Capitolo secondo

Un Mediterraneo nordico: la Grecia, Roma e il Nord, fra cugini germanici

«Alla metà di settembre arrivò Herr Pompetzki, il nuovo professore di storia. Veniva da una località tra Danzica e Königsberg […]». «Ebbene, ora vi spiegherò ciò che questo retaggio ha significato negli ultimi tremila anni. Verso il 1800 avanti Cristo un gruppo di tribú ariane, i dori, fece la sua comparsa in Grecia. Fino a quell’epoca la Grecia, paese povero e montuoso, abitato da popolazioni di razza inferiore, era rimasta immersa nel sonno dell’impotenza. Patria di barbari, senza passato e senza futuro. Ma poco dopo l’arrivo degli ariani il quadro mutò completamente finché, come tutti sappiamo, la Grecia fiorí, fino a trasformarsi nella civiltà piú fulgida della storia dell’umanità».

«Proseguí su questo tono per un’ora intera […]. Ma alcuni, soprattutto i meno brillanti, sostennero che le sue idee non erano del tutto prive di valore. Come spiegare altrimenti la misteriosa ascesa della Grecia, verificatasi poco dopo l’arrivo dei dori?»1.

FRED UHLMAN

La deduzione piú importante da questo nuovo discorso delle origini, da questo rimaneggiamento del mito ariano, è l’attrazione dei greci e dei romani nell’orbita della razza e della civiltà nordica. La nordicità dei greci e dei romani è affermata dai razziologi e dagli storici, oltre che da molti altri vettori di un discorso che non è solamente testuale. Sorprende di piú il fatto che a promuoverlo siano anche le autorità politiche del regime, dalle quali non ci aspetteremmo che s’interessino cosí da vicino a una questione apparentemente tanto oziosa. Essa riveste tuttavia un’importanza singolare, in quanto consente una difesa e un’esaltazione della razza nordica, che si annette in tal modo un patrimonio storico e culturale prestigioso, preludio ad altre annessioni: se tutto viene dal Nord, i rappresentanti della razza nordica sono dovunque a casa propria, tanto a sud quanto a est.

L’ambra e il sole: razziologia dei greci e dei romani.

Nel 1929, Hans Günther pubblica da Lehmann una Storia razziale del popolo greco e del popolo romano. Che il razziologo ufficiale della Nsdap senta il bisogno di dedicare un’intera opera alla questione delle origini nordiche dei greci e dei romani è già di per sé un elemento notevole. Questa monografia è inoltre uno dei due studi di casi che egli consacra, parallelamente alle sue opere generali, alla genealogia di popoli specifici. Nel 1937, la monografia già citata dedicata alle popolazioni indoeuropee dell’Asia mira a infliggere il colpo di grazia alla tesi dell’origine indiana. Nel 1929, questa Storia razziale greco-romana risponde a un altro obiettivo: si tratta di esaltare la razza nordica conferendole l’aura di una civiltà greca, poi greco-romana, prestigiosa, le cui realizzazioni le vengono annesse.

L’opera è composta da tre parti: la prima è dedicata alla storia razziale dei greci, la seconda a quella dei romani, mentre alcuni allegati presentano numerose riproduzioni di busti e ritratti antichi corredati da un commento razziologico.

Nella sua prefazione, Günther si preoccupa di prevenire ogni lettura erudita e critica del suo testo: «L’autore è ben lontano dall’essere un esperto conoscitore della storia e della letteratura dei greci e dei romani»2. La precauzione è importante! Essa introduce uno scarto singolare rispetto al carattere per lo meno assertorio, piú spesso assolutamente categorico, delle frasi enunciate in seguito.

Per iniziare il suo discorso sui greci, Günther propone un argomento d’autorità citando gli storici tedeschi specialisti dell’Antichità greca che hanno formulato per primi la tesi dell’origine nordica degli elleni. Appaiono cosí i nomi di Hermann Müller, che nel 1844 ha pubblicato una celebre summa dal titolo L’ellenità nordica e il significato preistorico dell’Europa del Nordovest3, e di Karl Julius Beloch, autore nel 1912 di una Storia greca4 destinata a diventare autorevole.

Günther può dunque legittimamente rivendicare la sua iscrizione in una ormai lunga tradizione. La storiografia tedesca del mondo antico si è infatti ben presto allineata, nel XIX secolo, alla tesi dell’origine nordica dei popoli greci e della loro civiltà5: nel 1824 lo storico dell’Antichità greca Karl Otfried Müller pubblica I dori, un’opera di riferimento sui dori6, popolo che ha colonizzato il Peloponneso a partire dal Nord da cui era originario, per dare nascita alla prestigiosa città lacedemone. Fondandosi sul postulato nordico, tutta una letteratura con ambizioni storiografiche o antropologiche riprende e divulga questa tesi7, in Germania, ma anche in Francia, in particolare con Gobineau, e in seguito con Vacher de Lapouge8.

Dopo l’esposizione dell’argomento d’autore e d’autorità, si procede a fornire la prova con il dispiegamento di un apparato scientifico pluridisciplinare ed esauriente. Günther comincia col mobilitare la mitografia e la mitografia comparata: il ciclo di Ercole è strettamente imparentato con le leggende scozzesi similari, segno che esiste un «patrimonio spirituale indogermanico dagli elleni dell’Europa centrale all’Europa del Nordovest»9.

Citando Diodoro Siculo ed Erodoto, Günther evoca il leggendario popolo degli iperborei, dal quale i due autori fanno derivare i dori e il dio Crono, oltre a Latona e ai suoi due figli Artemide e Apollo. Ora, scrive Günther, «iperborei» significa «coloro che vivono al di là del vento del nord» o, «secondo le recenti acquisizioni della lessicologia storica», «coloro che vivono al di là delle montagne»10, al di là dei Carpazi che, visti dalla Grecia, marcano la frontiera tra il bacino mediterraneo e il Nord germanico.

Günther chiama in causa anche la linguistica, la scienza delle lingue (Sprachwissenschaft), utilizzandone gli argomenti a favore della propria tesi. Cita dunque il suo collega razziologo Otto Reche (1879-1966)11, professore all’Università di Lipsia, autore di un articolo sui greci redatto per un Dizionario della preistoria:

Un piccolo termine greco costituisce una prova inconfutabile: il nome del contorno della pupilla, l’iride, che significa arcobaleno. Un popolo che avesse gli occhi marroni o neri non avrebbe mai potuto avere la stramba idea di paragonare il colore dei suoi occhi a un arcobaleno, poiché, come è evidente, l’arcobaleno non è marrone. Tale denominazione assume dunque senso solamente rispetto a occhi chiari – azzurri, grigi, verdi, o blu con un contorno dorato – colori, dunque, che si trovano solo nella razza nordica o in una parte dei suoi bastardi12.

Gli argomenti linguistici formulati a volte seguono itinerari piú complessi. Richard Walther Darré sostiene cosí che la parola che designa la steppa in sanscrito sia la stessa con cui i greci indicano il campo. Ora, il campo è uno spazio che è stato disboscato per far posto all’attività agricola. Gli abitanti dell’India non sono dunque in grado di concepire la steppa, una terra senza alberi, se non come uno spazio che sia stato oggetto di una deforestazione preliminare. Gli indiani sono allora emersi da una contrada originaria con ampie foreste, vale a dire, secondo una conclusione inevitabile, il Nord tedesco o il Sud della Svezia13.

Passando dalla linguistica all’onomastica, Günther rileva la frequenza dei vocaboli chrysos (oro), pyros (fuoco) e xanthos, che «designa il colore del grano maturo»14, per comporre nomi propri: «Il frequentissimo pyros, a sua volta utilizzato all’interno di nomi propri (pyrotrix, eccetera) mostra chiaramente, essendo derivato da pyr (il fuoco), che i loro capelli erano dorati, biondi o rossi»15. La dimostrazione linguistica è proseguita con maggiore ambizione dall’ellenista Hans-Konrad Krause che, nel 1939, pubblica un articolo di onomastica comparata tra il greco e il tedesco16. Nella peggiore delle ipotesi, se le lingue greca e tedesca non sono immediatamente imparentate nella loro sostanza, nella carne della loro semantica, se la seconda non è derivata in linea retta dalla prima, esse mostrano tuttavia omologie di struttura e di costruzione che tradiscono un’indubbia parentela spirituale: in queste due lingue è appunto all’opera lo stesso spirito nordico, che costruisce i nomi propri secondo la stessa ispirazione e le stesse leggi. Tra Gottlieb e Theophilos, ad esempio, non c’è a prima vista niente in comune. Uno studio piú dettagliato, tuttavia, pone in evidenza l’omologia strutturale e la comune ispirazione semantica di questi due nomi propri: Gott = theos e Lieben = philein. In ciascuna delle due lingue c’è dunque un amato dagli dèi, lo stesso nome proprio esiste in greco e in tedesco. Nulla di particolarmente stupefacente, benché l’articolo si guardi bene dal dirlo, se si pensa che il tedesco Gottlieb è apparso nel XVII secolo semplicemente per tradurre il greco Theofilo, già latinizzato nel nome proprio Amadeus.

La dimostrazione prosegue attraverso numerosi esempi, tra cui quelli dei nomi Diether e Demostrato:

Diether < diot (=Volk) + Heer e Demostratos < demos (popolo) + stratos (esercito). Cosa c’è di strano rispetto a due popoli di contadini-soldati?

L’autore osserva inoltre che esistono strutture simmetriche rovesciate in greco come in tedesco: Nikokles e Kleonike, Gangolf e Wolfgang rispondono allo stesso schema di costruzione a chiasmo nelle due lingue. Questi semplici esempi, proposti a titolo di esercizio agli insegnanti di greco, hanno per Krause un importante valore pedagogico. Essi consentono di mostrare ai ragazzi delle scuole che «sulla base della loro comunità di sangue ariano, l’intuizione germanica e quella greca testimoniano una parentela, o meglio una comunità che, senza questo, sarebbe difficilmente spiegabile»17. Queste omologie strutturali sono, di fatto, innegabili. Ma, mentre qui vengono presentate come prova inconfutabile dell’origine nordica, potrebbero allo stesso modo essere utilizzate altrettanto efficacemente nel senso di un’origine orientale: è quel che fanno i linguisti indoeuropei.

La razziologia ricorre anche a un nuovo regime di prove culturali: lo sviluppo recente, negli anni Venti, di una psicologia razziale attorno a Ludwig Ferdinand Clauss fornisce altri argomenti. Operando un’induzione dallo spirito al sangue, un legame consequenziale diretto e immediato dalla razza all’anima, Clauss costruisce una tipologia psicorazziale che riunisce nello stesso tipo i diversi rami della razza nordica18. I differenti popoli indogermanici sono assegnati alla stessa identità psicologica, quella del Leistungsmensch, l’uomo attivo e libero, in contrapposizione al Darbietungsmensch orientale o semitico, uomo della sottomissione. Ispirandosi a Clauss, lo storico del mondo antico Hans Bogner chiosa su L’anima greca nell’Antichità19 per provarne l’indogermanità. Realizzando un circolo ermeneutico del tutto scontato, Bogner spiega che, per comprendere l’anima greca, si debba «partire inizialmente dall’anima tedesca»20. Di rimando, lo studio dell’anima greca permette un’esplorazione dell’anima tedesca nella sua forma originaria, indogermanica, dunque allo stato puro:

La nostra parentela di razza […] lascia sperare, malgrado tutte le differenze, un accesso alla nostra identità originaria, fatta di caratteri che in noi sono mascherati da molteplici alienazioni e che non sarebbero in alcun modo accessibili senza l’aiuto della parola greca che, chiara e distinta, risuona già in un’epoca in cui i nostri diretti antenati ci hanno affidato solamente testimonianze frammentarie e mute21.

Uno dei tratti dell’anima greca è rivelato efficacemente dal comportamento di Ulisse nell’Iliade (libro XI, vv. 400-10): quando si ritrova solo di fronte al nemico, Ulisse non tergiversa poiché «non può che prendere atto del fatto che la sua decisione è già presa, e che non gli è possibile sottrarvisi»22. La sua risposta, l’attacco, gli è dettata da «la nascita, il sangue, l’essenza»23.

L’anima greca assomiglia dunque in modo impressionante allo spirito tedesco di cui qui, in filigrana e attraverso il gioco del parallelismo, ci viene offerto un ritratto: coraggio, ma anche volontà di potenza e senso della comunità. Bogner non esita a dipingere i greci omerici come degli Herrenmenschen24 alla conquista del mondo mediterraneo. Immergersi nell’anima greca è dunque tutt’altro che un passatempo da erudito. Il suo studio è ricco di lezioni per un presente che si rafforza immergendosi nel volontarismo indogermanico:

E se dobbiamo dar ragione al principio fondamentale di ogni politica greca, vale a dire che il tutto è superiore alla parte, che la comunità precede l’individuo in essenza e dignità, questa lezione dell’Antichità non deve essere ignorata in un’ora decisiva della storia mondiale in cui una vera comunità è nuovamente sul punto di avvenire25.

I capelli biondi nel mondo antico: vicissitudini di dolicocefali nel Mediterraneo.

Se la psicologia ha le sue virtú, la regina delle prove resta l’antropologia razziale. Günther, come abbiamo visto, tende a fare di ogni erba un fascio, ma cerca le maggiori conferme soprattutto nella paleontologia o nell’antropologia storica: il corpo greco è qui richiamato come epifania dell’etnotipo nordico. Per cominciare, Günther deplora la scarsità del materiale umano osservabile, poiché i greci avevano la malaugurata mania di bruciare spesso i loro morti. In assenza di crani, resta la possibilità di studiare gli elmi dei guerrieri greci, di cui l’Altes Museum, a Berlino, custodisce un’importante collezione. Questi elmi rivelano «forme cefaliche allungate e sottili»26. I greci presentavano dunque la dolicocefalia27 caratteristica della razza nordica: il francese Vacher de Lapouge28, seguito e citato da Günther29, era stato il primo a contrapporre l’uomo dolicocefalo del Nord alla volgare brachicefalia30 delle altre razze europee, asiatiche o semitiche.

In assenza di testimonianze antropologiche dirette, Günther si rivolge inizialmente alle fonti letterarie dell’Antichità. Nelle sue argomentazioni è mobilitato il canone letterario greco, in particolare l’opus maius omerico: «Gli dèi e gli eroi dell’Iliade sono biondi, come quelli dell’Odissea»31. Eroi e dèi di Omero presentano tutte le proprietà fisiologiche, pigmentarie e antropometriche della razza nordica. Solamente una bellezza nordica, quella della bella Elena, poteva rendere folli i greci al punto di farli precipitare in una guerra decennale, nota Günther che, entusiasta, le dedica un piccolo blasone:

La bellezza di Elena è ampiamente descritta: i suoi capelli biondi e fini come la seta, i suoi occhi quasi diafani, le gote rosa e le labbra rosse, su pelle di un candore abbagliante, le sue mani bianche e sottili – tutti elementi che caratterizzano la razza nordica32.

Non solo il colore della pelle e quello dei capelli dei greci indicano il Nord, ma anche la loro corporatura: «Gli eroi della preistoria greca […] avevano un’alta statura»33, nota Günther, che cita una quantità di altri testi oltre al corpus e al canone omerico: Erodoto, Pindaro, Luciano, Aristotele e molti altri sono evocati a sostegno dell’argomentazione.

