Capitolo primo

Il discorso delle origini: ex septentrione lux

Affinché il seguito sia bello, è necessario un bel principio (dal momento che l’importante è sempre continuare bene – questa si chiama storia – conviene che tutto sia bene iniziato). Tale, si suggerirà, è la regola, implicita ma onnipotente, alla quale si sottomette volentieri qualsiasi collettività preoccupata di edificare – attraverso il racconto a se stessa, agli altri, alla posterità – la propria storia1.

NICOLE LORAUX

La storia insegna anche a sorridere delle solennità dell’origine […]. L’origine è sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo; è dallato degli dèi, e a raccontarla si canta sempre una teogonia. Ma l’inizio storico è basso. Non nel senso di modesto, o di discreto come il passo della colomba, ma derisorio, ironico, atto a distruggere tutte le infatuazioni2.

MICHEL FOUCAULT

La questione dell’identità è spesso affidata a quella dell’origine: il legame tra queste due nozioni è tale che l’esaltazione della prima passa per un abbellimento della seconda.

I nazisti hanno formulato un discorso delle origini, hanno dotato il popolo tedesco di un’ascendenza prestigiosa atta a esaltare l’identità di un popolo severamente umiliato dalla disfatta del 1918 raramente riconosciuta come tale e dalla pace di Versailles che fu vissuta come un Diktat.

Questo discorso delle origini è stato formulato e diffuso attraverso vari vettori, in particolare dalla produzione scientifica: la storia e l’antropologia, spesso considerate come scienze ausiliarie, e poste al servizio della nuova scienza regina, la razziologia, producono cosí sotto il Terzo Reich il discorso che si richiedeva loro. In questo, non si fanno alcuna violenza, nella misura in cui i nazisti riprendono una vulgata piú o meno accettata dalla comunità scientifica a partire dal XIX secolo, quella dell’origine nordica di ogni civiltà.

Identità tedesca e autoctonia.

In Che cos’è una nazione? Ernest Renan, fine conoscitore del vicino tedesco e della sua storiografia, scrive: «Un passato eroico, grandi uomini, gloria, ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale»3. Nel XIX secolo, la Germania si percepí come la späte, perfino la verspätete Nation4, la nazione tardiva o tarda arrivata tra le grandi nazioni europee. Il contrasto con la Francia, in particolare, appare evidente ai tedeschi del 1800: la Francia è una nazione unificata dall’azione dei re, in seguito dal nuovo Stato centralizzato, dal diritto e dalla lingua resi uniformi di cui la rivoluzione si è dotata a partire dal 1789. Potente e unificata, la Francia è la nazione vittoriosa su un Sacro Romano Impero germanico di nazione tedesca, i cui ultimi due termini cercano ancora invano, nel disorientamento prodotto dalla disfatta del 1806, la propria definizione.

Come definire l’identità nazionale tedesca? Essa non è di natura politica: i tedeschi, contrariamente alla Francia, sono spezzettati in una moltitudine di piccoli Stati, regni, principati, margraviati, città libere, vescovati e baronie, in tutto oltre trecento Stati, il cui desiderio di potenza e di autonomia è stato lusingato dalle paci di Westfalia, nel 1648, che hanno esteso generosamente il principio di superiorità territoriale (Landeshoheit) ben al di là del livello del regno, pur mantenendo la finzione, di lí a poco indifendibile, dell’Impero.

L’identità tedesca è forse culturale? Sí e no: certamente, gli umanisti tedeschi hanno celebrato fin dal Rinascimento un’identità linguistica forte, di cui Lutero erige il primo monumento nel 1522, traducendo la Bibbia di san Girolamo. Ma la lingua tedesca non è dotata di un’autorità regolatrice e normativa simile all’Accademia francese. Essa resta frantumata in numerosi dialetti che conservano ancora oggi una vitalità sorprendente per l’osservatore francese, assuefatto all’uniformità linguistica della scuola di Condorcet e di Ferry. Inoltre i tedeschi sono divisi, dalla Riforma in poi, tra un Nord a maggioranza protestante, e un Sud renano e alpino per lo piú cattolico. La suddivisione segue una linea che viene denominata in modo pittoresco Weisswurstäquator, dato che Sud e Nord non condividono neppure le stesse pratiche gastronomiche5.

Di fronte alla sterilità di questi criteri (politico, linguistico, religioso), il XIX secolo tedesco si orienta verso una definizione antropologica: non si dovrebbe forse cercare la misteriosa identità tedesca nella continuità di una razza presente sul suolo germanico dall’alba dei tempi?6.

Si tratta di una razza attestata da almeno duemila anni. Gli studiosi tedeschi dispongono dal Rinascimento di un testo di Tacito7 che descrive le popolazioni con le quali i romani si sono scontrati a nord del Danubio e a est del Reno. Il De origine et situ Germanorum, redatto nel 98 dallo storico ufficiale dei Flavi, conferisce tutta la patina di un’antichità prestigiosa a popolazioni che erano prive di memorie scritte. I sudditi del regno di Francia, e successivamente i francesi, hanno potuto molto presto avvalersi del racconto di Cesare, che conserva e alimenta devotamente la memoria dei galli. I tedeschi ormai hanno la loro Germania: la penna di uno scrittore romano ha il valore, per le nazioni in divenire, di un certificato di Antichità, dell’attestazione di un’esistenza remota, dunque venerabile, e di una permanenza attraverso la storia, fino al tempo presente8.

La Germania è popolata da germani. Da dove vengono? Tacito propone una genealogia affrettata delle popolazioni germaniche. Evidentemente a corto di immaginazione, non sapendo a chi collegarli, formula, nel secondo paragrafo del suo testo, un’idea ereditata dai greci, e destinata a un chiaro e duraturo successo, immergendo le radici dell’albero genealogico nelle profondità di una terra madre:

Quanto ai Germani, crederei che siano autoctoni e in minima parte mescolati con altri popoli per immigrazioni e ospitalità9.

Queste due parole, Germanos indigenas, contribuiscono a fondare il mito dell’autoctonia germanica: in latino, l’aggettivo indigena-ae, è derivato da unde, pronome relativo o interrogativo che designa l’origine, e che ha per correlativo inde. L’indigena è dunque «colui che viene da là», dal posto considerato. Questa parola latina, utilizzata da Tacito, corrisponde con grande precisione all’idea espressa dalla duplice radice greca del termine autoctono: i germani sono nati da sé (auto), senza aggiunta, apporto o aggregazione di popolazioni esogene, dalla propria terra (-ctono), come gli ateniesi, i quali fondavano la consapevolezza della propria superiorità tra i popoli ellenici sulla convinzione di essere autoctoni e non allogeni immigrati, come ad esempio i lacedemoni, provenienti dall’immigrazione dorica10. A questa autoctonia, generazione spontanea di un popolo nato dal suo stesso suolo, vera partenogenesi di una terra fertile, intrisa di sangue, si associa il secondo topos di un’identità tedesca fantasmatica, quella della purezza. Nate senza mescolanza, le popolazioni germaniche non hanno mai conosciuto la commistione con altri popoli:

Io mi associo all’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania, non macchiati da alcun matrimonio con altre genti, siano rimasti una stirpe distinta, pura e simile solo a se stessa11.

Tacito conferisce dunque ai germani una genealogia antica, e pertanto lusinghiera, oltre che un’identità fisica e morale migliorativa. La monografia etnografica di Tacito alimenta lo stereotipo antropomorfico che ha definito, trovando molti eredi, il germano, e successivamente, per diritto di legittima successione, il tedesco. Questo corpo viene dotato di notevoli qualità morali. Nel complesso, l’etnotipo germanico è presentato in modo positivo, sia fisicamente che moralmente. È cosí aperta la strada a una ricezione favorevole e duratura di Tacito nel quadro di un processo di definizione identitaria.

Migrazioni ariane e vicissitudini di un mito.

Nei secoli successivi alla sua riscoperta, tra il 1450 e il 1500, La Germania di Tacito e le idee che essa propone saranno associate a varie speculazioni sulla purezza, la centralità e l’universalità della sostanza tedesca.

Il mito dell’autoctonia sarà tuttavia fatto vacillare e messo in discussione da un nuovo discorso delle origini, che s’impone agli studiosi occidentali del secolo dei Lumi: la tesi dell’origine indiana delle popolazioni dell’Europa occidentale.

I miti d’origine di cui si dotano le popolazioni europee che si stanno formando convergono tutti verso una fonte comune: la radice adamitica, attestata dalle Scritture, verità rivelata e incontestabile. Tutti questi discorsi operano una sintesi tra rivelazione biblica, Antichità e mitologia classica, all’interno di un grande affresco unificante e ab Adam della storia umana.

L’origine adamitica dell’umanità ha rappresentato un problema nel XVIII secolo, in quanto il mito delle origini è al contempo ebraico e scritturale. Entra dunque in netto conflitto con l’anticristianesimo e l’anticlericalismo di molti spiriti illuminati del tempo. Uno spirito libero non può accettare di vedere nella Scrittura la fonte insuperabile di ogni verità. Preferisce piuttosto basarsi sulla scienza (storica, linguistica, geografica, eccetera) per elaborare ipotesi sull’origine di segno alternativo.

Il carattere ebraico del mito adamitico si scontra inoltre con la giudeofobia del tempo. Eredità cristiana, saldamente ancorata nella mentalità occidentale, l’antigiudaismo è un sentimento ambivalente di diffidenza, talvolta di disprezzo, persino di odio, unanimemente condiviso, anche dall’abbé Grégoire che pure difese la causa dell’emancipazione ebraica. Il mito adamitico stabilisce una parentela con gli ebrei, parentela e origine semitica a cui molti pensatori non possono rassegnarsi.

Il XVIII secolo si dedica pertanto all’elaborazione di discorsi alternativi. Si cerca la culla dell’umanità non piú in seno ad Adamo e nella Palestina dei profeti, ma in India, e l’ipotesi indiana viene difesa in particolare da un grande anticlericale e costitutivamente giudeofobo come Voltaire. Tale ipotesi farà nascere il mito ariano, di cui Léon Poliakov ci ha fornito la storia12.

In quell’epoca, l’India è conosciuta sempre piú approfonditamente grazie ai viaggi di esplorazione e di conquista condotti dai britannici. I racconti di viaggio riferiscono le meraviglie della cultura indiana. Un clima di anglofilia generale contribuisce alla diffusione di queste idee in tutta la Repubblica delle Lettere europea. Sempre in quel periodo, alcuni geografi formulano l’ipotesi di un’anteriorità dell’India rispetto a tutte le altre terre emerse: dato che la presenza di conchiglie sulla quasi totalità della superficie del globo corrobora il mito del diluvio, si reputa che l’umanità abbia potuto sopravvivere solo sulle vette piú alte della terra, che si trovano appunto in India.

