Anche dalla pietra delle statue antiche si legge la nordicità dei modelli e degli artisti: la scultura greca e la scultura romana costituiscono un museo della norma razziale, della bellezza nordica e, a questo titolo, sono segnalate alla particolare attenzione dei membri del partito mediante il fascicolo da cui abbiamo riportato un estratto. Anche l’arte del Terzo Reich doveva mostrare la via della perfezione estetica della razza nordica: i nudi di Breker e di Thorak dovevano fissare nella pietra e consegnare all’ammirazione del popolo i busti, i profili e le cosce dei tipi perfetti della razza. Questi archetipi scultorei, grazie alla mediazione della statua esposta, dell’immagine cinematografica, della mostra, erano cosí presenti nello spazio pubblico da essere pregnanti nei sogni di un berlinese, che vede nell’ufficiale di Stato incaricato di attestare, o meno, la sua arianità, la sua purezza razziale, una «statua di marmo».
Nel rapporto della Germania col canone greco, tutto, di fatto, comincia con una storia di statue, con Winckelmann. I nazionalsocialisti aggiungeranno a questa inclinazione estetica per l’arte antica una volontà zootecnicista ed eugenista di passare dalla pietra, il museo, alla carne, alla produzione effettiva di una razza la cui bellezza sarebbe prova di superiorità.
La fascinazione tedesca per il corpo greco.
Il fantasma nazista di una perfezione corporale, di una forma corporea perfetta, s’iscrive nella storia per lo meno bisecolare della riscoperta dell’arte antica. Questa riscoperta, iniziata nel Rinascimento, è stata proseguita nel XVIII secolo da Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Archeologo e bibliotecario, Winckelmann è invitato a Roma nel 1759 dal cardinale Albani, che gli assegna l’incarico della sua collezione di reperti antichi. Su richiesta del prelato, ne redige il catalogo e pubblica, nel 1764, una Storia dell’arte nell’Antichità. L’opera, che esalta, attraverso le sue copie romane, la statuaria greca, riscuote un successo immediato e immenso in tutta Europa. Con il testo e le riproduzioni di Winckelmann, è proposto all’Europa colta un intero canone di virilità salda e serena, al contempo fisica ed etica: gli atleti greci di Winckelmann sono forti e armoniosi, sereni e padroni di se stessi, anche nello sforzo, come Laocoonte, che sembra distendersi al risveglio mentre è alle prese con un animale tutt’altro che ameno.
L’opera di Winckelmann, e gli scavi di Pompei e di Ercolano, introducono il classicismo architettonico e plastico antico in un’epoca rococò, e insinuano nel XVIII secolo una certa anticomania, che doveva pesare fortemente sui destini dell’arte in Occidente. Sappiamo che la Rivoluzione francese avviene in abiti romani, e che l’Europa, nel XIX secolo, si riveste di edifici che, con la loro monumentalità e le loro proporzioni, riportano in auge il gusto dell’antico: Roma e Pompei generano lo stile Impero, la lettura di Winckelmann ispira i rivoluzionari francesi e il loro pittore Jacques-Louis David.
Questa rinascita dell’antico ha dettato la definizione di un canone corporale. George Mosse fa risalire al XVIII secolo appunto l’avvento di una nuova «immagine dell’uomo»3, di un nuovo canone estetico ed etico della virilità, un ideale maschile proprio della modernità, fecondato dall’arte e dalla virtú antica.
Il XVIII, e in seguito il XIX secolo fanno pensare agli atleti di Winckelmann, e tentare di riprodurli. Il canone estetico e la riflessione morale entrano in sinergia con la medicina e l’igiene, che si sviluppano in quest’epoca, e che ambiscono a curare, correggere e scolpire il corpo.
In Germania, si sviluppa la ginnastica, con le opere e le associazioni di Guts Muth e di Ludwig Jahn, che nel 1816 pubblica la sua Deutsche Turnkunst. I frontespizi di tutti i Gymnasien della Germania esibiscono fieramente il motto Mens sana in corpore sano4, cui si attribuisce la capacità di riassumere la vecchia saggezza antica che è necessario mettere in atto. Al di là del corpo, è in gioco l’individuo nella sua totalità. La modernità occidentale comincia a credere all’adagio latino: Vultus animi spaeculum, il volto è lo specchio dell’anima. Questa massima assimila il valore interiore all’aspetto esteriore, stabilisce tra i due una perfetta corrispondenza, confonde l’apparenza fisica e l’essenza morale. La conformazione di un corpo deve permettere di svelare e di leggere un’anima. Questo postulato sta alla base della Fisiognomica, pubblicata nel 1781 dal medico svizzero tedesco Johann Kaspar Lavater5: c’è unità, omologia, tra l’esterno e l’interno, e la fisiognomica è la nuova scienza basata sulla «capacità di riconoscere il carattere nascosto di un essere umano nella sua apparenza esteriore»6.
Nasce cosí una semiologia dell’apparenza fisica, che si propone di leggere i corpi e i volti come un libro aperto per inferirne un giudizio di ordine generale sulla totalità dell’individuo, attuando una rigida riduzione dello psicologico al fisico e basandosi su una confusione rivendicata e assunta delle categorie estetiche ed etiche.
Si costituisce in tal modo un tipo maschile che unisce la perfezione estetica del corpo alla bellezza dello spirito, la seduzione fisica all’eccellenza morale: la semplice osservazione visiva permette di concludere dall’una all’altra. Mosse mostra che la modernità occidentale è profondamente intrisa di questa idea che culmina con Il ritratto di Dorian Gray, in cui Oscar Wilde descrive gli effetti di una vita dissoluta su un volto. L’eroe eponimo del racconto non invecchia, ma il suo ritratto reca tutte le stimmate dei suoi vizi morali.
L’ideale di virilità ereditato dall’età antica, incarnazione di una perfezione al contempo estetica ed etica, è pregnante nei movimenti giovanili tedeschi che precedono la Prima guerra mondiale, e si ritrova, dopo il 1918, nei monumenti ai caduti della guerra, dove s’incontrano a volte rappresentazioni del corpo antico, sotto la forma di efebi greci sacrificati alla lotta o di gladiatori7.
I nazisti ereditano queste concezioni e questa permanenza dell’ideale estetico trasmesso dalla pietra dell’arte antica. L’arte greca è una componente ineludibile di ogni formazione scolastica e universitaria in Germania, e la conoscenza della Grecia fa parte degli elementi fondamentali della cultura di ogni cittadino che si rispetti.
Non c’è dunque da sorprendersi se, al momento di definire un canone razziale ed estetico, i nazisti si rivolgono alla statuaria greca, retaggio permanente riattualizzato da Winckelmann. Mosse osserva che esiste un’innegabile filiazione tra gli scritti di Winckelmann e i discorsi nazisti sull’uomo nuovo:
L’amore per la bellezza del corpo avrebbe sempre informato a sé la virilità moderna, caratterizzando lo stereotipo mascolino. La continuità è quasi sconcertante: piú di un secolo e mezzo dopo, per esempio, Adolf Hitler individua quella che egli definisce l’immortalità dell’ideale greco della bellezza nella combinazione di un corpo eccezionalmente bello con uno spirito radioso e un’anima nobile; e insiste poi sulla priorità della bellezza fisica, dichiarando che un corpo disfatto non può essere abbellito nemmeno dal piú radioso degli spiriti8,
in quanto la bellezza dello spirito non poteva riscattare la bruttezza del corpo, nella misura in cui esiste una stretta coesione tra i due aspetti, persino una necessaria derivazione dell’uno dall’altro.
La statuaria greca, tuttavia, non funziona come una semplice analogia o come una metafora della perfezione. Piú che questo, essa è la rappresentazione di un sangue e di una carne nordici, di una sostanza razziale identica a quella dei tedeschi, carne della loro carne e sangue del loro sangue. In un opuscolo di formazione della Nsdap, leggiamo:
Che i greci fossero di origine nordica è abbastanza evidente dalle loro sculture. Le figure di dèi che hanno fissato nella pietra esprimono nel loro corpo, nella forma del cranio, nell’espressione del volto e nei loro tratti questa ascendenza nordica. Li si distingue a malapena dai rappresentanti contemporanei della razza nordica. La stessa cosa vale per i romani9.
La statuaria greca è dunque, per lo storico dell’arte Paul Schultze-Naumburg e per Hitler in particolare, una specie di museo che preserva e conserva, nella durezza di una pietra che ha saputo attraversare i secoli, un’immagine della razza nordica. Il razziologo Ludwig Schemann esprime invece stupore: «Essa [la statuaria greca] è riuscita a fissare per gli occhi l’ideale nordico e a trasmetterlo da un secolo all’altro»10. Rappresenta dunque un potenziale razziale pietrificato, immobile, che bisogna portare a una piena attualità, conferendogli la carne e il movimento della vita.
I Giochi di Berlino: Olimpiadi naziste, Olimpia tedesca.
I Giochi olimpici del 1936 offrono l’occasione che si sognava per sottolineare e celebrare la parentela ellenico-germanica, e per attuarne una messa in scena estetica: lo spettacolo del corpo atletico tedesco può qui essere messo in relazione con le immagini greche, benché la grande celebrazione del 1936 non si limiti a questo.
I legami tra gli sport della Grecia e della Germania sono già messi in evidenza da tutta una letteratura che, nel XIX secolo, accostava elleni e germani per il carattere agonale delle loro due civiltà11.
La centralità del Wettkampf, l’agon sportivo e guerriero, nelle culture greca e tedesca sarebbe dunque una prova sufficiente della comunità di spirito che lega questi due popoli, e che può essere basata solamente su una comunità di sostanza razziale.
Ernst Curtius (1814-1896) dedica pertanto, nel 1856, una monografia, intitolata Der Wettkampf, a questa tesi. Vi sostiene che gli indogermani sono caratterizzati da una tensione verso l’azione, la conquista, la difesa, la lotta, la creazione, mentre i semiti e gli orientali sono paralizzati dalle passioni estenuanti che li dominano. Curtius conclude dunque, a proposito del sito di Olimpia di cui sta per dirigere gli scavi, con una frase che, attorno al 1936, diventa uno Standardzitat nazista: «Was dort in dunkler Tiefe liegt ist Leben von unserem Leben», Quel che giace laggiú in una notte profonda è il sangue del nostro sangue. Nietzsche, nel suo Homers Wettkampf (1872), e in seguito Jacob Burckhardt, nella sua Griechische Kulturgeschichte (1898-1902), riprendono la medesima argomentazione: i greci, come i germani, sono «uomini colonizzatori e agonistici», all’opposto degli orientali, pusillanimi e rammolliti, spossati da passioni che sono incapaci di governare. Allo stesso modo, molti sostenitori e teorici della giovane Turnbewegung tedesca si richiamano al prestigioso precedente greco per esaltare l’opera di Guts Muths e di Jahn, di cui sottolineano l’essenza greca, dunque indogermanica, dunque tedesca12. Una tale prossimità culturale, come dall’altra parte una tale comunione nella idiosincrasia agonale, indicano un’identità di sostanza razziale.
I giochi richiamano appunto tale identità, e la mettono in scena, attraverso immagini, voci, costumi e spazi. Una pubblicazione ufficiale del Comitato di propaganda dei Giochi olimpici del 1936, intitolata Olimpia 1936. Un compito nazionale, precisa che uno dei compiti imposti dall’organizzazione dei giochi, oltre alla preparazione dell’infrastruttura materiale e tecnica e alla buona accoglienza dei partecipanti e degli spettatori, è lo sfruttamento propagandistico dell’evento nel senso di una rammemorazione della storia della razza:
Si deve inoltre cercare di mettere in luce l’intima parentela della nostra cultura sportiva con la cultura ginnica degli antichi greci (staffetta del tedoforo Olimpia-Berlino, mostra sull’Antichità)13.
I Giochi olimpici sono inizialmente un’occasione per ricordare che la Grecia antica è una riserva di caccia della Germania. Si ripete a sazietà che la riscoperta della cultura greca è opera tedesca. Il 2 agosto 1936, per rendere conto dell’apertura dei giochi da parte del Führer, il «Völkischer Beobachter» pubblica su un’intera pagina una selezione di testi greci e tedeschi, giustapponendo l’Homers Wettkampf di Nietzsche a estratti da Omero, Luciano ed Erodoto14. In generale, il giornale cita tutto ciò che evoca il legame culturale privilegiato tra la Germania e la Grecia. A tal fine, è spesso evocato Hölderlin, come nell’articolo del «Völkischer Beobachter» che cita il Gesang der Deutschen per mostrare la Sehnsucht dello spirito tedesco, nostalgico di Delo e di Olimpia, un poema commentato in questi termini dall’autore dell’articolo:
La consapevolezza indubitabile che l’idea olimpica dei greci è a noi […] profondamente affine si è imposta al grande poeta a partire da un’eredità razziale nordica emersa dal fondo delle epoche15.