Günther non disponeva ancora di un utile strumento di lavoro, apparso alcuni anni dopo, sempre da Lehmann, opera di un collega, Wilhelm Sieglin, antropologo e professore all’Università di Berlino. Nel 1935, l’anno della sua morte, Sieglin pubblica un’opera intitolata I capelli biondi dei popoli indogermanici dell’Antichità. Un censimento delle testimonianze antiche come contributo alla questione indogermanica34. Dopo un discorso introduttivo di una sessantina di pagine sulla questione dell’origine nordica degli indogermani, Sieglin dedica 92 pagine a un «Indice degli dèi e degli eroi dell’Antichità di cui è precisato il colore dei capelli, e dei personaggi il cui colore di capelli ci è stato tramandato». Vi censisce tutti i personaggi reali, favolosi o fittizi, designati come biondi o bruni nella letteratura antica. Il riferimento indica con precisione il nome, la qualità del personaggio e la fonte utilizzata dall’autore, lavoro considerevole e sfibrante quando si pensa che l’opera annovera quasi 700 voci di questo genere.

Queste prosopografie capillari sono rigorosamente suddivise secondo categorie critiche. Tutti i popoli del mondo antico sono passati in rassegna: 1) elleni: 2) itali (sic); 3) galli; 4) germani e svedesi, ma anche ebrei ed egizi. I popoli greco e romano, che hanno riferimenti particolarmente ampi, sono dotati di sottocategorie: Sieglin le suddivide in: «Divinità bionde», «Eroi biondi», «Personaggi storici biondi», «Personaggi fittizi biondi», utilizzando le stesse categorie per quei poveri diavoli dei bruni.

La conclusione s’impone in modo clamoroso, ma senza troppa sorpresa: greci, romani, germani, svedesi sono descritti come in prevalenza biondi. Gli ebrei, invece, sono bruni: altra razza, altro colore. Per la sua acribia e il suo estremo zelo di erudizione, l’opera di Sieglin può essere considerata il risultato piú sorprendente della razziologia dell’epoca nel suo carattere ossessivo e puntiglioso.

Il libro è oggetto di una lunga recensione elogiativa nell’edizione del 15 maggio 1935 di «Das Schwarze Korps», il settimanale delle SS. Se ne raccomanda inoltre la lettura a un pubblico ben piú vasto rispetto alla ristretta cerchia degli universitari. Il titolo dell’articolo sottolinea immediatamente l’interesse di un’opera che mostra, basandosi su prove antropologiche, che «La razza nordica ha conquistato il mondo»35, e attesta l’esistenza di una «lotta del biondo contro il nero»36. Il giornale SS si entusiasma all’idea che «quel popolo di signori che era il popolo greco fosse in prevalenza biondo» e che a Roma «la razza dei signori, dei patrizi, si differenziasse dai plebei grazie ai suoi capelli biondi». La pratica dei matrimoni misti fra le due caste ebbe il sopravvento su una biondezza purtroppo recessiva, che cedette il passo «ai capelli bruni», cosí che i romani della decadenza dovevano decolorare la loro capigliatura con lo zafferano per ritrovare la purezza originaria dei loro antenati, o indossare parrucche fabbricate a partire dai capelli dei loro schiavi germanici. Troviamo un’eco di queste considerazioni «scapigliate» nelle conversazioni a tavola di Hitler, che includono commenti sulle tinte dei capelli dei romani37.

Oltre all’opera di Sieglin, si può constatare che un’intensa attività di valutazione razziologica del materiale archeologico è stata realizzata dai piú importanti esponenti dell’antropologia razziale, venuti in aiuto agli storici e ai razziologi del mondo antico. È il caso ad esempio di Eugen Fischer, che collabora con Günther alla stesura di un’opera comune dal titolo Profili tedeschi di razza nordica, pubblicata nel 193338, che presenta un’antologia di immagini di profili nordici impeccabili. Lo stesso Fischer, che si picca di storia antica e piú tardi collaborerà a opere che trattano della questione ebraica nell’età antica39, nel 1933 collabora all’opera comune di archeologi tedeschi, apportando il suo sguardo di antropologo per l’esame di resti umani ritrovati a Micene40, e che egli sottopone a una minuziosa esegesi razziologica.

Dopo essersi avvalso dell’autorità della linguistica, dell’antropologia storica, della mitografia e della letteratura, Günther si rivolge, come obbliga l’eredità winckelmanniana, alla storia dell’arte. Nell’arco di tutto il suo discorso, l’autore correda il suo testo di busti, statue e ritratti dell’Antichità, per sottoporli a una diagnosi razziale. Le illustrazioni prodotte nel corso del testo sono accompagnate da una legenda lapidaria, un verdetto razziale pronunciato senza esitazione o compiacimento: le fotografie rappresentate, per altro, sono spesso prese di fronte e di profilo, o di tre quarti, alla maniera dei ritratti realizzati a partire da Bertillon per stabilire l’identità giudiziaria. Dell’illustrazione 18 a pagina 34 si dice ad esempio: «Donna greca anonima (poetessa). Nordica», mentre della statua di Sofocle, che supera a sua volta con successo l’esame razziale: «Sofocle. Nordico»41. Gli abbondanti allegati (Anhang) che chiudono l’opera presentano ritratti associati a commenti piú dettagliati, vere e proprie spiegazioni del testo facciale. Tutte le informazioni razziologiche che Günther pretende di indurre dalla semplice osservazione di una scultura lasciano il lettore sconcertato davanti a tanta immaginazione. In uno dei suoi grandi slanci d’ispirazione fisiognomica, Günther commenta cosí il busto di uno dei personaggi rappresentati:

Rappresentazione dell’uomo nordico lucido e potente. Costante tensione verso lo strapiombo che sovrasta il mondo e gli uomini, un’esperienza dolorosa tradita dallo sguardo, una certa serena rassegnazione, un certo disincanto davanti all’insufficienza degli uomini che lo circondano – una tensione mai smentita e una pena sempre presente, trasposte in una serenità che può apparire come gentilezza nella relazione con l’altro; la potenza e la profondità del suo spirito nordico sono tipicamente avvolte da una netta consapevolezza della propria superiorità42.

Le facoltà di analisi e di induzione di cui Günther dà prova sconfinano qui nella necromanzia: i morti e le statue diventano chiacchieroni inesauribili. Tuttavia, ciò che ai nostri occhi non è altro che delirio ermeneutico, per Günther è un’applicazione coerente del postulato razzista: il fenotipo è l’espressione di un principio intimo e intrinseco, il sangue, le cui qualità conformano il corpo, ma anche la psiche. Dal sangue promanano la materialità fisica, lo spirito, le realizzazioni culturali e artistiche di una civiltà. L’induzione dal corpo allo spirito e dallo spirito al corpo è dunque pienamente legittima, poiché i due elementi procedono dal sangue. Queste tre entità definiscono in modo solidale un’identità unica e vincolante, quella della razza.

Se gli uomini greci e la virilità nordica restano l’oggetto principale del discorso, non si trascurano nemmeno le donne. Günther osserva, rallegrandosene, che le donne rappresentate dall’arte greca possiedono tratti viriloidi43. Il bel sesso dell’epopea ha qualcosa di vigorosamente maschile. La predominanza dell’animus sull’anima è, se vi si presta fede, un tratto tipico della donna germanica, il che prova ancora una volta l’origine nordica dei greci. Per esemplificare il suo discorso, Günther propone il caso della moglie di Ulisse, Penelope, e della dea guerriera Atena:

Penelope è una figura nordica del VII secolo avanti Cristo […]. I personaggi del tipo di Penelope, come troviamo anche nelle epopee persiane e germaniche, fanno pensare, nella poesia epica germanica, a figure come le Valchirie […] Atena, «la dea bionda dagli occhi blu» di Pindaro, è armata per la guerra come una Valchiria44.

Ecco dunque l’Olimpo annesso senza colpo ferire al Walhalla per mezzo di un Anschluss mitologico perfettamente riuscito: le due mitologie sono espressione di una stessa sostanza razziale. La stessa cosa vale per le Amazzoni, paragonate, come le precedenti, alla Crimilde del Nibelungenlied45. Il determinismo biologico, la consequenzialità dal sangue allo spirito, è dunque chiamato in causa per fondare una modalità di strutturalismo mitografico ante litteram.

Per altro, Günther ricorre di rado alla comparazione e all’assimilazione architettoniche, un difetto a cui porrà rimedio il suo collega Carl Schuchhardt in un articolo del 1933 dedicato a L’indogermanizzazione della Grecia46: la presenza di cerchi di megaliti, di dolmen e di volte di pietra secca in Irlanda, Inghilterra, Bretagna e Grecia è una prova dell’origine nordica dei greci. Come dice Schuchhardt, questi edifici greci hanno i loro «fratelli e cugini, o, piú esattamente, i loro padri e zii in Spagna, nel Nord della Francia, in Irlanda»47. Con tono molto pedagogico, Schuchhardt propone al lettore una cronologia chiara, simile a quella degli opuscoli SS, delle migrazioni indogermaniche in Grecia che hanno sovrapposto un sangue indogermanico a una popolazione autoctona preesistente: «La prima, l’achea (perché ha condotto in Grecia gli achei di Omero)», si è verificata «verso il 1800 prima della nostra era»48. La seconda, «la migrazione dorica»49, si è svolta «verso il 1200 prima della nostra era»50.

Günther, come tutti gli autori che si occupano della storia razziale della Grecia, non omette mai di precisare che in Grecia c’è coesistenza di principî razziali fra gli indigeni, per lo piú pelasgi, e i conquistatori di razza nordica51. L’arte greca propone pertanto rappresentazioni del tipo razziale iperboreo, ma anche del controtipo orientale. La distinzione e la gerarchia delle razze si materializzano in una dualità delle arti che distingue l’arte nobile, la scultura di marmo, dall’arte vile della terracotta. L’arte maggiore, o superiore, die hohe Kunst, «guarda verso il nord e rappresenta i tratti fisici e spirituali dell’uomo nordico»52, mentre l’arte minore (Kleinkunst) e l’artigianato (Kunstgewerbe) sono ispirati ed esercitati dai tipi razziali dei germani dell’Ovest e orientali, da «estranei alla razza e da schiavi […] di ascendenza orientale o asiatica»53: questo materiale razziale differente produce un’arte differente, nella misura in cui, ancora una volta, la differenza di apparenza fisica nasconde un’alterità spirituale o mentale.

Apollo e Dioniso: lo scontro fra due razze.

A questa dualità delle arti corrisponde anche una dualità degli dèi. In un piccolo libro pubblicato presso l’editore Lehmann, e che vuole essere un pamphlet polemico contro Nietzsche54, biasimato per aver esaltato il principio dionisiaco, Karl Kynast, filosofo e storico dell’arte, oppone punto per punto Apollo e Dioniso. Dioniso, dio orientale e ctonio, dio del corpo, dei sensi e della trance, è l’antitesti di Apollo, dio nordico e celeste, dio dell’intelligenza e della padronanza. Il culto dionisiaco, che è fondato sulla perdita di coscienza prodotta da un’eccitazione dei sensi, procede dunque da un principio razziale allogeno, irriducibile alla nordicità greca, mentre Nietzsche, a torto, faceva dell’unione di Apollo e Dioniso la condizione necessaria e sufficiente dell’emergere di una cultura ellenica55.

Dioniso è un dio oscuro e opaco, il dio della notte dei baccanali, in cui si dispiega la trance, mentre Apollo è il dio solare, phoibos, «vale a dire il puro, il chiaro, il luminoso»56: «Dioniso è un dio notturno, il dio della dismisura esuberante e selvaggia, mentre Apollo è il dio della luce, dell’ordine, della misura armonica»57.

Il culto baccanale si fonda sullo scatenamento dei sensi, sull’agitazione di un corpo in preda al disordine degli affetti e all’eccitazione estatica. È dunque «nato da un sangue e da uno spirito non nordici»58, propri di un’umanità totalmente dominata dalle proprie passioni, in balia del determinismo naturale delle sue pulsioni, prima di tutto libidinose: sono questi i caratteri delle razze inferiori del Mezzogiorno e dell’Oriente, piú vicine all’animalità, e definite propriamente dall’eccesso degli istinti, mentre l’uomo nordico è tutto misura e dominio. In ultima analisi, il culto dionisiaco è un culto femmineo, passivo, il culto dell’abbandono ai sensi, al thymos. I baccanali sono per altro infestati da «donne e da schiavi! Tutto il contrario dell’uomo ellenico, che appartiene al popolo di signori nordici»59. Le razze del Sud e dell’Est consacrano inoltre il matriarcato, la matrice e la terra madre (Mutterland), mentre i popoli del Nord sono patriarcali e parlano di patria (Vaterland)60, come ricorda anche Darré61. Apollo, dio nordico, è, al contrario, un affare di uomini e di logos, di dominio attivo, e non di abbandono servile o femmineo alla passione.

L’opposizione tra apollineo e dionisiaco si fonda dunque proprio su un’antitesi di razze e nasconde il contrasto tra «cultura e barbarie»62, umanità e animalità: se Dioniso è il dio del grido, il grido della trance, dell’orgasmo e dell’orgiastico, Apollo è il dio del canto, espressione armonica vivente della misura matematica63.

La tesi di Kynast, che consiste nell’operare un’assiologia degli dèi e delle razze, è citata da Schemann64 e da Günther. Ripresa e citata65 da Rosenberg ne Il mito del XX secolo, essa è inoltre riassunta da un quaderno di formazione ideologica del partito66, che le conferisce in tal modo un’ampia pubblicità.

Rosenberg fa della duplice polarità Apollo-Dioniso una conseguenza della schizofrenia razziale e spirituale dei greci, combattuti tra le loro origini nordiche e i fermenti allogeni che, dopo il loro insediamento in una terra straniera del Sud, si sono insinuati nel loro sangue: «L’uomo greco era già scisso, divenuto quasi estraneo a se stesso, fluttuava tra valori propri della sua razza e una disposizione spirituale straniera»67. Da una parte si trovano gli dèi di luce e di chiarezza, principî del bene, del bello e del buono, le «figure luminose (Lichtgestalten) di Apollo e di Pallade Atena»68, dall’altra, diametralmente opposto al Lichtgott Apollo «dai capelli biondi»69, Dioniso, dio della notte70, che «entra da straniero, in senso razziale e spirituale, nella vita greca», a tal punto da incarnare, con la sua estraneità psichica e fisica, «la degenerazione nordica»71.

Mentre Apollo e Atena, divinità solari, reggono l’armonia, il dominio e la misura che governano la psiche e la città greca, Dioniso introduce la barbarie entro la cinta della città: Rosenberg raffigura con tratti kitsch la brutalità dionisiaca, descrivendo con enfasi il ruggito orgiastico e orgasmico del baccanale, «al rilucere febbrile delle fiaccole, in un fracasso metallico, accompagnato da tamburelli e da flauti»72, prima che le baccanti, abbandonate alla tirannia dei loro sensi, lacerino a morsi la carne sacrificale. Questa brutalità dello scatenamento pulsionale è agli antipodi rispetto alla sovranità greca, virilmente affrancata dalla tirannia dei sensi:

Queste pratiche erano totalmente e assolutamente opposte a tutto ciò che è greco, rappresentavano quella religione della possessione che regnava ovunque nel Mediterraneo orientale, portata e diffusa dalle razze e dalle aggregazioni razziali africano-asiatiche73.

La colluvies romana: bacino nordico e falde allogene.