L’origine indiana soddisfa anche i cristiani dalla fede piú fervida. Dopo tutto, il giardino dell’Eden è situato da qualche parte a est, e le meraviglie delle Indie ricordano molto da vicino quelle del paradiso terrestre che, a partire dal Medioevo, si pretende di localizzare e di cartografare. Per altro, il monte Ararat sul quale trovano rifugio Noè e la sua arca potrebbe benissimo essere l’Himalaya.

L’ipotesi indiana è apparentemente confermata dalle acquisizioni della nascente linguistica comparata. Nel 1788, un giudice britannico di stanza nel Bengala, William Jones, per ingannare la noia, pronuncia alcune conferenze in cui stabilisce l’esistenza di una parentela tra il sanscrito, la piú vecchia lingua indiana, e le lingue europee antiche e moderne, latino, greco, tedesco, inglese, francese. Sottolinea omologie di struttura grammaticale e affinità lessicali. La conclusione è d’obbligo: il sanscrito è la lingua originaria, la matrice degli idiomi contemporanei, che ne sono tutti derivati. Un’altra induzione che se ne trae è che tale lingua abbia potuto diffondersi attraverso l’Europa solo grazie al fatto che gli Indiani, popolo originario, sono arrivati a conquistare e popolare questa stessa Europa. L’umanità occidentale moderna discende dunque direttamente dagli invasori indiani, che il XIX secolo chiamerà indoeuropei, tribú bianche e superiori, creatrici di cultura, che un bel giorno scesero per i pendii delle cime da cui provenivano per percorrere e sottomettere il vasto mondo, e cosí creare ogni civiltà.

L’indologia nasce e s’impone dunque come scienza degli antenati. Nel 1808, lo scrittore, storico e filosofo tedesco Friedrich Schlegel pubblica il suo saggio Sulla lingua e la sapienza degli Indiani13, diventando cosí il primo indologo. È sempre Schlegel che, nel 1819, in un altro dei suoi scritti, introduce in tedesco il termine Arier per designare queste popolazioni di conquistatori migratori che avrebbero dato nascita alle lingue, popolazioni e culture europee moderne. Schlegel mutua questo termine dal sanscrito arya, che significa nobile, vocabolo nel quale Schlegel crede di scoprire, per paronimia, l’origine del termine tedesco Ehre, che significa onore.

I tedeschi, piú dei francesi e dei britannici, s’impadronirono dunque volentieri di questo mito originario e si attribuirono una genealogia ariana. Al punto che, oltre all’espressione ariano, si è creato il termine di Indo-germane(-n)14, con l’aggettivo corrispondente indogermanisch, per designare non solo i gloriosi antenati, ma anche le popolazioni contemporanee che ne discendono, e di qui si postula che esse abbiano conservato, su terre germaniche ancora immacolate, un po’ della loro purezza immemoriale: la filiazione linguistica diretta lascia congetturare una filiazione razziale altrettanto chiara ed evidente. In Germania, dunque, l’indomania si trasforma in germanomania: gli indiani hanno fecondato la terra tedesca dandovi nascita al popolo germanico, o indogermanico, o ancora ariano.

Tutte le menti illuminate del tempo concordano con questo nuovo mito delle origini. Hegel gli conferisce la consacrazione accademica e lo eleva a livello metafisico delineando, nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, il cammino dello spirito del mondo, il Weltgeist che, nato in Oriente, procede da est a ovest per trovare la sua piena realizzazione in Occidente, nella libertà germanica. Ripete questa tesi Jacob Grimm, nella prefazione alla sua Geschichte der deutschen Sprache (1848).

Dobbiamo dire che la Germania dell’inizio del XIX secolo tende con particolare forza alla ricerca di un’identità in quanto si trova di fronte all’occupazione napoleonica. Il mito ariano conferisce alla Germania una singolarità e un’identità irriducibili a ogni altra nazione, in quanto i tedeschi arrivano rapidamente alla conclusione che la loro patria sia la terra d’elezione degli invasori ariani.

O meglio, i tedeschi, che hanno dapprima trovato in India la loro Urheimat ariana, trasferiranno progressivamente questa culla dell’umanità verso ovest per localizzarla infine sul territorio dell’attuale Germania e della Scandinavia.

La tesi dell’origine nordica di ogni civiltà diviene la vulgata originaria dei movimenti nazionalisti e razzisti che si sviluppano in Germania e in Austria nella seconda metà del XIX secolo: l’unica razza creatrice è la razza indogermanica o nordica, ogni cultura proviene dal Nord guerriero e creatore che ha dato nascita alle grandi civiltà del mondo.

La letteratura di propaganda di questi movimenti razzisti15, che il giovane Hitler leggeva ampiamente nelle ore d’ozio del periodo viennese16, è stata l’elemento mediatore tra il mito ariano del XIX secolo e il movimento nazista. La lettura delle pagine degli ariosofi Guido von List e Jörg von Liebenfels17 ha ispirato direttamente la stesura del grande discorso ideologico e programmatico tenuto da Hitler il 13 agosto 1920, a Monaco, dal promettente titolo «Perché siamo antisemiti?» Hitler risale qui all’origine dei due principî razziali, ariano ed ebraico, e fa della tesi dell’origine nordica la vulgata «razziogenetica» della Nsdap18:

Negli impressionanti deserti ghiacciati del Nord, viveva una razza di giganti che avevano conquistato forza e salute grazie a una selezione razziale […]. Ora, queste razze che noi chiamiamo ariane diedero vita a tutte le grandi civiltà che sono venute dopo […]. Sappiamo che sono stati immigrati ariani ad aver donato all’Egitto la sua alta civiltà, la stessa cosa è accaduta per la Persia e la Grecia. Questi immigrati erano ariani biondi con gli occhi azzurri, e sappiamo che, al di fuori di questi paesi, sulla terra non è stata fondata alcuna altra civiltà19.

Alle fonti dell’indogermanità: il nordicismo di Hans Günther.

La tesi dell’origine nordica dell’umanità indoeuropea è difesa nel campo accademico e tra il grande pubblico dal razziologo ufficiale della Nsdap, Hans Friedrich Karl Günther (1891-1968), erudito puntiglioso e volgarizzatore prolisso del vangelo razziale nordico.

Originario di Friburgo in Brisgovia, dove studia biologia e antropologia fino al dottorato, Hans Günther è un fervente nazionalista, che ha combattuto nelle trincee della Prima guerra mondiale prima di essere annoverato tra i «proscritti»20, desperados e pronti a tutto sino alla fine, che vengono ingaggiati negli scontri dei corpi franchi fino al 1921.

Libero docente in Svezia e in Norvegia durante gli anni Venti, Günther diventa celebre in Germania per un’abbondante attività editoriale, che fa di lui il papa della Rassenkunde, la scienza delle razze o razziologia, di cui le sue opere diventano il medium popolare: la sua Razziologia del popolo tedesco vende 270 000 copie dalla prima edizione del 1922, all’ultima del 1943. Questo successo, insieme ad altri, fa sí che, all’interno del partito, gli venga attribuito l’eloquente e «simpatico» nome di Rassengünther, «Günther-la-razza».

Vicino ai nazisti, senza essere membro del partito prima del 1932, Günther pubblica le sue opere presso l’editore monacense Julius Friedrich Lehmann (1864-1935), che nel 1890 aveva fondato il J. F. Lehmanns Verlag21, diventato ben presto l’intermediario di tutti i discorsi pangermanisti e razzisti. Lehmann è stato un nazista della prima ora. Ha aderito alla Nsdap nel 1920, dopo esser transitato attraverso i corpi franchi, e pubblica, oltre a Günther, Eugen Fischer, Paul Schultze-Naumburg, Richard Walther Darré, Ferdinand Ludwig Clauss, e molti altri punti di riferimento della letteratura razzista del tempo.

Günther promuove una vulgata razzista, nutrita di Gobineau, di Vacher de Lapouge, di Chamberlain e degli specialisti tedeschi della preistoria: le razze pure sono certamente scomparse (Gobineau), ma una politica razzista di Stato, un criterio selettivo attivo e volontario ispirato a Vacher possono consentire di rafforzare l’elemento nordico in Germania e di avvicinare cosí il popolo tedesco all’idealtipo delle origini.

Günther non è mai riuscito a ottenere un corso istituzionale e statutario nell’università tedesca prima del 1930. È l’anno in cui la Turingia è governata dalla prima maggioranza nazionalsocialista in un Land tedesco. Il ministro dell’Interno nazista della Turingia, Wilhelm Frick, lo chiama all’Università di Jena, dove viene creata per lui la cattedra di razziologia. Günther pronuncia la sua lezione inaugurale il 15 novembre 1930, alla presenza dei vertici del partito: oltre a Göring, Sauckel, Darré e Frick, Hitler è venuto di persona ad ascoltare il maestro.

L’ascesa dei nazisti al potere conferma il suo credito politico e consolida il suo magistero scientifico: nominato professore dell’Università di Berlino nel 1935, e successivamente di Friburgo nel 1939, egli ispira la stesura delle leggi di Norimberga con la sua attività all’interno del Comitato di esperti per la politica demografica e razziale (Sachverständigenbeirat für Bevölkerungs- und Rassenpolitik) del ministero dell’Interno del Reich, dove è nominato nel 1933. Günther viene ricoperto di onori: nel 1935 riceve lo Staatspreis der Nsdap für Wissenschaft, prima che Hitler gli attribuisca il premio Goethe per l’arte e la scienza oltre al Goldenes Parteiabzeichen della Nsdap nel 1941, onorificenza rara, che contrassegnava esclusivamente i servigi piú alti resi alla causa nazista.

Günther è divenuto il campione dell’origine nordica delle grandi civiltà, una tesi che ha sostenuto all’interno di opere generali sulla razziologia della Germania e dell’Europa, ma anche in due monografie dedicate all’Antichità greco-romana e alla storia razziale dell’India.

Il fatto che ogni cultura provenga dal Nord è un’evidenza incontestabile, come tutto ciò che ha a che fare con la razza nordica e con la sua eccellenza. Günther confuta dunque risolutamente i sostenitori della tesi indiana, vale a dire asiatica, contro i quali polemizza puntigliosamente, moltiplicando le contro-argomentazioni: chiunque sostenga la tesi della provenienza asiatica dovrebbe addurre le prove di un’immigrazione di élite indogermaniche verso il IV e III millennio prima della nostra era, ma «la ricerca preistorica non ha rilevato alcuna migrazione di tal genere»22.