Contro ogni evidenza, e malgrado alcuni omaggi di mera cortesia all’opera di Pierre de Coubertin16, che ha la sventura di essere francese, si tratta anche di sostenere che gli stessi Giochi olimpici sono una nuova creazione tedesca. La medesima edizione del «Völkischer Beobachter» pubblica un lungo articolo intitolato I precursori della rinascita dei giochi: Winckelmann, Curtius e Dörpfeld, pionieri dell’idea olimpica che, in modo molto convenzionale, celebra Winckelmann come «il vero scopritore dell’ellenicità, colui che, per primo, sottolineò il fondamento razziale dell’arte e della cultura», eleva agli onori del pantheon Curtius, «profeta dell’idea olimpica», e Dörpfeld, «scopritore di Olimpia», per mostrare che Olimpia e le sue riprese sono un cantiere e un progetto essenzialmente tedeschi17. Tutta la stampa dei mesi di luglio e agosto 1936 cospira all’eclissi di Coubertin: l’«Olympia-Zeitung», dopo un breve saluto al barone, preferisce soffermarsi su Curtius, il solo che abbia permesso la riscoperta di Olimpia e la rinascita della sua idea. Il giornale cita la frase dell’archeologo tedesco che, come Humboldt e Goethe, afferma che solo i tedeschi sono in grado di cogliere pienamente l’essenza dell’ellenicità: i tedeschi «si trovano nella posizione migliore fra tutti per comprendere il senso dell’Olimpia moderna»18, come prevede l’identità di sostanza razziale. È cosí anche per il settimanale SS «Das Schwarze Korps», che relativizza notevolmente l’opera del francese per celebrare Curtius19.
Alfred Rosenberg, in un proclama in diverse lingue rivolto come benvenuto ai popoli del mondo e pubblicato sul «Völkischer Beobachter» del 17 luglio 1936, aveva dato il ritmo:
Da sempre, uomini tedeschi hanno […] rivolto il loro sguardo verso la cultura originaria dell’antica Grecia […]. Alcuni grandi protagonisti della scienza tedesca, come Schliemann e Dörpfeld, hanno consacrato una vita lunga e laboriosa a portare alla luce i tesori della Grecia, che essi sentivano come particolarmente vicini. Tutto quel che hanno fatto a Olimpia e a Troia può essere propriamente considerato come il bene comune per tutti i popoli civili. Il loro lavoro ha avvicinato in particolare la Grecia spirituale alla Germania spirituale20.
Anche Carl Diem, vecchio personaggio del Cio e amico di Pierre de Coubertin, minimizza il ruolo del francese per esaltare gli storici e gli archeologi tedeschi. Ripercorrendo la storia degli scavi del sito di Olimpia, ricorda brevemente una prima campagna francese (1829), per precisare immediatamente che «al Reich tedesco creato nuovamente è stato riservato il compito di realizzare la sublime opera culturale degli scavi di Olimpia, che resteranno un titolo di gloria dello spirito tedesco»21, prima di passare all’omaggio obbligato a Winckelmann e Curtius.
Dopo l’annessione dell’Antichità greco-romana alla storia della razza indogermanica, ecco dunque un bell’esempio di sottrazione fraudolenta: Pierre de Coubertin sparisce dietro i grandi artefici della resurrezione dell’idea greca in Germania, avendo avuto come unico merito quello di essere stato il tramite, il puro e semplice strumento di un’idea essenzialmente tedesca. La prova di questa indefettibile affinità ellenico-germanica risiede nella grande impresa degli scavi di Olimpia, iniziativa ripresa poi da archeologi tedeschi. Queste ricerche e questi scavi sul sito stesso della nascita dei giochi sono oggetto di un’adeguata celebrazione nella forma di un libro di fotografia artistica intitolato Olympia, frutto dell’opportuna collaborazione tra un archeologo e un fotografo entrambi celebri, che fu pubblicato nel 193622. Gli scavi tedeschi, ripresi nel 1934 su iniziativa del Führer nel quadro della preparazione dei Giochi del 1936, sono anch’essi oggetto di resoconti regolari sulla rivista dell’Istituto archeologico tedesco di Atene, ma anche di una piú ampia pubblicità sulla stampa SS. Gli scavi condotti a Olimpia sono infatti affidati a un giovane archeologo, Hans Schleif, che dal momento del suo ingresso nell’Ordine nero, nel 1935, può beneficiare di un notevole miglioramento della sua carriera e dei suoi emolumenti, fino ad allora molto stentati23. I lavori di Hans Schleif sono divulgati dal settimanale «Das Schwarze Korps», che nel 1936 pubblica trionfalmente il plastico del sito di Olimpia realizzato dall’SS-Unterscharführer:
Nel luogo in cui, 3500 anni fa, in onore del re Pelope, conquistatore nordico, sulla penisola del Peloponneso che porta il suo nome, si svolsero giochi solenni, corse e gare attorno al tumulo funerario, è stato consacrato il santuario di Olimpia. Nel quadro dell’esposizione Sport der Hellenen organizzata dai musei di Berlino, l’SS-Unterscharführer Dott. Ing. Hans Schleif, autore a sua volta di scavi a Olimpia accanto a Wilhelm Dörpfeld, ha realizzato questo plastico, il piú preciso possibile, del santuario24.
Due anni dopo, nel 1938, due pagine di reportage e di bilancio di «Schwarze Korps» sono dedicate al tema Olimpia: gli scavi del Führer, scavi diretti da Hans Schleif25.
Questa promozione della parentela ellenico-germanica è diffusa dalla parola ufficiale, ampiamente trasmessa dalla stampa. Abbiamo visto che la copertura degli eventi sportivi, dei luoghi e delle cerimonie sul «Völkischer Beobachter» è abbondante. Anche il Comitato organizzativo dei Giochi di Berlino fa pubblicare un giornale dei giochi, l’«Olympia-Zeitung»26, quotidiano speciale che esce dal 21 luglio al 17 agosto 1936 e che propone, oltre a una cronaca molto seguita degli eventi sportivi, ricchi reportage sull’arte e la cultura greche, resoconti dettagliati e illustrati del percorso della fiamma olimpica e delle varie manifestazioni collegate allo svolgimento dei giochi.
L’«Olympia-Zeitung», in un articolo intitolato Ieri, 600 anni fa / 2000 anni fa, invita pertanto i suoi lettori a recarsi a due mostre sulla storia dello sport in Occidente. L’articolo promuove la mostra Esercizi fisici tedeschi medievali attraverso il testo e l’immagine27 e la mostra Sport der Hellenen, inaugurata a Berlino il 29 luglio 1936. Queste due manifestazioni, collegando la pratica medievale tedesca alla cultura greca, aggiungono alla dimostrazione della parentela ellenico-germanica un abbondante materiale di immagini e di realia. Gli organizzatori di questa mostra, mossi da un assillante scrupolo pedagogico, illustrano materialmente il legame, ripetuto con tono martellante, tra la Grecia antica e la Germania nazionalsocialista, mostrando al pubblico riproduzioni di coppe e di vasi greci su cui vediamo discoboli con dischi ornati dalla croce uncinata. Ecco dunque la prova, attraverso l’immagine, l’oggetto e il simbolo, dell’identità indogermanica dei greci che, come attesta il loro uso della svastica, possono essere eretti a precursori naturali del movimento nazista, secondo quanto avevano già dimostrato Theobald Bieder in una monografia del 1933 dedicata a questo simbolo28 e Alfred Rosenberg nel suo Il mito del XX secolo. Queste riproduzioni compaiono in gran parte nel catalogo dell’esposizione, come nelle illustrazioni di un’opera collettiva, dal titolo Sport und Staat, pubblicata nel 1935 in preparazione dei giochi.
Vediamo cosí che la parentela ellenico-germanica viene esaltata e celebrata attraverso diversi vettori: le esposizioni già menzionate, oltre al manifesto ufficiale dei Giochi estivi del 1936, che rappresenta un atleta greco con la fronte incoronata d’alloro, con lo sfondo della Porta di Brandeburgo, ma anche l’architettura dorica dello stadio olimpico disegnata da Werner Marsch per Berlino.
Il nome da attribuire a questo stadio ha per altro dato luogo a una disputa, cosí come il principio stesso dei Giochi olimpici era stato oggetto di dibattito tra i nazisti29. La querelle del battesimo è un esempio fra tanti altri del ruolo cruciale che la questione degli studi umanistici e del loro posto rivestiva per l’onore e per l’identità nazionale tedesca. I dibattiti che divampano dopo il 1933 sul ruolo degli studi umanistici e sulla presenza che i germanisti, nella storia come nelle lettere, contestano ormai con forza ai classicisti ricordano per molti aspetti, nei conflitti di potere che celano, ma anche nelle poste in gioco della definizione identitaria e culturale che suscitano, la querelle degli antichi e dei moderni nella Francia del XVII secolo. Il primo episodio era stato quello della querelle delle iscrizioni: come si dovevano intitolare e quale legenda si doveva assegnare ai quadri della Galleria degli Specchi di Versailles? In latino o in francese? Gli antichi raccomandavano al re e al suo palazzo la dignitas ieratica, la nobiltà composta del latino, i moderni si schieravano per una consacrazione epigrafica della lingua francese.
Anche il Terzo Reich ebbe, nel 1936, la sua querelle delle iscrizioni: come doveva essere battezzato lo stadio olimpico di Berlino, costruito per i Giochi del 1936? Con un nome greco o tedesco? Wilhelm Frick, ministro dell’Interno del Reich e, come tale, membro del Comitato organizzativo dei Giochi, redige una dichiarazione «relativa all’introduzione di un nome tedesco per lo stadio e il forum degli sport»:
La nuova installazione è edificata come un’arena per i combattenti d’élite di tutti i popoli. Inoltre, lo stadio e il forum degli sport saranno luoghi in cui i ragazzi e le ragazze tedesche saranno educati a diventare uomini e donne energici. Ritengo come piú degno di questo grande compito patriottico dare a queste sedi di lotta e di esercizio nomi tedeschi anziché nomi greci o latini30.
Frick propone pertanto di battezzare lo stadio Deutsche Kampfbahn, arena tedesca di lotta.
Trovandosi davanti all’opposizione di Goebbels, piú favorevole a un nome all’antica, Frick si rivolge allora alla Cancelleria del Reich per chiedere l’arbitrato del Führer. In una lettera datata 22 gennaio 1936 indirizzata a Lammers, segretario di Stato e capo della Cancelleria, Frick espone il suo contrasto con il ministro della Propaganda che ha proposto il nome grecizzante di Olympia-Stadion, ricordando che il primo stadio costruito a Grunewald per i Giochi, mai realizzati, del 1916 aveva avuto fino a quel momento il nome di Deutsche Kampfbahn. Frick richiede una decisione urgente, in quanto il battesimo dello stadio s’impone prima di cominciare a stampare documenti e biglietti d’ingresso, e l’intervallo prima dell’apertura dei giochi è di soli sei mesi31.
La risposta non si fa attendere. La decisione del Führer è comunicata a Frick due giorni dopo, con una lettera del 24 gennaio 1936: «Il Führer desidera che il Grande Stadio riceva il nome di Olympia-Stadion»32, optando cosí per quanto di piú greco esista. L’Hitler amante dell’antico interviene dunque a risolvere a favore degli antichi contro i moderni la querelle del battesimo. I «moderni» germanizzanti non abbassano per altro la guardia: il settimanale SS «Das Schwarze Korps» utilizza l’espressione «arena di combattimento dell’ambito sportivo del Reich (Kampfbahn des Reichssportfeldes)»33, perifrasi contorta e marziale che permette di designare lo stadio olimpico mediante una circonlocuzione che maschera il greco.
Giochi in abiti greco-romani: la grande messa in scena della parentela ellenico-germanica.
