte le forze sul coltello tenuto di piatto e schiacciò tre spicchi d’aglio. – Oltretutto, non vedevo l’ora di andarmene anch’io da quella casa. Però è una cosa positiva, credo, – disse, – il fatto che ne parliamo, seppelliamo i fantasmi e cosí via.
Solo che lei non se ne era mai andata, non come se ne era andato lui. La facilità con cui lui aveva affrontato gli esami di maturità, la decisione con cui era andato incontro al mondo. Era infantile provare rancore per qualcuno benedetto da tanta fortuna? E pensare che a sedici anni si sentiva tanto piú dotata come essere umano del suo goffo e solitario fratello. Poi, improvvisamente…
Lui sistemò l’aglio tritato. – Sarei dovuto andare a trovare la mamma piú spesso, me ne rendo conto. – Da quanto tempo non usava quella parola? – A Jennifer non è mai piaciuto il fatto che avessi una famiglia. Non credo sia una sorpresa, vero? Non ho mai capito fino in fondo cosa significasse avere una famiglia finché non ho incontrato Louisa. E anche Melissa. Perché fa parte del pacchetto, no? Sono cose su cui bisogna lavorare.
In realtà lei non lo stava ascoltando, perché sotto sotto c’era la paura che tutto ciò non avesse nulla a che fare con la fortuna, che lui si fosse meritato tutto quanto, e ce l’aveva con lui perché avrebbe potuto farlo anche lei, se ci avesse provato seriamente, avrebbe potuto fare l’avvocato, trasferirsi in Canada, metter su una società, e quello che vedeva quando guardava Richard non era il successo del fratello ma il proprio fallimento.
Benjy gioca coi Gogos al capo opposto del tavolo, schierandoli a seconda del colore. Oro, argento, rosso, arancio, giallo. Hanno nomi ufficiali come Pop, Kimi e Kichi che trovi anche sul sito, ma Benjy e Pavel li hanno ribattezzati con nomi tipo Pel di Lucertola, Guastafeste e Cane di Panna. Li usano a mo’ di biglie, ma quando è da solo Benjy li schiera come soldatini.
Ad Angela, Dominic e Daisy non dispiacciono perché tutti insieme sono belli da vedere e, per una volta, non sono armi, ma quando Louisa entra in sala da pranzo carica di piatti prova una leggera irritazione. Da quando sono insieme in vacanza in pratica non ha mai rivolto la parola a Benjy, e la verità è che, per quanto si senta in colpa, non ha nessuna simpatia per quel bambino. Sempre vestito con abiti che sembrano non andargli bene, perlopiú macchiati, sempre lí a dimenarsi come se funzionasse con un telecomando in mano a qualcuno molto distante da lí. – Benjy…?
Louisa lavora per la Mann Digital a Leith. Fanno scansioni piane, stampe fotografiche di grandi formati, stampa su pannelli retroilluminati, edizioni giclée, un po’ di editing e restauro. Di quel lavoro le piace il senso di pulizia e precisione, l’ozono nell’aria, il ronzio e il rollio delle grandi Epson, la taglierina, il rullo caldo, i vari tipi di carta, Folex, Somerset, Hahnemühle. Mann era Ian Mann, che l’aveva tenuta in quello che aveva definito il suo «periodo difficile», perché lei era rimasta al suo fianco durante il periodo ancora piú difficile che lui aveva passato l’anno prima. Aveva cominciato come segretaria, poi aveva imparato a tenere la contabilità e adesso si occupava di quasi tutta la parte di Photoshop perché i ragazzi erano piú che altro dei tecnici. Anni prima si era iscritta all’accademia a Manchester ma non andava a letto con le donne, non era costantemente fatta e nemmeno abbastanza fiera delle origini proletarie che stava cercando di lasciarsi alle spalle, francamente, e anche se era un’eccellente disegnatrice il mercato stava crollando e lei mollò tutto a metà del secondo anno. E poi voleva guadagnare dei soldi, perché condividere una casa col frigo sporco e la tappezzeria a brandelli non aveva niente di romantico e in realtà l’idea di essere un’artista l’aveva messa a disagio fin dall’inizio. Suo padre diceva che andare all’università era come fare il passo piú lungo della gamba e lei lo detestava per questo, anche perché le sbatteva in faccia quelli che erano i suoi stessi timori. E se Angela e Dominic partivano dal presupposto che lei non lavorasse e passasse le giornate a fare shopping o in palestra ne era felice, perché magari non sarà stata arte vera e propria, ma era un’attività creativa ed era sua e per lei era preziosa e non voleva che gli altri ci ficcassero il naso.