La seconda parte dell’opera di Hans Günther, dedicata alla storia razziale del popolo romano, segue lo stesso modello degli sviluppi riservati alla Grecia. I romani sono «anch’essi di origine razziale nordica»74. Citando i linguisti, Günther ne adduce come prova il fatto che «i fondamenti della lingua italica e della lingua germanica sono affini»75. Gli italici del Nord, a suo parere, provenivano «dalla regione del Danubio medio e superiore»76, cosa che per altro non ne fa dei puri nordici. Infatti, se è evidente che tutto ciò che di grande è stato fatto a Roma è dovuto al carattere nordico predominante degli antichi patrizi romani, non «bisogna rappresentarseli come puramente nordici». È probabile infatti che «sulla loro strada attraverso le Alpi dell’Est, essi abbiano assunto alcuni tratti orientali minori»77. Günther mostra dunque esitazioni e riserve a proposito della natura e dei caratteri razziali degli antichi romani, seguito in questo dai suoi lettori ed epigoni del mondo della razziologia tedesca dell’epoca.

Ludwig Schemann78, dottore in storia romana e professore di antropologia razziale all’Università di Friburgo, traduttore e biografo di Gobineau, rivolge cosí uno sguardo severo al meticciato della Roma delle origini, colpevole di non essere pura come la Sparta dorica. Definisce la Roma delle origini come una «colluvies, una mescolanza e un disordine, la confluenza di masse umane, e non esattamente di prima scelta»79, citando Quinto Cicerone, avvocato e fratello del celebre autore delle versioni latine: «Roma, civitas ex nationum conventu constituta»80. Una città variegata sin dall’origine, una «creazione completamente artificiale»81, dunque, che è definita, in relazione e in contrasto con la purezza nordica dei greci, dalla sua «screziatura», una caratterizzazione che i razziologi italiani confutano con vigore a partire dal 193882. Questa eterogeneità non impedisce all’elemento nordico di manifestarsi. È il solo garante e la sola cauzione della grandezza di Roma, e successivamente dell’Impero:

La grandezza storica dei romani è inestricabilmente connessa con la loro matrice nordica […]. Le figure piú rilevanti e piú decisive della storia romana rivelano questa origine con piena evidenza. I fondatori di Roma evocano, malgrado tutta la bruma di leggende che li circonda, i popoli del Nord piú originari83.

Seguono, all’interno di una rassegna degli antenati biondi e dagli occhi blu, «Catone, un rosso con gli occhi azzurri (Plutarco)», Silla, che «aveva i capelli color dell’oro e gli occhi azzurri», e Cesare, «un uomo del Nord con tratti solo parzialmente misti», mentre, per il resto, «gli imperatori davvero creatori sono stati di sangue nordico»84.

La tesi di Günther sull’origine e il carattere nordico dei greci e dei romani viene ripresa e ripetuta da numerose opere, che diffondono la vulgata razziologica applicandola docilmente. Otto Reche ad esempio, pubblica nel 1936, da Lehmann, un’opera dal titolo Razza e patria degli indogermani85, che riprende e riformula senza originalità le tesi di Günther, cosí come due capitoli di un’opera collettiva del 1937 intitolata La storia dell’Europa: un destino razziale, che riprende senza discuterlo e senza alcuna distanza il discorso güntheriano86. Si possono trovare a volte alcuni dibattiti microscopici fra questi testi, con lievissime sfumature in particolare sulla questione della provenienza geografica precisa degli elleni. A differenza di Günther, che propone come nucleo originario il Nord della Germania e il Sud della Scandinavia, lo storico dell’età antica Fritz Taeger sostiene invece l’ipotesi danubiana87. Resta tuttavia infrangibile, anche per lui, il consenso sulla reciproca partecipazione a una comune indogermanità.

Atene, Roma, Berlino: la translatio studiorum et imperii secondo la Nsdap.

L’affermazione del carattere nordico dei greci e dei romani è ripresa con tenacia e convinzione dalle autorità del partito. La questione, a priori confidenziale e astrusa, viene trasmessa a livello politico con un’insistenza sorprendente: come mai il discorso delle piú alte autorità del Partito nazista, e in seguito dello Stato, mostra un tale interesse per questioni a prima vista solo erudite? Ci si stupisce della pubblicità che viene loro riservata, ci si stupisce di sentire Rosenberg, o Hitler in persona, perorare e dissertare, in pubblico come in privato, sulla natura nordica dei greci e dei romani.

Che i greci antichi e i tedeschi contemporanei partecipino della stessa sostanza razziale è provato secondo Rosenberg dall’istinto che ci fa riconoscere come germanico tutto ciò che è greco e respingere tutto ciò che porta il marchio della Siria e di Babilonia:

La consapevolezza delle origini europee e la distinzione tra il vecchio e il nuovo senso della storia ci hanno permesso di discriminare, di operare una selezione e di respingere con certezza e per sempre come straniero quel che ci viene dalla Siria e da Babilonia. Nello stesso tempo, la venerazione per l’Antichità greca nella storia tedesca ci mostra che l’istinto non si è mai assopito, malgrado altre dottrine. Questo istinto ci fa riconoscere come spiritualmente e fisicamente imparentato tutto ciò che è legato al nome di Partenone88.

Non si dimentica neppure Roma: «Chi dice antico romano dice nordico»89, ricorda Rosenberg. La razza germanico-nordica non si è accontentata di creare queste civiltà, ma le ha di volta in volta rigenerate. La Grecia è stata, a intervalli regolari, rinvigorita da apporti di sangue nordico rinnovato emersi da nuove ondate di immigrazione ariana, che hanno costituito altrettanti rinforzi nella lotta che la opponeva all’Asia Minore, e di cui alcuni tentano una cronologia:

Le forze nordiche, assottigliate dalla lotta, venivano rinforzate da nuove ondate d’immigrazione. I dori, e in seguito i macedoni vegliavano su questo sangue biondo e creatore.

La Grecia segna, agli occhi di Rosenberg, l’apogeo dell’eccellenza razziale e culturale del Nord:

Il sogno dell’umanità nordica si è realizzato nella forma piú bella nella Grecia antica. L’uomo nordico, mediante diverse ondate successive, sorge dalla valle del Danubio, e riveste in una nuova creazione la popolazione originaria, gli immigrati ariani e non ariani. Si può constatare che la civiltà micenea degli achei è già prevalentemente nordica.

Anche Roma è stata rigenerata da flussi di un sangue venuto dalla Germania. Rosenberg descrive i germani invasori come un fattore, un fermento di resurrezione della Roma ariana delle origini. Essi sono un sangue nuovo che viene a rafforzare l’elemento nordico che era stato indebolito a Roma da una colpevole tolleranza nei confronti dello straniero:

Quando, molto piú tardi, i germani decisero di offrire i loro servigi a questi imperatori deboli, degenerati, circondati da bastardi impuri, nella loro anima regnava lo stesso spirito d’onore e di fedeltà che vigeva presso gli antichi romani.

L’immigrazione di questa ondata germanica, che avrebbe sommerso l’Impero romano, costituisce per Rosenberg una sorta di rifondazione di Roma. Nel 753, la sua fondazione era stata dovuta a germani provenienti dal Nord. I soldati germanici che cominciavano a popolare l’Impero e a costituire la legione di ausiliari sono ormai il fondamento dell’Impero e del potere:

Una campagna dopo l’altra, la tattica romana si mostra impotente di fronte a questa forza originaria che è all’opera. A Roma fanno la loro apparizione «schiavi» biondi e giganteschi, la bellezza germanica diventa alla moda in questo popolo decadente e senza ideali. La presenza di germani liberi è ormai comune, e la loro fedeltà di soldati diventa sempre piú il sostegno migliore per Cesare […]. All’epoca di Costantino, l’esercito romano è quasi tutto germanico.

Questa presenza germanica riconcilia la città con le proprie origini nordiche, dopo una lunga decadenza razziale:

Isolati dai romani, a causa delle leggi sul matrimonio e della loro fede ariana, i goti poi, piú tardi, i longobardi hanno avuto lo stesso ruolo creatore che aveva svolto in passato la prima ondata nordica fondatrice della vecchia Roma repubblicana90.

La storiografia tedesca ha sempre respinto l’identificazione di quelle che i francesi chiamano le «invasioni barbariche» con… invasioni di barbari, che avrebbero appunto fatto crollare l’Impero romano. È significativo il fatto che gli storici tedeschi non parlino, come i loro colleghi francesi, di «grandi invasioni» ma di «migrazioni dei popoli», di Völkerwanderungen. Il termine invasione denota un atteggiamento ostile: barbari irsuti e vestiti di pelli di animali razziano Roma, violano le sue matrone, rapinano i suoi templi e lasciano alla posterità una moltitudine di soggetti adatti a pittori kitsch. La storiografia tedesca insiste invece sul carattere progressivo e continuo che ha costituito il lento movimento delle migrazioni germaniche: i popoli del Nord si sono aggregati all’Impero per mezzo di foedera, e poco alla volta sono arrivati a insediarvisi. I nazisti conducono all’estremo questa riabilitazione dei germani: lungi dall’essere i distruttori dell’Impero, essi sono stati il fermento della sua rigenerazione biologica. In seguito l’Impero si è naturalmente spostato da Roma verso il nord, con Carlomagno, poi con Ottone. Questa rigenerazione razziale dell’Impero non è stata tuttavia sufficiente: Roma è stata travolta, come la Grecia, dagli assalti di razze ostili, come vedremo piú avanti91.

La riformulazione nazista del mito ariano stabilisce dunque un’identità di sostanza tra i popoli greco, romano e germanico. Si tratta di tre rami di una razza originaria comune, la razza nordica. Dato che il ramo germanico è rimasto sulle terre dei progenitori per custodire il suolo della patria, esiste un rapporto di quasi-filiazione tra germanità, grecità e romanità: la germanità nordica ha generato la grecità e la romanità che, a loro volta, hanno fecondato la germanità, secondo un’idea che rientra ormai fra le evidenze. In una delle sue conversazioni a tavola, Hitler dichiara: «Quando ci chiedono chi sono i nostri antenati, dobbiamo rispondere: i greci»92.

Il sole, la brocca e il Partenone: la teoria del clima contro l’arretratezza germanica.

Come spiegare, allora, lo scarto sorprendente dei livelli di civiltà di Atene e di Roma rispetto ai germani primitivi delle foreste?

Hitler fornisce una risposta alla questione, sviluppandola ampiamente. Nel Mein Kampf contesta innanzitutto il fatto che i germani fossero del tutto arretrati, cosa che lui stesso non era lontano dal pensare, ma che non poteva, per evidenti ragioni politiche, scrivere con la stessa brutalità con cui si permetteva di dirlo, come vedremo, nelle sue conversazioni private. Nel Mein Kampf, esclama virtuosamente:

È una incredibile stoltezza rappresentare come incivili, come barbari, i germani dei tempi anteriori al cristianesimo. Non furono mai tali. Ma l’asprezza del loro clima nordico li costrinse a condizioni di vita che ostacolavano lo sviluppo delle loro forze creatrici. Se fossero giunti nelle miti terre del sud e nel materiale dei popoli inferiori avessero trovato le prime risorse tecniche, la capacità di cultura in essi latente avrebbe prodotto una splendida fioritura, come avvenne per esempio ai greci93.

Hitler chiama dunque in causa la teoria dei climi cara all’etnografia classica, da Aristotele a Montesquieu. Già Aristotele spiegava che i greci, i quali abitano la zona temperata del mondo, hanno una natura armoniosa ed equilibrata, tanto lontana dagli estremi quanto lo sono i loro cieli. Successivamente, Posidonio di Apamea94 ha stabilito una tipologia dei popoli a seconda della zona climatica. Per questi due autori, come per il loro lettore Montesquieu, rispetto a popolazioni comparabili tra loro, le condizioni climatiche determinano il livello di sviluppo di una civiltà. Per altro, la metafora botanica sottesa detta in questo caso l’inevitabile evidenza intuitiva del discorso: una pianta cresce meglio sotto il sole della Toscana che non tra le brume del Nord.

In una conversazione privata del 1942, Hitler riprende questa idea per svilupparla:

Oggi appare chiaro perché i nostri antenati non marciarono verso l’est, ma verso il sud: tutto il territorio a est dell’Elba non differiva affatto, in quei tempi, da quella che per noi è la Russia di oggi. Non per niente i romani inorridivano al pensiero di dover valicare le Alpi, e non senza motivo i germani cercavano di spingersi al sud95.

L’Est dell’Europa viene dunque descritto sotto una luce poco lusinghiera. Nell’età antica era un paese respingente, e ciò spiega il fatto che i germani, contrariamente ai nazisti, non abbiano considerato il fatto che la conquista del loro Lebensraum ve li conduceva naturalmente: il tropismo era australe, non orientale.

Non è raro che Hitler si soffermi sulla sorte della stessa Germania, come in questa conversazione privata del gennaio 1942: «Il nostro era un paese da cani»96, o meglio da maiali, visto che il tedesco ricorre piú alla metafora porcina che non a quella canina97. Secondo Hitler, i romani sarebbero stati contenti di una spedizione in Prussia orientale quanto un soldato della Wehrmacht lo sarebbe stato di un trasferimento sul fronte dell’Est:

Per i romani un trasferimento in Germania era qualcosa di simile a una condanna, cosí come per noi l’idea di un trasferimento a Posen ispirò per molto tempo la piú grande avversione. Si pensi: piogge interminabili e uno sconfinato acquitrino! […] Le nostre terre erano fredde, umide e nebbiose98.

Nell’età antica, la Germania offriva dunque un’immagine che era l’esatto contrappunto delle regioni mediterranee, quelle contrade calde e luminose in cui lo spirito nordico ha potuto fiorire con fecondità, potenza e grazia.

Hitler ha letto La Germania di Tacito, che a volte cita nei suoi discorsi e nelle conversazioni private99. Si compiace nel riprenderne i pregiudizi geografici e climatici. Tacito, che non ha mai visto la Germania antica e che la conosce solo attraverso la mediazione di legionari e di mercanti, descrive questa regione come un paese aspro e inospitale, senza bellezza né dolcezza per chi l’abita o la visita. L’uomo mediterraneo evoca con repulsione questa «Germania, una terra selvaggia, dal clima aspro, deprimente al soggiorno e alla vista»100. Nel passo seguente, Tacito inasprisce la sua requisitoria meteorologica ed estetica:

Il paesaggio, anche se di aspetto piuttosto vario, è comunque in genere irto di boschi o infestato di paludi. Il clima è piú umido nella parte rivolta verso le Gallie, piú ventoso in quella che guarda verso il Norico e la Pannonia101.

Hitler concorda con questa repulsione del romano nei confronti della Germania primitiva. L’antica Germania era, ai suoi occhi, simile in tutto e per tutto all’immagine desolante che la Russia contemporanea, sfigurata dalla tirannia sovietica, offre alle truppe tedesche:

Quando i nostri soldati dicono che l’est è orribile, ebbene, per i romani dell’Antichità doveva essere atroce tutta l’Europa del Nord, ma la Germania ha perduto questo aspetto desolante! L’Ucraina si abbellirà alla stessa maniera, dal momento in cui cominceremo a portarvi il nostro lavoro102.