La scienza preistorica ha abbandonato la tesi, fondamentalmente veterotestamentaria, della provenienza asiatica: «Non c’è dunque da stupirsi del fatto che la ricerca preistorica […] abbia abbandonato la vecchia ipotesi dell’immigrazione asiatica degli indogermani, un’ipotesi tratta in fondo dall’Antico Testamento»23. Basta menzionare l’Antico Testamento, giudaico e cristiano, per squalificare la tesi della provenienza asiatica, oltraggio contro la razza nordica e macchia sul blasone delle sue origini: come accettare che un’umanità superiore provenga dall’Est24, che i germani vengano dall’Asia? Nella stessa opera Günther se la prende con i suoi contraddittori, indicandoli per nome, introducendo cosí il lettore alla complessità dei dibattiti e riconoscendo in tal modo che la sua ipotesi non è né evidente né univoca.

In un’opera estremamente divulgativa, la Piccola razziologia del popolo tedesco25, Günther assume un tono piú assertorio, proponendo una sintesi semplificatrice e risparmiando al lettore la ricostruzione dettagliata dei dibattiti, il peso sottile degli argomenti e la complessità delle ipotesi. L’opera vuole essere in questo caso immediatamente pedagogica, e il tono risolutamente affermativo: «Bisogna cercare la patria originaria della razza nordica nelle regioni dell’Europa paleolitica che non erano ricoperte dai ghiacci»26.

Günther martella la tesi della provenienza nordica, una tesi che non è data per scontata nel mondo universitario e scientifico, come nota il suo collega e complice Carl Schuchhardt, in un articolo dedicato alla Indogermanizzazione della Grecia: anche se «la tesi di una patria degli indogermani nell’Asia centrale, che la linguistica comparativa ha proposto, cent’anni fa, in uno slancio di audacia giovanile non svolge piú oggi alcun ruolo scientifico», l’inerzia delle rappresentazioni e la pesantezza delle eredità intellettuali la mantengono artificialmente in vita, cosí che «anche tra le persone colte ci si trova di fronte a sorpresa quando si afferma che i nostri antenati germanici e tutti i loro parenti, i celti, gli italici, i greci […] non hanno nulla a che vedere con l’Asia e provengono dall’Europa del Nord e del Centro, da dove si sono diffusi verso il sud e l’est, e fino in India»27.

Alla fine Günther riesce a imporre questa tesi grazie al carattere piú o meno categorico e reiterativo delle sue sovrabbondanti pubblicazioni. Per sostenere il suo discorso, deve bersagliare il cuore dell’ipotesi asiatica per distruggerlo. Dedica dunque un’intera monografia alla questione dell’origine nordica degli indogermani d’Asia. In un’opera del 1934, La razza nordica degli indogermani d’Asia. Contributo alla questione dell’origine e della provenienza razziale degli indogermani28, viene passata in rassegna la genealogia degli iraniani, degli indiani, dei persiani e degli afghani: se questi popoli dell’Est, in ciò che hanno di migliore e di piú elitario, e, innanzitutto, nell’Antichità, provengono dal Nord, la vecchia chimera dell’ex oriente lux è liquidata. Günther toglie alla sua tesi ogni carattere ipotetico o condizionale, e la impone dopo il 1933 come un’evidenza grazie ai mezzi di censura e di accentramento intellettuale del partito-Stato.

Tale tesi è convalidata dai tre lanzichenecchi della razziologia medica: Eugen Fischer, Erwin Baur e Fritz Lenz29, autori di una summa di consultazione sul razzismo scientifico e l’eugenismo. Il «Baur-Fischer-Lenz», come era designato all’epoca, fa della Persia, dell’India, dei greci e dei romani altrettanti esempi del destino nordico30. Nel volume che dedica all’eugenismo, Lenz moltiplica i riferimenti alla storia greca e alla storia romana31, considerati tutti come esperienze indogermaniche che è utile conoscere per trarne insegnamenti contemporanei.

Oltre agli ambiti della biologia e dell’eugenismo, la tesi nordica attecchisce in quelli dell’antropologia e dell’archeologia, attraverso numerose pubblicazioni: la rivista della Ahnenerbe delle SS moltiplica i contributi che mirano a esemplificarla per radicarla efficacemente nei circoli accademici. Il suo direttore, Walther Wüst, compone una sintesi su La Germania e l’India32, mentre l’archeologo Franz Altheim, estremamente prolifico, dedica una serie di articoli a Germani e iraniani33, oltre che, piú specificamente, alla runa dell’alce34, presente in tutta la zona indogermanica, proprio come la figura del cervo35, oggetto di un importante bestiario nelle stesse regioni: la diffusione di questi simboli e delle forme artistiche che vi sono legate36 è una testimonianza abbastanza esplicita della solidarietà degli spazi coinvolti, dunque della loro comune appartenenza razziale. Da una identica sostanza razziale derivano uno stesso spirito e una stessa cultura: si procede, secondo una logica rigorosamente deterministica, dal corporale allo spirituale, dal biologico al culturale.

L’identità del sangue, l’identità di un patrimonio razziale comune è dunque al contempo identità di un patrimonio culturale e simbolico comune. Poiché un identico sangue genera simboli identici, gli indogermani parlano lingue imparentate tra loro, provenienti dalla stessa lingua originaria nordica, e parlano anche una stessa lingua simbolica, come attestano questi temi, oltre al motivo della croce uncinata. I simboli comuni sono altrettante prove, cosí come gli usi del fuoco37. I riti germanici del solstizio ricordano gli usi del fuoco sacro, devotamente conservato e trasportato dai greci, gelosamente custodito dalle vestali romane. In fondo, il razziologo pensa, lavora e agisce come un antropologo che abbia dimenticato la nozione di cultura a favore della sola natura.

La vulgata nordicista della Nsdap.

Cornelia Essner mostra, nell’opera che ha scritto con Édouard Conte, come il nordicismo di Günther negli anni 1933-34 si sia imposto nel partito e nel paese38. Aderendo all’idea nordica, Günther si schierava con le truppe piú radicali dell’area völkisch. Le sue idee, uscite dalla letteratura razzista e nazionalista della seconda metà del XIX secolo, alimentano a loro volta il discorso dei razzisti piú convinti del partito, che si muovono nell’ambito delle SS: Himmler, Richard Darré, Alfred Rosenberg diventano i celebratori dell’idea nordica, che viene a conferire un fondamento storico e razziale legittimo a ogni futura politica di conquista e di annessione, nella misura in cui l’idea di razza nordica conquistatrice è, per definizione, solidale all’idea di un Grossraum indogermanico passato e futuro. È significativo che l’opposizione all’idea nordica venga dai ranghi delle SA, l’ala sinistra del partito, quel nazismo rosso-nero che accetta di malgrado la dottrina elitaria ed esclusiva di un’aristocrazia nordica minacciata dalle altre componenti razziali del popolo tedesco contemporaneo, di cui Günther, Darré e le SS denunciano la «denordificazione» (Entnordung) dall’effetto deleterio. L’eliminazione dei piú importanti capi SA nella notte dei lunghi coltelli del 30 giugno 1934, la squalificazione politica di questa truppa popolare e popolosa della manovalanza nazista, aumenta il peso delle SS e del loro mentore razziale Günther.

L’origine nordica di ogni civiltà indoeuropea non appartiene piú all’ordine dell’ipotesi, ma diventa un dogma di Stato, un dogma che Günther formula con lirismo in una delle sue opere piú celebri. Nella sua Razziologia del popolo tedesco, Günther, riprendendo lo storico medievale dei goti, Jordanes, ricorda che «gli scrittori dell’Antichità hanno chiamato il Nord dell’Europa la matrice dei popoli (vagina nationum39.

La formazione ideologica interna delle SS riprende docilmente il dogma güntheriano alla lettera. Alle truppe dell’Ordnungspolizei si insegna dunque che «la patria della razza nordica si trova nell’Europa dell’Ovest, del Nordovest e nell’Europa centrale dell’epoca glaciale. Il nucleo geografico della razza nordica ingloba i territori dell’attuale Turingia, del Mare del Nord e del Mar Baltico, dello Jutland e della Scandinavia»40. Nel suo numero iniziale, il settimanale SS «Das Schwarze Korps» propone invece come culla originaria il Polo Nord41.

La vulgata nordica, sostenuta dai razziologi e dagli antropologi, viene inoltre ripresa senza discussioni dagli storici dell’Antichità classica, felicissimi di legittimare il loro campo di studi grazie a questo aggiornamento razziale. Le scienze dell’Antichità diventano cosí una branca degli studi nordici42.

Il discorso politico ufficiale della Nsdap promuove la tesi delle origini nordiche. Abbiamo visto che ben presto, già dal 1920, Hitler ne aveva fatto la vulgata del partito43. Nel decennio seguente, tale discorso viene continuamente reiterato da colui che è considerato l’ideologo per eccellenza del partito, Alfred Rosenberg, «incaricato dal Führer della missione del controllo e dell’educazione ideologica della Nsdap» a partire dal 1934.

Questa nuova versione del mito ariano consente di fatto l’annessione dell’Antichità greco-romana e delle altre prestigiose civiltà del mondo antico alla storia della razza germanico-nordica. Nella prima versione del mito, la Grecia e Roma restavano periferiche, come decentrate rispetto al cuore della storia della razza: greci, romani e germani erano solamente imparentati. Benché membri di una stessa famiglia, non esitavano, come mostra la loro storia, in particolare la guerra del Peloponneso e la caduta di Roma44, a combattersi e ad annientarsi reciprocamente.

Facendo della Germania attuale la Urheimat di una razza germanico-nordica, il mito ariano dei nazisti risolve queste contraddizioni storiche collegando i diversi rami in una relazione che non è piú di semplice parentela ma, questa volta, di filiazione. Il tronco dell’albero genealogico razziale è germanico-nordico, e le sue diverse ramificazioni sono greche, romane, indiane, persiane.

Mentre il ceppo della razza originaria è rimasto fissato nel suolo della Germania, i diversi rami si sono estesi lontano dal territorio natale. Sono emigrati fuori dalla Germania, verso le contrade piú clementi del Sud, in Grecia, in India e a Roma in particolare, dove hanno dato nascita a prestigiose culture e a potenti civiltà. La paternità della cultura greca e dell’Impero romano risale dunque alla razza germanico-nordica: il Partenone e l’Acropoli, l’Apollo del Belvedere e il Pantheon di Agrippa sono espressioni, oggettivazioni dell’identico genio razziale nordico.

L’ariano, «Prometeo dell’umanità».

Che ogni civiltà venga dal Nord è ripetuto ossessivamente da Hitler. Nel Mein Kampf, il Führer propone una tipologia culturale dei popoli, in cui definisce l’ariano come il solo creatore di cultura, un Kulturbegründer che in seguito contrappone a lungo all’ebreo, parassita distruttore delle civiltà ariane:

Se si dividesse l’umanità in tre categorie, i creatori di cultura, coloro che la trasmettono e i distruttori di cultura, allora solamente l’ariano potrebbe essere considerato come rappresentante della prima. È da lui che provengono le fondamenta e le mura di tutte le costruzioni umane, e solo la forma esteriore e i colori sono determinati dalle caratteristiche di ciascun popolo. L’ariano offre le basi e i progetti di ogni progresso umano45.