Quando Melissa entrò in sala da pranzo sua madre stava apparecchiando la tavola mentre il bambino riempiva uno zaino con mezzo milione di creature di plastica.
– Sembra che tu e Daisy andiate molto d’accordo.
Melissa voleva evitare la domanda e si diresse verso la cucina ma dalla porta vide Angela seduta alla finestra con un’espressione piuttosto intensa, cosí rimediò facendo una piroetta e appoggiandosi al termosifone per scaldarsi le mani. Si sentiva una scema. – Sí, è simpatica –. Se solo non avessero fatto insieme quell’entrata trionfale in sala da pranzo, cazzo.
– Sembra una persona davvero genuina.
Melissa esaminò lo schema di crepe nel pavimento di pietra perché, per quanto le dolesse ammetterlo, Daisy aveva ragione. Sapevano che Michelle era pazza e forse aveva davvero intenzione di uccidersi, e lei non aveva nessuno a cui raccontarlo. All’improvviso le fu chiaro, come se le nuvole si aprissero mentre gli angeli cantavano e i cieli scaricassero merda a profusione, che in realtà lei non aveva veri amici. Con ogni probabilità Cally la stava fregando giusto in quel momento, e immaginò Alicia e Megan che ridevano come due streghe del cazzo. Si raddrizzò ed entrò a passo di marcia in cucina attraversando quella pesante atmosfera adulta e aprí il frigorifero. «Esigenze terapeutiche».
– Stai bene? – Richard si era infilato i guanti da forno che sembravano un paio di grosse manette di lana.
Tutta quella birra biologica, cazzo. Hook Norton. Dande-lion. – Mai stata cosí bene, Richard –. Prese una Old Speckled Hen, si alzò, chiuse il frigo, si gingillò un po’, urtò il bicchiere di Angela con la bottiglia di birra. – Cin cin, tesoro –. Detto questo, uscí di scena.
Nel soggiorno, a destra della cappa del camino, c’erano due scaffali di libri cosí sbiaditi dal tempo e dal sole che gli occhi vi scivolavano sopra con la stessa naturalezza con cui scivolavano sulla sveglia e sul tavolino di noce. Alcuni erano indubbiamente letture da vacanza lasciate lí dagli Holland e dai loro ospiti paganti (Gli eredi dell’Eden di Wilbur Smith, I segreti della notte di Una-Mary Parker), altri avevano l’aria di essere regali esiliati nella seconda casa (Il Libro di Cucina di Debrett, Cinquanta giochi da bere), altri sicuramente erano stati acquistati solo per divertirsi (Confessioni di un istruttore di guida di Timothy Lea, Come avere un successo sfacciato con le donne di John Mack Carter e Lois Wyse), mentre altri tascabili malconci sfoggiavano splendide copertine noir che non si vedevano da anni (Passo fatale di Wade Miller, Discolpati di Rex Stout). Eminenti vittoriani di Lytton Strachey e Della certezza di Wittgenstein erano evidentemente scivolati via da qualche squarcio nella trama dell’universo e adesso erano lí, in paziente attesa d’essere salvati.
– Quando parli con qualcuno piú grande di te, – disse Alex, – fatti vedere ben sveglio e giustamente attento a quello che ti stanno dicendo.
– Che roba è? – Dominic aprí la bottiglia d’acqua frizzante.
– L’Enciclopedia dei Ragazzi.
– Benjy, caro, questo sei tu, – disse Alex. – Ciondolare di qua e di là, farsi ripetere le frasi, mostrarsi disattenti e privi di interesse sono esempi di maleducazione bella e buona.
– Potete fare un po’ di posto, per favore? – Richard si era avvicinato tenendo il pollo a mezz’aria.