Questi discorsi dell’autunno 1941 e dell’inverno 1942 sono l’eco dei rapporti provenienti dal fronte dell’Est ed esprimono la speranza di una colonizzazione a breve termine, coronata da successo: è interessante constatare che, nel momento in cui le truppe tedesche si battono in terra sovietica, Hitler assimila totalmente questa guerra all’impresa di conquista e di dominio romana.

La colonizzazione a est può migliorare questi paesaggi poiché, se il determinismo della razza è immodificabile, quello del clima può subire qualche adattamento, a condizione che una volontà creatrice si metta all’opera. Ogni aiuto del destino è tuttavia benvenuto, ad esempio sotto la forma di una modificazione atmosferica. La Germania si è infine sviluppata – prosegue dottamente Hitler – perché le influenze temperate del Sud sono state in grado, col favore dei disboscamenti medievali, di valicare le Alpi. Senza la dolcezza di questo fantasioso effetto di föhn, la Germania sarebbe senza dubbio rimasta quel paese aspro, rude e freddo che suscitava repulsione nei romani:

Noi viviamo oggi grazie al fatto che l’Italia non ha piú alberi. Senza questo, i venti del sud e la loro dolcezza non arriverebbero fino a noi. Duemila anni fa, invece, l’Italia era ancora un paese di foreste, e provate a immaginare cosa sembrava il nostro paese senza i disboscamenti, i villaggi, le strade, le città!103.

È ormai possibile spiegarsi meglio il take off culturale dei germani: essi sono riusciti a recuperare il loro ritardo sui greci e i romani grazie all’effetto benefico di venti che in precedenza erano bloccati dalle fitte foreste delle Alpi italiane.

Altri rappresentanti dell’umanità nordica hanno avuto già prima occasioni piú favorevoli. Avendo avuto la felice idea di migrare verso il sud, sono riusciti a creare civiltà fiorenti ed espansive. Proprio come una pianta, l’indogermano ha bisogno del sole per attuare la sua fotosintesi culturale:

I germani dovevano spingersi verso un clima piú caldo per poter sviluppare le proprie capacità. Solo in Grecia e in Italia lo spirito germanico poteva trovare un ambiente favorevole!104.

Un clima sfavorevole ha ritardato lo sviluppo del genio germanico al Nord:

Sono dovuti passare molti secoli prima che una esistenza degna di esseri umani fosse possibile anche nel clima del Nord105.

Le considerazioni atmosferiche di Hitler mirano a rendere ragione di un ritardo culturale stridente per i tedeschi contemporanei. Altri, come Paul Schultze-Naumburg, hanno provato a proporre spiegazioni meno fumose dello scarto esistente tra i popoli dell’Antichità e i loro cugini germani. Per lo storico dell’arte, la questione non è: perché esisteva un tale fossato culturale tra popoli razzialmente imparentati?, ma: perché abbiamo cosí poche testimonianze dell’eccellenza culturale germanica, vale a dire perché si sono conservate meno opere d’arte dei germani che non dei greci? A suo parere, «la ragione è […] puramente materiale»106: i greci lavoravano il marmo, i germani il legno, deperibile, o il ferro, soggetto alla ruggine107.

Il gusto dell’antico contro la germanomania: Hitler di fronte alle SS.

Ci si potrebbe stupire della severità di Hitler nei confronti della Germania e della sua storia: da una parte prova fascinazione per l’Antichità, romana in particolare, e dall’altra solo disprezzo, tranne alcune concessioni, per la preistoria germanica, cosí povera di realizzazioni culturali, cosí sterile sul piano artistico. Dunque, in modo sorprendente, il Führer è infastidito dall’ossessione germanomaniaca di Himmler e delle SS: la storia propriamente germanica diventa interessante, ai suoi occhi, solo a partire dalla costruzione delle cattedrali, del Sacro Romano Impero, e in seguito dello Stato prussiano. La preistoria germanica, che Himmler ama in modo cosí fervido, per lui non ha alcun valore. Peggio ancora, il suo studio si rivela umiliante per la fierezza tedesca.

Himmler scaglia reggimenti di archeologi delle SS all’assalto delle foreste della Germania. La loro missione è scavare per portare alla luce tutte le testimonianze della civiltà germanica e contribuire alla diffusione della giovanissima scienza preistorica, che il suo fondatore, Gustaf Kossinna, definiva «scienza eminentemente nazionale»108. Le SS si dotano di una rivista di qualità, «Germanien», in cui gli scavi preistorici sono oggetto di fieri e regolari resoconti109.

Queste ricerche sono viste molto di cattivo occhio da quell’amante dell’Antichità che è Hitler. I risultati presentati da quegli scavi amareggiano il Führer, che vi vede un’umiliazione piú che un’esaltazione della germanità. La germanomania di Himmler e delle SS suscita sarcasmi poco benevoli da parte sua:

Si trova un cranio, ed ecco che tutti vanno in estasi: trovata la somiglianza con i nostri antenati. E se l’uomo di Neanderthal fosse semplicemente una scimmia? […] Quando ci chiedono chi sono i nostri antenati, dobbiamo sempre rispondere: i greci110,

e non brandire trionfalmente le ossa di qualche pitecantropo sassone.

Esumare dei crani in Germania per conoscere la conformazione degli antenati della razza è inutile e dannoso, visto che a darcene testimonianza è già la pietra della statuaria greca: «I greci erano al contempo germani»111, ricorda tranquillamente Hitler, che assimila direttamente grecità e germanità senza passare in questo caso attraverso la mediazione del concetto di nordicità, rivelando cosí il suo sorprendente, ma costante, dilettantismo in materia di questioni razziali112, oltre che il suo gusto spiccato per l’amalgama e per la scorciatoia.

Tutto quello che gli archeologi di Himmler riescono a portare alla luce lascia perfettamente indifferente il Führer, che si dedica, da provetto studioso, a un esercizio di critica storica:

Tutti i ritrovamenti archeologici segnalati da una parte o dall’altra della Germania mi lasciano scettico: questi presunti segni di civiltà, questi cimeli attribuiti ad artigiani germanici, in realtà sono dovuti ad altri popoli. I germani ricevettero questi oggetti dando in cambio l’ambra del Mare del Nord113.

Peggio ancora, i risultati di queste ricerche sono, ai suoi occhi, assolutamente deludenti, e testimoniano piú un’irrimediabile arretratezza che non una qualche cultura degna di questo nome:

I germani […] non erano piú evoluti di quanto siano, oggi, i maori, popolo di negri neozelandesi114,

apprezzamento tutto sommato gentile da parte sua.

In ogni caso, e facendo la tara, in quel che precede, rispetto all’esagerazione polemica e al fastidio suscitato dalla germanomania delle SS, i germani, secondo lui, non reggono il paragone con l’Antichità greca e romana a cui va tutto il suo favore:

Durante il pranzo, il capo osservò che ci si stupiva sempre degli scavi realizzati sotto i luoghi abitati dai nostri antenati. Il suo compiacimento era molto modesto115.

Segue la trascrizione, sotto forma di parlato indiretto libero, dei discorsi del Führer:

Al tempo in cui i nostri antenati fabbricavano trogoli di pietra e brocche d’argilla, tutti quegli oggetti di cui i nostri studiosi della preistoria si compiacciono, i greci costruivano l’Acropoli116.

Per Hitler, non c’è dunque alcun dubbio che proprio la Grecia e Roma, fondate da popoli nordici, siano state creatrici di cultura in Europa:

Gli effettivi creatori di cultura, non solo negli ultimi secoli prima della nostra era, ma anche nel primo millennio antecedente la nascita di Cristo, sono stati i popoli mediterranei. Questo ci sembra a volte inverosimile, perché giudichiamo i popoli del Mediterraneo secondo lo stato in cui li troviamo oggi. È un errore di prospettiva117.

Il paragone tra i greci e i germani, il parallelismo già evocato tra le brocche d’argilla e il marmo dell’Acropoli, è sconvolgente:

In un tempo in cui gli altri popoli costruivano già strade di pietra, il nostro paese non presentava nessun segno di civiltà. Quelli che rimasero fermi nell’Holstein, dopo duemila anni erano ancora a uno stato spregevole, mentre i loro fratelli emigrati in Grecia salirono verso la civiltà118.

Questa civiltà riuscirà ad alimentare, di rimando, una germanità rimasta prigioniera delle brume del Nord. Grazie al contatto con Roma, lo spirito germanico si nutrirà del genio sbocciato al sole del Sud. L’umanità nordica è dunque valorizzata da Hitler solo nelle sue varianti greca e romana, e la germanità primitiva trova grazia ai suoi occhi solo nella misura in cui è riuscita a imparare da Roma. La figura germanica ed eroica di Arminio, per esempio, non è esaltata tanto come incarnazione di una pura germanità, quanto come quella di un discepolo particolarmente dotato di Roma e della civiltà latina. Il capo germano, vincitore, nel 9 avanti Cristo, sul generale Varo al Teutoburger Wald, non è celebrato da Hitler come un massacratore di legioni, ma come un germano che ha saputo essere l’emulo e l’allievo di Roma, apprenderne l’intelligenza tattica e culturale, e operare cosí una sintesi latino-germanica:

Se i romani non avessero ingaggiato i germani nel loro esercito, il contadino germano non sarebbe mai diventato il soldato addestrato che in seguito li avrebbe annientati. Lo vediamo molto chiaramente nell’esempio di Arminio, comandante della Terza legione romana, che da giovane ha acquisito dagli stessi romani le competenze e l’esperienza militare che gli permetteranno di batterli. Anche i suoi compagni di lotta sono stati germani che, in vari momenti, hanno prestato servizio nelle legioni romane119.

Non è dunque in quanto tale che Arminio-Hermann è una figura rilevante per la storia tedesca. Hitler non lo presenta come il germano feroce insorto per l’eternità, a Detmold, contro l’invasore romano, incarnazione di una germanità libera e coraggiosa che fa fronte a ogni intrusione. Arminio è piuttosto, cosí come i suoi compagni d’arme, un tramite culturale, un intermediario tra Roma e la Germania, mediazione paragonabile a quella che i romani rappresentarono per la Francia.

Non è dunque sorprendente che la celebrazione a tutto tondo della germanità da parte di Himmler e delle SS infastidisca Hitler. È con humour feroce che Hitler si fa beffe della germanomania delle SS, che disapprova e ridicolizza tanto in privato quanto in pubblico, fustigando il loro gusto di un folklore passatista e retrogrado che esalta dei primitivi oligofrenici. In uno dei suoi discorsi, li demolisce con ironia crudele e confessa di non provare alcun desiderio di tornare a rivestire «una pelle d’orso per riprendere la strada delle migrazioni germaniche»120:

Siamo dei nazionalsocialisti e non abbiamo nulla in comune con l’idea völkisch […] né con il kitsch völkisch piccolo borghese, o con le barbe folte e i capelli lunghi. Tutti noi ci siamo tagliati i capelli cortissimi121.

L’esuberanza irsuta è barbarie, la nuca ben rasata dei romani e delle SS è civiltà.

Hitler si fa dunque eco, in privato come in pubblico, dei pregiudizi piú umilianti sui germani delle origini, pregiudizi che la giovane scienza preistorica germanica cerca di combattere, aiutata in questo dalla stampa delle SS: i cliché sull’aspetto degli indumenti e della chioma dei germani, ripresi da Hitler, sono per altro oggetto di un articolo specifico della stampa SS, che si erge contro

una rappresentazione tendenziosa dei nostri antenati rivestiti di pelli animali, con elmi con le corna e lunghe barbe fluenti. La scienza tedesca contraddice tutto questo da molto tempo122.

Sono innumerevoli gli articoli che «Das Schwarze Korps» dedica a demolire tutti i cliché che gravano sulla presunta arretratezza germanica123. Alcuni articoli trovano abilmente una scappatoia attraverso la critica dei testi antichi che hanno veicolato i cliché del barbaro rivestito di pelli animali e di elmo con le corna, come la serie di quattro articoli intitolati Propaganda astiosa nell’Antichità e pubblicata nel 1935: si citano e si mobilitano fonti antiche per inficiare lo stereotipo spregiativo e riabilitare i germani vittime di una campagna denigratoria pressoché sistematica da parte degli autori greci e romani. Pertanto, se Strabone accenna a sacrifici umani tra i germani, né Cesare né Plutarco ne parlano. Procedendo con la discussione filologica, l’articolo contesta una traduzione consolidata della Germania di Tacito. Nel capitolo XXXIX, l’autore romano avrebbe parlato di sacrifici umani. Tradurre caedere con sacrificare «dipende per lo meno da una leggerezza priva di coerenza»: questo verbo può significare «battere, sferzare, gettare». Se Tacito avesse voluto parlare di sacrificio umano, avrebbe fatto ricorso a uno degli innumerevoli verbi di cui il latino dispone, come necare, interficere, occidere, interimere124.

Un altro articolo dello stesso settimanale SS ritiene utile relativizzare la prospettiva romana sui germani, precisando che

i romani, che sono all’origine del discorso cristiano sulla barbarie germanica, sono stati sempre in contatto solamente con le avanguardie migranti e combattenti. Non c’è allora da stupirsi che i germani siano loro apparsi come combattenti valorosi, ma come costruttori molto scadenti. È stato necessario aspettare la scienza storica contemporanea, che è andata a esumare le tracce dei nostri padri là dove gli agricoltori sedentari hanno creato una cultura elevata, per spazzar via tutti i pregiudizi e vedere infine i germani per quello che sono stati: coloro che hanno portato luce nell’Occidente!125.

«Perché voler sempre ricordare al mondo intero che non abbiamo un passato?»: un complesso d’inferiorità culturale rispetto alla Roma di Mussolini.

Essendo fuor di dubbio la schiacciante superiorità culturale della civiltà greco-latina, Hitler scredita le mire reazionarie delle SS che, attorno al loro capo, aspirano a resuscitare tradizioni, costumi e culti germanici. Non solo questi culti e queste tradizioni erano culturalmente equivalenti agli amuleti dei maori, ma inoltre questa mitologia è scomparsa naturalmente perché doveva morire:

Mi sembrerebbe del tutto ridicolo far celebrare nuovamente il culto di Wotan. La nostra vecchia mitologia era superata, non sopravviveva nemmeno piú quando è arrivato il cristianesimo. Ciò che è maturo per la morte sparisce sempre! […] Non ci si può augurare di instupidire l’intera umanità126.

Hitler lancia strali contro gli ideologi che stravedono solo per la resurrezione dell’antica germanità, come in questo discorso, citato da Hermann Rauschning:

No, quei professori e quegli ignorantelli che architettano i miti nordici non valgono nulla per noi; anzi, mi disturbano nella mia azione. Voi mi domanderete perché li tollero? Perché contribuiscono alla decomposizione, perché provocano del disordine e ogni disordine è creatore. Per quanto vana sia la loro agitazione, lasciamoli fare, perché ci aiutano a loro modo127.