Nel passo citato sopra, Hitler assimila l’ariano alla figura mitologica di Prometeo. L’ariano è il «Prometeo dell’umanità e dalla sua fronte luminosa è scaturita, in ogni tempo, la scintilla divina del genio»46. Hitler si serve dunque di un’allegoria greca per tradurre questo suo pensiero: portatore di fuoco e di luce, Prometeo ha recato agli uomini ogni luce, cosí come i greci, uomini nordici, hanno posto le fondamenta della cultura europea occidentale.

Il tema di Prometeo è, di fatto, un motivo ricorrente della scultura nazista. A partire dal 1937, nel cortile d’onore della Nuova Cancelleria del Reich edificata da Speer, i visitatori sono accolti da due guerrieri nudi scolpiti da Breker, che fiancheggiano da una parte e dall’altra l’entrata principale del palazzo. Il primo nudo, armato di spada, rappresenta la Wehrmacht, il secondo, che porta una fiaccola, rappresenta il partito. Il riferimento a Prometeo in questo caso non è esplicito nel nome dato alla statua (Die Partei), ma l’effetto di citazione mitologica e di eco del discorso citato sopra dal Mein Kampf è assicurato dalla presenza della fiaccola. Sappiamo per altro che Breker ha rielaborato il tema di Prometeo per una statua di dimensioni gigantesche realizzata nel 1938. Il partito, procurando fuoco e luce, guida il popolo tedesco fuori dalla notte della sua eclissi storica, verso una lucidità, una dignità e una potenza ritrovate, obbedendo in tal modo all’ingiunzione «Germania, svegliati!»47 incisa come parola d’ordine su tutti gli stendardi del partito.

Nel 1938, un timbro emesso dalla Reichspost per commemorare il quinto anniversario della presa del potere rappresenta, in un doppio effetto di citazione prometeica e olimpica, il busto di un atleta tedoforo, sullo sfondo della Porta di Brandeburgo, Arco di Trionfo che celebra la forza e la vittoria. Queste rappresentazioni non sono riservate agli edifici pubblici del regime, in quanto l’iconografia pubblica investe anche gli spazi privati: il tema del risveglio e l’opposizione tra la notte e la luce vengono cosí tematizzati dal Prometeo di Josef Wackerle (1939), destinato a ornare un edificio residenziale di Jena: l’uomo con la fiaccola qui illumina e guida una donna inginocchiata davanti a lui.

La presenza di Prometeo nel discorso politico e artistico nazista è forse dovuta alla mediazione di Goethe. Nel suo poema Prometheus (1776), monumento della Weimarer Klassik e conosciuto da tutti gli scolari tedeschi, Goethe canta il coraggio di colui che si rivolta contro l’ordine degli dèi per diventare padrone del proprio destino. Anche le scuole del partito sono poste sotto il segno di Prometeo, della luce e del volontarismo di un uomo che, da solo, costruisce la propria storia. Le élite della Nsdap formate nelle Ordensburgen sono a loro volta chiamate a incarnare questo Prometeo di pietra, metafora del partito e del suo ruolo nel destino del popolo tedesco. La Sonnwendplatz dell’Ordensburg Vogelsang48, luogo di celebrazione dei solstizi, è dunque ornata da un Prometeo, opera dello scultore Willi Meiler. Il muro decorato da questo bassorilievo ha incisa una dedica agli allievi della scuola: «Voi siete i portatori di fiaccola che illuminano la nazione».

Confucio biondo con gli occhi azzurri ovvero: nulla di grande è stato compiuto senza ariani.

Parodiando Hegel49, potremmo cosí definire uno dei principî cardinali che ispirano la riscrittura della storia a opera dei nazisti. Il ragionamento è circolare: il principio «nulla di grande si è compiuto senza ariani» è un postulato che il racconto storico pretende di convalidare con l’illustrarlo. Se la preistoria germanica lascia talvolta in dubbio l’ammiratore delle grandi civiltà appassionato delle antichità mediterranee e orientali della Museumsinsel di Berlino, il sentimento identitario nazionale si rinforza nella convinzione che, come vuole la vulgata ariana o indogermanica, tutte le grandi civiltà della storia universale siano creazioni espresse dal genio nordico. Se il Nord tedesco è rimasto per millenni culturalmente arretrato, la colpa, secondo Hitler, è da attribuire sicuramente all’asprezza del clima, meno favorevole al fiorire della creatività nordica, o a ogni altro fattore storico che un’argomentazione forzata riterrà opportuno mobilitare.

Il discorso delle origini nordiche di ogni civiltà consente dunque di annettere alla razza indogermanica il prestigio, la gloria e la grandezza accumulati da millenni di civiltà mediterranee e orientali. La nostra indagine si concentra sui greci e i romani, poiché restano coloro a cui il discorso ideologico, l’arte e la storiografia del tempo prestano la maggior attenzione, ma potrebbe essere divertente, perché ancora piú capace di sorprendere, vedere quale sorte è riservata all’Antichità egizia o, benché piú di rado, a quella cinese50.

Ovunque s’incontri una civiltà prestigiosa, ecco che élite di origine nordica sono arrivate, hanno vissuto, hanno vinto, creando mondi ricchi e raffinati, opere d’arte, eserciti, Stati, piramidi e grandi muraglie. È vero che queste élite conquistatrici e creatrici sono state, in seguito, sommerse o razzialmente alienate da altre popolazioni qualitativamente inferiori ma numericamente superiori, il che spiega il fatto che gli egiziani odierni siano di pelle olivastra o che i cinesi soccombano al cattivo gusto di avere un aspetto giallo-bruno e gli occhi a mandorla. Resta che non è possibile comprendere la ricchezza culturale e la grandezza storica di queste civiltà se non si fa intervenire un principio generatore nordico. Per Hitler, non c’è dubbio che gli egizi siano stati ariani, prima che una inopportuna mescolanza razziale con elementi asiatici e semitici alterasse la loro pelle bianca. In una delle sue conversazioni a tavola, il Führer va in estasi davanti alla bellezza del corpo egizio, paragonabile a quello dei greci:

Guardiamo i greci, che erano anche germani: vediamo in essi una bellezza che supera di molto ciò che possiamo mostrare oggi […]. Se mi spingo ancora piú lontano nel passato, vedo che gli egizi, nell’epoca precedente, erano uomini ugualmente maestosi51.

Gli egizi sono dunque stati, originariamente, alti biondi dolicocefali dagli occhi azzurri, come del resto i cinesi. In un piccolo opuscolo di razziologia comparata, Richard Darré riconduce a una medesima filiazione indogermanica gli spartani di Licurgo e i cinesi di Confucio, di cui descrive il fenotipo in questi termini:

I cinesi delle classi superiori – i membri dell’élite, dunque, come Confucio – […] non erano molto lontani dal tipo d’uomo di razza nordica […]. Tutto tende a provare che almeno la classe dominante cinese fosse bionda con gli occhi azzurri, dunque di ascendenza ariana-indogermanica52:

Se l’argomento fisico formulato può lasciare perplesso il lettore, Darré aggiunge prove di ordine culturale53: i cinesi hanno un diritto patriarcale, come ogni popolo ariano che si rispetti, e fanno ampio uso della musica nell’educazione dei loro figli, proprio come gli spartani54. Quod erat demonstrandum.

Hegel riorientato, ovvero la grande migrazione dal Nord al Sud.

Contro l’antico adagio ex oriente lux, i nazisti difendono dunque un’altra concezione della storia della civiltà: ex septentrione lux. È dal nord, dal settentrione, e non dall’est, dall’oriente, che proviene ogni luce.

Sostenitore della prima versione del mito ariano, quella dell’origine indiana, e sensibile alla tesi antica e medievale della translatio studii et imperii dall’est verso l’ovest, Hegel aveva definito la migrazione del Weltgeist come un movimento dall’oriente verso l’occidente, a immagine del movimento quotidiano del sole. Lo spirito del mondo che, come il sole, inonda gli uomini di luce, procede da levante a ponente. Evocando «il gran giorno dello spirito»55, Hegel scrive in uno slancio interessato di ispirazione teleologica: «la storia del mondo va da oriente a occidente: l’Europa è infatti assolutamente la fine della storia del mondo, cosí come l’Asia ne è il principio»56, essendo il terminus ad quem ontologicamente e assiologicamente superiore al terminus a quo.

Alla riscrittura del mito ariano corrisponde, nei nazisti, la formulazione di un’altra filosofia della storia, con senso rovesciato rispetto a quello di Hegel. A rendere giustizia al Nord è Rosenberg, che si contrappone sistematicamente all’epopea hegeliana dello spirito, come in questo passo de Il mito del XX secolo: «Il senso della storia, che s’irradia dal Nord, ha marciato sul mondo intero, trasmesso da una razza di uomini biondi dagli occhi azzurri che, nel corso di numerose ondate migratorie, hanno scolpito il volto del mondo, anche là dove in seguito essa sarebbe scomparsa»57, come in Persia, in Egitto, in Iran e in India, addirittura fino alla Cina.

L’attacco polemico di Rosenberg contro il mito ariano e contro Hegel è ancora piú esplicito in questo discorso pronunciato a Lubecca nel 1935:

La vecchia dottrina secondo la quale la luce viene dall’est, cosí come l’affermazione che i popoli europei sono emigrati dall’Asia, vale a dire che la patria fisica e spirituale dell’Europa si trova in Asia, è oggi completamente smentita. Il senso della storia non ha seguito una strada che procedeva da est a ovest, come lasciava credere una visione della storia confessionale e superficiale. La creazione decisiva dei millenni che ci riguardano emana instancabilmente da forze razziali del nord, che fecondano il sud e il sudest58.

Ex septentrione lux: l’ariano, l’uomo nordico si è irradiato in tutto il mondo per crearvi ogni cultura. Tutte le grandi civiltà della storia sono opera sua, e in particolare quelle, grandiose e immemoriali, della Grecia e di Roma:

Le migrazioni dei popoli nordici, che un tempo diedero la nascita alle civiltà dell’India, dell’Iran, della Grecia e di Roma, sono oggi chiaramente attestate, e noi constatiamo dappertutto che il sorgere delle civiltà e degli Stati non dipende da eventi fortuiti o da rivelazioni magiche, ma dalle manifestazioni di un’umanità particolare nel processo del suo svolgimento e nella lotta che essa conduce contro altre razze e principî razziali59.

È da questa città di Lubecca, da queste terre della Germania del Nord che «le ondate sempre rinnovate degli indogermani sono partite per creare le civiltà del mondo antico»60.

