Capitolo terzo

Dall’Imperium al Reich: le lezioni dell’egemonia romana e della colonizzazione antica

Aut Caesar, aut nullus. Imperatore del mondo!

ADENOID HYNKEL (Charlie Chaplin, Il grande dittatore, 1940).

Se la città dei lacedemoni fosse devastata e si salvassero solo i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo assai difficilmente i posteri potrebbero credere che la sua potenza fosse stata corrispondente alla fama […] siccome la città non è centralizzata e non ha templi o edifici sontuosi, ma è abitata in diversi villaggi secondo l’antico modo dei greci, potrebbe apparire non cosí importante. Se invece la stessa sorte toccasse ad Atene, ci si immaginerebbe una potenza doppia del reale in seguito a quello che di lei appare esteriormente.

TUCIDIDE, Storia della guerra del Peloponneso, I, 10.

E tu ormai non sei altro, materia della vita!

che un granito assediato da un labile terrore.

BAUDELAIRE, Spleen LXXVI.

In una celebre scena del Grande dittatore (1940), Charlie Chaplin ha pensato bene di esprimere in latino la megalomania nazionalsocialista: il dibattito sui fini ultimi della politica espansionista nazista è troncato da questo film, accolto positivamente negli Stati Uniti dopo Pearl Harbor, che fa di Hitler un despota affamato di egemonia mondiale, degno successore dei Cesari e di tutti i loro imitatori successivi.

Nel rapporto di Hitler col mondo antico, si nota una tensione tra l’imitazione e la sfida, una volontà di superare il modello che implica di procedere sui suoi passi, di conformarsi ai suoi atti e alle sue decisioni. Roma indica il senso della storia, vale a dire al contempo il suo fine e la direzione da seguire per pervenire a questo fine. La storia romana è dunque, come sostiene Hitler nel Mein Kampf, «die beste Lehrmeisterin»1, la miglior maestra, la miglior scuola per chi si prepara a diventare un conquistatore. L’arte della guerra e del dominio s’impara nei manuali di storia romana, vera scuola dei principi e dei soldati a partire dal Medioevo.

Fonte di un’infinità di lezioni e di insegnamenti precisi, la storia romana insegna a costruire imperi, ma anche i segni materiali dell’Impero. L’aspirazione nazionalsocialista al dominio imperiale deve manifestarsi in una imitazione e in un superamento degli edifici antichi, nel granito di Norimberga, un tempo materia vivente della Volksgemeinschaft riunita in congresso, e ormai ridotto a campi desolati in cui non regna piú che un labile terrore delle passate Valpurghe.

Roma, modello di sovranità e di aristocrazia germanica.

L’Impero romano è, per Hitler, al contempo il precursore e il maestro del grande Reich nazista: lo prefigura e lo istruisce. Lo studio della storia romana è d’obbligo, tanto piú che i romani hanno avuto lo stesso progetto di egemonia universale dei nazisti, e lo hanno realizzato, con un’impresa di conquista coronata da un dominio di diversi secoli. Da loro c’è dunque molto da imparare, fin nei dettagli apparentemente piú banali. Gli scritti, discorsi e conversazioni private di Hitler tracciano un vasto ed eterogeneo inventario dei vari e numerosi insegnamenti della storia romana.

Roma, creatrice del diritto occidentale, soprattutto del diritto pubblico, è innanzitutto la creatrice del principio di sovranità. È Roma, secondo Hitler, ad aver creato la moderna idea di Stato:

L’Italia è la patria dell’idea dello Stato, e l’Impero romano fu l’unica costruzione politica veramente grande2.

Roma, città di soldati e di giuristi, ha trasmesso all’Occidente soprattutto l’idea di Stato come istanza creatrice di norme e produttrice di costrizioni, istanza dotata di sovranità e di potenza. Ora, per il Führer, l’esistenza di uno Stato, e di uno Stato potente, è una condizione necessaria all’emergere di una cultura, come mostra, a suo parere, la storia dell’Antichità:

come dimostra la storia antica, un grande sviluppo civile si può ottenere solo riunendo un popolo in una rigida organizzazione statale. Lo sviluppo civile presuppone infatti la collaborazione, e la collaborazione a sua volta presuppone un’organizzazione politica3.