Accade lo stesso con l’ossessione germanica delle SS e di tutti gli appassionati per l’elmo con le corna. In una conversazione privata riferita da Albert Speer nelle sue Memorie, Hitler se la prende in particolare e direttamente con Himmler, la cui germanomania non è lontana da eccessi. Secondo Hitler, le ricerche archeologiche e gli studi affrontati dalle SS provano solo una cosa, cioè che i tedeschi non possono avere un passato degno di questo nome se fanno riferimento alla sola germanità. La rivendicazione e l’annessione dell’eredità greco-romana è indispensabile per iscrivere la Germania in una lunga e prestigiosa genealogia:

Cos’è questo voler dimostrare a tutto il mondo che non abbiamo un passato? Non basta che si sappia che i romani costruivano dei grandi edifici quando i nostri antenati si accontentavano di capanne di fango: Himmler vuol farle proprio vedere, queste capanne di fango, e cade in ammirazione davanti a ogni coccio d’argilla e a ogni ascia di pietra che gli capita tra i piedi. In tal modo, non facciamo che proclamare a tutto il mondo che, quando la Grecia e Roma avevano ormai raggiunto un livello culturale altissimo, noi eravamo bravi soltanto a lanciare asce di pietra o a starcene accovacciati intorno a fuochi all’aperto. Avremmo tutti i migliori motivi di lasciar dormire nel silenzio questo nostro passato. Ecco invece che Himmler lo strombazza ai quattro venti! I romani di oggi devono farsi delle belle risate di scherno davanti a simili ritrovamenti!128.

La messa in luce di un tale passato di barbarie e di arretratezza porta piú a umiliare la Germania che non a esaltarla. Gli obiettivi e le ricerche delle SS sono dunque perfettamente e stupidamente controproducenti. Ogni coccio d’argilla scoperto è uno schiaffo in piú affibbiato alla Germania dall’alto del Partenone o del Colosseo.

Ammiratore incondizionato dell’Antichità romana, Hitler era particolarmente sensibile a ogni comparazione con l’Italia, tanto piú che provava un certo complesso d’inferiorità nei confronti di Mussolini, suo maestro di fascismo, che aveva avuto successo nella marcia su Roma del 1922, mentre Hitler aveva fallito il putsch del 1923 e aveva dovuto aspettare altri dieci anni prima di accedere al potere. Il ritratto del Duce ornava l’ufficio del Führer a Monaco: la prima visita dell’allievo nazista al maestro fascista a Venezia nel giugno 1934, nel contesto delle tensioni attorno all’Austria e al Brennero, era stata una catastrofe per l’immagine di Hitler.

Mussolini, prima di mettersi a rimorchio del Terzo Reich a partire dal 1936, si compiaceva di atteggiarsi a mentore e ricordava spesso il debito del nazismo e della Germania nei confronti del fascismo e di Roma. Come emerge da questo discorso pronunciato a Bari il 6 settembre 1934, dove fustiga il razzismo nazista e la razza dei signori con un tono sferzante e spietato:

Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con un sovrano disprezzo talune dottrine d’oltralpe di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, in un tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto129.

Lo stesso disprezzo colpisce le realizzazioni architettoniche del Terzo Reich, a cui Mussolini guarda con sdegno130, uno sdegno che Hitler, piú tardi, contraccambierà pienamente, quando definirà l’Eur romano una «vuota copia senza vita» della sua propria architettura monumentale131.

Un discorso sulle origini della razza nordica non può dunque accontentarsi del solo riferimento alla germanità, a rischio di venir meno alla sua vocazione di esaltazione dell’identità germanica o tedesca. La visione nazista della storia può certamente fare appello a un Medioevo prestigioso e a una modernità resa gloriosa da Federico II, ma l’Antichità germanica pecca per mancanza di cultura e di espansione. È dunque vitale esaltare l’identità nordica aggregandole il prestigio delle culture antiche, greca e romana.

In Hitler notiamo tutta la pregnanza, rispetto all’Italia del Duce, di quel «complesso d’inferiorità storica»132 che è proprio dei tedeschi, che provano vergogna per il loro remoto passato quando lo confrontano con l’Antichità greco-romana. Il suo complesso è palese: è ripreso e rimuginato, sempre richiamato cosí che sia presente alla mente a titolo di richiamo, ma anche di sfida. Hitler lo formula non per masochismo razzista, ma perché susciti un’emulazione: il Führer vuole superare questo complesso nello spazio, attraverso un’architettura neoclassica dal gigantismo imperiale e l’edificazione di un impero in grado di rivaleggiare con il precedente romano, e nel tempo, dotando la razza indogermanica di un’ascendenza prestigiosa, quei conquistatori venuti dal Nord e creatori di ogni cultura, capaci di fondare e di affermare l’orgoglio della discendenza.

In un fascicolo di formazione ideologica delle SS, vediamo come l’annessione dell’Antichità greca e romana alla storia della razza indogermanica corrisponda a una volontà di riabilitare quest’ultima attribuendole tutte le virtú dei costruttori di colossei. Il testo ricorda che i germani sono stati ingiustamente presentati come degli imbecilli, mentre

oggi sappiamo che tutti i progressi culturali decisivi sono usciti dal nostro spazio nordico originario. Inoltre, gli antenati dei greci e dei romani, che un tempo hanno costruito potenti imperi e grandi culture nel bacino mediterraneo, sono venuti dalla nostra patria nordica. Alla frase «Dal Sud viene la luce», noi opponiamo quella: il Nord è la culla dell’umanità ariana, che ha plasmato il volto di questo pianeta133.

L’anticofobia superata: la creazione del dipartimento di Antichità classica all’interno dell’Ahnenerbe delle SS.

L’Antichità classica assume, per i celebratori della germanità eterna, uno statuto problematico. Il suo prestigio minaccia di eclissare la stessa Antichità germanica. Inoltre, i suoi legami con l’umanesimo e la Bildung emersa dai Lumi ne fanno un’eredità ideologicamente sospetta: l’Antichità può essere fraintesa come matrice di un umanesimo universalista disprezzato dai nazisti134. Rosenberg, che è piú germanomane che non antichizzante, ma che si piega al gusto del Führer per l’antico, lo sottolinea in uno dei suoi discorsi, in cui fustiga l’educazione astratta del XVIII e del XIX secolo, che pretendeva di trasformare l’uomo a scapito di tutti i determinismi biologici e che postulava l’universalità dell’umanità. Questa educazione umanista e aufklärisch, tendenzialmente antichizzante, si fondava sul sogno fumoso di un umanesimo astratto, universale, che consacrava la nozione di un’umanità unica e monogenica135.

Per i germanomani, che si reclutano in particolare fra i ranghi delle SS, l’Antichità greco-latina muove una concorrenza sleale all’Antichità germanica. Himmler rimprovera all’Antichità classica l’essere stata favorita ed esaltata per secoli a scapito dell’eredità degli antichi germani.

In un primo tempo si vieta di vedere manifestazioni di razza nordica al di là delle frontiere del Reich. Himmler è il grande sacerdote di una mistica del suolo e del sangue, della terra e dei morti: è germanico ciò che nasce e cresce sulla terra di Germania, fecondata dal sangue degli antenati. Il Blut germanico e il Boden nordico sono legati in una unità organica. Himmler incoraggia le ricerche filologiche sulla scrittura runica, e crea dal nulla celebrazioni mistiche ispirate a costumi germanici, abbandonandosi a ogni sorta di considerazioni esaltate sul sangue e la razza136.

Quanto dunque la concezione hitleriana della storia è integratrice, altrettanto quella di Himmler è ermeticamente chiusa, arroccata sulla sola eredità germanica. Mentre Hitler annette l’Antichità greco-latina al patrimonio culturale e razziale della germanità, Himmler è invece trincerato nel ristretto perimetro della terra e dei morti germanici. Fanatico sostenitore di un mito ariano esclusivamente nordico, Himmler si persuade che la culla della razza si trovi nell’Ultima Thule evocata dal geografo greco Pitea di Massalia137, una sorta di Atlantide del Nord, oggi scomparsa138. Himmler svaluta dunque tutto ciò che viene dal Sud come razzialmente impuro e ideologicamente sospetto. Ai suoi occhi, il Mediterraneo è un magma razziale139. Inoltre è la culla del cristianesimo giudaico, che egli detesta. Le SS, che sembrano preoccupate di ricreare un culto e una mistica germanici, vogliono sradicare il cristianesimo palestinese e romano: «Quel che è cristiano non è germanico, e quel che è germanico non è cristiano»140. L’Ordine nero deve dunque prepararsi a uno scontro finale col cristianesimo, che si deve abbattere:

Viviamo in un’epoca di scontro finale con il cristianesimo. Una delle missioni delle SS è quella di dare al popolo tedesco, nei prossimi cinquant’anni, basi ideologiche proprie e anticristiane per guidare la propria vita141.

Il settimanale SS «Das Schwarze Korps» raccoglie una grande quantità di articoli che espongono Roma, nella pluralità delle sue connotazioni storica, imperiale, pontificia, alla gogna della storia. Per studiare e promuovere l’eredità della razza germanica, il 1º giugno 1935 Himmler fonda la Deutsches Ahnenerbe e. V. (eredità degli antenati). Il suo auspicio era quello di sviluppare le ricerche storiche e filologiche dedicate alla germanità, scagliate in una guerra corsara che permettesse loro di raggiungere le acquisizioni scientifiche e di soppiantare le posizioni istituzionali delle scienze del mondo antico. L’Ahnenerbe fu infatti concepita inizialmente come una macchina da guerra degli archeologi e degli studiosi della preistoria germanisti contro i loro colleghi romanisti, classicisti e antichisti, cosí come la Sonderstab Vor- und Frühgeschichte di Rosenberg, creata nell’agosto 1940 e diretta dallo specialista della preistoria Hans Reinerth.

La missione dell’Ahnenerbe è, espressamente, costituire una scienza della germanità (Germanenkunde) che conferisca a quest’ultima il prestigio e la patina di un’Antichità se possibile ancor piú remota di quella di Roma. Si tratta, per gli eruditi delle SS, di esaltare e di convalidare scientificamente quella proclamazione del Reichsführer che era stata pronunciata in occasione della Julfest del 1935, festa del solstizio d’inverno solennemente celebrata dalle SS142:

La Germania è piú eterna e piú antica, sí, piú eterna e piú antica della stessa Roma143.

Poiché i progetti di Himmler si scontrano con l’ironia, persino con la riprovazione pubblica, del Führer, il capo delle SS deve fare delle concessioni all’anticomania di Hitler. Nell’autunno 1937, Himmler compie un viaggio ufficiale in Italia, dove le osservazioni che fa direttamente lo allineano alla tesi del Führer. Conquistato dalla lettura di rune sul lapis niger del Foro romano, che fa fotografare e di cui fa prendere il calco, interessato dal ricorrere della svastica come motivo decorativo nel mosaico romano, Himmler decide di assecondare i pallini di Hitler creando all’interno dell’Ahnenerbe un nuovo dipartimento, con la missione di studiare l’Antichità greco-latina e di integrarla al patrimonio storico e identitario della germanità144. Lo storico del mito germanico Klaus von See sottolinea come l’alleanza politica e militare tra la Germania e l’Italia abbia facilitato l’acculturazione antica delle SS permettendo di superare la tradizionale antitesi che opponeva i germani di Hermann ai romani di Varo. Se l’immagine del germano è stata strutturata in base all’opposizione al romano dopo la riscoperta di Tacito nel XV secolo, essa si è in seguito ricostituita, a partire dal XIX secolo145, sulla base di un’opposizione al semita146: all’antitesi germano/romano si è sostituita l’opposizione indogermano (ariano) / semita. Questa mutazione di paradigma, concretizzata infine da una solidarietà d’armi tra Berlino e Roma, ha inoltre suscitato i viaggi ufficiali nel corso dei quali i gerarchi nazisti hanno scoperto il prestigioso patrimonio antico italiano, e consentito i lavori di missioni archeologiche tedesche in Italia.

Fino ad allora, l’Antichità greco-romana aveva rivestito per l’Ahnenerbe delle SS solo un interesse mediato o tangenziale. Il progetto di ricerca generale dell’istituto, datato aprile 1937 e intitolato «Piano di esplorazione dell’eredità germanica»147 si limitava a richiedere ai classicisti di recensire e commentare testi antichi che facessero menzione dei germani. Nel giro di pochi mesi, l’interesse del Reichsführer si è risvegliato e l’Ahnenerbe deve dotarsi di una competenza antichista degna di questo nome, per esplorare meglio lo spirito e le opere della razza indogermanica. In una lettera di tre pagine datata 10 dicembre 1937 e indirizzata a Walther Wüst, direttore dell’Ahnenerbe, Himmler riferisce la sua emozione alla visita delle antichità romane148, di cui sottrae ai loro depositari italiani, se non la proprietà, almeno il godimento intellettuale:

I musei in Italia custodiscono beni innumerevoli, che c’interessano dal punto di vista dell’arianità. Gli italiani, invece, non hanno alcun interesse per queste cose149.

La scarsa considerazione per gli italiani, come per tutto ciò che appartiene, piú o meno strettamente, al Mediterraneo, è una costante in Himmler, che lascerà esplodere con violenza il suo dispetto e il suo disprezzo in seguito alla svolta del luglio 1943, attribuendo il rovesciamento dell’alleanza italiana a una mancanza di coraggio, dovuta, in ultima istanza, a un «problema di sangue e di razza», mentre solo Mussolini, liberato da un commando SS, «reca e incarna la grande tradizione romana»150.

Questo nuovo interesse scientifico e ideologico giustifica la creazione di una sezione di ricerca a pieno titolo all’interno dell’Ahnenerbe delle SS:

Vedo qui la possibilità di approfondire la questione. Vi incarico di creare all’interno dell’Ahnenerbe un dipartimento che avrà il compito di studiare l’Italia e la Grecia sotto i loro aspetti indogermanici e ariani […]. Si tratta di un compito molto importante: esso presuppone il trattamento e lo studio di tutte le scoperte archeologiche passate e a venire151.

Precisa poi le missioni del futuro dipartimento. Questa nuova sezione fornirà

la prova esatta che i romani, cosí come, naturalmente, i sanniti, gli umbri, i volsci, i latini, eccetera, ma anche senza dubbio una parte dei popoli preromani, come gli etruschi e i siculi, provengono dal Nord, che sono emersi da una migrazione di popoli ariani e indogermanici arrivati dalle nostre contrade del Mare del Nord. Bisognerebbe provarlo anche per quel che riguarda i greci, in tutte le loro componenti152.

Questo mandato prevede dunque un lavoro sistematico mirante a raccogliere tutte le prove che consentano di integrare la cultura greca e romana nell’orbita della razza indogermanica. A tal fine, è necessario organizzare ricerche archeologiche e filologiche ad hoc, che esalteranno il genio indogermanico:

Lo scopo dell’operazione è fornire appunto la prova che l’umanità nordica e ariana, uscita dalla matrice della Germania e del Mare del Nord, è stata presente quasi in tutto il mondo e che, per lo meno oggi, l’umanità ariana e germanica vi ha stabilito un imperio spirituale universale153.

Si tratta dunque, come precisa Himmler in un’altra lettera indirizzata al ministro dell’Educazione Bernhard Rust, di «mettere in evidenza il contributo indogermanico nella civilizzazione dei romani e dei greci»154. Apposite ricerche archeologiche, condotte dall’Ahnenerbe delle SS, dovranno finalmente consentire di dotare la cultura indogermanica di quel patrimonio materiale che le è stato sottratto dal vandalismo zelota dei cristiani. Se le terre germaniche non conservano quasi nessuna testimonianza della grande cultura nordica che ha lasciato tante tracce al Sud, la colpa ricade su un fanatismo iconoclasta: sarà necessario «a partire dagli oggetti provenienti dal passato ariano, che sono stati ben conservati in Italia e in Grecia, relativamente risparmiati dal cristianesimo, mentre da noi sono stati distrutti, poter completare e spiegare [questi stessi oggetti]»155. I patrimoni romano e greco sono altrettante espressioni della cultura ariana. Perché siano rivendicati con legittimità e fierezza dai tedeschi contemporanei, il legame tra germanità, romanità ed ellenità deve essere esplorato e dimostrato con evidenza, rigore ed esaustività dall’Ahnenerbe.