La matrice di ogni civiltà non è piú l’India, ma la Germania. L’India, da culla dell’umanità ariana quale era, si trova declassata al rango di semplice terra di accoglienza di flussi migratori dal Nord, di ricettacolo territoriale, allo stesso titolo dell’Italia o la Grecia, gioielli del Sud ormai incastonati dalla matrice di un Nord che li ha generati.

In un altro discorso, tenuto qualche mese dopo, Rosenberg ripete la doxa storica del regime davanti a un parterre di studiosi della preistoria specialisti delle regioni germaniche:

L’Asia era considerata un tempo come culla dell’umanità, come origine di tutte le grandi civiltà. Ormai, nuove ricerche provano che la parentela constatata nel XIX secolo tra gli indogermani non era dovuta a un’influenza spirituale del Sudest sul Nord, ma che, al contrario, i popoli nordici emigrati dall’Europa centrale e dall’Europa del Nord, molto prima delle invasioni barbariche, erano dilagati in ondate numerose fin nell’Asia centrale, in Iran e in India61.

Due carte presentate in allegato ratificano questa mutazione del discorso delle origini della razza e presentano, con una chiarezza tutta didattica, il rovesciamento delle concezioni della Storia, l’oscillazione da un paradigma storico a un altro. Tratto da un’opera del 1937 destinata alla formazione pedagogica dei professori di storia della scuola secondaria62, il documento si contrappone a una rappresentazione della «vecchia concezione della storia», quella dell’origine indiana e della filosofia hegeliana della storia, propria della tesi indoeuropea del XIX secolo. La prima carta rappresenta le migrazioni indoeuropee a partire da un quadruplice nucleo: l’India, il triangolo d’oro della Mesopotamia, la Palestina, l’Egitto. La seconda carta presenta orgogliosamente la «nuova concezione della Storia, risultato della ricerca sui dati della preistoria». Munita di un tale certificato di verità oggettiva, essa mostra l’unico nucleo nordico della razza indogermanica, oltre alle sue aree di diffusione e ai suoi flussi d’espansione in tutte le direzioni.

Un mito di troppo: l’Atlantide e l’ipotesi atlante.

In questa costruzione di un discorso delle origini, ecco che si riaffaccia un vecchio serpente di mare dell’immaginario occidentale: l’Atlantide.

La storia di questa isola fertile e potente, patria di una razza conquistatrice e civilizzatrice, è stata immaginata da Platone in due dei suoi dialoghi, il Timeo e il Crizia. Da allora, l’esistenza e la localizzazione di quest’isola hanno ispirato ampie speculazioni, nella misura in cui l’assenza di certezza apriva un vasto spazio all’immaginario mitologico63.

All’interno di alcuni circoli razzisti tedeschi con la mania dell’arianesimo, Atlantide è stata a volte identificata con l’Ultima Thule del geografo Pitea di Massalia, come nell’ambito della Thule-Gesellschaft64.

Seguendo questa corrente, nel 1922 l’arianista Karl Georg Zschaetzsch pubblica il suo Atlantide, patria originaria degli ariani65, dove sostiene la tesi di un’originaria migrazione indogermanica a partire dal nucleo di un continente atlantico scomparso.

Queste speculazioni sono rilanciate da Alfred Rosenberg che, nel suo Il mito del XX secolo, accoglie l’ipotesi atlante, di cui non può impedirsi di parlare, mosso dal frenetico impulso compilatorio che lo caratterizza, e dal suo gusto per l’elucubrazione mitologica o occultista. L’ipotesi di un nucleo originario situato sull’isola degli Atlanti è tuttavia solo accennata. Se «ormai sembra non essere del tutto escluso»66 che tale isola sia esistita e che abbia generato una razza di «marinai e di guerrieri»67, l’essenziale resta, dietro questa ipotesi, la tesi dell’origine nordica di ogni cultura: «Anche se questa ipotesi atlante dovesse rivelarsi poco solida, si deve tuttavia accettare un nucleo culturale nordico nel corso della preistoria»68. Questa rettifica del mito non impedisce a Rosenberg, nelle pagine che seguono, di descrivere le migrazioni degli atlantidei, senza poi farne piú parola nel resto dell’opera o nei suoi discorsi pubblici.

L’Atlantide costituisce infatti un’ipotesi genealogica debole, di cui va detto che non riscuote successo: a parte il libro di Zschaetzsch e i pochi paragrafi di Rosenberg, la bibliografia sull’argomento in Germania è scarsa. Fra il 1933 e il 1945, sull’argomento troviamo una sola opera, quella di un archeologo, Albert Hermann, che nel 1934 pubblica I nostri antenati e l’Atlantide: l’egemonia marittima nordica dalla Scandinavia all’Africa del Nord69. Questo professore universitario di Berlino intrattiene una corrispondenza con Heinrich Himmler. Appassionato di esoterismo e di mitologia, poco incline per altro a distinguere tra scienza e leggenda, il Reichsführer SS, per altro lettore ammirato di Jules Verne, accorda una benevola attenzione alle speculazioni sull’Atlantide70. Per lui il mito platonico, ripreso da qualche razzista ispirato, è da prendere alla lettera: la patria originaria della razza nordica potrebbe appunto essere un’isola del Settentrione71, enigmatica contrada che questo amante dei misteri e delle certezze chiederà agli studiosi dell’Ahnenerbe di localizzare72. I luoghi considerati oscillano fra un territorio inghiottito sotto la Manica e l’isola di Helgoland, sede che ottiene il favore di Himmler73.

Nessuna di queste speculazioni sull’Atlantide traspare nella letteratura nordicista studiata sopra: appaiono infatti troppo poco serie a tutti coloro che fanno professione di genealogia scientifica e che concordano per lo piú su una patria nordica originaria situata a metà tra la Scandinavia e il Nord della Germania. L’ipotesi atlante è debole, in quanto troppo gravata di mito e di mistero, troppo minata dalle incertezze per poter sostenere efficacemente le pretese della giovane scienza nordica. L’Atlantide suscita solo qualche corrispondenza interna, ad esempio tra Himmler e l’Ahnenerbe delle SS, ma nessuna pubblicazione, ricerca, o spedizione. Le immersioni sottomarine auspicate da Himmler nei pressi dell’isola di Helgoland non saranno mai effettuate a causa della disfatta del Reich74. Il giornale delle SS, «Das Schwarze Korps», s’interessa poco di Atlantide, ipotesi liquidata da un’importante opera del professor Wilhelm Sieglin a cui il settimanale dedica una lunga recensione75 e di cui riparleremo76.

Rimasta esclusivamente speculativa e infeconda, l’ipotesi atlante non ha mai trovato una traduzione nel discorso pedagogico del Terzo Reich: non è menzionata né nell’insegnamento scolastico, né nei fascicoli di formazione ideologica interni alle SS, ad esempio, nessun vettore di diffusione del discorso della storia della razza vi fa cenno. Il che attesta abbastanza chiaramente il suo carattere marginale e la scarsa serietà che le era attribuita.

Gli ariani nostri antenati: il discorso delle origini a scuola.

Il mito delle origini nordiche è invece trasmesso dagli storici e dai pedagogisti, fino a diventare la versione ufficiale della storia delle origini sotto il Terzo Reich, come testimonia una serie di tre testi regolamentari del 1933, 1935 e 1938.

L’iniziativa è di Wilhelm Frick, ministro dell’Interno del Reich il quale, il 9 maggio 1933, tiene un discorso sull’insegnamento della storia a scuola77. A tale discorso s’ispirano le «Direttive per i manuali d’insegnamento della storia»78 che egli rivolge ai Länder e che sono pubblicate il 20 luglio 1933 nel bollettino ufficiale dell’istruzione pubblica prussiana. Questo testo espone dapprima i principî generali che devono ormai guidare la redazione dei futuri manuali e la concezione del corso di storia. In particolare, è necessario controllare che «l’importanza della razza sia giustamente considerata»79, e restituire alla preistoria la preminenza che le spetta, poiché essa «pone il punto di partenza del processo storico del nostro continente nella patria mitteleuropea originaria del nostro popolo»80, e dunque è la «scienza nazionale per eccellenza (Kossinna)81, capace come nessun’altra di contrastare la tradizionale svalutazione del livello di sviluppo culturale dei nostri antenati germanici»82.

La prosecuzione del testo è dedicata alla nuova lettura dei diversi periodi della storia. Nonostante il manifesto che precede, la preistoria occupa solo la settima parte del libro, mentre un intero terzo è dedicato all’Antichità. L’insegnamento della storia antica deve iniziare «con un’esposizione della preistoria mitteleuropea», che ha il compito di mostrare che «la storia dell’Europa è l’opera dei popoli di razza nordica», il cui «alto livello culturale», se non è necessariamente visibile nei «lasciti di utensili di bronzo e di pietra» di questi popoli primitivi, è leggibile nelle «lingua originaria nordica (indogermanica) cosí sviluppata, da aver respinto le lingue di tutte le altre razze d’Europa, tranne qualche residuo».

Manuale e corso devono in seguito «imboccare la strada dell’Asia Minore e dell’Africa del Nord con le primissime migrazioni nordiche, che hanno già avuto luogo nel V millennio prima della nostra era», come attestano «crani nordici nelle piú antiche tombe d’Egitto e la popolazione bionda, che si può facilmente accertare, sulle coste del Nord Africa». Frick cita qui Georges Vacher de Lapouge (L’aryen, son rôle social, 1885), cosí come aveva citato Gustaf Kossinna.

Si svolge poi la litania dei popoli antichi, di provata origine nordica: i «Sumeri», la cui provenienza razziale, non ancora totalmente «chiarita», lascia tuttavia intravedere «una classe di conquistatori nordici» come unico elemento in grado di spiegare le somiglianze tra il sumerico e le lingue indogermaniche, gli «indiani, medi e persiani, oltre gli ittiti», di cui «l’allievo deve vivere il destino come quello dei popoli che hanno una parentela di sangue» col popolo tedesco, e che hanno «creato culture superiori in India e in Persia», prima di «sparire sotto la massa piú ingente del sangue straniero».

Ma sono soprattutto i greci e i romani a fare la parte del leone nel nuovo insegnamento. La loro origine razziale deve essere al di là di ogni dubbio nella mente dell’insegnante e dell’allievo, poiché tanto la «storia dei greci» quanto la «storia dei popoli nordici d’Italia» devono «procedere dallo spazio mitteleuropeo».

L’insegnante dovrà «sottolineare di nuovo che [i greci] sono nostri fratelli della razza piú prossima, il che spiega il nostro intimo rapporto con l’arte greca», implicito riferimento e devoto omaggio ai vari Winckelmann, Hölderlin, Burckhardt e Nietzsche. La Grecia è stata colonizzata dai «greci nordici, che hanno formato, in quanto conquistatori, la classe dominante del paese».