Hitler vuole infatti che i giochi si svolgano in abiti greco-romani. Lo stile architettonico prescelto è di un rigoroso neoclassicismo, e lo stadio è affiancato da una Freilichtbühne alla greca, un anfiteatro descritto dal «Völkischer Beobachter» come un «antico teatro»34 e destinato ad accogliere coregie all’aperto, ultima e prestigiosa realizzazione del programma nazionale dei Thingstätten35. Il 9 e il 16 agosto 1936, nel quadro della Dietrich-Eckhardt-Bühne, viene messo in scena l’Herakles di Händel, opera di tema greco scritta da un compositore tedesco, su un eroe celebre per le sue prodezze fisiche, ma anche per il legame che incarna fra il Settentrione indogermanico e il Mediterraneo nordico: Ercole che è, secondo l’«Olympia-Zeitung», l’«eroe fisicamente piú impressionante dell’Antichità», che già Tacito legava alla Germania36, e non solo un eroe nordico, ma anche colui che «ha introdotto i giochi riportando la corona d’alloro dalle rive del Danubio, cosí che, già a quell’epoca, i paesi nordici erano legati alla festa olimpica»37. La giornalista descrive l’atmosfera «fantastica» della rappresentazione in questi termini:
Veniamo trasportati nell’Antichità greca. I nostri sguardi passano oltre i musicisti e la musica sembra provenire da nessun luogo. A occupare la scena non sono attori, ma Eracle in persona e noi condividiamo, con empatia, il suo destino38.
Nello stesso momento, il 3 agosto 1936, e sempre in onore dei giochi greci, lo Staatliches Schauspielhaus di Berlino mette in scena l’Orestea di Eschilo, elogiata dal critico del «Völkischer Beobachter» per la «superba dea nordica»39 Atena40.
Cosí come la corsa a staffetta, la messa in scena dell’Herakles di Händel fa parte delle cerimonie che, durante i giochi, rappresentano con i costumi e le scenografie la prossimità della Germania contemporanea all’antica Grecia. Tra queste cerimonie, dobbiamo ricordare il fatto che Hermann Göring riceva i rappresentanti delle diverse delegazioni nazionali ai piedi dell’Ara di Pergamo, nell’Altes Museum di Berlino, iniziativa riportata dal «Völkischer Beobachter», con tanto di servizio fotografico41. Vi possiamo vedere i gradini dell’ara occupati da ragazze rivestite di drappi all’antica, oltre che da ragazzi atteggiati ad arcieri, con quel gusto spiccato per il kitsch in costume che ha caratterizzato anche altre cerimonie, come l’accensione e la partenza della fiamma tra le rovine di Olimpia. L’«Olympia-Zeitung» ha dedicato la sua copertina e un intero reportage fotografico alla sfilata di tredici ragazze vestite all’antica che accompagnavano il tedoforo sotto il sole greco42.
Al momento dell’accoglienza delle delegazioni, all’Ara di Pergamo, Bernhard Rust celebra, nel suo discorso, il carattere sacro dell’Olimpiade berlinese, rito funerario e memoriale cosí come lo erano i giochi greci: «I moderni Giochi olimpici hanno ritrovato le loro radici piú profonde», in quanto costituiscono un culto reso ai morti della Grande Guerra, la cui «vita è passata in un mondo nuovo, quello del mito, che comincia a penetrare e a fecondare il nostro pensiero, cosí come i greci, all’apice della loro civiltà, sono vissuti dello spirito del mito»43.
Oltre a queste grandiose cerimonie ufficiali di accoglienza e oltre le mostre d’arte correlate ai giochi, molte altre manifestazioni piú circoscritte hanno il compito di ricordare che il Terzo Reich resuscita, in occasione dei giochi, la Grecia antica, come accade con l’esposizione temporanea di due gruppi di nudi all’antica dello scultore Encke, sulla Pariser Platz, davanti alla Porta di Brandeburgo, a cui il «Völkischer Beobachter» fa pubblicità44.
L’ultimo grande vettore di promozione di questa parentela ellenico-germanica è il cinema. Il film olimpico di Leni Riefenstahl esalta, nel suo prologo, il corpo glorioso dell’atleta tedesco, resurrezione del corpo antico. Una volta acquisito il principio dell’organizzazione dei Giochi olimpici, il ministero per l’Educazione del popolo e della Propaganda assegna l’incarico di due film, uno per i Giochi invernali a Garmisch-Partenkirchen, che sarà intitolato Giovinezza del mondo, e l’altro per i Giochi estivi a Berlino. Il primo è affidato a Hans Heidemann, Reichsfilmdramaturg e vicepresidente della Reichsfilmkammer, il secondo a un’altra eminenza del cinema tedesco dell’epoca, appunto Leni Riefenstahl, molto apprezzata da Hitler per i suoi Bergfilme degli anni Venti e per il suo capolavoro, Das blaue Licht, grazie ai quali aveva ottenuto il compito di realizzare tre Reichsparteitagsfilme dal 1933 al 193545. Dotato di mezzi considerevoli, girato su 400 chilometri di pellicola, Olympia, composto da due parti, viene proiettato in occasione del compleanno del Führer il 20 aprile 1938, ottenendo il piú alto riconoscimento cinematografico del Terzo Reich, il Nationaler Filmpreis.
Le prime scene di Olympia sono eloquenti. Tra le rovine di Olimpia, la cinepresa filma statue di atleti greci che, a poco a poco, si animano e si slanciano sulla strada verso Berlino, in una corsa a staffetta che porterà la fiamma olimpica fino alla capitale del Reich. Il prologo di Leni Riefenstahl vuole essere un’allegoria del rapporto che i nazisti pretendono di avere con la storia greca: come il nazismo, la cinepresa restituisce vita alla pietra che ha fissato per i secoli quell’immagine della bellezza nordica compiuta che è il Discobolo di Mirone: «Nel Prologo […] l’ideale della forma classica si distacca [dal suo piedistallo] con la sua realizzazione vivente da parte dell’atleta odierno»46, commenta la regista.
La posa del discobolo fissato in una concentrazione intensa e pietrificata si prolunga nel movimento del lanciatore di peso dell’atleta vivente: la pietra greca si anima e diventa carne tedesca in una dissolvenza incrociata che celebra la continuità nordica. Per questa famosa scena, Leni Riefenstahl si era rivolta al celebre decatleta tedesco Erwin Huber, dal corpo glabro, abbronzato e tornito, che non mostra alcun segno di fatica o di sudore, e dunque non lascia trasparire alcun segno di natura umana sublunare. Scultoreo, e reso simile a una statua, il corpo di Huber è filmato con una inquadratura dal basso, come in precedenza il discobolo: cosí come l’opera di Mirone era il modello dell’atleta contemporaneo, allo stesso modo l’atleta è il modello di riferimento proposto alla contemplazione e all’imitazione dello spettatore.
Il prologo del film della Riefenstahl mette dunque in scena e in immagini il dialogo transecolare dei corpi di pietra greca e di carne tedesca, ma introduce anche al colloquio degli edifici. Le immagini girate tra le rovine antiche introducono infatti a quelle dello stadio olimpico di Berlino, grandioso edificio neoclassico che accoglie la fiamma olimpica dopo la sua traversata dell’Europa dal Sud al Nord: il gigantesco edificio neodorico della capitale tedesca fa eco alle rovine di Olimpia, che l’architettura nazista accoglie come legittima e degna eredità. Per legare i due poli dell’olimpismo, il santuario greco e Berlino, il ministero della Propaganda immagina di organizzare la corsa a staffetta della fiamma olimpica.
La corsa a staffetta della fiamma olimpica, metafora del legame tra ellenicità e germanità.
Nell’Antichità, per tutta la durata dei Giochi panellenici, un fuoco sacro era acceso sull’altare di Estia nel pritaneo di Olimpia. La prima fiamma olimpica dei Giochi contemporanei è stata accesa, secondo la volontà di Pierre de Coubertin, nello stadio di Amsterdam per i Giochi olimpici del 1928. È stata poi ripresa durante i Giochi di Los Angeles nel 1932, ma l’idea di una corsa a staffetta della fiamma olimpica si deve agli organizzatori tedeschi dei Giochi di Berlino, in particolare a Carl Diem, che nel 1937 pubblica un breve testo47 in cui spiega di aver voluto fare della corsa a staffetta una metafora del legame (Verknüpfung) tra antichità e modernità, tra ellenicità e germanità. L’idea seduce Goebbels, convinto che essa consenta di simboleggiare concretamente il legame fisico diretto che unisce la Grecia antica al nuovo Reich. Nonostante le circostanze della sua nascita e della portata simbolica che rivestiva, la corsa a staffetta della fiamma olimpica sarà conservata dal Cio anche dopo la guerra, ed è celebrata, ancora oggi, come una festa a cui si dà grande risonanza.
La proposta di Diem fu accolta dal Cio durante la sessione ateniese del 18 maggio 193448. Uno dei suoi membri, Jean Ketseas, amico di Diem, ha suggerito in quella sede di accendere il fuoco alla maniera antica, secondo il rito descritto da Plutarco nella sua Vita di Numa Pompilio. Ecco dunque che nel 1936 la fiamma viene accesa a Olimpia «come nell’Antichità», secondo le parole entusiaste di un corrispondente tedesco dell’«Olympia-Zeitung»:
Nell’antico stadio, nell’area consacrata, viene acceso il fuoco olimpico […]. Imitando l’Antichità, i greci accendono la loro fiamma olimpica nello stesso modo in cui gli antichi greci, secondo la descrizione di Plutarco, facevano sorgere il loro fuoco sacro49
per irradiazione dei raggi solari attraverso uno specchio concavo prodotto dal laboratorio ottico tedesco Zeiss, mentre la fiaccola è disegnata secondo modelli antichi. Walter Lemcke, scultore che realizza anche la campana dello stadio di Berlino, s’ispira a modelli, trovati da Diem e Lewald, di colonne a forma di fiaccola al museo di Eleusi, e di un bassorilievo attico del palazzo Colonna, a Roma. Questa abbondante documentazione sulle fiaccole è raccolta da Alfred Schiff, direttore amministrativo della Scuola superiore di educazione fisica (Hochschule für Leibesübungen), in occasione della mostra Sport der Hellenen. La realizzazione della torcia in acciaio V2A-Nirostal è a cura delle officine Krupp.
Il Fackelstaffellauf è preparato nei minimi dettagli dall’Organisationskomitee. Il direttore della Sportabteilung, Werner Klingeberg, procede personalmente a un sopralluogo sull’itinerario, compiendo il percorso al volante di una Daimler-Benz messa generosamente a disposizione dalla compagnia automobilistica, a titolo di mecenatismo.
L’accensione della fiamma a Olimpia, il 20 luglio 1936, e il suo percorso, sono accompagnati da numerosi giornalisti oltre che dall’équipe della Riefenstahl, che decide di girare nuovamente la scena dell’accensione per eliminare accuratamente ogni elemento anacronistico, grossolano o ridicolo che potrebbe venire ad alterare il carattere ieraticamente antico della scena. La copertura da parte della stampa è massiccia: il «Völkischer Beobachter» del 22, 23 e 24 luglio 1936 dedica ogni giorno un’intera pagina ad articoli e fotografie dell’accensione, alla partenza e ai primi chilometri della fiamma50, seguendo poi il percorso della staffetta con articoli giorno per giorno.
Per dodici giorni, su 3075 chilometri, 3400 corridori si scambiano la fiamma olimpica, fino al suo arrivo a Berlino il 1º agosto 1936, per l’apertura ufficiale dei giochi, dopo che è passata attraverso la Bulgaria, l’Austria, la Cecoslovacchia ed entrata sul territorio tedesco del futuro Altreich, il 31 luglio, tramite un villaggio frontaliero dal nome – non inventato a proposito – di Hellendorf, un toponimo fatto apposta per illustrare la stretta parentela fra greci e tedeschi.
La corsa della fiamma olimpica che, accesa tra le rovine della città dei giochi, arriva a illuminare la coppa dello stadio di Berlino, materializza in modo visibile e concreto la proclamata parentela tra i greci dell’Antichità e i tedeschi contemporanei, affermando mediante il cerimoniale una continuità dagli uni agli altri simile, nell’ispirazione, al corteo dell’arte tedesca a Monaco, che fa sfilare i carri delle diverse epoche dell’arte tedesca cominciando con la statua di Pallade Atena.
Il legame fisico creato da questa corsa tra due città, Olimpia e Berlino, esprime metaforicamente il legame indissolubile del sangue, che trascende la distanza spaziale e temporale. La corsa a staffetta fa dei tedeschi contemporanei i degni e puri eredi di un sangue e di uno spirito razziale cosí ben incarnato un tempo dai greci dell’Antichità, spingendo il legame di parentela verso una quasi-filiazione: la Germania originaria ha generato la Grecia, ma i greci antichi sono un po’ i padri della Germania odierna, che si sforza di imitarli per ritrovare l’armonia di uno spirito limpido e di un corpo perfetto cosí fedele allo spirito indogermanico. La corsa della fiamma è quella del genio razziale sull’asse lineare e progressivo del tempo, il processo del Geist e del Blut razziali sull’asse cronologico che collega greci e tedeschi.