Qui, Hitler non fa che ripetere ciò che ha già abbondantemente scritto nel Mein Kampf: solo lo Stato, come forma politica di organizzazione del sociale, consente l’emergere e il formarsi di una cultura. Il lavoro di produzione culturale non può pensarsi se non nel contesto di una struttura che assegna a ciascuno il suo compito e coordina, o addirittura sollecita e dirige gli sforzi di ciascuno. La creazione di uno Stato, come ogni creazione culturale, non può che essere opera di uno spirito ariano, il solo che riesca a trascendere il proprio egoismo per impegnarsi nell’edificazione di una comunità solidale. Lo Stato e la cultura sono dunque i segni manifesti del generoso idealismo ariano, che si oppone diametralmente all’egoismo e al sordido materialismo degli ebrei4, un individualismo avido, estraneo a ogni abnegazione e a ogni senso della comunità politica.

La sovranità esige che lo Stato sia perfettamente libero e autonomo rispetto all’esterno, cioè pienamente sovrano. Roma impartisce una lezione alla Repubblica di Weimar, Stato la cui sovranità è stata amputata dal trattato di Versailles, in particolare dagli articoli 231 e 232, che, in base all’argomento della responsabilità unilaterale della Germania nell’aver scatenato il conflitto mondiale, privano il paese di un esercito degno di questo nome, e gli impongono delle riparazioni. Nel concerto delle nazioni, la Germania non è dunque gleichberechtigt, ma è ostacolata da ceppi che negano la sua piena e integra sovranità. Ora, la storia antica, sia romana che greca, ci mostra che la libertà di uno Stato, e dunque – nei termini del diritto pubblico internazionale – la sua sovranità, è la condizione necessaria della sua fioritura culturale, come afferma Hitler nel Mein Kampf:

L’importanza culturale di una nazione è quasi sempre connessa con la sua libertà e indipendenza politica; questa è la premessa della nascita, o meglio, della sussistenza dell’altra. Quindi, nessun sacrificio compiuto per assicurare la libertà politica è troppo grave. Ciò che l’intensivo sviluppo delle forze militari di uno Stato sottrae alla cultura generale, può essere piú tardi recuperato con gli interessi […]. Dalle miserie della guerra persiana uscí la fioritura dell’epoca di Pericle; e quando ebbe superato le preoccupazioni delle guerre puniche, lo Stato romano cominciò a mettersi al servizio di una civiltà superiore5.

Una volta liberate dalla minaccia di una dominazione persiana o cartaginese, Atene e Roma poterono dedicarsi pienamente alla produzione di una cultura che l’assoggettamento, la sottomissione a una potenza straniera avevano impedito. Contrariamente al senso comune, che oppone militarizzazione e cultura ritenendo che l’una, per le risorse, la cura e l’energia che mobilita escluda l’altra, Hitler stabilisce un legame causa-effetto tra guerra, libertà, potenza politica da una parte, e vigore della creazione culturale dall’altra. I vertici culturali della storia occidentale, l’Atene di Pericle e la Roma classica, sono cosí succeduti cronologicamente e logicamente a periodi di guerra totale che hanno consentito l’affermazione di una sovranità totale.

Lo Stato romano aggiunge a questo modello di sovranità un modo di devoluzione e di organizzazione del potere che, per l’interesse che presenta, può essere eletto a criterio da imitare. Anche prima del principato augusteo che ha visto, sotto un’altra forma, la resurrezione a Roma di una forma di monarchia dimenticata sul suo territorio da cinque secoli, la res publica romana è stata, secondo Hitler, qualcosa di assolutamente diverso da una repubblica nel senso contemporaneo del termine. In un discorso su Stresemann pronunciato il 2 maggio 1928 a Monaco, Hitler conferisce al Führerprinzip del suo partito e del suo futuro Stato la patina, i paramenti e la nobiltà di un’origine romana:

La democrazia romana ha con la democrazia tedesca all’incirca lo stesso rapporto che il nazionalsocialismo ha con il vostro democraticismo. La democrazia romana è stata in verità una oligarchia elitaria del genere piú estremo6.