– Sembra squisito –. Dominic si fregò le mani.
– In linea di massima dovremmo farci il bagno tutti i giorni quando è possibile.
– Alex…
– In mancanza di un bagno, una rapida passata di spugna seguita da energiche frizioni con un asciugamano ruvido è particolarmente benefica.
– Daisy, – disse Richard, – vuoi recitare la preghiera?
– Non importa, non è necessario.
– Su, dai, – disse Richard, – comincia a piacermi.
Melissa guardò il pollo con disprezzo.
Dominic disse: – Non ti preoccupare, è stato soffocato con un cuscino di seta dopo una vita lunga, fruttuosa e appagante.
– Non fa niente, – disse Benjy, – perché i polli non sono molto intelligenti.
– Ci sono persone che non sono molto intelligenti e mica le mangiamo, – disse Melissa.
– Pasticcio di Ritardato Mentale, – disse Benjy.
– Non è affatto divertente, – disse Angela.
– Un po’ sí, – disse Alex.
Richard tornò con le verdure al forno, tenendo in alto anche quelle.
– Penso che richieda una vocazione straordinaria, fare l’insegnante, – disse Louisa.
La vocazione, pensò Angela. Forse era quella che aveva perso.
Ma Dominic e Richard stavano parlando di Raglan. – E poi ho capito, – disse Dominic. – È il castello di The Song Remains the Same.
– Lui è un grosso stimolo, mentalmente, – disse Louisa. – Mi porta alle mostre, ai musei, all’opera –. Si sporse in avanti, avvicinandosi. Alex sentí il suo profumo e vide i seni dentro la maglietta. – Non è che io vada pazza per l’opera.
Melissa fissò il piatto ma aveva perso il potere di influenzare l’atmosfera nella stanza. Richard le diede qualche colpetto affettuoso sull’avambraccio e lei non protestò.
– Mi sono sentita abbandonata quando hai attraversato di corsa la strada.
– Mi dispiace, – disse Daisy. Il desiderio di salvare Melissa. Che assurdità, a ripensarci.
– Qual è il modo piú orribile di morire? – disse Benjy.
– La malattia di Huntington, – disse Richard. – Diventi pazzo e perdi lentamente il controllo del corpo nel corso di molti anni. Non riesci a dormire, a deglutire, a parlare, soffri di attacchi epilettici e non c’è nessuna cura.
Veramente Benjy voleva fare una domanda divertente.
Un giovane medico si era avvicinato al suo letto e le aveva spiegato perché il feto era deforme. Sembrava compiaciuto di conoscere le origini biologiche alla base di quella sindrome cosí rara. Anche lei aveva l’impressione di dover essere compiaciuta, come se avesse vinto una sorta di perversa lotteria. La mattina dopo scesero con l’ascensore al pianterreno e fecero il loro ingresso in un mondo pieno di madri e di donne incinte. Provava rabbia per la spudoratezza con la quale esibivano i loro trofei, e sollievo per non essere diventata madre di quella creatura. Pianse e Dominic la confortò ma non le chiese mai perché avesse bisogno di conforto: era talmente evidente. Setacciò i suoi ricordi per capire cosa aveva fatto di sbagliato. Aveva fumato durante il primo mese di gravidanza. Era inciampata scendendo da un autobus in Upper Street. Se solo fosse riuscita a scoprire l’errore forse avrebbe potuto tornare indietro nel tempo, comportarsi in maniera diversa e ripercorrere tutto quanto fino al momento presente, ritrovandosi però con un neonato addormentato nel lettino vuoto.
Dominic tornò in camera da letto con lo spazzolino e il dentifricio in mano. – Che succede?
– Guardo le persone e credo che siano Karen.
Lui si ricordò di sua nonna, che era morta quando lui aveva otto anni e per un po’ l’aveva vista dappertutto. Tutte quelle vecchie coi capelli bianchi.
– Credo che sia ancora viva. Là fuori. Ci guarda. Aspetta.
Lui era stanco e tutto questo lo spaventava. – Non è là fuori, Angela. Non ci guarda –. Ma era mai stata viva?
– Tu non ci pensi a lei?
– Qualche volta –. Anche se accadeva di rado.