Il simbolismo del fuoco ricorda inoltre la figura di Prometeo, metafora dell’ariano nel Mein Kampf, oltre al rituale antico del fuoco sacro. Nell’Antichità, ogni creazione di colonie implica la necessità di trasportare una fiamma dal focolare civico alla nuova città. Il fuoco delle vestali è stato introdotto nel Lazio da Enea che, significativamente, aveva lasciato Troia solo portando sulle spalle suo padre e avendo in mano la fiaccola della città. Con la loro messa in scena della corsa a staffetta, i nazisti ripetono il rito sacro della translatio igni, simbolo materiale e concreto della translatio imperii et studiorum operata dalla Grecia alla sua degna erede indogermanica, la Germania.
Paideia greca e educazione tedesca: der volle Mensch.
L’organizzazione dei Giochi olimpici ha dunque una duplice funzione di propaganda: vetrina del regime per i visitatori e gli atleti di tutto il mondo, i giochi devono funzionare come messa in scena memoriale del legame esistente tra la Grecia antica e la Germania contemporanea.
I giochi sono tanto piú un «compito nazionale» in quanto devono ancorare nello spirito e nel corpo del popolo tedesco una risoluzione volontaria e una piú ferma inclinazione verso la pratica regolare dello sport. Gli organizzatori dei giochi si prefissano lo scopo di creare un movimento di pratica sportiva sul lungo termine, e non solo una breve esaltazione limitata al tempo circoscritto di una sola estate. Come proclama il libro ufficiale degli organizzatori: «È [per noi] un dovere non meno importante quello di radicare una pratica duratura e perenne dell’esercizio fisico tra tutto il popolo tedesco»51. Lo spiega anche una dichiarazione congiunta di Goebbels, Frick e del Reichssportführer Von Tschammer und Osten: «Noi tedeschi ci siamo accontentati a lungo di prevalere nell’ambito dello spirito» per diventare «la nazione dei poeti e dei pensatori». Le contingenze del mondo reale, tuttavia, sono tali per cui «l’educazione del corpo deve trovare il suo posto accanto alla formazione dello spirito»52: la patria dei Dichter und Denker, atleti dello spirito, è anche quella degli atleti del corpo.
I giochi sono l’occasione per esaltare e promuovere un tipo umano che abbia raggiunto la perfezione, quello dell’uomo completo, che ha superato l’uomo scisso, diviso, amputato, dell’educazione tradizionale, eccessivamente intellettuale, e che ha disprezzato troppo il corpo. Il tema della completezza, del compimento dell’uomo greco ricorre ossessivamente nella letteratura e nella stampa dell’epoca. I giochi, «obbligo nazionale» sono anche «un obbligo per te», camerata del popolo, l’obbligo di praticare regolarmente un esercizio fisico che correggerà e perfezionerà il tuo corpo:
Il giovane greco nato dalla classe degli uomini liberi che si recava a Olimpia era idealmente sportivo, cantore, danzatore, guerriero e contadino, il tutto in un solo uomo. Noi avvertiamo doppiamente il bisogno di un tale modello da quando il nazionalsocialismo ha risvegliato in noi il desiderio di far rivivere la totalità della vita e di liberarci da […] l’intellettualizzazione generale53.
I greci hanno infatti incarnato il desiderio, profondamente nordico, di «trovare l’unità perfetta tra il corpo e l’anima»54, per fare in modo che «il corpo sia un tempio per uno spirito volitivo e nobile»55, un’idea che «è stata a lungo sopita nel flusso del nostro sangue»56 prima di essere risvegliata dal nazionalsocialismo e attualizzata dalla pratica dello sport.
Da convinto anticristiano, Rosenberg nel suo proclama del 17 luglio 1936 fustiga le «vecchie teorie che si sono sforzate, nei secoli passati, di strappare l’anima e lo spirito dal corpo»: Seele, Geist e Körper, una sana «trinità» che è necessario «predicare»57 nuovamente contro la santa Trinità astratta e mortifera dei nemici del corpo. Nella stessa edizione del «Völkischer Beobachter», un articolo commenta a lungo il passo del Mein Kampf in cui Hitler celebra l’«ideale di bellezza greco»58:
A partire dalla trinità armonica fra il corpo, l’anima e lo spirito, il greco ha creato l’ideale desiderabile dell’uomo completo. La cultura e la cura del corpo, la nobiltà dell’anima avevano in Grecia gli stessi diritti, ed è dalla sintesi di questi tre fattori educativi che procede la figura ideale del kalos kai agathos59.
L’educazione greca, come la nuova educazione tedesca, mira dunque semplicemente a far sí che si formi una gioventú «fisicamente forte, intellettualmente vivace e moralmente sana»60.
L’uomo completo, il voller Mensch, in rottura e in opposizione nei confronti dell’uomo fisicamente amputato del monachesimo orientale-ellenistico e del Medioevo cristiano, è dunque unanimemente celebrato dai baroni intellettuali e dai gerarchi politici del Reich. Nel pieno della campagna di stampa olimpica, il «Völkischer Beobachter» ritorna su questo tema citando Bernhard Rust, ministro dell’Educazione del Reich che, in occasione dell’apertura del Congresso internazionale dello sport giovanile, celebra l’«uomo armonioso», l’«uomo concepito come totalità»61, di cui la scultura greca ci offre un’immagine cosí sublime. Tale insistenza richiama la celebrazione dell’uomo totale greco e dell’educazione greca come sintesi riuscita tra il musisch e il gymnisch da parte dei due principali teorici della nuova pedagogia sotto il Terzo Reich, Ernst Krieck e Alfred Bäumler62.
Questa celebrazione di una paideia greca che forma l’uomo nella totalità della pienezza spirituale e fisica viene orchestrata anche dal settimanale delle SS, «Das Schwarze Korps», in un articolo del 1935 dedicato ai Giochi olimpici greci:
«I greci dell’Antichità educavano in modo esemplare il corpo alla bellezza e al movimento, ma non dimenticavano di approfondire la formazione del loro spirito. Mens sana in corpore sano, una frase del poeta Giovenale, è il motto di ogni educazione nell’Antichità»63, una «duplice educazione» che era affidata allo Stato attraverso i «ginnasi pubblici»64.
L’orizzonte ultimo della pratica dello sport, oltre la salute dell’individuo, la bellezza della razza e il vigore della comunità del popolo, resta l’agon supremo e vitale, non piú sportivo, ma guerriero, in quanto il primo è solo una propedeutica al secondo. Già in Grecia, la pratica indogermanica dello sport mirava ad agguerrire il corpo per prepararlo all’affrontamento guerriero. L’esercizio fisico regolare, secondo Solone, citato da una pubblicazione ufficiale del Comitato organizzativo dei Giochi del 1936, permette di assicurare «la libertà dell’individuo, l’autonomia e il benessere della patria»65.
Il corpo glorioso della razza e la sua antitesi.
La celebrazione del corpo greco non si limita al solo tempo dei giochi. L’arte ufficiale del regime concepisce se stessa come imitazione della tanto celebrata statuaria greca. Le sculture di Arno Breker e di Josef Thorak rappresentano maschi atleti e virili guerrieri, nudi e vigorosi, secondo i canoni dell’arte greca, incrociati tuttavia all’aggressività tutta bellicosa che il regime intende promuovere.
L’arte ufficiale nazista mira a rendere visibile il canone fisico elevato a norma, a campione della nuova razza da produrre. Si definisce inoltre per contrasto e in opposizione a un altro tipo di manifestazione fisica, quella del non-ariano. Nel corso dell’esposizione Le Juif éternel, organizzata a Parigi nel 1941, una statua di Breker, che rappresenta un atleta nudo, troneggia al centro di calchi e fotografie di corpi ebrei, come criterio di misura, come riferimento estetico e antropometrico, che mira a rendere stridente il contrasto tra la bruttezza ebraica esibita e la bellezza ariana66.
Il tipo corporale ariano, infatti, non può concepirsi senza un controtipo che ne esalti e ne accentui la bellezza. Mancando ogni conoscenza del Dna e dunque ogni possibilità di una seria indagine genetica67, il XIX secolo e l’inizio del XX definiscono una razza attraverso criteri puramente fenomenici. La razza è fondamentalmente un sangue, scevro di ogni mescolanza, un colore, e un corpo, un corpo che è il testimone immediato e necessario della purezza o della mescolanza razziale. La miscela razziale, il crimine razziale, si legge sulla fenomenalità del corpo. Il corpo la esprime e la dà a vedere: un Mischling porta necessariamente sul suo corpo le stimmate dell’infamia razziale (Rassenschande) e della degenerazione (Entartung o Ausartung).
Il controtipo dell’ariano è l’alterità che è immediatamente presente agli occhi dei nazisti. Si tratta dell’ebreo. Il nero è piú lontano. Contamina e corrode la Francia coloniale, in via di negrificazione68, e gli Stati Uniti, ma risparmia la Germania: Hitler gli dedica solo rapide allusioni, anche se i nazisti sono assillati dalla questione dei Rheinlandbastarde, figli illegittimi di fucilieri francesi neri stanziati nella regione del Reno durante l’occupazione della Ruhr. Il problema dell’ebreo, del controtipo ebraico, è dato dal fatto che la sua alterità non è necessariamente visibile, che il suo corpo non sempre reca il marchio della sua differenza. L’ebreo tedesco è spesso ben integrato socialmente, e non si distingue piú nemmeno per l’aspetto degli abiti: è invisibile, inafferrabile. Il nazismo si sforzerà dunque di renderlo visibile, per offrire all’ariano il controtipo fisico che definirà per contrasto la sua eccellenza e la sua bellezza.
I nazisti definiscono quindi criteri antropometrici, ritenuti tali da differenziare l’ebreo dagli ariani. L’antropometria nazista riprende cosí il logoro stereotipo, ereditato dall’antigiudaismo cristiano, del naso ebraico adunco, all’opposto del naso greco diritto69. La definizione di questi criteri si basa su una già consolidata tradizione di antropometria70, nata nel XIX secolo. Essa è affidata a medici SS dell’Ufficio della razza e della colonizzazione (RuSHA) creato nel dicembre 193171.
Il razziologo Ludwig Schemann si meraviglia e si rallegra di incontrare il fenotipo nordico in una qualsiasi storia dell’arte greca:
Si possono […] sfogliare centinaia e centinaia di riproduzioni greche senza incontrare nient’altro che questa bellezza la cui opposizione al tipo semitico è diventata, a ragione, proverbiale72.
I nazisti illustrano il contrasto fra tipo e controtipo anche servendosi della riproduzione di immagini di ebrei scelte espressamente per la loro bruttezza. Queste immagini mettono in scena ebrei volutamente selezionati per le palesi differenze che possono mostrare. I film della propaganda razzista dei nazisti, in particolare Der ewige Jude, realizzato nel 1940 da Fritz Hippler, non mettono cosí in scena ebrei tedeschi ma ebrei del ghetto di Varsavia, abbigliati del loro costume tradizionale, e provati dalle condizioni della loro penosa sopravvivenza. Le angherie, la carestia, la malattia deformano e segnano i corpi, rendendoli adatti a suscitare la repulsione del pubblico. I corpi famelici, spossati, i volti sporchi e mal rasati, dalle gote scavate, devono produrre un’immagine visibile e viva della degenerazione corporale che gli ebrei, cosí si crede, incarnano, e della minaccia che ogni mescolanza con la loro sotto-umanità rappresenta. Il film Der ewige Jude assimila esplicitamente l’ebreo a un animale: si apre con la scena ripugnante di un pullulare di ratti, che rinvia in tal modo all’idea che l’ebreo ha un’animalità disgustosa, che lo esclude dall’umanità, e fa appello a una politica risoluta e salvifica di derattizzazione. Ancor piú perverso e minaccioso del ratto, l’ebreo è spesso assimilato a un verme, a un insetto o a un batterio. Nel film, la bruttezza ebraica è opposta alla perfetta e armoniosa plastica delle statue greche, che appaiono in una sequenza in cui il commentatore enumera i tesori culturali minacciati dalla barbarie semita.
Contro la decadenza e la perversione, contro l’avvelenamento del sangue e dello spirito, è necessario ritrovare i canoni incontestabili di un’arte che sia pura espressione del genio nordico. I nazisti, iconoclasti e autori dei roghi dei libri, scatenano la loro violenza contro una cultura che reputano viziata e contagiosa, in nome di una cultura superiore, quella del genio nordico, il cui canone è costituito dal trittico dell’arte greca, dell’arte medievale germanica e dell’arte del Rinascimento italiano. Questa sequenza dell’eterno ebreo presenta «la concezione della bellezza secondo l’uomo nordico», che fa sfilare opere greche, del Medioevo germanico e rinascimentali sull’aria della Toccata di Bach prima che appaiano opere di arte degenerata su un’aria dalla risonanza orientale molto marcata.