Abbiamo tradotto con oligarchia, che è la definizione consensuale – da parte di storici e politologi – del regime della res publica romana7, l’espressione Führeraristokratie impiegata da Hitler, che designa un’aristocrazia piramidale sormontata al vertice da un Führer. Questo schema di organizzazione del potere è, in teoria, quello della Nsdap già dal 1919, come lo sarà dello Stato nazionalsocialista a partire dal 1933.

Hitler ha infatti imposto il Führerprinzip allo Stato centrale, ai Länder, presieduti, a partire dalla loro Gleichschaltung, dai Gauleiter delle circoscrizioni (Gaue) della Nsdap, oltre che ai comuni. In una delle sue conversazioni private, Hitler affronta la questione dell’amministrazione comunale riferendosi all’esempio delle coloniae e municipia romani: «Da questo punto di vista, possiamo imparare molto dai romani»8, che affidavano la fondazione e l’amministrazione delle loro città a un solo individuo, cosí che «tutto il potere era posto nelle mani di una sola persona»9. La res publica romana offre dunque l’esempio compiuto della «democrazia germanica» tanto vantata da Hitler, forma naturale, organicista e spontanea di devoluzione e di esercizio del potere da parte dei capi naturali della comunità, designati ed eletti da un misterioso, provvidenziale ma necessario avvenimento10.

La Wehrmacht sulla scia delle legioni.

Modello di Stato, creatore del diritto e del principio di sovranità, l’Impero romano fu al contempo conquistatore. Dalla sua potenza e dai suoi successi militari, il condottiero contemporaneo, anche solo come Gröfaz11, ha molto da imparare. Roma fu uno Stato militare e può insegnare la guerra a chi è disposto ad ascoltare attentamente le sue lezioni. Secondo Rosenberg, Roma, maestra di guerra, ci indica «in che modo una comunità umana che è minacciata deve organizzarsi e difendersi»12. Sono molti gli apprendimenti che se ne ricavano rispetto ai dettagli dell’organizzazione di un conflitto. La storia romana insegna cosí come nutrire i soldati di un esercito, cosa che, nel contesto del logoramento sul fronte orientale nel 1942, comincia a diventare una preoccupazione dei gerarchi del regime. Durante un pranzo alla Cancelleria del Reich, il 25 aprile 1942,

Goebbels propone il quesito se un chilo di patate abbia lo stesso valore nutritivo di un chilo di carne. Hitler risponde affermativamente e osserva che, come risulta da testimonianze storiche, il regime alimentare degli antichi soldati romani si componeva principalmente di frutta e di cereali. I soldati romani sdegnavano la carne, tant’è vero che gli storici pongono in particolare rilievo i casi in cui, in seguito a difficoltà logistiche, le truppe erano costrette a cibarsene. Non è assolutamente verosimile che l’uso della carne contribuisca alla sanità e alla robustezza dei denti, perché i soldati romani, come appare dai ritratti del tempo, possedevano formidabili dentature13.

Le razioni dei soldati della Wehrmacht possono dunque non contenere carne, senza che questo alteri il loro ardore nella battaglia, né la salute delle loro gengive. Nella storia romana, Hitler trova dunque conferma ai suoi pregiudizi di vegetariano intransigente, avvezzo a coprire di violenti rimproveri il primo Leichenfresser, divoratore di cadaveri, che, alla sua tavola, avesse avuto la sventura di optare per un’ordinazione di carne.