I romani, anch’essi provenienti dalle contrade nordiche, devono essere presentati in modo tale che «la parentela razziale sia colta»83 dagli allievi. Non c’è da stupirsi troppo allora che il professore sia ormai tenuto a utilizzare manuali e corsi di storia antica, a partire dai lavori di Hans Günther, espressamente citato, e la cui monografia dedicata ai greci e ai romani è raccomandata alla lettura degli insegnanti.

Un anno e mezzo piú tardi, il 15 gennaio 1935, un decreto del ministro dell’Educazione del Reich, Bernhard Rust, conferma le direttive prussiane e precisa il compito dell’insegnante:

Si deve presentare la storia universale come la storia di popoli razzialmente determinati. Al posto della dottrina Ex oriente lux appare la convinzione che tutte le culture, almeno quelle occidentali, siano opera di popoli nordici, che si sono imposti contro altre razze in Asia Minore, in Grecia, a Roma, e negli altri paesi europei84.

Questi due testi del 1933 e del 1935 sono suggellati dai nuovi programmi per l’insegnamento secondario del 1938, che precisano che «l’oggetto dell’insegnamento della storia» è il «popolo tedesco», in particolare la sua «lotta per l’esistenza»85. Poiché al centro di tale insegnamento si trova «l’idea di razza»86, si tratterà di una storia della razza indogermanica: «La certezza di un grande destino nazionale che ingloba il passato e l’avvenire»87 poggia sulla convinzione di una «costanza del patrimonio genetico»88 che lega «direttamente il passato al presente attraverso l’eredità del sangue»89.

Questa nuova concezione della storia del mondo antico non è lasciata ai pii desideri e alle disposizioni regolamentari indicate da direttive ministeriali, o all’elaborazione di nuovi programmi. Essa si ripercuote effettivamente nei manuali di storia redatti a partire dal 1933, e diventa oggetto di stage di formazione permanente rivolti a istitutori e professori della scuola secondaria. Come lo stage organizzato a Vienna dal 14 al 21 settembre dal ministero dell’Educazione del Reich, al quale hanno partecipato cinquantadue insegnanti della primaria e della secondaria. Dopo due sessioni preliminari dedicate ai concetti di razza e di spazio in storia, le sessioni seguenti sono consacrate a ciascuno dei periodi della «storia tedesca»90: dopo la «preistoria tedesca», gli insegnanti sono iniziati a «l’Oriente e l’Antichità nella nuova concezione della storia», prima di arrivare a Medioevo, modernità ed epoca contemporanea. Oriente antico e Antichità greco-romana sono dunque annessi alla storia germanico-nordica, e dunque, in ultima analisi, tedesca, di cui sono una parte costitutiva: tale messaggio non resta confinato al solo insegnamento scolastico.

Abbiamo ripreso vari esempi di una cartografia delle origini della razza nordica, tratti da quattro esemplari di Storia tedesca pubblicati fra il 1937 e il 1940, opere divulgative destinate al grande pubblico, da sei manuali scolastici utilizzati nelle classi secondarie del Terzo Reich, da uno degli opuscoli di formazione ideologica rivolti alle truppe dell’Ordnungspolizei, formazione garantita dagli ufficiali dell’Hauptamt SS, che edita i libri, e dal giornale «Die deutsche Polizei», organo di informazione e di collegamento delle truppe di polizia delle SS. La famiglia ariana vi è rappresentata come fiorita dalla sua culla nordica: il Nord, denso nucleo di flussi potenti, vi appare come la matrice di grandi civiltà. Le frecce che rappresentano i flussi migratori menzionano per lo piú il nome del popolo e della grande civiltà che la semenza e la migrazione nordiche avrebbero generato: dal Nord vengono i greci, i romani, i celti, i persiani e gli indiani. Se le frecce restano mute, spetta al titolo o alla legenda della carta il compito di esplicitare, come in questo fascicolo SS: «Il sangue nordico ha creato le culture della Grecia e dell’Impero universale romano»91. Non si potrebbe essere piú didascalici. I testi dei manuali, delle storie, degli opuscoli e degli articoli qui citati, spesso non sono altro che scialbe spiegazioni di carte, quasi solo parafrasi: il dogma dell’origine nordica delle grandi civiltà dell’Antichità è ripetuto sistematicamente, in modo identico, cosí come queste carte, che obbediscono tutte, vistosamente, allo stesso padrone.

Al di là della sola scuola, dunque, il discorso delle origini può contare su una promozione e una diffusione notevoli: tutto è pedagogia, e i vettori della diffusione del messaggio sono molteplici. Carte di questo genere si rivelano infatti ben presto essere un esercizio di stile e un passaggio obbligato di ogni discorso che esponga la storia della razza: manuali scolastici, certamente, ma anche opere generali di storia tedesca, e allo stesso modo ogni supporto di un discorso che radica il presente e l’avvenire nel passato del Blut. La diversità dei vettori di diffusione di questo discorso attesta la sua ambizione nella molteplicità dei pubblici a cui si rivolge: la riscrittura nordicista delle grandi gesta razziali indogermaniche non si è affatto limitata a un pubblico di specialisti, votata al solo quodlibet delle scuole o riservata all’istitutore e al precettore. Essa mira e deve raggiungere la totalità del popolo tedesco, case e buoni padri di famiglia, scolari e studenti, polizia e SS, braccio armato e secolare del regime, la cui azione di sorveglianza e di lotta deve essere motivata da una convinzione emersa dal fondo dei tempi.

L’invenzione di un patrimonio indogermanico.

Vediamo dunque che la tesi nordica con il discorso delle origini che ne scaturisce costituisce un’annessione simbolica delle grandi civiltà del mondo antico, al punto che «la storia d’Europa» è, in fondo, «la storia della razza nordica»92. Questa, come afferma la rivista nazista «Wille und Macht», può dunque proclamare la paternità delle grandi realizzazioni attribuite a civiltà prestigiose come quella greca e quella romana. «Le culture superiori create dagli indogermani in India, in Persia, in Grecia e a Roma sono una prova adeguata della creatività dello spirito nordico. La decadenza dell’élite nordica le ha fatte scomparire. Ma, ancor oggi, noi avvertiamo la nostra parentela essenziale con quelle culture, che condividono la stessa origine»93.

La Germania può dunque avvalersi di un patrimonio ricco ed eclettico, che opera la sintesi di tutte le piú grandi tradizioni culturali indogermaniche, una mescolanza di eccellenza e di sublime, un grandioso patchwork fatto di elementi sparsi, dispersi attraverso i secoli, ma la cui unità profonda risiede nell’identità omogenea del sangue che li ha prodotti. Un esempio efficace dell’invenzione di un patrimonio indogermanico dall’eclettismo sintetico, in grado di annettere le disiecta membra, è il volumetto pubblicato, con autori vari, da Walther Wüst nel 1940, e dedicato alla concezione della morte nelle diverse forme sapienziali indogermaniche, piccolo vademecum, in forma di Consolationes, del soldato che parte per il fronte nell’ottica di un possibile sacrificio estremo. Intitolato Morte e immortalità. Quel che ci insegna la saggezza indogermanica94, questo opuscolo di 80 pagine raccoglie undici testi dell’Antichità greco-latina, undici dell’Edda, sette della tradizione indiana, e cinquantotto testi provenienti dalla letteratura e dalla filosofia tedesca, da Meister Eckhart ad Alfred Rosenberg. Ecco dunque, in uno spirito di pacifico sincretismo, un compendio di cultura indogermanica, in cui Nietzsche, Omero, Empedocle, Tirteo, Cicerone, Marco Aurelio, Seneca e l’Edda affiancano allegramente testi sacri del brahmanesimo, nella sicurezza dell’unità di una razza comune che unisce il poeta lacedemone Tirteo, autore dei canti che ritmavano il passo degli spartani in combattimento, e un giovane soldato tedesco caduto sul campo di battaglia la cui ultima lettera, piena di un alto senso del sacrificio e dell’onore, è riprodotta accanto a quella del poeta dorico. Se ci si attiene all’ampia bibliografia95 dedicata ai saccheggi delle collezioni d’arte europee da parte dei nazisti, non sembra per altro che ci sia stata una politica di sequestro sistematico delle opere d’arte antiche. La preda principale del Kunst- und Kulturraub nazista, affidato a diverse istanze e comandi ad hoc96, sembra essere stata la pittura del periodo che va dal XVI al XIX secolo, oppure reperti dell’archeologia preistorica e medievale, che attiravano l’interesse dell’Ahnenerbe delle SS.

Questa annessione simbolica, culturale, è attuata anche per giustificare le annessioni ulteriori, di carattere piú sostanziale, territoriali e militari questa volta, che essa prefigura, poiché, se tutte le grandi civiltà sono rami del tronco nordico, la razza indogermanica è dovunque a casa propria, dovunque legittimata a riprendere possesso di ciò che ha creato e di ciò che dunque le appartiene di diritto97. Un manuale della secondaria, quello di Johannes Mahnkopf, edito nel 1942, al culmine della potenza militare e dell’estensione territoriale del Reich nazista, presenta il titolo evocativo Dalla preistoria al Reich grande-tedesco: le radici del grande Reich affondano in questa preistoria remota, che le carte citate sopra e l’argomentazione di Günther hanno tratto dalla bruma dei tempi98.

Che gli ariani siano dovunque a casa propria è attestato in modo abbastanza evidente dalla grande diffusione della croce uncinata che, da simbolo politico, diviene prova scientifica e orifiamma di riconquista dei territori sui quali un’umanità nordica ha un tempo apposto il suo sigillo.

Proveniente in origine dal Nord, la croce uncinata, scrive Rosenberg, è migrata insieme agli indogermani: «Molto prima del 3000 avanti Cristo, le ondate di popolazione nordica hanno portato questi segni in Grecia, a Roma, a Troia, in India»99. Simbolo della rinascita tedesca, la croce uncinata evoca ormai «l’onore del popolo, lo spazio vitale, l’indipendenza nazionale, la giustizia sociale, e la fertilità rigeneratrice di vita»100, pur restando «legata al ricordo dei tempi in cui, segno di salvezza, guidava i conquistatori nordici verso l’Italia, verso la Grecia»101.

Una piccola opera pubblicata nel 1934 propone una monografia storica della svastica102. Posto che «la croce uncinata è, originariamente, propria della famiglia indogermanica che si è diffusa a partire dal Nord dell’Europa» e che, di conseguenza, «nella loro qualità di discendenti dei germani, i tedeschi ne posseggono un indiscusso diritto d’uso», l’autore dedica ampi sviluppi alla presenza della croce uncinata nell’arte greca103, richiamandosi in particolare al grande storico dell’arte Alexander Conze104, e segnalando l’abbondanza di vasi con la croce uncinata all’epoca degli scavi delle tombe del Dipylon ad Atene105, prima di citare Schliemann, che ha portato alla luce un numero rilevante di croci uncinate a Troia e a Micene106. Le croci uncinate piú antiche tuttavia, scrive l’autore, sono state scoperte in Scandinavia, e l’anteriorità delle testimonianze germaniche sulle testimonianze micenee e greche si spiega con la provenienza nordica dei popoli dell’Antichità. Si deve dunque respingere decisamente la tesi indiana107.