Questo confronto del tipo e del controtipo era già stato messo in scena nel corso di due esposizioni famose, e concomitanti, a Monaco, nel 1937. Il 18 luglio 1937 è inaugurato il museo dell’Arte tedesca, la Casa dell’arte tedesca, di cui Hitler aveva posato la prima pietra nel 1933. Questo museo deve raccogliere tutte le creazioni del genio germanico contemporaneo, in una Grosse Deutsche Kunstausstellung dove le opere sono inesorabilmente selezionate da una giuria che Hitler in persona si compiace di presiedere. L’esposizione, sotto l’egida delle sculture di Thorak e di Breker, consacra la bellezza del corpo ariano. L’indomani si apre, nella stessa città, la mostra itinerante Entartete Kunst (L’arte degenerata). Significativamente, l’accento cade sul corpo: il catalogo dell’esposizione presenta, su 57 riproduzioni, 52 immagini di corpi, di corpi deformi e malati, deturpati dall’ansia, rosi dall’angoscia. La copertina, in particolare, rappresenta una scultura di Freundlich, intitolata Der neue Mensch (L’uomo nuovo). La testa, sfregiata dal vaiolo e orrenda, ha labbra prominenti e un naso camuso, occhi sporgenti e obliqui, bozze frontali, tutti segni che rinviano alla negritudine e a una malattia mentale del tipo del mongolismo. Il messaggio è esplicito: l’uomo nuovo dell’arte degenerata e della regressione razziale è distante mille miglia dall’atleta solare e radioso esaltato dal nazismo. L’arte degenerata, qualificata come bolscevismo culturale (Kunstbolschevismus), è interpretata come il sintomo di un’alterazione mentale, dovuta a sua volta alla mescolanza razziale. Il catalogo si compiace nel giustapporre opere d’arte e disegni di malati mentali73, invitando espressamente il lettore a distinguere l’opera d’arte dallo scarabocchio. Due opere di Oskar Kokoschka sono cosí messe accanto a uno schizzo realizzato da un malato mentale: «Quale di questi tre disegni è l’opera da dilettante dell’ospite di un manicomio? Eh no: è la prima, in alto a destra!»74. Ritroviamo qui la corrispondenza tra apparenza fisica, essenza morale e produzione dello spirito. Per i nazisti, opere brutte e ripugnanti non possono dunque che essere prodotte da corpi e da spiriti malati i quali, come le loro opere, presentano un rischio di contaminazione. Al contrario, la produzione e l’esposizione di opere belle, la riproduzione di corpi belli contribuiscono a generare una razza perfetta grazie a un fenomeno di ispirazione, addirittura di duplicazione, che conferisce all’immagine un’efficacia performativa che ha a che fare con la magia.
Per i nazisti, si tratta di ricostruire una razza ideale che era esistita nel passato, persino, al limite, di costruire questa idealità razziale tentando di superare la perfezione estetica ed etica di cui la pietra greca ha conservato l’immagine.
La resurrezione del canone antico.
Nel discorso pronunciato a Monaco, nel luglio 1937, per l’inaugurazione del museo dell’Arte tedesca, Hitler si congratula per i progressi razziali del suo popolo, visibili nel corpo stesso dei tedeschi i quali, secondo lui, tendono a raggiungere il canone antico:
La nostra epoca prepara l’avvento di un nuovo tipo di uomo. Notevoli sforzi sono realizzati in innumerevoli ambiti per consentire al nostro popolo di rialzarsi, per rendere i nostri uomini, i nostri bambini, i nostri giovani, le nostre ragazze e le nostre donne piú sani, piú forti e piú belli […]. Mai come oggi l’umanità è stata piú somigliante, spiritualmente e fisicamente piú vicina all’Antichità75.
Il mondo intero ha potuto contemplare questi corpi l’anno precedente, nel 1936, in occasione dei Giochi olimpici di Berlino. Concepiti come il grande teatro della bellezza nordica, i giochi sono stati la vetrina internazionale del regime, una parata della razza, la parusia di un corpo glorioso e di un nuovo tipo d’uomo: hanno consentito l’esibizione di corpi puri e perfetti, creati da un’esemplare politica eugenista e di selezione, quella dello Stato völkisch.
L’eugenismo di Stato mira alla palingenesi del canone razziale. Il riferimento all’Antichità è fondamentale, in quanto la statuaria greca conserva l’immagine della norma. Hitler lo ripete un anno dopo, a Monaco, nel 1938, nel discorso che pronuncia mentre riceve il Discobolo Lancellotti76, acquistato dai musei di Monaco per la somma di cinque milioni di Reichsmark, secondo la volontà del Führer e con il benevolo assenso di Mussolini, in quanto ne era proprietario lo Stato italiano. Nel suo discorso, il Führer esorta il suo popolo a diventare simile a quello che egli considera il canone estetico della razza nordica, il modello da imitare:
Possiate trovare in esso un’unità di misura per i compiti e le realizzazioni del nostro tempo. Possiate tendere tutti verso il bello e il sublime, perché il nostro popolo e la nostra arte sostengono anche lo sguardo critico dei millenni77.
Rispetto alla posterità, si tratta dunque di incarnare essi stessi il canone fisico nordico, in quanto i tedeschi del Terzo Reich devono entrare nell’eternità al pari dei greci che hanno lasciato loro in eredità l’immagine della perfezione. La copertura mediatica dell’evento, accoglimento della statua e discorso di Hitler, insiste sul carattere fisicamente canonico del Discobolo: i notiziari cinematografici del 20 luglio 193878 dedicano pertanto una lunga sequenza alla bellezza plastica dell’opera, prima di soffermarsi sulla pratica contemporanea dello sport con un reportage sui Reichswettkämpfe delle SA.
L’eugenismo nazista non si limita a escludere e ad annettere. Vuole anche educare i corpi alla performance e alla bellezza. L’ideale greco della bellezza fisica è, ancora una volta, determinante. In un discorso già citato, Hitler invita i suoi ascoltatori non solo a imitare la bellezza del Discobolo di Mirone, ma anche a superarla. Nel 1937, Hitler constatava con soddisfazione la prossimità dei tedeschi contemporanei all’ideale greco. Nel 1938, non si accontenta piú di questo:
Fate in modo, tutti voi che visitate questa Casa, di recarvi alla Gliptoteca e di vedere fino a che punto l’uomo, un tempo, era bello, quanto fosse bello il suo corpo. Non possiamo parlare di progresso se non riusciremo a eguagliare questa bellezza. Ma non è tutto: dobbiamo, se possibile, superarla79.
L’impegno è ambizioso, ma Hitler è convinto che la politica risoluta di promozione dello sport e dell’igiene razziale da parte del nazismo permetterà di portarlo a compimento da qui a un secolo. Dopo aver fantasticato sulla fotografia di una «bella nuotatrice», affida ad Albert Speer queste considerazioni:
Che splendidi corpi si vedono ai nostri giorni! Soltanto ora, nel nostro secolo, la gioventú torna ad avvicinarsi, attraverso lo sport, agli ideali ellenistici. Quanto si trascurò il corpo nei secoli andati! Da questo punto di vista, la nostra epoca culturale si differenzia da tutte le altre, dall’Antichità in poi80.
In che modo eguagliare, addirittura superare l’ideale di bellezza greco? Si dovrà scolpire la materia vivente per ottenere un corpo che sia di «ispirazione greca», in quanto il «tipo greco classico» è «il modello della mente sana in un corpo sano»81. Dobbiamo essere noi stessi artisti, conformare la carne del corpo, come gli artisti greci hanno un tempo dato forma a blocchi di marmo.
Nello Stato razzista nazista, ogni individuo è investito della responsabilità di attribuire al proprio corpo, attraverso lo sforzo, la piú bella e la piú vigorosa delle forme possibili. Questa responsabilità trascende il solo benessere o la semplice bellezza individuale. Al di là dell’individuo, il corpo, in virtú di un principio olistico, appartiene al popolo e alla razza o, come afferma uno slogan nazista, al Führer. L’attività di perfezionamento individuale del corpo ha una ripercussione sulla razza nel suo insieme82.
Questa opera di perfezionamento fisico è realizzata sotto la direzione e il controllo dello scultore capo, il Führer. La metafora del Führer-scultore, del Führer-artista, è corrente sotto il Terzo Reich, come mostra un celebre disegno apparso su «Kladderadatsch»83 nel 1933, che rappresenta Hitler mentre plasma la carne dell’umanità per trasformare un’opera d’arte degenerata in un guerriero alla Breker. Determinati e animati dal desiderio di cambiare il corso della storia, i nazisti si compiacciono di assumere la posa del demiurgo e del creatore. Come dice Joseph Goebbels:
La massa non è altro per noi che un materiale informe. È solo grazie alla mano dell’artista che dalla massa nasce un popolo e dal popolo una nazione84.
Goebbels lo ripete ancora piú esplicitamente in una lettera aperta a Wilhelm Furtwängler:
ci sentiamo artisti ai quali è stato affidato il compito, gravido di responsabilità, di forgiare dalla rozza materia della massa la struttura solida e ben costruita del popolo85.
Il Führer e lo Stato scolpiranno dunque la materia razziale del popolo tedesco con un occhio fisso sul canone antico: dovranno scalpellare, tagliare, cesellare e levigare a partire dall’antico.
La bellezza antica rappresenta la norma della perfezione razziale, il campione tanto della nobiltà quanto della bellezza del corpo nordico. Un opuscolo di formazione ideologica insegna alle SS a valutare la nordicità del corpo contemporaneo paragonandolo alle rappresentazioni del corpo greco o romano. Una doppia illustrazione già ricordata86 rappresenta un giovane SS fotografato di tre quarti direttamente a fianco di un profilo romano, a partire dalla convinzione che il nordico contemporaneo corrisponda in modo evidente all’indogermanico romano87.
Nello stesso libretto si offriva anche un’opposizione fra il tipo nordico e il controtipo semita attraverso la giustapposizione di due ritratti del casellario giudiziario presentati come quelli di due ebrei appositamente sporchi, arruffati e mal rasati, accusati di Rassenschande, di crimine sessuale contro la razza, un’infrazione delle leggi di Norimberga, che vietavano loro ogni relazione con donne ariane, e di una statua antica, con corpo e volto efebici e apollinei88. La giustapposizione tra i due ceffi patibolari e la serena armonia dell’efebo greco in «atteggiamento di preghiera nordica»89, e il semplice fatto di immaginare una qualunque attività sessuale dei primi due in grado di contaminare il terzo, mira a provocare il disgusto del lettore.
Dall’agon greco allo sport tedesco.
Il primo mezzo per la conformazione dei corpi è lo sport, la pratica fisica e agonale che è stata trasmessa dalla Grecia, le sue palestre e i suoi Giochi olimpici. I Giochi olimpici, per altro, hanno mostrato al mondo intero l’eccellenza del corpo tedesco rigenerato:
Competizioni sportive, gare, giochi irrobustiscono milioni di giovani corpi e ce li mostrano sempre piú sotto una luce che non si conosceva piú da forse mille anni. Un nuovo tipo umano, raggiante di bellezza, sta per crescere […]. Questo tipo d’uomo [lo abbiamo visto] apparire agli occhi del mondo intero per la prima volta lo scorso anno, durante i Giochi olimpici90.
Nel Mein Kampf Hitler dichiara senza esitare che il sistema educativo dello Stato razzista deve essere un’impresa di produzione di corpi atletici, belli e resistenti. Hitler fustiga un insegnamento tradizionale troppo orientato verso l’apprendimento intellettuale, un insegnamento che produce cervelli senza corpo. La scuola tedesca ha dimenticato il modello greco, anche se, nel nome di Gymnasium, ne rivendica la prestigiosa ascendenza. I greci sviluppavano armoniosamente il corpo e lo spirito. I Gymnasien producono sapienti deformi, eruditi fisicamente deboli:
Quello che oggi viene chiamato Gymnasium è una deformazione vergognosa del suo modello greco. Nella nostra educazione abbiamo dimenticato che, in fondo, una mente sana non può che albergare in un corpo sano91.
Il sistema educativo tedesco ha dunque dimenticato i principî fondamentali dell’educazione: il corpo deve essere sviluppato almeno quanto lo spirito. Uno spirito ipertrofico in un corpo malato è solamente sintomo di degenerazione:
lo spirito sano e forte si trova solo nel corpo sano e forte. Il fatto che talora i geni furono di corpo poco sano o magari infermo, non dice nulla in contrario: si tratta solo di eccezioni che, come sempre, confermano la regola92.