Sul piano tattico, la storia antica insegna che il generale vincitore è sempre colui che dispone dell’armamento piú perfezionato. Sin dall’Antichità, osserva finemente Hitler, gli strateghi e i generali hanno rivolto un’attenzione tutta particolare alla tecnica, come egli si affretta a spiegare ai suoi commensali:

È incredibile, osserva Hitler nel corso della converszione, fino a che punto gli antichi sapessero adattare la tecnica alle necessità della guerra. Le vittorie di Annibale sarebbero state impossibili senza i suoi elefanti, e cosí pure quelle di Alessandro Magno senza i suoi carri da battaglia, la sua cavalleria, eccetera. In guerra il soldato migliore, ossia il soldato che vince piú facilmente, è sempre quello che possiede e sa usare i mezzi tecnici migliori: non solo mezzi di offesa, ma anche mezzi di trasporto e di rifornimento14.

In un’altra conversazione, un mese dopo, Hitler ritorna su tali questioni e riflette sull’importanza del carro d’assalto paragonandolo, mutatis mutandis, all’elefante del cartaginese Annibale:

A pranzo, Hitler si occupa prevalentemente di questioni militari. Tra l’altro egli osserva che, come ai tempi di Annibale gli elefanti rappresentavano l’arma piú offensiva, cosí oggi i carri armati costituiscono il mezzo piú completo e piú importante per l’offensiva terrestre15.

Un modello di Panzer, lo Sd.Kfz. 184, un pachiderma d’acciaio di 65 tonnellate, ha per altro il nome di Elefant16.

Da Cesare, il comandante Hitler non ricava che un aspetto: la prudenza politica, la phronesis tanto vantata nell’Antichità. Un generale, come un uomo di potere, deve stare in ascolto e all’unisono rispetto alle sue truppe, rispettare i loro timori, non scontrarsi frontalmente con i loro sentimenti, anche quelli irrazionali:

Soprattutto in tempo di guerra, il popolo è superstizioso. Lo sono stati anche gli antichi romani, compreso Giulio Cesare. Forse la superstizione di un uomo come Cesare non era affatto superstizione, ma consapevolezza del fatto che il popolo è invece superstizioso. Io non farò mai sferrare un attacco il giorno tredici di un mese. Non che sia superstizioso, ma perché so che lo sono altri17.

Un generale deve dunque tener conto della ingenuità dei suoi uomini ed essere animato da un machiavellismo ben interpretato che aderisce ai sentimenti del popolo senza condividerli.

Dell’arte della guerra romana, Hitler ha forse mantenuto, in modo anche piú fondamentale, il principio per cui, quando si deve impiegare la forza, bisogna farlo totalmente, allo scopo di distruggere nel modo piú efficace le capacità materiali di risposta dell’avversario, e infrangere ogni velleità psicologica di risposta con un messaggio di terrore. L’irriducibile volontà romana di distruggere Cartagine, la conquista della città fenicia e di Gerusalemme, rase fino alle fondamenta e, si dice, consacrate con l’esecrazione agli dèi inferi, arate e cosparse di sale, ha indubbiamente influenzato la concezione hitleriana dell’impiego totale della forza guerriera: la guerra a est, ma anche la violenza delle unità SS in Europa centrale e, alla fine della guerra, sul fronte occidentale, ricordano lo spietato Delenda delle legioni di Scipione l’Africano.

La volontà di potenza tedesca e la coerenza con cui i nazisti hanno messo in atto la loro politica di guerra e di annessione evocano Roma per un attento testimone del tempo, la filosofa Simone Weil, che, quando pensa a Hitler, non può fare a meno di richiamare l’Impero romano: «Ciò che duemila anni fa somigliava alla Germania hitleriana non sono i germani, ma Roma»18. Simone Weil iscrive dunque il Terzo Reich nella continuità di un Impero romano violento e predatore, quello che Tacito denuncia nel famoso discorso di Calgaco: «Passano sotto il falso nome di impero il rubare, trucidare, rapinare: e quando hanno fatto il deserto lo chiamano pace»19. Per Simone Weil, che nel 1938 dedica diversi articoli alla questione, «L’analogia tra il sistema hitleriano e l’antica Roma è sorprendente al punto da far credere che dopo duemila anni solo Hitler abbia saputo copiare correttamente i romani»20. Esiste infatti una strana somiglianza di fini, la conquista allo scopo della costituzione di un impero, ma anche dei mezzi, la «brutalità senza limiti»21 che l’autore rimprovera a dei romani assolti troppo frettolosamente a causa degli apporti civilizzatori delle loro manovre militari22, aspetti positivi di una colonizzazione celebrata da una storia di vincitori:

In ogni caso tutto ciò che ci indigna e anche tutto ciò che ci sbalordisce nei suoi procedimenti lo accomuna a Roma. Non differiscono né l’oggetto della politica, cioè imporre ai popoli la pace mediante la servitú e sottometterli con la costrizione a una forma di organizzazione e di civiltà che si pretende superiore, né i metodi della politica.

Esprimendo un parere risoluto sulla parte relativa ai riferimenti al mondo antico e a quello germanico nel nazionalsocialismo, Simone Weil conclude:

Ciò che Hitler ha aggiunto di specificamente germanico alle tradizioni romane è solo letteratura e mitologia inventata di sana pianta23.

Dopo la conquista, resa possibile da razioni vegetariane e da qualche piccola concessione all’umore delle truppe, arriva il tempo dell’egemonia. L’Impero conquistato deve essere reso sicuro e tenuto saldamente in pugno dal conquistatore che aspira a stabilirvi un dominio duraturo. La storia romana, secondo Hitler, insegna anche a questo proposito come fare:

il popolo tedesco, se vuole continuare a essere un popolo di soldati, deve guardarsi dal lasciare una sola arma nelle mani dei popoli vinti. Il segreto della forza dell’antica Roma è proprio questo: che in tutto l’Impero romano il cittadino di Roma era il solo che portasse armi24.

Il territorio del Reich sarà dunque, a immagine dell’Impero romano, sotto la giurisdizione di un’élite combattente, quella dell’esercito tedesco. Il resto dell’umanità, gli uomini piegati sotto il giogo della dominazione nazista, non avrà il diritto di portare armi. Hitler ripete la sua convinzione e questo precetto nel corso di un’altra conversazione:

Una vera egemonia mondiale può essere fondata soltanto sulla forza del proprio sangue. I romani ricorsero ai liberti solo quando si accorsero che il loro sangue si andava esaurendo. Le prime legioni di liberti si formarono soltanto dopo la terza guerra punica25.

Qui, il riferimento romano è completato da un altro riferimento, questa volta greco. La concezione di uno Stato razzista e militare evoca Sparta, o almeno l’immagine che Hitler propone della città lacedemone nel 1928 nel suo progetto di un’opera sui principî della politica estera dei nazisti, pubblicata nel 1961 con il titolo di Zweites Buch26. Dopo un passo, già citato, dedicato a Sparta, Hitler evoca Roma per esprimere la sua convinzione che un impero non possa che essere fondato su un nucleo razziale omogeneo e potente. A suo parere, si tratta di una delle lezioni principali della conquista romana. L’Impero romano ha potuto edificarsi solamente sulla base di una unione di popoli razzialmente affini, i popoli del Lazio, sottoposti al giogo della forza romana. Questa unione razziale è stata la premessa indispensabile della conquista dell’Italia e del Mediterraneo: popoli in precedenza divisi e impotenti hanno potuto, sotto la sferza di Roma, raggiungere una massa critica sufficiente per acquistare una forza d’urto tale da consentire loro di conquistare il mondo. Hitler vede in questa unione latina forgiata dal gladio e dalla volontà di Roma un’analogia con la necessaria unione degli Stämme tedeschi a opera della Prussia, preludio di ogni guerra esterna:

È un’esperienza vecchia come il mondo: unioni etniche durature non possono attuarsi se non tra popoli affini e dello stesso valore e quando, inoltre, la loro aggregazione si produce sotto la forma del lento processo di una lotta egemonica. È accaduto cosí che Roma, un tempo, abbia assoggettato uno dopo l’altro gli Stati del Lazio, fino a che la sua forza ha raggiunto un livello sufficiente per farla diventare il centro di cristallizzazione di un impero mondiale. La storia dell’emergere dell’Impero britannico è identica, come quella della Prussia, che ha posto fine alla divisione degli Stati tedeschi27.