– Sento la sua voce.
– Da quanto tempo hai questi pensieri?
– Prima non mi succedeva tanto spesso, ma ultimamente…
– Hai una figlia vera.
– Lo so.
– E le rendi la vita cosí difficile.
– Dom…
– La religione non c’entra, vero?
– Per favore, adesso no.
– Sei arrabbiata con lei. – Provava un’esaltazione vertiginosa, come se avesse scalato un’alta torre e avesse visto la forma di un labirinto in cui aveva brancolato a lungo. – Lei non è un premio di consolazione. È un essere umano.
Louisa era seduta sul bordo della vasca da bagno, con in mano il vasetto giallo di crema per il viso. La scomparsa di Melissa l’aveva scossa parecchio, non tanto al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere, ma perché si poneva il problema di cos’altro potesse fare, cos’altro potesse o non potesse dire. Era difficile crederci adesso, coi fatti offuscati dall’alcol che aveva bevuto per attutire l’inaspettata solitudine dopo che Craig se ne era andato. Quindici uomini, piú o meno. Contarli non le interessava particolarmente. Uno sul sedile posteriore della sua Bmw, coi pantaloni calati fino alle ginocchia, le teneva la mano sulla bocca e le ripeteva «puttana schifosa», e lei si domandava se potesse considerarsi stupro, anche se stupro significava dire «No», non solo pensarlo, significava avere un minimo di rispetto per se stesse. Uno era un ponteggiatore. Sempre ubriaco perso.
Annie l’aveva portata da Raoul quel primo fine settimana e adesso che l’odore di Craig cominciava a svanire sentiva che quelli la accerchiavano. Annie diceva che si stava punendo, ma certe cose sono semplicemente incidenti che succedono. Per esempio imboccavi una strada sbagliata e calava il buio. A casa non beveva mai ma i locali che frequentava per stare in compagnia erano posti dove si beveva, e se avevi paura di tornare a casa continuavi a bere. All’inizio Melissa aveva incoraggiato quel comportamento ribelle, poi una mattina era tornata a casa dopo aver passato la notte da un’amica, aveva trovato uno sconosciuto seduto al tavolo della colazione e aveva detto «E questo chi cazzo è?» e Louisa non era stata in grado di rispondere perché in realtà nemmeno lei sapeva chi fosse. A tutt’oggi, non riesce a ricordarsi il nome. E nemmeno la faccia.
Piú che innamorarsi di Richard si era aggrappata a lui mentre gli passava accanto trascinata dalla corrente, lottando per non finire sott’acqua. Non avevano fatto sesso per sei settimane mentre lei aspettava i risultati del test per l’Aids. Si era convinto che Louisa fosse una donna all’antica. Lei era persuasa che se lo avesse lasciato andare, il passato sarebbe scivolato via trasportato dalla corrente, ma per la prima volta le venne il dubbio di dovergliene parlare prima che lo facesse Melissa. «Perdonare e dimenticare». Stava cominciando a capire cosa significava. Non si poteva dimenticare finché qualcun altro non ti aveva perdonato.
– Ho fatto un incubo sugli Uomini di Fumo.
– OK, – disse Alex. – Siamo in giro con le mountain bike. – Perché era una cosa a cui pensava spesso prima di addormentarsi. – Stiamo attraversando una foresta. È estate e io ho il picnic nello zaino.
– Panini con la pancetta, – disse Benjy, – e un thermos di tè e due Kit Kat.
– Pedaliamo sempre piú veloci e all’improvviso sbuchiamo dagli alberi, guardiamo in basso e ci accorgiamo che le ruote non toccano piú il terreno.
– Sono biciclette magiche?
– Sí, sono biciclette magiche e noi stiamo volando e saliamo sempre piú su e vediamo i campi e un fiume e un treno a vapore e delle automobili. Ci sono uccelli che volano sotto di noi e c’è una mongolfiera e le persone nel cesto ci salutano con la mano e le salutiamo anche noi e io ti dico: «Possiamo andare in qualunque parte del mondo». – Accarezzò Benjy sui capelli. – Dove vuoi andare, fratellino?
– Voglio andare a casa, – disse Benjy.