La priorità dell’educazione scolastica in uno Stato razzista spetterà dunque all’educazione fisica, mirante «a educare corpi sani. Solo dopo, in un secondo tempo, viene lo sviluppo delle capacità spirituali»93. Hitler raccomanda la pratica quotidiana di due ore di sport come minimo94. Il sapere di tipo intellettuale è svalutato: è destituito e respinto come ingombrante, nient’altro che un’inutile zavorra che paralizza l’istinto e anestetizza lo spirito di decisione, sprofondando l’individuo nella passività di una contemplazione abulica e nell’apatia della fatica intellettuale.
L’esaltazione dello sport è il ritornello del peana cantato alla gloria di un corpo che i nazisti rivendicano di riscoprire dopo due millenni di alienazione giudaico-cristiana. L’attenzione rivolta al corpo, e la dignità conferita al corpo nudo costituiscono altrettanti argomenti che vengono a sostenere la tesi di una parentela nordica tra greci e tedeschi: la loro comune prossimità alla natura, la loro assenza di distanza rispetto al corpo, la loro pratica del naturismo.
La Lebensreform della fine del XIX secolo aveva esaltato la libertà del corpo, il riavvicinamento alla natura, l’igiene e la pratica dell’esercizio fisico per rompere con una civiltà urbana e industriale giudicata spiritualmente malsana e fisicamente diffamante95. A partire dagli anni Venti, un ufficiale della Reichswehr, Hans Surén, interpretando nel modo piú puro lo spirito della riforma della vita e il lirismo bucolico alla Wandervögel, è diventato il cantore ispirato e lirico della pratica dello sport nudo, combinazione di una Fkk96 tradizionale e dell’educazione fisica e ginnica ispirata alla pratica militare. Autore di successo, vende 175 000 copie della sua opera principale, L’uomo e il sole. Lo spirito ariano-olimpico97, pubblicata una prima volta nel 1924 e riedita con prefazione all’epoca dei Giochi del 1936. Vi sviluppa la tesi secondo cui l’uomo nordico è un essere solare, che vive in immediata prossimità e in totale armonia con la natura. In una nudità che – una volta cadute tutte le artificiose barriere della morale giudaico-cristiana e dell’abbigliamento, di una cultura ostile al corpo – gli consente di raggiungere la magna mater alma di ogni vita. Surén definisce la razza nordica non solo ricorrendo a un fenotipo fisico, ma anche – seguendo in questo Ludwig Clauss, inventore della psicologia razziale – attraverso una psiche collettiva, uno spirito, che egli qualifica nel caso specifico come ariano-olimpica. Questo spirito è fatto di «sole, natura e nudità»98, una sintesi di sport, di naturismo, di esposizione permanente all’aria e alla luce che già caratterizzava gli antichi greci, «nostri antenati»99. L’esempio dei greci è sviluppato nel corso dell’intera opera per dimostrare la prossimità tra la razza nordica, la natura e il sole:
Amici, ricordate il tempo glorioso degli antichi germani e dei greci! Una pelle bruna era la prima caratteristica che si richiedeva a un uomo, una pelle bianca era invece considerata femminile100.
Per restituire l’ardore della battaglia ai suoi uomini che stanno per cedere all’assalto dei persiani, Leonida – come ricorda Surén – mostra loro i corpi nudi dei prigionieri persiani, «la cui pelle bianca suscitò un effetto tale sui greci da farli ridere di quegli uomini effemminati, cosí che ripartirono all’assalto pieni di coraggio contro il nemico superiore di numero, fino a provocarne la disfatta quasi completa»101. Gli antichi dunque, a differenza delle donne delicate del XVIII secolo, non tenevano a preservare il candore immacolato della loro pelle nordica. Da uomini completi, la esponevano all’aria e alla luce del lavoro e delle guerre, e disprezzavano le carni adipose e bianche come alabastro dei persiani. Poiché «gli antichi amavano il sole piú di tutto», e «le virtú terapeutiche del sole erano ben conosciute dai popoli del mondo antico (egizi, greci e romani)»102, i greci vivevano la maggior parte del tempo nel modo piú semplice e naturale, senza avvertirne il minimo disagio: gli antichi greci e gli antichi germani «non sono mai stati pudibondi. Il corpo nudo era naturale per loro, sacro e bello, una vera gioia»103. I giovani in particolare erano avvezzi «a una nudità in comune»104, senza reticenze né falso pudore. Surén cita a lungo Plutarco là dove descrive la coesistenza di ragazzi e ragazze di Sparta che assistevano nudi alle cerimonie poliadi e cosí partecipavano alle prove sportive, allo scopo di valutarsi ed emularsi reciprocamente. Si trattava inoltre di scegliere il compagno adatto per procreare corpi belli in grado di costituire una razza sana e pura105.
La condanna della nudità è sopraggiunta con l’irruzione in Grecia di una dottrina ostile al corpo e alle cose terrestri, rivolta alla chimera di un ipotetico oltre-mondo e alla distruzione di questo. Il cristianesimo asiatico e semitico ha distolto l’uomo nordico dal proprio corpo e dalla comunione con gli elementi106.
Questa condanna del cristianesimo e del suo disprezzo del corpo e del mondo è ricorrente tra i nazisti, che in parte la prendono in prestito da Nietzsche. Per disarmare i barbari del Nord, i semiti non hanno trovato niente di piú efficace del dogma del peccato originale e della colpevolizzazione di tutto ciò che riguardava il corpo, quel corpo vigoroso e bello che fondava l’identità e la fierezza della bestia bionda germanica. Come scrive Richard Darré, che richiama ed esalta l’esempio della nudità spartana:
La razza nordica è sempre stata estranea a ogni negazione del corpo. Solo quando è sorta a est l’ombra immensa di un’ascesi ostile alla bellezza, essa ha provocato, nell’Antichità, un’eclissi della cultura107.
Il corpo è allora diventato la detestabile matrice del peccato, peccaminosa materia carnale che è ora necessario mortificare attraverso l’ascesi e la macerazione.
Il settimanale delle SS, «Das Schwarze Korps», esprime queste lamentele con due articoli dedicati alla questione della nudità nell’arte e alla pratica del nudismo108:
Ci fu un tempo in cui l’opposizione tra il corpo e l’anima costituiva la pietra angolare del pensiero. La dogmatica cristiana del Medioevo, nella sua lotta contro una élite nordica cosí attiva e felice di vivere, ha utilizzato l’idea orientale del peccato originale […]. Alla fine, la concezione nordica ha avuto la meglio sull’universo medievale e cupo della colpa e del peccato. Sappiamo, come avevano già compreso i greci e i romani, da bravi uomini nordici, che un’anima sana non può che albergare in un corpo sano109.
Contro un’epoca medievale e cristiana che erige a dovere l’odio di sé, i greci e i romani consentono dunque di ritrovare le radici nordiche di una piena salute corporea e mentale. Grazie al ricorso all’Antichità, è possibile riannodare la catena dei tempi, interrotta dal cristianesimo, elemento non germanico, essenzialmente semitico. Si tratta di ritrovare quella gioia semplice e immediata del corpo che era propria dei greci, e che è stata negata, rimossa, condannata da un’ascesi malata oriental-semitica:
Il popolo nordico dei greci, a suo tempo aveva indicato le sole regole valide per una rappresentazione del corpo della nostra razza. A partire dal momento in cui, nel Rinascimento, il sentimento nordico della vita si è imposto contro l’oscurantismo monastico, le figure della plastica classica sono apparse al mondo intero come le espressioni piú perfette della nostra concezione del bello110.
Surén descrive con emozione il modo in cui i greci, nel corso della settima Olimpiade, inaugurarono la pratica dello sport olimpico nudo. Il passo, vera ipotiposi dal lirismo esaltato e dall’omofilia111 piú che latente, merita di essere citato:
I greci arrivano da ogni parte. Le toghe ampie e morbide scendono con grazia dalle spalle, coprendo solo in parte i corpi. Le braccia nude, dorate dal sole, sono ben formate, anche tra i sapienti che convergono verso lo stadio conversando in tono serio. Questi giovani dal corpo superbo, per lo piú nudo, e abbronzato, trasmettono un’immagine felice. Gli occhi dei ragazzi brillano di fierezza e della consapevolezza della loro forza in divenire112.
La tradizione riporta che durante questi giochi il corridore Orsippo di Megara nel bel mezzo della corsa si libera del suo perizoma, inaugurando la pratica della nudità sportiva. Le scene di questo tipo abbondano nell’opera. Tutto questo permette a Surén di ricordare che «in Grecia si sapeva quanto la cultura del corpo fosse legata alla vita, alla morte, alla prosperità di un popolo»113:
La nudità e la ginnastica sono da secoli all’origine della forza e della salute del popolo greco. È da nudi che, ogni giorno, gli elleni si esercitavano nel ginnasio o in palestra114.
È dunque necessario, per la salvezza della Germania e della razza nordica, di cui i tedeschi contemporanei sono i soli e ultimi autentici rappresentanti, ritrovare lo «spirito vitale della Grecia» che «è fondamentalmente uno spirito germanico. Entrambi derivano dalla stessa fonte ariana»115. Surén si permette di essere piú realista del re e di contestare la denominazione di Giochi olimpici per i Giochi di Berlino dell’estate 1936. Se, infatti, «il vero spirito olimpico è uno spirito ariano»116, constatazione che è alla base del titolo dell’opera, allora «lo spirito olimpico internazionale è una contraddizione in sé, poiché lo spirito olimpico non può essere che ariano»117, e solo la «razza nordica»118 incarna questo spirito. Di conseguenza «sarebbe stato meglio qualificare questi giochi internazionali non come Giochi olimpici, ma come giochi sportivi mondiali, poiché è proprio di questo che si tratta. I Giochi olimpici dovrebbero essere riservati ai popoli che hanno prevalentemente sangue nordico»119: l’ospitalità olimpica lascia il posto all’ostilità, l’internazionalismo di Coubertin all’esclusivismo della razza.
È arrivato il momento di ritrovare lo spirito ariano-olimpico, dato che, con l’ascesa al potere dei nazisti, si è creata una congiuntura politica favorevole. La rinascita della Germania presuppone una rinascita del corpo della razza nordica che è depositato nella memoria di pietra della statuaria antica. Surén fa del modello greco, emerso dalle profondità del corpo e dello spirito della razza, l’ideale regolatore del popolo tedesco a venire:
«La nostra epoca, oggi, è matura per una rinascita della germanità e dell’ellenicità grazie a una pratica dell’esercizio fisico», in quanto la Germania prova una «profonda nostalgia per la nobilitazione germanico-ellenica di tutto il nostro essere corporeo»120.
Dallo sport alla guerra.
A questo punto si scivola dallo sport alla guerra, dall’estetico allo strategico, dal bello al bellicoso. Lo sport ha certamente la vocazione di creare la salute e la bellezza. È dunque al servizio dell’individuo e della razza. Ma serve anche il popolo e lo Stato, poiché l’orizzonte ultimo dell’esercizio fisico è appunto la guerra. Il punto di riferimento utile è anche a questo proposito, secondo Surén, il modello greco dell’educazione fisica di Stato:
A partire dall’ascesa al potere del nazionalsocialismo, viviamo in un’epoca d’azione. L’azione esige da ogni nazionalsocialista che plasmi il proprio corpo secondo i precetti dello spirito ariano-olimpico. Il grande legislatore Solone ha innalzato l’educazione ginnica al rango di educazione di Stato. La ginnastica è diventata un dovere del cittadino, e oggi deve diventare un dovere del popolo. Su di essa si fonda la prestazione non solo dell’atleta, ma anche del soldato121.
Solamente una tale educazione fisica di Stato permetterà al corpo della razza di rafforzarsi e di protendersi verso la guerra: «Siate degli eroi, come lo erano i vostri antenati»122, esorta lo sportivo-ufficiale Surén, che vuole assistere all’avvento di figure atletiche, estetiche ed eroiche «a imitazione dei nostri antenati di Grecia e di Germania»123.
Göring presenta in questi termini un’opera dedicata ai Giochi olimpici del 1936:
L’avvento dell’uomo nazionalsocialista si ha solamente quando l’educazione dello spirito è associata al rafforzamento del corpo, che deve essere simile all’acciaio […]. Che questa opera possa fare appello alla gioventú tedesca e mostrarle che una disciplina ferrea, un’ambizione disinteressata e lo spirito di gruppo sono i garanti di quella vittoria colma di onori che noi ci aspettiamo da essa124.