I lavori effettivamente svolti dall’Ahnenerbe si rivelano meno ambiziosi rispetto al programma tracciato da Himmler, e si limitano essenzialmente alla filologia. Walther Wüst nomina un latinista, Rudolf Till, direttore (Leiter) di un Istituto di formazione e di ricerca di filologia classica e di scienze dell’Antichità, ben presto affiancato da un ellenista, Franz Dirlmeier. Notiamo, con lo storico Volker Losemann, la modestia dei mezzi attribuiti all’Istituto di filologia classica dell’Ahnenerbe, la cui opera piú importante si riassume nell’edizione critica del Codex Aesinas, prima fonte, riscoperta nel Rinascimento, della Germania e dell’Agricola di Tacito, e che costituirà il solo e unico volume della serie «Studi di filologia classica e di scienze dell’Antichità» dell’Ahnenerbe.

Le ricerche archeologiche sono affidate a un collaboratore e corrispondente dell’Ahnenerbe, Franz Altheim, i cui lavori rispondono pienamente al compito programmatico del Reichsführer. Altheim stesso, dal 1937 al 1942, con la benedizione del governo italiano e su incarico delle SS, conduce una campagna di scavi nella Val Camonica, valle alpina situata a sud del lago di Garda, nel Nord Italia156. Vi scopre numerose pitture rupestri, alcune delle quali sono ornate da scritture runiche, che egli paragona a quelle scoperte nel Bohuslän e in Östergötland, a sud della Svezia. Da queste ricerche e da queste comparazioni, ricava due opere, Sull’origine delle rune (1939)157, e L’Italia e la migrazione dorica (1940)158, che espongono conclusioni scontate: la popolazione originaria e civilizzatrice dell’Italia proviene da una migrazione indogermanica arrivata dal Nord della Germania o dal Sud della Svezia, risultati che egli riassume in un articolo pubblicato nel 1941 nella rivista «Die Antike», L’eredità indogermanica a Roma159. Gli argomenti che vi propone emergono da una metodologia sorprendente: il ricorrere della figura parietale di un uomo armato di una lancia in Svezia e nel Nord Italia160, cosí come le parentele semantiche che si possono evidenziare tra il latino sibi e l’antico alto-tedesco selb161, sono una prova sufficiente del fatto che in Val Camonica, e dunque in Italia, si è prodotta «un’ondata migratoria indogermanica proveniente dall’Europa del Nordovest»162. Il postulato nordicista resta l’asse attorno a cui ruotano ogni ricerca archeologica e ogni discorso sull’origine, mentre tali scoperte potrebbero benissimo alimentare la tesi di una parentela indoeuropea a partire da tutt’altra provenienza geografica, come il nucleo dell’Asia centrale di cui parla Dumézil o la regione del Mar Nero che sembra riscuotere oggi consenso tra gli indoeuropeisti163.

Nella rivista «Germanien», Franz Altheim pubblica uno studio erudito sulla runa dell’alce, presente in Svezia e in Italia del Nord, per sostenere la stessa tesi nordicista: «Le rappresentazioni del Sud della Svezia e del Nord Italia sono cosí simili che ogni casualità è esclusa. Esse hanno intrapreso la stessa via del Sud di tutti gli altri elementi dell’arte parietale (Felsbildkunst164.

Questi studi astrusi sono resi accessibili a un pubblico di classicisti informati dalla rivista «Neue Jahrbücher», che dedica un articolo in due parti a L’indogermanizzazione dell’Italia165, riprendendo le conclusioni dei primi lavori di Franz Altheim. Oltre a queste pubblicazioni, la rivista «Germanien» che, come abbiamo visto166, dedica molti studi a provare la comune appartenenza indogermanica delle grandi civiltà del mondo antico, in particolare in Oriente e in Asia, pubblica un articolo sull’indogermanità dei greci, La porta dei leoni di Micene, un simbolo culturale nordico167.

Altri scavi di archeologia classica nell’ambito delle SS si svolgono a Olimpia poiché, per arricchire il dossier di Berlino rispetto a un Cio che avrebbe potuto essere tentato, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale, di revocarle i giochi, Hitler si era affrettato a impegnarsi a riprendere la campagna degli scavi tedeschi sul sito di Olimpia168.

Oltre al dipartimento di Antichità classiche, un’altra sezione dell’Ahnenerbe esplora testi e dati archeologici nello stesso spirito e con le stesse finalità: si tratta dell’Unità di ricerca delle scienze filologiche e culturali indogermaniche-ariane. La sua pubblicazione piú importante è uno studio sull’affinità tra le credenze delle popolazioni italiche e di quelle germaniche. Lo storico Werner Müller, che dedica uno studio erudito alla simbologia del cerchio e della croce169 tra questi due popoli, nota l’onnipresenza di tali simboli che, fusi e mescolati tra loro, portano al disegno della croce uncinata, croce e cerchio al contempo, rappresentazione non solo degli assi del mondo e delle quattro direzioni cardinali, ma anche del cerchio solare e del ciclo cosmico universale. La croce, il cerchio e la loro composizione uncinata sono cosí l’espressione di un cosmo strutturato e di un culto solare, caratteri fondamentali dell’immaginario indogermanico ed espressione di una comunità spirituale e razziale che lega le popolazioni italiche, venute dal Nord, e i loro cugini germani, rimasti nella culla originaria del Settentrione.

L’Ahnenerbe non è il solo organo delle SS coinvolto in questo interesse per l’Antichità. Himmler è cosí convinto dell’eccellenza razziale dei greci da dare libero corso alle sue inclinazioni di apprendista stregone antropologico e razziale richiedendo al progetto Lebensborn, nel 1942, di accettare di selezionare bambini tedeschi che presentino un naso greco a fini di sperimentazione170. Si tratta infatti di osservare questi bambini nel corso della loro crescita e successivamente di radunarli in un battaglione speciale delle Waffen-SS allo scopo «di valutare attraverso ulteriori inchieste le loro prestazioni, le loro capacità e la loro resistenza»171. Himmler, novello Filippo o novello Epaminonda, auspica dunque di ricostituire una forma di falange macedone e di Battaglione d’oro tebano a fini di sperimentazione razziale in vivo: il naso greco, il corpo greco sono dunque garanzie di eccellenza fisica e di valore militare? Questioni in cui si mescolano allegramente filellenismo razziale, occultismo e ambizione zootecnica.

La Germania alla scuola della nuova storia: opuscoli SS e manuali scolastici.

La tesi dell’indogermanità nordica dei greci e dei romani e la sua diffusione non sono circoscritte a queste pubblicazioni scientifiche di diffusione limitata, addirittura confidenziale. Esiste una panoplia di altri vettori che si rivolge a un insieme di lettori piú vasto.

Gli opuscoli di formazione ideologica delle SS, ad esempio, lo insegnano con grande costanza. La tesi dell’origine nordica delle civiltà greca e romana è sostenuta e illustrata efficacemente sul piano pedagogico dalla successione di schemi che delineano l’evoluzione dalla casa germanica al tempio greco. Il commento precisa:

Il tempio greco si è sviluppato, attraverso ingrandimenti e perfezionamenti, a partire dalla casa germanica con vestibolo d’ingresso […]. Vediamo qui una fiera testimonianza dell’architettura classica. Il tempio greco è dunque una prova supplementare che le grandi civiltà non vengono dall’oriente, ma dal nord172.

Un’altra pubblicazione SS173 presenta fra le sue illustrazioni il ritratto a tre quarti di una giovane recluta, paragonata al profilo di un «uomo di Stato romano». La posa del giovane SS ostenta una virilità ispirata di fronte alla maschia gravitas del romano:

Questo SS, figlio di un contadino tedesco, è portatore dello stesso sangue nordico degli uomini che abbiamo visto174. Accanto a lui mostriamo un uomo di Stato romano, che ci ricorda che anche l’Impero romano, come l’impero dei persiani, la civiltà greca […] sono stati edificati dalla forza creatrice dello stesso sangue nordico175.

Anche la letteratura affidata agli opuscoli del partito parla di gloriosi antenati che la Germania contemporanea può rivendicare nell’Antichità. Un quaderno intitolato Materiali per la formazione ideologica, edito da parte dell’addetto alla missione ideologica della Nsdap, presenta un profilo di donna greca e la riproduzione frontale di un busto di Augusto per mostrare attraverso l’immagine, come indica la legenda dei documenti, «La razza nordica tra i greci e i romani»176. L’insegnamento scolastico non è da meno. Abbiamo visto come le direttive del 1933 e del 1935, e successivamente i programmi del 1938, imponessero un aggiornamento del racconto delle origini della civiltà europea. È del tutto coerente, pertanto, che i greci e i romani si trovino a essere arianizzati dai manuali scolastici.

Un’opera di didattica storica, redatta da Dietrich Klagges e intitolata L’insegnamento della storia come educazione nazionale-politica (1937)177, si propone come un manuale destinato a guidare gli insegnanti nei principî della nuova concezione della storia promossa dal partito-Stato e dalle indicazioni pedagogiche del ministero. Dopo alcuni capitoli epistemologici generali, l’opera presenta un riassunto della storia della razza indogermanica in nove capitoli, dalle origini alla parusia nazista, passando attraverso le vicissitudini medievali e moderne. I primi due capitoli, intitolati Sulle tracce dei nostri padri178 e Gli uomini del Nord dominano al Sud179, intendono essere un vademecum per l’insegnante esortato a promuovere una nuova visione delle gesta razziali indogermaniche, che riconcilia preistoria germanica e Antichità classica.

Le direttive di Frick e di Rust sulla riforma dell’insegnamento della storia non suscitano immediatamente la pubblicazione di nuovi manuali. Poiché le case editrici si mostrano soprattutto preoccupate di esaurire i loro stock, gli insegnanti e gli alunni continuano a utilizzare manuali risalenti alla Repubblica di Weimar180, corretti da fascicoli complementari, editi in un primo tempo come supplemento dei manuali esistenti. Come ad esempio l’opuscolo di Karl Schmelze, professore di storia in una Realschule di Monaco, intitolato La storia razziale e la preistoria al servizio dell’educazione nazionale181, pubblicato come «quaderno complementare»182 di una quarantina di pagine per coprire tutto il periodo preistorico e antico. Dopo una presentazione dei primi tempi della razza nordica, Schmelze dedica alla «Diffusione della razza nordica (Indogermanisation183 alcune pagine, nelle quali fa riferimento alle prime migrazioni indogermaniche, attribuite al «sovrappopolamento»184 delle terre originarie del Nord185. Con impostazione molto didattica, Schmelze distingue «quattro rotte migratorie», verso l’Iran e l’India, verso la Grecia, verso l’Italia e verso l’Ovest (Francia, Gran Bretagna, Spagna)186, secondo un ricalco testuale delle carte di cui abbiamo parlato sopra. Grazie alla «forza creatrice della razza nordica»187, tali migrazioni hanno generato le grandi civiltà dell’Antichità, in Grecia e a Roma «che deve la sua grandezza alla razza nordica»188:

Senza gli invasori nordici e senza questi flussi di sangue nordico che hanno periodicamente rigenerato l’Italia, non ci sarebbe mai stata la civiltà romana189.

I manuali si sforzano di provare fino a che punto i greci e i romani siano indogermani: le loro creazioni culturali, ma anche il loro aspetto fisico e i loro valori morali rivelano un’affinità tale da farli convergere verso un originario nucleo nordico comune.

Schmelze elenca cosí tutti i «tratti appartenenti ai popoli migratori di lingua indogermanica». Il primato del gruppo rispetto all’individuo, il senso dell’onore, il culto dell’eroe e del coraggio portano tutti a successi memorabili celebrati da «i canti eroici indiani, persiani e greci»: «Magnanimità, nobiltà d’animo, amore per la verità e fierezza li distinguono»190 in mezzo ai popoli, cosí come un’attenzione gelosa rivolta alla «purezza della razza» con l’interdizione di ogni esogamia e l’eliminazione dei bambini impuri o deformi. L’etica olistica ed eroica dei popoli indogermanici, in particolare greco e romano, rende auspicabile l’insegnamento della cultura classica ai giovani tedeschi: l’ellenista Otto Regenbogen fa dell’aretè greca e della virtus romana degli ideali regolatori dell’educazione politica nella nuova Germania191.

In un secondo tempo, soprattutto a partire dai nuovi programmi del 1938, vengono pubblicati nuovi manuali, come quello di Walther Gehl, destinato a essere usato dalla sesta classe192. Questo manuale dedica un capitolo preliminare di 30 pagine alle origini della razza indogermanica (La preistoria nordica), e in seguito quasi un centinaio alla storia della Grecia e della Roma nordiche. La semplice lettura di alcuni estratti del suo sommario rivela una volontà di radicare nelle giovani menti l’annessione simbolica delle civiltà greca e romana. I titoli dei capitoli sono infatti contrassegnati dalla presenza quasi sistematica dell’aggettivo «nordico», una reiterazione ossessiva che ha l’aspetto di un bombardamento semantico. Il capitolo dedicato a L’area di civiltà elleno-nordica a est del Mediterraneo si suddivide cosí, per la Grecia arcaica, nei seguenti sviluppi:

– La civiltà egea degli achei nordici.

– La protezione della razza nello Stato guerriero e sociale degli spartani dorici.

– L’attitudine nordica dell’uomo greco.

– Il sentimento di unità razziale e religiosa dei greci.

– La conquista spirituale del mondo da parte di un pensiero e di una ricerca liberi.

La «Grecia classica» è a sua volta tutto quel che c’è di piú nordico, come indicano i seguenti capitoli:

– La lotta difensiva contro la razza asiatica e i sui capi nordici durante le guerre persiane.

– L’arte greca sotto Pericle: l’opera della creatività nordica.

– Il popolo attico sotto guida nordica nell’Atene democratica.

Quanto all’Impero romano, definito come «creazione nordica», i capitoli che gli sono dedicati sono una testimonianza dell’applicazione delle direttive ministeriali:

– La vittoria delle tribú nordiche sugli etruschi dell’Asia Minore in Italia.

– Lo Stato nordico dei romani.

– Lotta di razze ed equilibrio razziale.

– L’unificazione dell’Italia grazie alla politica di potenza romana.

Il dogma dell’origine e della natura indogermanica dei greci e dei romani non è appannaggio dei soli manuali di storia. Si afferma anche nei manuali delle lingue antiche, i cui testi e le cui lezioni costituiscono efficaci vettori pedagogici di diffusione grazie alla loro semplicità assertoria. Come accade per il manuale di latino pubblicato nel 1942, le cui prime parole sono un breve e incisivo richiamo alla migrazione originaria dei greci e alla loro parentela con i germani e con i romani:

Non semper in Graecia idem incolae habitaverunt. Antiquissimis temporibus Graeci, qui Germanis et Romanis consanguinei erant, in patriam novam migraverunt193.

Opuscoli di formazione ideologica e manuali dell’insegnamento secondario divulgano dunque la tesi indogermanica, che viene insegnata anche all’università.

Indogermanità e università.