È imperativo, in seguito, preservare questo nucleo razziale omogeneo e potente. E lo Stato dovrà vigilare affinché venga incoraggiata la fecondità del popolo mediante un’adeguata politica sulla natalità28.

Reichsautobahnen e strade romane: l’edificazione di un impero.

Dopo la conquista arriva anche il tempo dell’edificazione, della costruzione di infrastrutture che rendano l’Impero politicamente, militarmente e commercialmente vitale: una rete ambiziosa di vie di comunicazione. Non può esistere l’Impero, infatti, senza le strade che integrino i territori e rendano omogeneo lo spazio. Hitler associa spontaneamente la nozione di impero a quella di strada: quello costruisce queste, queste strutturano quello. Un impero viene infatti distinto da tutte le altre forme di dominio per la sua facoltà di trasformare e di strutturare lo spazio, e di organizzarlo in vista di una lunga durata:

L’Impero universale dei romani era, come l’Impero peruviano e altre potenze mondiali, un impero fondato sulle strade29.

La virtú civilizzatrice di un impero si riconosce dalla costruzione di tali infrastrutture, come osserva Hitler in una conversazione del 27 giugno 1942:

Al termine della conversazione serale Hitler afferma che l’inizio di una civiltà si manifesta attraverso la costruzione di strade. Come i romani al tempo di Cesare e nei primi tempi dell’era volgare aprirono una rete di strade e di passaggi tra le paludi e le foreste delle pianure germaniche, cosí anche oggi in Russia bisogna procedere prima di tutto alla costruzione di strade30,

vasto spazio la cui conquista, nel momento in cui le armate tedesche riprendono l’iniziativa nell’estate 1942, sembra nuovamente possibile.

Le strade si trovano dunque a essere elevate alla dignità di monumento culturale. Nel 1937, Fritz Todt, ispettore generale delle autostrade del Reich, celebrava in termini simili la costruzione delle autostrade in un’opera pubblicata dal suo ispettorato e intitolata Autostrade di Germania. Le strade di Adolf Hitler31. La prefazione di Fritz Todt ci illustra il significato culturale della costruzione delle strade:

Le strade sono beni culturali. Ogni strada che utilizziamo ha la sua storia secolare e il suo significato. Una strada è un’opera d’arte. Essa promana dalla forza creatrice dell’ingegnere32.

Una strada non è un bene strettamente utilitaristico. Non è l’oggetto banale e comune che si crede. Essa non è né piú né meno che l’oggettivazione, nel senso hegeliano, di un’idea, di uno spirito, in questo caso di un’idea imperiale:

In ogni epoca, la strada è sempre stata l’espressione della storia del proprio tempo, e la traccia che ha lasciato testimonia ancora questo passato […]. Nel suo modo di costruzione, nel suo disegno, non si riflette soltanto la tecnica dei diversi secoli, ma ancor di piú lo spirito e la volontà dei suoi creatori33.

Come per testimoniare la dignità culturale delle strade, Todt evoca la storia antica. Le strade sono attestate sin dall’Antichità, e anche Erodoto le reputa degne di essere menzionate nella sua opera, sottoscrivendo la loro consacrazione storica e culturale nell’Antichità:

Già Erodoto ci parla della prima strada lastricata. Riporta che questa strada è stata costruita tremila anni prima della nostra era in occasione della costruzione della Piramide di Cheope. Erodoto pone su uno stesso piano la realizzazione di questa strada e la costruzione della piramide34.

Oggettivazione di uno spirito creatore di arte, la strada è al contempo materializzazione dell’idea imperiale:

La strada deve essere l’espressione dell’essenza tedesca. È in questo senso che lavoriamo all’impresa gigantesca delle strade di Adolf Hitler. Il nostro programma di costruzione è un’espressione incisiva della volontà di vita tedesca e dell’unità del Reich tedesco35.