Lo sport è innalzato a imperativo individuale e politico. Produce corpi sani che saranno utili alla comunità, nel lavoro della pace e nelle attività della guerra. Bisogna dunque irrobustire i corpi, conferire loro la durezza, la resistenza e la plasticità dell’acciaio, quello delle macchine, delle macchine da guerra: «Il ragazzo, dopo l’attività quotidiana, deve indurire il suo corpo, renderlo simile all’acciaio»125, scrive Hitler. La metafora dell’acciaio è onnipresente quando si tratta di evocare gli esercizi del corpo. Lo sport che Hitler raccomanda piú di tutti, oltre la ginnastica, è la boxe, che addestra alla resistenza, alla rapidità e all’aggressività, uno sport di lotta che deve essere una propedeutica all’affrontamento della guerra126. Il corpo prodotto, fabbricato dalla zootecnica razzista del nazismo e dalla pratica dello sport è dunque, in ultima analisi, il corpo del guerriero, un corpo tornito, duro, e freddo, scolpito non per le delizie della contemplazione estetica, ma per l’ineluttabile orizzonte della lotta.
Il modello del corpo ariano è il corpo aggressivo del guerriero minaccioso e imponente, di cui Breker è specialista, e i cui migliori esempi sono i due nudi che rappresentano l’uno il partito (Die Partei), che impugna una fiaccola, l’altro l’esercito (Die Wehrmacht), riconoscibile dalla spada, che dal 1937 accolgono i visitatori della Cancelleria del Reich, a Berlino. Oltre a queste due realizzazioni, Breker aveva tracciato lo schizzo di modelli di bassorilievi destinati a ornare gli edifici pubblici del futuro asse monumentale nord-sud che doveva costituire la spina dorsale della nuova capitale del Reich, Germania. Breker immaginò una serie di nudi guerrieri, dalla muscolatura in rilievo e ben sagomata, e il cui principio riprendeva una tematica antica. Questi nudi dovevano essere rappresentati di profilo e fissati come archetipi dello spirito cameratesco, delle rappresaglie, della partenza per la guerra, della vigilanza. La loro funzione è dunque quella di altrettante allegorie delle virtú virili e militari dei cittadini della nuova Germania, virtú marmoree ed eterne, emerse dal piú remoto passato della razza e rinvigorite dal nazionalsocialismo. I progetti di Breker sono dominati dalla figura dell’oplita: i suoi nudi sono per lo piú muniti del peplo greco, la cui rappresentazione dà luogo a effetti efficaci di drappeggio, oltre che dell’hoplon, lo scudo rotondo del fante greco, e di un gladius, che, per la sua forma e per il fodero, evoca maggiormente Roma. Il sincretismo greco-romano è evidente in uno dei progetti di bassorilievo monumentale di Breker, Der Wächter, oltre che nell’abbozzo di un fregio monumentale per la Soldatenhalle di Berlino, Auszug zum Kampf, imitazione evidente del fregio del Partenone, ornato però da aquilae piú caratteristiche delle legioni romane. Questa apparente confusione può sorprendere, ma la presenza concomitante di elementi greci e romani non si deve né a inavvertenza né a ignoranza dell’artista. Dobbiamo piuttosto pensarla come intenzionale e significativa: mescolare in tal modo il greco e il romano permette la rappresentazione sintetica di un’umanità germanico-nordica vista sotto la luce sincretica dell’unità della sua razza, astorica e ageografica; opliti e legionari, greci e romani si fondono e si confondono per mostrare l’archetipo eterno del guerriero nordico che la nuova Germania resuscita. Di per sé la figura dell’oplita, come allegoria astorica e nordica della guerra, è presente in altri artisti del tempo, come Willi Meiler o Hubert Netzer.
Erotica del nudo antico nazista.
Con la Gewalt, va di pari passo la Faszination. Questi corpi aggressivi sono al contempo corpi desiderabili. L’inflazione delle sculture di nudi sotto il Terzo Reich non ha mancato di sollevare discussioni. Come conciliare l’onnipresenza pubblica e museografica del nudo, tanto maschile quanto femminile, con il pudore quasi vittoriano della società tedesca dell’epoca e del nazismo stesso, terribilmente pudibondo a immagine del suo Führer, il quale dichiarava che l’unica pornografia autorizzata nel Reich era l’antisemitismo?127. Sottolineiamo in primo luogo che il nudo nazista è oggetto di un lavoro di distanziamento sessuale. Se, di fatto, il sesso appare, il corpo è privo di ogni elemento erotico realistico. La pelle è glabra, liscia e fredda, senza colore né pelosità manifesta, in particolare pubica: la scultura fa intenzionalmente l’effetto di una statua, ma solo di una statua, senza alcuno degli effetti di realtà che potrebbero richiamare un corpo vivente. I corpi sono nudi, ma di una nudità ideale: il marmo bianco, come diceva David d’Angers, funge da «abito di immortalità», rivestendo i nudi di un vero «costume di nudità», secondo la felice espressione di Birgit Bressa128, che parla anche di una «trasmutazione mortifera, una metamorfosi della carne in pietra»129, solo pegno paradossale dell’immortalità. Infatti, se l’arte si attribuisce il fine di rappresentare l’archetipo eterno della razza, il nudo, atemporale in quanto privo di riferimenti, non attribuito a un’epoca da alcun elemento storicamente definito, s’impone. L’antico, identificato da un drappeggio, una toga, un gladio, dalla patina levigata e acromatica dei secoli, può anche significare atemporalità in quanto la sua lunga posterità ha di per sé il valore di certificato di eternità.
Ciò non toglie che il nudo nazista possa essere impudico. Silke Wenk, che ha lavorato sul nudo femminile, osserva che, contrariamente alle convenzioni tradizionali, che nascondono il sesso della donna con un gesto di pudore, l’arte nazista espone la femminilità senza nasconderne nulla: «Il loro corpo è presentato interamente, aperto, con un pube visibile e, soprattutto, con il petto sempre sottolineato, addirittura eretto»130. Nella scultura del nudo nazista, esistono dunque elementi portatori di una carica erotica reale.
Queste rappresentazioni non sono esposte solo per mettere in evidenza un canone fisico e per esercitare l’occhio della perizia razziale ricorrendo alla produzione di un campione dalle misure ideali. Il corpo ariano è oggetto di una messa in scena, di una promozione. Deve essere esibito, esposto, e desiderato. Il corpo ariano deve essere guardato e provocare un’emozione di ordine erotico che deve condurre all’imitazione: il desiderio deve essere desiderio di somiglianza. È quanto avviene col gruppo del Giudizio di Paride, scolpito da Thorak, ed esposto alla Casa dell’arte tedesca di Monaco, nel 1941. Il corpo delle tre dee greche, dunque indogermaniche, è costituito a oggetto erotico dallo sguardo del giudice Paride, la cui postura di osservatore e di valutatore viene a coincidere con la posizione del visitatore della mostra, esortato a osservare, giudicare, e desiderare a sua volta il corpo femminile cosí esposto al suo sguardo. Questo erotismo apertamente promosso e rivendicato, pienamente assunto, del nudo nazista, partecipa della Faszination che il nazismo eleva a modo di seduzione e di governo politico – tema che è oggetto della ricerca storica di Peter Reichel131.
La bellezza del corpo ariano cosí esposto suscita l’emozione e l’emulazione. Come nota Hans Surén, nella sua opera piú venduta, la Ginnastica dei tedeschi:
La contemplazione di un corpo ben fatto esercita una profonda influenza pedagogica, non solo in ambito fisico, ma anche in ambito morale. La nudità di un corpo nobile è un grande incitamento all’imitazione, come ben sapevano gli antichi greci132.
La bellezza del corpo nudo scolpito, come del corpo vivente, suscita l’emulazione sportiva per un miglioramento della razza in ciascuno degli spettatori di questa perfezione. L’obiettivo della pratica dello sport è dunque meno la prestazione fisica che non la bellezza plastica. La performance tutto sommato è secondaria, è necessario in primo luogo che il corpo dell’atleta sia bello:
A volte ho provato repulsione per un atleta che aveva appena vinto una corsa, in quanto l’uomo era interiormente ed esteriormente disarmonico e brutto […]. Non è questa la cultura nordica del corpo. Chi dunque vorrebbe conservare questo atleta per i posteri immortalandolo nel marmo?133.
L’atleta deve dunque essere bello come una statua, dando ai suoi contemporanei l’immagine della perfezione estetica e trasmettendo ai posteri una testimonianza di bellezza. Ciò che importa, nell’atleta vivente, è quindi la posizione di una norma, di un campione: il suo «corpo abbronzato, come se fosse una statua di bronzo, attrae l’occhio in un’ammirazione pura e incita a fare di tutto per accedere a una simile bellezza»134.
Un’arte sana per corpi sani: l’arte come matrice o come contaminazione.
Il corpo di pietra, scolpito ed esposto, contribuisce cosí all’opera di costruzione del corpo di carne: l’opera d’arte, campione e punto di riferimento, è anche modello e sfida. La carne deve imitare la pietra, emersa dal fondo delle epoche, della scultura greca, o delle opere di Thorak e Breker, ispirate all’arte antica. Hitler invita pertanto, come abbiamo visto, a tentare di eguagliare la bellezza del discobolo greco.
Per altro, l’arte ha già una funzione attiva, performativa, matriciale, nella conformazione ideale dei corpi e della razza. L’arte è concepita dai nazisti come una matrice di generazione della razza mediante autocontemplazione. L’immagine contemplata s’imprime nell’immaginazione, dando in seguito forma e bellezza alla carne generata dal contemplatore: con la mediazione della vista e della memoria, l’immagine del corpo genera cosí il corpo, la forma viene a correggere la materia, l’idea a strutturare il reale. In Occidente, questa teoria della generazione attraverso l’immagine è antica. Éric Michaud135 la fa risalire alla Bibbia e all’Antichità greca. In seguito ha avuto una fortuna duratura: nella sua Città del Sole, Tommaso Campanella sostiene che lo Stato debba presentare alle donne immagini di bei corpi, affinché generino bambini belli. Anche Baudelaire scrive:
L’idea che l’uomo si forma del bello impronta tutto il suo modo di vestire, rende floscio o rigido l’abito, arrotonda o squadra il gesto, e alla lunga penetra sottilmente persino nei tratti del suo volto. E l’uomo finisce per somigliare a ciò che vorrebbe essere136.
Esiste dunque una relazione dialettica tra l’arte e il corpo: l’arte è, nella tradizione dell’idealismo hegeliano, l’espressione dello spirito, poi, precisa Schultze-Naumburg, dello spirito della razza, ma, a sua volta, l’arte modella il corpo, gli dà forma, come afferma Hitler a Norimberga nel 1935:
L’arte, nella misura in cui è l’emanazione piú diretta e piú fedele del Volksgeist, costituisce la forza che modella inconsciamente nel modo piú attivo la forza del popolo137.
In L’arte e la razza (1928), Paul Schultze-Naumburg prende le mosse dal senso comune: come accordare la diversità dei giudizi estetici e ammettere che le divergenze tra i critici d’arte non alterano la credibilità dell’impresa critica?
Se si vuole rendere ragione di questa diversità senza dubitare della legittimità della critica, si deve far intervenire il concetto di razza. Il giudizio artistico, proprio come la creazione in arte, è legato alla razza. I critici, come gli artisti, sono racchiusi all’interno del cerchio stretto e necessitante della loro fisiologia, nella determinazione biologica che pesa su di loro: «[All’artista] è impossibile emanciparsi dalle condizioni del proprio corpo»138.
Come nota Schultze-Naumburg in un’altra opera, la dipendenza «dell’artista rispetto alla propria corporeità» è particolarmente visibile nel fatto «che tutte le rappresentazioni fisiche che un artista crea presentano una somiglianza reale con il suo corpo. È come se il pittore o lo scultore realizzasse sempre inevitabilmente degli autoritratti»139. Ora, cos’è il corpo se non l’espressione fisica individuale della razza?
Il principio determinante della creazione artistica è dunque la razza. L’essere fisico dell’artista nella sua totalità si traspone, sublimato ma immutato, nell’opera d’arte. Piú che un autoritratto o la duplicazione simbolica di una corporeità, la creazione culturale è sotto tutti gli aspetti simile alla procreazione naturale, ed è soggetta alle stesse leggi della trasmissione ereditaria delle qualità:
La creazione di un’opera d’arte è un processo di gestazione spirituale totalmente paragonabile alla procreazione di un bambino. Le leggi dell’eredità ci hanno insegnato che i bambini hanno necessariamente le disposizioni ereditarie che si trovano già nei loro ascendenti […]. Pertanto, nel bambino morale – l’opera d’arte – sono ereditate solamente le disposizioni ereditarie presenti nel suo creatore140.