Per quel che si può giudicare sulla sola base dei titoli dei corsi, i programmi di filosofia e di storia delle università tedesche non sono stati eccessivamente condizionati dal cambiamento di regime del 1933. Certo le università sono state profondamente investite e trasformate dalla arianizzazione del personale, fin dalla legge del 7 aprile 1933. L’introduzione dello sport, del Wehrsport, come materia obbligatoria è per altro testimonianza dello spirito del tempo. Resta il fatto che i corsi proposti in storia e in filosofia non colpiscono particolarmente per la loro presa di posizione ideologica, e che la promozione della tesi indogermanica sembra avvenire piú esplicitamente attraverso la mediazione della linguistica. L’insegnamento della storia, anche in questo caso secondo i titoli delle Vorlesungsverzeichnisse, sembra restare abbastanza classico, anche se forse l’effettivo contenuto dei corsi risultava piú soggetto al peso dell’ideologia. Abbiamo trovato dei condizionamenti solamente a Jena e ad Heidelberg. Ad Heidelberg, nel semestre estivo del 1933, viene proposto un corso di storia antica intitolato «Popoli, lingue e razze del mondo antico come fondamento della loro evoluzione contemporanea»194. Questa ora di lezione settimanale è tenuta da Friedrich Bilabel (1888-1948), papirologo ed epigrafista, specialista di filologia e di storia greca. A Jena, dove insegna Hans Günther, gli studenti del seminario di storia possono assistere a corsi magistrali su «Oriente e Occidente»195 oltre a quelli su «Ariani e Semiti»196 nell’Antichità. Viene anche proposto loro un ciclo di lezioni intitolato «Storia dei popoli nordici-indogermanici dell’Antichità»197, che integra all’interno di una stessa unità la storia germanica, la storia greca e la storia romana.

I dipartimenti di filosofia propongono corsi i cui titoli sono in relazione di continuità con l’insegnamento anteriore al 1933. Le Università di Vienna e di Praga programmano tuttavia dei corsi di «Introduzione all’ideologia del nazionalsocialismo»198 o su «La pedagogia nazionalsocialista»199 nell’ambito della propedeutica filosofica, ma, anche in questo caso, si tratta di esempi circoscritti. Leggendo i titoli dei moduli dedicati alla filosofia greca, a Platone o allo stoicismo romano, nulla di esorbitante colpisce la nostra attenzione.

Se la storia e la filosofia restano pudiche, notiamo invece che i seminari di linguistica mescolano allegramente latino, greco e antico alto-tedesco sotto l’appellativo generico di «lingue indogermaniche». L’Università di Würzburg propone ad esempio, nel semestre estivo del 1942, una «Introduzione alla grammatica storica del latino»200 accostata immediatamente a un corso di «Grammatica storica del tedesco». «Esercitazioni sulle iscrizioni runiche germaniche» e un «Sanscrito per debuttanti»201 completano l’offerta della Indogermanische Sprachwissenschaft.

Altre università si spingono oltre e fanno esplicitamente della linguistica un’iniziazione alla razziologia, come a Kiel. Questa università propone dunque, nel semestre estivo del 1935, una «Introduzione alla preistoria dei popoli indogermanici»202 e una «Storia della lingua latina», oltre a un corso sui «Dialetti italici antichi». Vengono inoltre offerte «Esercitazioni di linguistica indogermanica», cosí come un corso su «la patronimica greca, latina e germanica», e in seguito un seminario su «Le relazioni tra razza e lingua»203. L’intrico fra le tre grandi lingue indogermaniche, oltre che fra la linguistica e la razziologia, è totale, confermato dai programmi di molte altre università che consacrano in tal modo, agli occhi del loro pubblico e della comunità scientifica, l’identità comune tra i greci, i romani e i germani.

La pubblicità fatta alla tesi dell’origine nordica dei due grandi popoli dell’Antichità supera tuttavia il mero contesto dell’istituzione scolastica o universitaria. Oltre a questi destinatari ristretti, in termini di classe d’età, o selezionati, in termini sociali, essa si rivolge piú ampiamente al popolo tedesco attraverso le organizzazioni del partito, ma anche tramite altri media, apparentemente piú neutri, e di diffusione molto piú vasta. Questa tesi fa dunque il suo ingresso nelle sale e nelle biblioteche delle famiglie tedesche grazie a dizionari enciclopedici. Come ad esempio il Brockhaus che, nella sua edizione del 1937, ci insegna, alla voce «Griechenland», che «i greci indogermanici di razza nordica sono migrati dal Nord verso il Sud della penisola balcanica verso il 2000 avanti Cristo»204 e che lí hanno «incontrato una popolazione originaria proveniente dall’Asia Minore, di appartenenza razziale occidentale-asiatica»205. Questa pubblicità imbocca anche strade piú spettacolari.

Atene sull’Isar ovvero le Panatenee di Monaco. Le giornate dell’arte tedesca.

La germanità dei greci è messa in scena in modo grandioso durante i Giochi olimpici del 1936, argomento su cui torneremo206, ma anche nel 1933, dall’organizzazione a Monaco delle Giornate dell’arte tedesca (Tage der deutschen Kunst). Queste giornate hanno luogo per la prima volta nell’ottobre 1933, quando viene posta la prima pietra della Casa dell’arte tedesca (Haus der deutschen Kunst), massiccio tempio dorico dedicato al genio della razza, successivamente durante l’inaugurazione del suo museo nel luglio 1937, infine di nuovo nell’ottobre 1938 e nell’ottobre 1939.

La metropoli bavarese, che riceve il titolo onorifico di Capitale del movimento (Hauptstadt der Bewegung) per aver accolto Hitler nel 1913, e in seguito gli inizi del Partito nazista, e per essere stata il teatro del putsch del 1923, riveste un’importanza particolare agli occhi di Hitler207: dopo avervi fatto costruire la sede del partito da Paul Ludwig Troost, la Braunes Haus, successivamente alla presa del potere ordina a questo architetto un insieme architettonico neoclassico rigorosamente dorico, che deve consolidare la vocazione di capitale culturale di Monaco. La Monaco di Luigi I di Baviera era stata concepita come un inno al filellenismo tedesco: il re vi ha edificato una Königsplatz circondata da monumenti neoclassici, cosí come ha costruito il Walhalla nei pressi di Ratisbona, un tempio ai genii della Germania che voleva essere la replica esatta, nella valle del Danubio, del Partenone ateniese208. Luigi I ha dunque fatto di Monaco un’Atene sull’Isar, cosí come Berlino, all’epoca di Federico Guglielmo III, è diventata pienamente quell’Atene del Nord che Voltaire celebrava già sotto il regno di Federico II di Prussia. Il classicismo nazista s’innesta dunque, a Monaco, su una ricca e antica tradizione filellenica: la Königsplatz viene affiancata, a opera di Troost, da due templi a cielo aperto dove sono deposti i sarcofagi di bronzo dei martiri del 1923. Le colonne doriche e il marmo di questo Ehrentempel conferiscono alla sepoltura degli eroi del putsch quel carattere di grandezza e di atemporalità estetica che assecondava appunto il gusto del Führer. Il pezzo forte è la costruzione da parte di Troost della Casa dell’arte tedesca, il cui imponente colonnato le vale il soprannome, che diventa immediatamente popolare tra i monacensi, di «stazione di Atene». L’architettura dorica le conferisce pienamente il carattere di quel «tempio»209 dedicato all’arte che Hitler voleva.

Nell’ottobre 1933, la posa della prima pietra dell’edificio da parte di Hitler è l’occasione di solenni festeggiamenti. Hitler intende conferire all’apertura del cantiere un carattere fortemente simbolico: la costruzione della Casa dell’arte tedesca deve segnare l’inizio della rinascita di un’arte autenticamente tedesca, liberata da influenze e da interferenze semitiche. La scelta di Monaco non è affatto casuale. È qui, nella città che era stata la sede per eccellenza della bohème e dell’avanguardia prima della Grande Guerra, prima di essere soppiantata da Berlino negli anni Venti, luogo di nascita del gruppo Die Brücke, che la «purificazione del tempio dell’arte» deve cominciare: insudiciata dall’arte degenerata, negroide o semitica che sia, l’arte tedesca può ormai contare sul sostegno e la protezione dello Stato.

In occasione dei festeggiamenti, l’Antichità scende nelle strade. Il legame tra ellenismo e germanità non resta un riferimento erudito o discreto, ma diventa oggetto di una messa in scena che gli consente di essere concretamente e pedagogicamente visualizzato dal popolo, spettatore di un’inedita parata. Iscrivendosi nella tradizione tedesca dello historischer Festzug210, la sfilata dell’arte tedesca211 del 15 ottobre 1933 è intitolata I secoli d’oro della cultura tedesca. La sua organizzazione, come i motivi rappresentati, sono affidati allo scultore Josef Wackerle che, su richiesta di Hitler, decide di porla sotto il segno dell’Antichità. Lungo l’intero percorso della parata, dalla Ludwigstrasse fino alla sede del futuro museo, sfilano carri con rappresentazioni allegoriche dei diversi generi e delle diverse epoche dell’arte tedesca, al seguito dell’aquila di ispirazione romana disegnata da Hitler, l’Hoheitsadler del partito e, ben presto, dello Stato, simbolo dello spirito e dell’ideale tedesco. Il secondo carro rappresenta l’architettura, sotto forma di un capitello ionico, mentre il terzo carro vuole essere un’allegoria della pittura, sotto la forma di «dipinti murali antichi»212, del pittore e scultore Richard Klein. Segue un’allegoria della scultura, sotto forma di una riproduzione del busto di Ercole conservato ai Musei Vaticani.

Seguono i periodi dell’arte tedesca, il primo dei quali, l’arte greca, è rappresentato dal carro di Pallade Atena. Atena è particolarmente presente, non solo attraverso questo carro, ma anche sotto forma di un medaglione sospeso tra i due piloni che aprono la Ludwigstrasse213. Per altro, il simbolo ufficiale delle Giornate dell’arte tedesca, che diventerà quello della rivista ufficiale «Die Kunst im Dritten Reich», è un profilo di Atena con la fiaccola, sullo sfondo di colonne.

Quattro anni piú tardi si svolge la seconda parata, per l’inaugurazione della Casa dell’arte tedesca. La manifestazione assume allora dimensioni imponenti: il 18 luglio 1937, la parata è lunga 3 chilometri, e mobilita 500 cavalieri, 2500 uomini a piedi, oltre a 2000 donne: tutti i partecipanti indossano costumi storici corrispondenti alle epoche considerate. Essa si svolge sotto il segno, paragonabile a quello del 1933, di Duemila anni di cultura tedesca, titolo che sarà mantenuto anche dall’edizione del 1938214. Anche in quel caso, l’arte greca, impersonata da Atena, è ben presente come periodo integrante dell’arte tedesca.

L’organizzazione e la plastica del corteo stabiliscono dunque un’equivalenza tra l’arte e l’Antichità: la figura monumentale di Atena, il bozzetto della Casa dell’arte tedesca, nel 1933, il medaglione, il contesto architettonico monacense, tra il neoclassicismo di Luigi I e il neodorico di Troost, conferiscono a queste celebrazioni dell’arte tedesca il carattere di solennità ieratica e compassata che Hitler, nella piú pura ispirazione piccolo-borghese di una cultura vagamente kitsch, associa spontaneamente all’arte.

Il kitsch antichizzante del regime si manifesta pienamente nel corso degli historische Festzüge di Monaco, come nel corso delle cerimonie solenni propagandistiche del regime in cui si esibisce un’orgia di stendardi e di aquile romane che devono, per riprendere categorie ormai familiari, suscitare la Faszination e materializzare la Gewalt215. Questo kitsch artificioso è oggetto di critiche da parte di Heidegger, che fustiga ogni rapporto inautentico con l’Antichità216, ma anche da parte di una parodia in forma di commedia musicale di Reinhold Schünzel217.

Questa commedia musicale che è, a quanto sappiamo, l’unico film mitologico girato in Germania fra il 1933 e il 1945, è stato interpretato alla sua uscita, nel 1935, come una satira rivolta alle grandi messe in scena del regime, le Giornate dell’arte tedesca o raduni di Norimberga. Il tema di Anfitrione già elaborato da Plauto, poi da Molière e Jean Giraudoux218, ma anche da Kleist, del quale Schünzel adatta la pièce del 1807, mette in scena uno dei tanti sotterfugi a cui Zeus ricorre per conquistare e soggiogare le mortali: invaghito della tebana Alcmena, Zeus assume i tratti di suo marito, il re Anfitrione, per renderla madre di Ercole. Le commedie spesso salvano Alcmena dall’adulterio rappresentando il fallimento di Zeus, come fa anche Schünzel, che gira cosí una satira degli dèi, messi a nudo nei loro aspetti ridicoli: il film, che sfocia allegramente nel burlesco, mostra uno Zeus ozioso e lascivo, che decide le sorti delle battaglie in modo avventato, totalmente sottomesso a quella carampana tirannica di Hera, e affiancato da un Hermes timido e malaticcio. Il semplice carattere burlesco di questo progetto comico, il semplice fatto di detronizzare gli dèi e di farli vedere sotto una luce umana, troppo umana, fa parte di una critica dissacrante del potere. In un regime totalitario, questo è già notevole anche se, per altro, il film sembra rientrare nel genere della commedia tedesca leggera, che è incoraggiato da Goebbels per la sua buffoneria a buon mercato e la sua insondabile leziosaggine che, nel contesto dell’epoca, svolgeva un’evidente funzione di evasione219. La commedia di Schünzel è costellata di piccoli riferimenti al potere del Terzo Reich: Schünzel, Halbjude secondo le leggi di Norimberga, doveva andare di Sondererlaubnis in Sondererlaubnis per poter girare. Questi permessi gli erano accordati grazie al suo successo di attore220 e di sceneggiatore, prima che optasse finalmente per l’emigrazione transatlantica nel 1937.

Annessione simbolica, annessione territoriale: il Blitzkrieg del 1941 o la quarta ondata indogermanica in Grecia.

Il discorso razziologico e storiografico, l’insegnamento della storia e la formazione ideologica delle truppe imprimono nelle menti una cronologia semplificata delle migrazioni nord-sud: dopo le prime due migrazioni preistoriche, interviene la terza migrazione tardoantica, quella delle grandi invasioni.

In queste condizioni, il Blitzkrieg tedesco in Grecia viene presentato e interpretato come una quarta discesa nordica verso una terra greca da difendere e rigenerare dopo una lunga decadenza razziale. L’annessione simbolica delle civiltà del mondo antico alla storia della razza indogermanica viene dunque a legittimare e a giustificare l’annessione territoriale: la conquista della Grecia nel 1941 è sostenuta da un discorso che fa riferimento al passato della razza indogermanica in Grecia.

Dal 22 al 25 aprile 1941, la Wehrmacht e le Waffen-SS forzano il passo delle Termopili, mettendo in fuga i britannici e si aprono cosí la strada dell’Attica e di Atene221. L’evento è celebrato dal «Völkischer Beobachter» che, nelle sue edizioni quotidiane di fine aprile 1941, dedica ampia risonanza ai successi del Blitzkrieg in Grecia. Il 28 aprile 1941, il quotidiano del partito, in un lungo articolo in seconda pagina, celebra «la corsa della vittoria verso Atene. L’assalto tedesco contro le Termopili», e si conclude con queste parole:

Il cerchio della storia universale è chiuso, oggi, alle Termopili. 2500 anni fa, il popolo greco ha resistito con Leonida a un nemico numericamente superiore. In seguito si è arreso agli inglesi. Oggi, con i nostri colpi potenti, noi scacciamo gli inglesi fuori dall’Europa e fuori dalla Grecia222.