Le autostrade del Reich, unificando il territorio, collegando le sue diverse parti, esprimono la sua unità politica: «Le linee di queste nuove strade sottolineano con decisione l’unità nuovamente conquistata del Reich»36. Questo significato politico è visibile già nel modello della strada romana:

L’impegno generoso nella costruzione di strade è sempre stato segno di uno sforzo particolare. Strade gigantesche sono state costruite, per assicurare la conquista di imperi immensi37.

Grazie al suo ruolo logistico, la strada, che permette la circolazione delle truppe, il movimento degli eserciti, è infatti uno strumento di conquista. In modo significativo, Fritz Todt indica per altro che le autostrade del Reich sono orientate verso est:

Esse conducono fino all’India e all’Estremo Oriente. Per tutto il corso della storia, l’uomo nordico ha sempre imboccato la strada che porta verso l’India. Alessandro Magno l’ha percorsa, e noi troviamo su questo cammino innumerevoli documenti culturali della razza nordica che ne sono testimonianza38.

Le vie che conducono verso l’est sono «le stesse strade che hanno orientato la conquista politica e culturale dell’est tedesco»39, riferimento al Drang nach Osten del Medioevo germanico. Le strade del Reich s’ispirano a un altro modello imperiale, quello di Napoleone, grande ammiratore dell’Impero romano e della sua rete di comunicazione: sull’esempio di quelle di Roma, «le strade di Napoleone I, con la loro direzione e il loro tracciato spietato, esprimono la brutale volontà di potere del grande conquistatore, e testimoniano inoltre la grandezza delle sue idee»40. Espressione di una volontà di potenza politica, vettori di un progetto di conquista militare, le strade del Führer, come quelle dei romani e di Napoleone, saranno diritte e rettilinee come fusti di cannone, ultima ratio regum. Il disegno a linea retta procede da un imperativo strategico di risparmio di tempo, come Hitler confida ai suoi convitati:

Tutte le strade militari sono state costruite da tiranni: i romani, i prussiani, i francesi. Esse sono tutte diritte, mentre procedere sulle altre vie ci fa perdere il triplo del tempo41.

Le strade militari, costruite per la conquista, non sono solo rettilinee. Sono anche provviste di tutto ciò che serve per il rifornimento e gli scambi. Hitler cita come esempio le strade romane costellate di stazioni di posta, le mutationes, che consentivano il riposo del viaggiatore e il cambio dei cavalli, e scandite, a intervalli regolari, da accampamenti militari. Il Führer si meraviglia del modello offerto dalla via romana:

È incredibile vedere con quale rapidità le legioni romane potevano divorare distanze infinite su queste strade. Sembra che disponessero già del tiro dei cavalli. Le strade varcavano le colline e le montagne, procedendo sempre diritto, le poste per il cambio erano collocate in modo tale che le truppe, al termine di un giorno di marcia, potessero accamparsi42.

Ma, al di là della conquista, le strade sono le arterie della civiltà. Fritz Todt precisa che «le strade sono anche al servizio di una civiltà benefica e pacifica»43. È sulle strade, infatti, che «scorre il traffico, che batte il polso della vita»44.

I romani hanno creato il modello della costruzione di strade, tanto dal punto di vista tecnico, quanto dal punto di vista politico:

I padroni incontrastati della costruzione di strade nell’Antichità sono stati i romani. Il loro immenso Impero è impensabile senza la rete estesa delle sue vie strategiche e commerciali. La rete stradale romana ha raggiunto una lunghezza di 85 000 chilometri e si stendeva dalla Scozia a Gerusalemme, dai Pirenei fino al Danubio. Sulle antiche strade romane esistevano già stazioni postali di prim’ordine, che si sono rivelate di grande importanza sia per la politica che per il commercio. La tecnica di costruzione delle strade romane era molto avanzata. Ancora oggi ne ammiriamo i tracciati45.