L’essenza della razza si realizza, si materializza dunque nell’opera d’arte. Piú precisamente, l’ideale di bellezza proprio della razza viene a trovare la sua espressione nell’opera d’arte, poiché una razza è un sangue con le sue qualità, ma è anche «una rappresentazione che noi chiamiamo concetto regolatore della razza, una rappresentazione dell’armonia compiuta tra il corpo e lo spirito» che, a ogni membro della razza, «mostra la direzione e lo scopo»141 della sua esistenza fisica e morale. Secondo l’autore, c’è dunque una ripercussione meccanica dal sangue e dal suo ideale di bellezza alla creazione: se il sangue è puro e buono, l’ideale estetico e la creazione artistica che lo esprime saranno sublimi. Se, al contrario, il sangue dell’artista è misto o corrotto, l’ideale estetico sarà malato e la rappresentazione conseguente malsana.
Su questa base Schultze-Naumburg fonda la dicotomia tra arte nordica classica e arte degenerata, di cui è il primo e principale teorico.
L’arte nordica è la pura espressione della razza indogermanica e del suo ideale di umanità compiuta. Secondo l’autore, essa ha conosciuto due epoche fondamentali: quella dei greci, che «avevano bei corpi»142, e quella del Rinascimento italiano. I pittori italiani del Rinascimento erano a loro volta, senza ombra di dubbio, uomini nordici, poiché le grandi migrazioni barbare tardoantiche hanno lasciato nella penisola una vena di sangue indogermanico che ha trovato la possibilità di esprimersi dopo la lunga notte medievale: il Rinascimento ha pertanto un’essenza «lombarda»143, dunque germanica.
Quanto ai greci, non si ribadirà mai abbastanza la loro natura nordica, benché questa affermazione – come l’autore riconosce – per alcuni sia ancora fonte di stupore144:
Lo straordinario popolo dei greci [che] ha creato tutto ciò che oggi ci appare come umanamente inaccessibile […] è un popolo nordico145.
Perfetta incarnazione della razza nordica, i greci hanno fissato la bellezza dei loro corpi nel marmo delle loro statue, e la rappresentazione del corpo greco è «rimasta il canone della bellezza fisica all’interno del mondo occidentale»146.
Nel X capitolo della sua opera intitolata La bellezza nordica. Il suo desiderio e la sua rappresentazione nella vita e nell’arte, Paul Schultze-Naumburg presenta 38 riproduzioni di opere d’arte: 25 sono busti e statue greche, 7 risalgono al Medioevo e 6 sono opere del Rinascimento147. I due terzi delle opere fondamentali dell’arte nordica sono dunque greci. Ben lontana dalla perfezione classica, l’arte contemporanea – quella della Repubblica di Weimar – «preferisce e accentua la rappresentazione della degenerazione»148. L’umanità rappresentata dall’arte degenerata non è piú il corpo compiuto dell’atleta, ma
l’idiota, la puttana e il petto cadente. Bisogna chiamare le cose col loro nome. Davanti a noi si apre il vero inferno dei sotto-uomini. Si respira, quando si lascia questa atmosfera per l’aria pura di altre culture, come quella dell’Antichità e del Rinascimento, dove una nobile umanità cerca di esprimere nella propria arte il suo desiderio nostalgico [di bellezza]149.
Per comprendere questa arte degenerata, si deve osservare l’umanità degenerata che l’ha prodotta «negli ospedali psichiatrici, negli istituti per handicappati fisici, nei lebbrosari, in tutti gli angoli in cui si rintanano i piú degenerati»150.
Per dar forza ai suoi precetti, Schultze-Naumburg mette a confronto, in L’arte e la razza, riproduzioni di opere d’arte contemporanee e fotografie di malati mentali o di handicappati fisici, concludendo che «bisogna far sí che poveri disgraziati come questi non debbano piú soffrire eliminandoli e prevenendo ogni nascita di tal genere»151. Il giustiziere e purificatore dell’arte si fa dunque al contempo eugenista, in quanto censura e dirigismo artistico sono parte integrante di una politica di igiene e di purificazione della razza. Nella prefazione alla terza edizione de L’arte e la razza (1938), Schultze-Naumburg si congratula anche del fatto che, grazie all’avvento del nazismo, «la distruzione degli inferiori non è piú una ideologia remota, ma è ancorata alla legislazione, e dunque ormai realtà». La razza iconoclasta dei nazisti contro l’arte degenerata, qualificata come Kunstbolschevismus, si spiega in base alla credenza secondo cui non solo un’arte brutta è il prodotto di un’umanità biologicamente degradata, ma anche che, a sua volta, questa arte genera un’umanità mostruosa152.
Per combattere questa contaminazione dei corpi con la rappresentazione di corpi orribili e deformi, occorreva non solo distruggere le immagini infette e maligne, ma anche diffondere nel modo piú ampio possibile le raffigurazioni di corpi sani. Le opere di Breker erano quindi destinate alla riproduzione seriale: «Breker adattava efficacemente la sua produzione artistica alle esigenze della riproduzione»153, creando una vera impresa di produzione in serie e di diffusione massiva dell’immagine sana. Nell’estate 1942, vengono cosí fondati gli «Ateliers di scultura Arno Breker SA», installati a Wriezen, nell’Oderland, che vanno a completare l’atelier originale di Berlino a Dahlem, e che nel 1943 contano ben 46 collaboratori. Le sculture di Breker sono riprodotte in serie, sotto forma di statuette, ma anche di fotografie. La fotografia, che permette la moltiplicazione all’infinito dell’opera d’arte scolpita, diviene a poco a poco la ragion d’essere dell’opera. Birgit Bressa nota che «fino al termine della guerra, le opere erano per lo piú realizzate al solo scopo della loro riproduzione mediale e per la loro messa in scena estetico-fotografica»154. Molte sculture sono pertanto realizzate in formato ridotto, allo stato di modelli incompiuti: le tecniche di inquadramento fotografico consentono di dare l’illusione della monumentalità e del compimento. Lo scopo di questa riproduzione tecnica e fotografica dell’opera d’arte è di colpire il piú ampio pubblico possibile, non solo quello che frequenta e visita la Casa dell’arte tedesca o che si reca ai Parteitage di Norimberga. Questa diffusione massiva del canone emulatore deve permettere un miglioramento rapido dei corpi e della razza. Ritroviamo qui l’intuizione folgorante di Walter Benjamin, che nel suo testo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), studia il fenomeno della «estetizzazione della vita politica»155 propria del fascismo: «Alla riproduzione in massa è particolarmente favorevole la riproduzione di masse»156. Benjamin pensava soprattutto ai «grandi cortei», alle «adunate oceaniche», alle «manifestazioni di massa di genere sportivo» e in cui la massa, attraverso la mediazione degli «apparecchi di ripresa», «vede in volto se stessa»157. La medesima constatazione può essere fatta, tuttavia, per l’arte, e in particolare per la scultura, che obbedisce allo scopo di una riproduzione delle masse nel senso letterale di duplicazione o di generazione di masse di corpi sani per mezzo dell’immagine massivamente diffusa di corpi sani.
Il nazismo alimenta dunque l’utopia di una riproduzione di corpi perfetti, conformi all’ideale ellenico-nordico. È volontà di ridare vita a un ideale, di far risorgere un canone estetico conservato nella memoria della pietra. Il corpo greco ha attraversato i millenni nel suo scrigno pietrificato, e rappresenta un potenziale che il regime nazista vuole condurre a una piena attualità, dispiegandolo nel reale e nella carne.
Conclusione.
Su modelli antichi, formiamo uomini nuovi. L’uomo nuovo del Terzo Reich è innanzitutto un corpo, e l’avvento di questo corpo può verificarsi solo grazie al ritorno alle origini in un’Antichità promossa al rango di archetipo e di canone della bellezza razziale. I greci e i romani erano popolazioni indogermaniche, il loro corpo passato è la realizzazione del tipo nordico che è necessario preservare o reiterare nel presente della razza. Il corpo greco e romano è conservato dalla statuaria antica, che Hitler propone quale canone e criterio di emulazione al pubblico tedesco, nel discorso che pronuncia quando riceve il Discobolo a Monaco nel 1938: questo archetipo sublime e compiuto del corpo ariano, grazie alla capacità di fecondare l’immagine e di esortare alla perfezione, deve generare la bellezza dei suoi congeneri contemporanei.
Tale generazione avviene attraverso la contemplazione: la rappresentazione è performativa, il bello genera il bello mentre il brutto, uscito da un corpo malato, è un’infezione che diffonde la patologia della bruttezza in chi lo guarda: i corpi torniti e armoniosi dell’arte ufficiale sono esibiti su larga scala dalla pubblicità museale e tecnica, mentre i corpi malati dell’arte degenerata sono destinati alla gogna del velamento e della distruzione.
Per tendere verso la bellezza del canone greco, non basta tuttavia andare al museo: bisogna anche attenersi alla pratica dello sport, dovere sanitario verso se stessi e verso la razza poiché, in piena coerenza con la concezione olistica e totalitaria, il corpo appartiene meno all’individuo che al gruppo, concepito secondo il modo metaforico e biologico del grande organismo sociale, le cui membra sono legate da una comunità di sangue e di destino. Lo sport è oggetto di un’intensa promozione sotto il Terzo Reich: riabilitata da Hitler in nome dell’ideale greco tradito dai Gymnasien umanistici razionalisti e cerebrali, la pratica dello sport è oramai una priorità dell’insegnamento scolastico e universitario. Si tratta di risuscitare l’ideale greco dell’uomo completo, dell’uomo totale, riconciliato nella sintesi armoniosa tra il suo corpo e il suo spirito. Corpo e spirito sono rimasti troppo a lungo separati e scissi da un cristianesimo orientale e ascetico che aveva infranto malignamente la bella unità nordica. L’esercizio sportivo, un rapporto pacificato dell’uomo col suo corpo e del corpo con la natura, la pratica del nudismo sono eredità indogermaniche illustrate dalla cultura greca, e tragicamente interrotte da un cristianesimo medievale che concepisce ormai la carne solo in termini di peccato e di germe peccaminoso che non merita alcuna cura ed è degna solo di castigo.
Lo sport non mira solo a produrre corpi belli e desiderabili, capaci di suscitare emulazione. La riabilitazione di una cultura greca, dunque nordica, del corpo deve permettere l’avvento di corpi agguerriti, disposti all’impegno guerriero. Lo sport, infatti, non è solo dovere reso al corpo e alla razza, è anche servizio della comunità e manifestazione di una tensione bellicosa propria di quelle civiltà agonali che sono le culture nordiche: l’agon greco e il Wettkampf tedesco si fanno eco al di là dei secoli e celebrano la loro comune essenza e reciproca origine in quella grande manifestazione che è costituita dai Giochi olimpici di Berlino del 1936. Attribuiti nel 1931 dal Cio alla Germania di Weimar, sono mantenuti grazie alla volontà e all’attivismo di Hitler che intende farne, oltre che una vetrina adeguata della nuova Germania, la grande parata dei corpi tedeschi, e insieme una grande celebrazione festosa del legame privilegiato tra ellenicità e germanità. I Giochi tedeschi si svolgono dunque in abiti antichi, nello scenario dorico di uno stadio olimpico affiancato da un teatro greco, e nel kitsch cerimoniale dei pepla esibiti a Olimpia e sull’Ara di Pergamo. L’operazione pedagogica culmina in una messa in scena del legame di sangue e di razza tra la Grecia antica e la Germania contemporanea: la corsa a staffetta della fiaccola tra Olimpia e Berlino. Questa corsa, ampiamente divulgata dalla stampa tedesca, è anche immortalata da Leni Riefenstahl, che dedica la scena d’apertura del suo film olimpico a un prologo tra le rovine, facendo apparire, qua e là, la bellezza di Alessandro, di Atena e delle cariatidi, prima di presentare un discobolo greco animato all’improvviso dal sangue e dalla carne di un atleta tedesco contemporaneo: il popolo della nuova Germania, tra cui si contano i rappresentanti piú numerosi e piú affidabili della razza indogermanica, si ricongiunge solennemente, in occasione dei Giochi del 1936, con l’etica greca e agonale dello sport e del corpo. La vera rinascita occidentale non è dunque l’astratto umanesimo dei letterati, ma la riscoperta di una cultura autenticamente nordica, emigrata un tempo nel Mediterraneo e che, nella scia della fiamma, riconquista la sua matrice settentrionale.