Il cerchio è chiuso: i soldati tedeschi sono i degni continuatori dell’opera dell’eroe germanico-nordico Leonida. I trecento eroi spartani avevano ritardato l’avanzata dei persiani, le divisioni tedesche respingono i loro tardi successori inglesi. È dunque con piena legittimità storica e razziale che i soldati del Reich prendono possesso di queste terre indogermaniche irredente che greci indegni e razzialmente degenerati hanno vigliaccamente abbandonato ai loro nemici. Ancora una volta, dunque, un’ondata eroica e un flusso di sangue nordico vengono a civilizzare o a salvare la terra di Grecia minacciata dall’asianesimo, un tempo di popolazioni inferiori, oggi di discendenti del meticciato ellenistico e in seguito turco.

I Giochi olimpici del 1936, su cui torneremo223, erano stati un’occasione per celebrare non solo la parentela fra Grecia antica e Germania contemporanea, ma anche la bellezza e la dignità del popolo greco: il film di Leni Riefenstahl, scarsamente ligia all’ortodossia razziale, mostra molte immagini di giovani greci abbronzati e ben torniti, dalla costituzione tutt’altro che diafana, mentre le cerimonie ufficiali rendono ripetutamente omaggio al primo vincitore della maratona olimpica del 1896, il pastore greco Spiridon Louis.

Nel 1941, hanno il sopravvento una perplessità disincantata, e successivamente la chiara consapevolezza della superiorità nordica. Il popolo greco contemporaneo è un popolo contaminato e degenerato da lunghi secoli di promiscuità e di mescolanza con il vicino asiatico e turco: ogni rapporto sessuale tra un soldato tedesco e una greca è formalmente vietato224. Questo disprezzo, a poco a poco, arriverà ad alimentare e legittimare la pratica del terrore quasi genocidiario che colpisce la popolazione civile greca a partire dal 1942, e che è stata studiata da Mark Mazower.

Il popolo greco è dunque, in Grecia, molto meno a casa sua di quanto lo siano le truppe tedesche, degne e pure discendenti della razza indogermanica venuta dal Nord che, per prima, ha donato alla terra greca la sua vera civiltà. Se il comunicato ufficiale del comando supremo della Wehrmacht (Okw) precisa e sottolinea con insistenza e con fierezza che «il drappo con la croce uncinata è stato issato sull’Acropoli»225, è perché questa presa di possesso, in fondo, non è altro che un ritorno alla normalità razziale e storica.

Si tratta in questo caso di uno schema di pensiero che è proprio di Hitler, e che gli è trasmesso dalla tradizione pangermanista tedesca: ovunque si trovi sangue germanico, i territori appartengono di diritto e di fatto a un grande Reich tedesco, e ogni politica di conquista e di annessione si trova a essere giustificata da un diritto storico-razziale. Già prima della guerra, Hitler dichiara a piú riprese di voler integrare al Reich le popolazioni scandinave, olandesi e britanniche, poiché sono germaniche, proprio come la Grecia, almeno in origine. Meravigliandosi della capacità di resistenza dell’esercito greco, che ha scacciato gli italiani dalla penisola e che ritarda l’avanzata tedesca, Hitler confida a Goebbels che «forse in loro c’è ancora qualcosa della vecchia natura ellenica»226. È tuttavia solamente un’ipotesi, poiché da molto tempo, per lo meno dal periodo ellenistico227, il sangue nordico si è diluito e disperso in una mescolanza mortifera. Il territorio greco non appartiene dunque al Reich per il sangue vivente, che fluisce e scorre, ma per il sangue coagulato, lasciato in eredità. Il popolo greco contemporaneo, meticcio e mescolato, è solo il semplice usufruttuario di un territorio e di capolavori di cui il popolo nordico, vero creatore, resta per diritto biologico il legittimo proprietario.

Un anno dopo la vittoria dell’aprile 1941, in due articoli commemorativi, gli opuscoli di formazione e di collegamento degli ufficiali SS, gli «SS-Leithefte», richiamano le alte imprese belliche della Wehrmacht e delle Waffen-SS paragonandole espressamente all’eroismo nordico degli spartani228. I due brevi articoli offrono l’occasione di ricordare i combattimenti, ma anche di ricollocare la conquista della Grecia e la resistenza di Leonida nel contesto piú generale della gigantomachia razziale tra un Occidente nordico e un Oriente asiatico. I trecento valorosi di Leonida sono cosí «diventati i primi testimoni di sangue nella lotta contro la potenza mondiale venuta dall’est»229. Il sacrificio degli spartani «ha spezzato l’ondata»230 asiatica, cosí come, in seguito, il duca Heinrich di Liegnitz si era gettato davanti alle orde mongole nel 1241 o, piú di recente, Adolf Hitler, il 9 novembre 1923, si era opposto alla decadenza nazionale e al comunismo, o ancora Albert Schlageter aveva offerto il petto ai fucili criminali delle truppe francesi della Ruhr231. Tutti questi atteggiamenti di eroismo sacrificale furono caratterizzati da un disprezzo per tutto ciò che è destinato a perire, dunque per la stessa vita, che costituisce «il cuore dell’atteggiamento germanico-nordico»232; l’eroismo realmente nordico di Leonida e dei suoi fu dettato da un coraggio che ha sacrificato il corruttibile a vantaggio dell’essenziale, la difesa della patria, della civiltà greca e della razza.

Mentre gli occupanti tedeschi sono cosí pronti a fondare la legittimità della loro conquista greca su precedenti storici gloriosi, i greci invece, con un singolare effetto di chiasmo, accolgono e percepiscono le divisioni del Reich come le orde di barbari germanici che, al crepuscolo dell’età antica, piombarono sulla Grecia e saccheggiarono Roma: un riferimento antico di carattere migliorativo è dunque brandito e contrapposto a una reminiscenza antica peggiorativa. Mentre aspetta, come tutti i greci, l’arrivo imminente delle prime unità motorizzate della Wehrmacht, Georges Theotokas annota nel suo diario, alla fine del mese di aprile 1941, questi versi di Kavafis:

Che aspettiamo, raccolti sull’Agorà? Dicono che oggi arrivano i barbari […]. A che scopo fare ora buone leggi? Presto le faranno i barbari233.

Da parte tedesca, dunque, il modo in cui la stampa presenta gli eventi vittoriosi della primavera 1941 lascia emergere una profonda delusione alla vista di quel che è la Grecia e di quello che i greci sono diventati: ai conquistatori tedeschi cullati nelle illusioni classiche, la Grecia appare come un paese fondamentalmente arretrato, sporco e polveroso, e i greci, ben lungi dall’assomigliare alle statue di Winckelmann, sono una massa di levantini dai capelli crespi. Un lungo articolo del giornale «Der Angriff», datato 19 aprile 1941, attesta la delusione dei soldati tedeschi che si aspettavano di ritrovare la Grecia dei loro manuali di storia e del filellenismo tedesco. Al posto di questo fantasma, essi scoprono un paese povero, in cui domina e infierisce il «commerciante greco»234, tipo levantino prossimo al Krämer ebreo.

Il Brockhaus del 1937 precisava tuttavia che l’afflusso di sangue slavo e albanese in quella che era stata la Grecia nordica aveva portato a un dannoso meticciato e che

i greci moderni mostravano, dal punto di vista della razza, caratteri essenzialmente del germanico dell’Ovest, dinarici e asiatici, mentre la razza nordica, alla quale appartenevano gli antichi greci, arretrava235.

La delusione è dunque di ordine economico ed estetico, ma anche razziale. I greci nordici del secolo di Pericle sono passati attraverso perdite e guadagni nel corso di una lunga storia di meticciato e di degenerazione razziale236. La rivista «Volk und Rasse», pubblicata da Lehmann, e alla quale contribuiscono i piú grandi nomi della razziologia, come Günther, Baur e Fischer, dedica due articoli a una perizia razziale piú articolata dei greci contemporanei, che ha lo scopo di mostrare che, malgrado le vicissitudini della storia, la popolazione greca può essere parzialmente aggregata a un blocco nordico che ha germi e fermenti ancora vitali al suo interno. L’articolo del 1939, intitolato «Profili razziali greci»237, oppone i greci della Laconia, terra d’elezione dei migranti nordici dorici, agli abitanti dell’Attica ateniese, piú mescolati: se, sul territorio dell’antica Sparta indogermanica, ricreata da Ottone I di Grecia, «sono frequenti i capelli biondi, gli occhi azzurri e una statura elevata»238, gli ateniesi non sono altro che un «popolo mescolato»239. In un caffè della Laconia, dove incontra questi due tipi razziali, l’autore dell’articolo crede di leggere l’opposizione di due Grecie: «Qui si svela il contrasto: da una parte la Grecia antica, dall’altra la Grecia moderna!»240, l’una che preserva una nordicità che la seconda ha svenduto all’asta. Per l’autore, non c’è dubbio che «questi uomini biondi dagli occhi azzurri» di una Laconia fiera e selvaggia sono in linea retta i «discendenti degli antichi greci»241, miracolosamente preservati dalle mescolanze.

È questa popolazione a dominanza nordica a creare la possibilità di un raccordo razziale tra la Grecia e l’Europa nazista. Un secondo articolo, redatto nel 1941, mira a mostrare che l’intervento tedesco in Grecia non ha, da un punto di vista razziale, nulla di riconducibile a una digressione o a una deviazione: le armate tedesche in terra mediterranea sono a casa propria, è possibile procedere all’Anschluss del Sud a un blocco nordico. Certamente, come sottolinea il titolo del contributo, la Grecia resta una «terra di contrasti»242. L’evidenza fenomenologica è quella del meticciato e dell’estraneità di una popolazione fortemente orientalizzata. Tuttavia, «nulla sarebbe piú falso del sostenere che la popolazione greca nel suo insieme è divenuta levantina. È strano che si applichino al popolo greco criteri di valutazione razziale piú severi di quelli utilizzati per altri popoli»243, come se il loro glorioso passato nordico e gli ideali ormai superati del filellenismo tedesco creassero un’attesa che il popolo greco contemporaneo deluderebbe nella misura in cui non corrisponde esattamente all’immagine dell’uomo greco classico. Ora, secondo la constatazione dell’autore, i greci sono spesso antisemiti244 e germanofili, e tali disposizioni di spirito indicano un’appartenenza razziale comune all’Europa del Nord: «Un’inconscia reminiscenza dell’origine nordica risalente all’Antichità piú remota sembra sonnecchiare in seno al popolo greco»245. Dato che quest’origine è attestata, e ancora visibile, nei tipi razziali sondati dall’articolo del 1939, è dunque possibile una riapertura del corpo greco al sangue nordico rigeneratore: dopo la dominazione turca, francese e inglese, la Grecia, grazie all’invasione tedesca, si trova «finalmente raccordata al sistema di circolazione sanguigna europeo»246. Ancora una volta, dunque, la Grecia è resuscitata da un’ondata di migrazione nordica, un apporto di sangue puro e fresco: alle tre ondate preistoriche e antiche si aggiunge una quarta, quella del Reich trionfante.

Conclusione.

Durante le Giornate dell’arte tedesca organizzate attorno alla Casa dell’arte tedesca, a Monaco, nel 1933, e successivamente nel 1937, 1938 e 1939, la sfilata dei periodi dell’arte tedesca è aperta da una rappresentazione di Atena. È dunque reso manifesto al pubblico che i greci sono dei germani e che la loro arte appartiene alla razza nordica. Era vitale. Dove cercare, infatti, espressioni e conferme dell’eccellenza della razza nordica? Se ne trovano certamente nel Medioevo, con le cattedrali, e in seguito, durante l’epoca moderna, con Bach, e infine con i filosofi tedeschi dell’età contemporanea. Le epoche precedenti, tuttavia, non offrono nulla che abbia valore: frammenti di cocci e di vasellame di villaggi lacustri, che Himmler, da appassionato inventore del passato germanico, fa esumare a squadre di archeologi SS. Hitler è infastidito da questi scavi: a cosa servono, se non a mostrare «che non abbiamo un passato», che queste produzioni mediocri non fanno che illustrare l’arretratezza dei germani di Germania?

Hitler per altro formula il suo punto di vista e prende a pretesto la differenza di clima tra la Germania e il Mediterraneo: ammessa senza alcun dubbio la comune origine nordica degli occupanti dell’una e dell’altro, la differenza di sviluppo tra queste due zone è dovuta al diverso grado di esposizione al sole e alla differenza fra le temperature. Nel rapporto che Hitler instaura con l’Antichità, troviamo dunque un complesso d’inferiorità culturale spesso presente a nord delle Alpi rispetto al prestigio del passato mediterraneo. Non basta tuttavia addurre spiegazioni per l’arretratezza germanica. Hitler propone dunque una genealogia nordica dei greci e dei romani, sostenuta da una tradizione universitaria che, a partire dal XIX secolo, è pronta a difenderla. I razziologi, gli antropologi e gli storici si trovano cosí concordi con le autorità del partito e dello Stato nel celebrare i capelli biondi di Augusto o gli occhi azzurri di Pericle. Anche in questo caso, il messaggio non è limitato alla sfera degli studi eruditi: è messo in scena dalle feste di Monaco e insegnato nelle scuole, nelle caserme, e nel partito. Inoltre, il discorso sulla razziologia dei greci e dei romani ha lo scopo di fondare una fierezza germanica sull’annessione di un patrimonio mediterraneo che in questo modo si può smettere di opporre frontalmente al Nord, per aggregarvelo. Il sangue germanico-nordico non ha avuto come sola produzione un ammasso di vasellame o di capanne di legno, ma si è espresso, sotto cieli piú clementi e su terre piú fertili, nell’edificazione del Partenone e di culture prestigiose.

Il discorso che il partito e lo Stato nazista propongono a proposito dell’Antichità greca e romana possiede dunque ancora una volta una virtú consolatoria e pacificatrice, rasserenante per una fierezza nazionale fatta vacillare dalla disfatta del 1918: i greci e i romani si trovano cosí ad essere sollecitati e convocati al pantheon della cultura germanica, al Walhalla eretto dai discorsi fondatori dell’ideologia, oltre che dall’insegnamento e dalla pubblicità che gli viene fatta, sotto tutte le sue forme, artistiche o evenemenziali.

Questa annessione, per quanto importante sia, non si limita all’ambito simbolico. Nell’aprile 1941, il discorso sull’indogermanità dei greci serve a giustificare e a legittimare l’invasione della Grecia da parte delle truppe del Reich, richiamate nel Mediterraneo dagli insuccessi dell’alleato italiano. Alleato degli inglesi, razzialmente degenerato, il popolo greco non è certamente piú degno di godere di un paese, di un patrimonio e di una cultura di cui ha avuto l’usufrutto da duemila anni, ma che la sua decadenza razziale e politica ora gli revocano. Le truppe tedesche non fanno che restituire una terra e la sua cultura ai legittimi proprietari indogermanici.

Detto questo, la promozione dell’Antichità mediterranea non ha potuto evitare di suscitare dibattiti e polemiche, come abbiamo visto nel caso delle SS. L’ascesa al potere dei nazisti aveva suscitato legittime speranze tra i germanomani infatuati di preistoria sassone e di alfabeto runico, i quali, per promuovere le loro idee, suscitano un dibattito sulla questione dell’insegnamento della cultura classica.