Un fascicolo di propaganda della Nsdap tratto da una serie creata appositamente per gli ufficiali politici (Nsfo)108 della Wehrmacht riprende Rosenberg e le conclusioni di questa opera. Dopo aver ampiamente sviluppato la storia e la simbologia della croce uncinata, il fascicolo propone una genealogia di questo simbolo:

Le piú antiche scoperte archeologiche della regione della Saale provano che gli indogermani che vivevano in Germania centrale durante il paleolitico conoscevano la croce uncinata […]. Da lí, essa si è diffusa nell’area della civiltà danubiana, prima di irradiarsi in ogni direzione, soprattutto nelle regioni mediterranee. È migrata in Grecia e ha accompagnato la spedizione degli ariani in India, dove la troviamo verso il 2000 avanti Cristo109.

La croce uncinata è dunque il segno solare della conquista indogermanica, la testimonianza della coesione dei territori soggiogati, e nulla ormai può impedire che essa diventi lo stendardo della loro riconquista.

Nel settembre 1935, con le leggi di Norimberga, la croce uncinata su fondo bianco circondato di rosso diventa il nuovo simbolo dello Stato tedesco. Un anno dopo, nell’ambito delle Olimpiadi di Berlino, l’esposizione Sport der Hellenen110, insieme al catalogo che le è dedicato, presenta riproduzioni di coppe e vasi greci in cui è possibile vedere atleti che si allenano con dischi ornati dalla croce uncinata: l’indogermanità ellenica, e la profonda solidarietà razziale e spirituale esistente tra i greci e i tedeschi, diventa cosí oggetto di un’ampia pubblicità111.

La dea Europa.

Questa riscrittura della storia antica approda dunque alla resurrezione non piú solo dell’Antichità vagamente onirica e oleografica della Weimarer Klassik, ma di una dea greca, metafora territoriale dagli accenti politici piú marcati: dopo l’aggressione contro l’Urss del 22 giugno 1941, la propaganda nazista esalta la nozione di Europa, Impero continentale nordico unito e mobilitato nella sua lotta contro l’Asia bolscevica e semitica, che affonda le radici della sua unità e identità in una comune origine indogermanica.

Un opuscolo SS sostiene che, a causa di questa provenienza nordica, «la storia dei tedeschi è la storia dell’Occidente e, reciprocamente, la storia dell’Europa è del popolo che ne costituisce il cuore […]. La storia tedesca è, sin dall’inizio, non quella di una nazione singola, ma quella del continente»112. Questa stretta equivalenza è originata da un’identità di razza, in quanto la nozione di Europa si trova mobilitata da un progetto d’avvenire, l’edificazione di un ordine nuovo e la conquista delle terre dell’Est, sullo sfondo della storia e sul sottosuolo della biologia. Ecco dunque, tratta da uno stesso testo, una cartografia, abbozzata a grandi linee, dell’Europa e del suo ambiente, ricollocata nel contesto piú generale e inclusivo della storia della razza nordica:

La nascita dell’Europa, un concetto geografico che fissa al contempo lo scopo e le frontiere della nostra idea imperiale, risale indietro nel tempo, fino alla nascita dell’indogermanità. Il destino del continente, patria originaria della razza nordica, è strettamente connesso allo sviluppo dei popoli indogermanici che ne sono usciti. Solo gli indiani e gli iraniani emigrano, si perdono nelle vaste contrade dello spazio asiatico e perdono la loro specificità. I greci e i romani si spostano, mentre i celti e i germani restano piú a lungo nella loro regione d’origine113.

Un altro fascicolo SS, pubblicato lo stesso anno e destinato alla formazione ideologica delle truppe, riprende implicitamente la stessa argomentazione. Il libretto, che presenta un chiaro compendio, illustrato e preciso, del razzismo nazista, dedica i primi capitoli a esporre la storia della razza: la sua origine, il ribaltamento della visione del mondo e della storia indotto dal nazismo. Il suo ex septentrione lux è significativamente formulato in questo modo: «Non si deve dire, come pretendeva un tempo la scienza: “Dall’est è venuta la luce”, ma “Dal nord viene la forza”»114. Questa forza creatrice, edificatrice di civiltà, è il Blut che, attraverso regolari ondate migratorie, riesce a creare e rigenerare una cultura nordica minacciata, e di cui le SS contemporanee sono la degna e pura perpetuazione. Questa idea è sviluppata da un articolo del giornale «Die deutsche Polizei», che ripete con insistenza, carte alla mano, la vulgata «razziogenetica» e storica del nazismo, proponendo una cronologia delle tre grandi ondate migratorie dal Nord: esse si sono verificate nel 5000 e nel 500 avanti Cristo, e nel 300 dopo Cristo, e «da allora, sangue germanico circola in tutte le nazioni europee»115, a partire dal cuore tedesco. La Germania, infatti, «non è solo il centro del mondo europeo, ma è da sempre la fonte del suo sangue e della sua forza»116.

L’unità d’Europa, dunque, «poggia su una parentela di sangue e di razza piú o meno forte»117. Ed è proprio «la razza nordica [che] da millenni conferisce la sua forma all’Europa e al mondo»118. La presenza del sangue nordico dovunque sul continente è allora «la prima pietra angolare dell’Europa».

Un terzo fascicolo di formazione dottrinale precisa questa idea. Dedicato alla presentazione didattica della riorganizzazione dell’Europa attraverso la lotta nazista, il libretto radica questo progetto nella storia immemoriale delle migrazioni e delle conquiste indogermaniche, le cui ondate sono state descritte in precedenza. Questo fascicolo del 1942, intitolato La Germania riorganizza l’Europa!, interpella le possibili definizioni del continente per prendere atto del fallimento dei geografi: «Le controversie dei geografi non c’interessano»119, poiché i loro criteri orografici, tettonici o fluviali sono impotenti rispetto al compito di distinguere il Wesen, l’essenza, dell’Europa, che bisogna piuttosto cercare nell’ambito della razza: «Quando parliamo di Europa da un punto di vista politico, non designiamo un continente geograficamente delimitato, ma lo spazio vitale di una famiglia di popoli che hanno radici biologiche di certo non identiche, ma imparentate120.

La prima potenza unificatrice d’Europa, da un punto di vista militare e giuridico, è stato l’Impero romano nordico. I romani, di cui il fascicolo ricorda che costituivano originariamente un «popolo di contadini indogermanici», in quanto «buoni giuristi» e «bravi soldati», due qualità eminenti che hanno loro permesso di creare un impero modello, forte, pacifico, accentrato, una costruzione basata sul diritto che era l’espressione della volontà indogermanica di organizzare il cosmo e di attribuirgli un ordine stabile: «Cosí come l’India ariana ha dato al mondo la sua mistica piú profonda, la Persia ariana la mitologia piú bella, la Grecia antica l’arte piú nobile, allo stesso modo Roma ha dato al mondo il sistema giuridico piú sapiente»121. Prima Ordnungsmacht dello spazio europeo, Roma ha in seguito trasmesso la fiaccola a un altro imperium, a un nuovo Reich, la Germania.

In seguito, infatti, la potenza organizzatrice dell’Europa è sempre stata il Reich tedesco: nel Medioevo il Reich ha combattuto la Chiesa e il suo messaggio universalista122 attraverso una «politica imperiale contro il papato»123, che ha costituito la spina dorsale della sua esistenza medievale, mentre il messaggio universalista cristiano era una trasformazione imbastardita del diritto romano, contaminato da un colpevole egalitarismo introdotto da «negroidi»124 come Caracalla. L’opuscolo può dunque a buon diritto concludere che «noi vediamo ideologicamente la nostra lotta per la riorganizzazione dell’Europa come un sigillo apposto a duemila anni di storia universale e come l’inizio di una nuova era»125. Niente di nuovo sotto il sole: l’Europa, dall’origine dei tempi, si estende fino al limite a cui lo spirito conquistatore, il valore militare e il coraggio degli indogermani l’hanno spinta, vale a dire sino al lontano Estremo Oriente: «Da un mero punto di vista spaziale, l’Europa dipende dalle gigantesche terre asiatiche. Un tempo, gli uomini di razza europea sono penetrati profondamente a est. L’India e l’Iran sono stati il termine delle spedizioni migratorie che erano partite dall’Europa»126.

La penetrazione a est, la conquista dei vasti territori slavi è dunque già un problema antico: l’orizzonte dell’Europa, sin dall’Antichità, è costituito dalle vaste terre dell’Oriente slavo e asiatico127.

Genealogia e racconto delle origini: l’uomo proviene dal sogno.

La storia è dunque strettamente fissata alla mitologia128, e la scienza storica le presta manforte, come vedremo: le numerose carte citate sopra, come le note in calce, gli indici e le bibliografie degli articoli e delle opere erudite o dei testi divulgativi, i titoli imponenti dei loro autori, affabulano un discorso ipotetico, addirittura fantasmatico, dell’intero apparato della scientificità accademica. La ragione accademica abdica qui a ogni etica della verità e diventa la docile serva di un’ideologia che le impone un discorso mitico convertito, grazie all’apparato critico, secondo una retorica convenzionale e un formato elementare, in verità scientifica: Historia ancilla ideologiae. La ragione accademica, anziché mirare alla dimensione universale ed eterna del vero, scende a compromessi con la contingenza minuta del particolare, partecipando in tal modo al grande movimento di strumentalizzazione della ragione che, a partire dagli anni Trenta, viene denunciato dai teorici della Scuola di Francoforte129 e, in Francia, da Paul Nizan130.

La storia si pone a servizio del mito, di un discorso favoloso. Il nazismo, gravato da una mitopoiesi, affabula, crea una favola che racconta il passato di un gruppo, la razza, secondo le esigenze dei suoi postulati ideologici. Postulati cosí elementari, e con la pretesa di essere apodittici, che la storia è stata riscritta, per cosí dire, alla rovescia: il presente di un’ideologia è andato a ridefinire il passato di una nazione (epoca medievale), poi a plasmare il passato di una razza (epoca preistorica e antica) al fine di illustrare alcuni semplici principî e di rispondere ai propri bisogni politici immediati. Gli schemi che strutturano la visione del mondo nazista sono stati dunque proiettati senza cerimonie su millenni di storia, riletti, reinventati e riscritti per puntellare di riflesso questi stessi schemi. La storia doveva dunque servire a convalidare a posteriori gli stessi postulati ideologici che, precisamente, ne guidavano la riscrittura. Questa convalida empirica ab historia totalmente fittizia viene a chiudere un cerchio epistemologico vizioso in cui la menzogna genera il falso e in cui, reciprocamente, la favola alimenta la menzogna. In fondo, il messaggio della storia riscritta dai nazisti è il seguente: ciò che noi diciamo è vero, poiché le cose stanno cosí, e, d’altra parte, la storia mostra che è sempre stato cosí. Si omette tuttavia di precisare che la «storia» si è vista assegnare preliminarmente come sola missione quella di svolgere questa funzione convalidante. Senza piú considerazione o rispetto per la storia (Geschichte), la disciplina storica (Geschichtswissenschaft, Historie) non mostra piú nessuna cura del passato, e si trova interamente a servizio del presente. Riscritto, mutilato, nella migliore delle ipotesi, o affabulato, inventato, il passato non è piú considerato di per sé: gli storici non avvertono piú la preoccupazione, quasi tenera, della realtà scomparsa e il rispetto scrupoloso dei morti.

Questa critica della ragione strumentale applicata alla storia non mira piú a sfondare valorosamente porte già ampiamente aperte, o a pronunciare una requisitoria su una causa già decisa. Se resta sconvolgente il fatto che l’apparato della scienza si sia prestato a un tale discorso, è molto piú interessante cercare i motivi che hanno spinto storici e professori ad abbracciare la vulgata del partito. L’ipotesi nordica ha già fortemente attecchito in Germania dall’inizio del XIX secolo. La sua radicalizzazione a opera del discorso nazista è stata sposata senza troppi rinnegamenti o reticenze dall’università in quanto rispondeva a un bisogno psicologico di consolidamento e di rassicurazione dell’identità nazionale tedesca, già fragile, e molto compromessa dopo il 1918. Per altro, in un contesto di arianizzazione della funzione pubblica tedesca, dunque dell’università, innescata nell’aprile 1933, le professioni scientifiche hanno visto fiorire attitudini opportunamente carrieriste, o per lo meno gregarie, del massimo livello. Carrierismo e opportunismo sono attestati presso storici che, dopo il 1945, non hanno provato nessun disagio e nessuno scrupolo a proseguire carriere e lavori, talvolta fino agli anni Settanta, senza evocare mai piú il postulato razzista o ripetere quel che dicevano apertamente sotto il Terzo Reich, come Joseph Vogt131 o Helmut Berve132. La convinzione fanatica è presente solo nei casi piú rari. Sarebbe utile stilare una tipologia delle carriere ulteriori degli scienziati coinvolti nel discorso sull’Antichità, ma non è questo il nostro intento.

Una tale storiografia e un tale insegnamento della storia costituiscono una manifestazione di ciò che Julien Benda ha designato, in un saggio eponimo del 1927, con il nome di «tradimento dei chierici»: anziché promuovere l’universale razionale, i chierici si pongono al servizio del particolarismo piú ristretto, dell’interesse limitato della classe o della razza. Ora, la servitú volontaria dell’intellettuale moderno è, agli occhi di Benda, che ha un atteggiamento lievemente germanofobo, un fenomeno soprattutto tedesco: «Bisogna riconoscere che in questa adesione del chierico moderno al fanatismo patriottico sono stati i chierici tedeschi a cominciare […]. Il chierico nazionalista è essenzialmente un’invenzione tedesca»133, un’invenzione, piú precisamente, del XIX secolo tedesco.

Dobbiamo essere ben consapevoli, infatti, che i nazisti attingono alla storiografia tedesca del XIX secolo e ai suoi miti: non sono stati loro a inventare la parentela elleno-germanica e il mito ariano. Hanno piuttosto ripetuto e imposto come tesi, allo scopo di difendere e illustrare la razza, un’ipotesi che esisteva già, quella dell’origine nordica di ogni cultura ariana.

Lo sviamento della scienza storica, dell’archeologia e dell’antropologia sotto il Terzo Reich, s’iscrive coerentemente all’interno del compito svolto da queste discipline nel processo di costruzione delle identità nazionali nel XIX secolo. Come ricorda Anne-Marie Thiesse, per costruire «il nuovo mondo delle nazioni» in quest’epoca «non era sufficiente inventariarne l’eredità, si doveva piuttosto inventarlo»134. A questo lavoro di invenzione, nel triplice senso di scoperta, di interpretazione della scoperta, ma anche di pura e semplice affabulazione, si sono appunto prestate le discipline di cui abbiamo parlato, parallelamente al folklore (Volkskunde) e alla letteratura.

Il medievalista Patrick Geary osserva come sia soprattutto in Germania che una storiografia particolarmente zelante e carica di postulati identitari si è posta al servizio della costruzione nazionale, puntellando il mito dell’autoctonia, difendendo la primitività della lingua tedesca, ponendo, in modo assolutamente fantasioso, una continuità linguistica, culturale, etnica sul territorio tedesco. Poiché «la vita delle nazioni europee comincia con la designazione degli antenati» e «ogni atto di nascita stabilisce una filiazione»135, la storiografia tedesca ha compiuto un fervido sacrificio al culto di uno degli idoli denunciati da Marc Bloch, quello delle origini, una «ossessione embriogenetica»136 che Marc Bloch giudica essenzialmente tedesca: «Quale espressione, da noi, riuscirà mai a rendere la pregnanza del famoso prefisso germanico Ur: Urmensch, Urdichtung?»137.

Si è dunque costituita in Germania una «pseudo-scienza» che ha consegnato alla nazione tedesca, e successivamente alle altre nazioni europee, i loro «strumenti di autocreazione nazionale»138 a partire da «la storiografia “scientifica” e la filologia indoeuropea»139. Il discorso di Geary, rivolto soprattutto agli storiografi nazionalisti del XIX secolo, prende di mira

una concezione statica della storia […]. Ma ciò rappresenta proprio l’antitesi della storia. La storia dei popoli europei nella Tarda Antichità e nell’Alto Medioevo, infatti, non è la storia di un momento originario, bensí quella di un processo ininterrotto […]. È la storia di un cambiamento incessante, di discontinuità radicali e di zig-zag politici e culturali, mascherati dietro una ripetuta riappropriazione di vecchie parole per definire realtà nuove140.

Le storiografie nazionali e i nazionalismi europei hanno dunque condiviso, in Germania come in Francia, un fissismo e un nazionalismo che consistono nello stabilire un’identità nazionale in un’essenza immutabile e immune da qualunque mutamento nel tempo. Questo discorso, in ultima analisi, nega ogni divenire storico. È particolarmente netto nel caso del nazismo, che prova una profonda antipatia verso la nozione stessa di storia, intesa come cambiamento, oltre che un’angoscia duplice. Il discorso «nazionalitario» del XIX secolo, e successivamente il razzismo nazista, non possono accettare il dubbio rispetto all’origine e l’incertezza rispetto all’avvenire, luogo intorno a cui si concentrano i timori a proposito dell’ipotetica perennità della sostanza razziale.

Conclusione.

Abbiamo visto, dunque, come il Partito nazionalsocialista si sia dotato, fin dal 1920, di un discorso sulle origini della razza nordica. In un discorso fondatore del 13 agosto 1920, Hitler affermava la derivazione nordica di ogni civiltà, innalzando l’ariano al ruolo di piroforo e di fotoforo, portatore di un fuoco e di una luce emersi dal gelido Nord d’Europa. La piú alta Antichità mostra cosí l’umanità ariana già all’opera: migrante, creatrice di cultura, edificatrice di Stati, di società e di opere d’arte, a partire dal suo focolare settentrionale.

L’idea di un focolare unico e comune a tutte le grandi culture di razza bianca era accreditata dalla fine del XVIII secolo, insieme alla formulazione dell’ipotesi ariana, o indoeuropea. Un nazionalismo tedesco in cerca di legittimazione e di certezze ne ha spostato il centro di gravità dall’India verso il Nord dell’Europa. Questa nordicizzazione dell’ipotesi indoeuropea è stata brutalmente elevata a dogma dai nazisti, i quali vedevano nella tesi orientale di una provenienza indiana un ostacolo e un insulto: essa privava il Nord del suo prestigio matriciale, ed esaltava eccessivamente un Est vilipeso dal razzismo nazista. Era ideologicamente vitale che l’ex oriente lux della tradizione cedesse totalmente il passo all’ex septentrione lux del XIX secolo tedesco.

Un tale discorso risponde a due funzioni. In primo luogo mira a lusingare un’identità nazionale attraverso l’esaltazione delle sue origini razziali: nato in gran parte dalla disfatta e dall’umiliazione del 1918, il nazionalsocialismo ha, insieme ad altre vocazioni, quella – su cui Hitler vigila attentamente – di riarmare il Selbstbewusstsein tedesco, una coscienza di sé e una fiducia in sé violentemente compromesse dal crollo dell’Impero, dal Diktat del 28 giugno 1919 e dai disordini politici, civili e finanziari dei primi anni della Repubblica di Weimar.

Questo discorso riveste una tale importanza da essere oggetto di ampia diffusione, attraverso una molteplicità di vettori: i discorsi e i proclami dei gerarchi nazisti, in primo luogo Hitler e Rosenberg, le opere dei teorici della razza, come Günther, ma anche l’arte, la ricerca, l’insegnamento, i fascicoli di propaganda ideologica delle forze di polizia e delle forze armate. Nel Mein Kampf Hitler affermava che l’ariano era il Prometeo dell’umanità: la pregnanza del tema prometeico nella scultura nazista risponde con la pietra al testo.

Evocato nello spazio pubblico dalla rappresentazione scultorea, questo discorso delle origini è inoltre insegnato esplicitamente: le direttive del 1933 sui manuali di storia, poi i nuovi programmi d’insegnamento del 1938, definiscono espressamente il tenore del corso di storia della razza, vera e propria difesa e celebrazione del genio nordico. Professori e ricercatori all’interno dell’università e degli organi di ricerca della nuova Germania non hanno alcuna difficoltà a esaltare il mito dell’origine nordica mediante studi eruditi sulla svastica preistorica o la runa dell’alce in Svezia e nell’Italia del Nord.

La seconda funzione di questo discorso delle origini è quella di alimentare un immaginario annessionista ed espansionista. Se uomini venuti dal Nord sono stati creatori di tutte le prestigiose civiltà della storia, se il Nord è realmente la «matrice delle nazioni» celebrata da Jordanes, la razza nordica è dovunque a casa propria. È dunque resa possibile un’annessione simbolica dei piú prestigiosi patrimoni della storia, prefigurazione e preludio di piú sostanziali annessioni materiali e territoriali. Il discorso nordicista permette cosí l’annessione alla razza ariana del ricco patrimonio storico e artistico delle civiltà mediterranee, bruscamente coperte da cieli iperborei.