Opera d’arte, oggettivazione dell’idea, le autostrade del Reich scaturiscono tuttavia da una monumentalità specifica. Le strade sono, secondo Todt, celebrate da Erodoto al pari delle piramidi, ma i contemporanei del Terzo Reich non lesinano ulteriori comparazioni, per esaltare l’opera di Hitler, come si può leggere sulla rivista ufficiale «Die Strasse», nel 1938: «Le autostrade del Reich devono diventare, al pari della muraglia cinese, dell’Acropoli degli ateniesi, delle piramidi d’Egitto, un viaggio nel paesaggio della storia»46. Nel 1941, il poeta austriaco Josef Weinheber compone una Ode alle strade di Adolf Hitler, in cui magnifica le autostrade, «Simili a cosí poche opere dell’uomo | Forse, all’eternità delle piramidi | Ai monumenti della Roma antica»47.

Non è facile, tuttavia, per un’autostrada innalzarsi a itinerario nel paesaggio della storia. La monumentalità della strada è bi- e non tri-dimensionale: la strada s’iscrive nel piano, non si erge nello spazio. Per rendere tangibile il gigantismo del lavoro compiuto, la propaganda del regime accumula le cifre o dei fotomontaggi che giustappongono un enorme quantità di calcinacci, che dovrebbero rappresentare i materiali di sterro della costruzione, e di montagne naturali. La strada risente del suo carattere non spettacolare. Estesa su due dimensioni, è priva della terza, quella verticale, propria dei monumenti, come osserva ironicamente Ernst Bloch dal suo esilio londinese, nel 1937: «Un’architettura singolare, lunga migliaia di chilometri ma, come monumento, è un po’ piatto»48.

Questa opera di arte piatta e quasi invisibile si doterà dunque di opere d’arte, in particolare di ponti e viadotti, il cui stile riproduce intenzionalmente la monumentalità imperiale romana.

La costruzione dei viadotti è direttamente ispirata a Roma. Il Terzo Reich risuscita gli archi e la pietra imperiale, quando in realtà le tecniche di costruzione e i materiali moderni, il cemento armato e l’acciaio, rendevano inutile la resurrezione di quei dinosauri architettonici more romano.

Ma la costruzione di strade e di ponti segna l’affermazione di una imperialità. Hitler e Fritz Todt, come abbiamo visto, collegano le nozioni di impero e di strada. I ponti alla romana funzioneranno dunque come il segno di questa associazione, ben illustrata dal vocabolo presto consacrato e fissato di Reichsautobahn: il neologismo Autobahn è, fin dalla sua apparizione, inseparabile dal termine Reich, e l’autostrada concepisce se stessa solo come autostrada del Reich, autostrada imperiale. L’esame di progetti e di realizzazioni di architettura stradale e autostradale ci consente di vedere concretamente come si passi da un discorso a una pratica, da un’idea imperiale a una realizzazione. La rivista «Die Kunst im deutschen Reich», rivista d’arte ufficiale del Terzo Reich, offre molte fotografie, schizzi e spaccati di ponti autostradali. Friedrich Tamms49, architetto incaricato dei ponti autostradali presso l’Organizzazione Todt, abbozza un progetto che, benché mai realizzato, è l’esempio piú evidente di un’imitazione romana totalmente rivendicata. Tamms riprende dal tipo dell’acquedotto la sovrapposizione degli archi, qui presenti su tre livelli, interrotti da un grande arco centrale, cosa che rende il principio dispendioso e puramente decorativo. L’intento sembra in questo caso quello di costruire come un romano per il gusto di farlo, e non per soddisfare una qualche funzionalità tecnica.

Non è da meno il suo collega e amico Albert Speer, che nel 1937 elabora un progetto di ingresso di autostrada per Salisburgo. Un gigantesco altare, che ricorda l’ara pacis augustea, è affiancato da due colonne monumentali che evocano le Colonne d’Ercole, oppure le due gambe del mitico Colosso di Rodi, una delle meraviglie del mondo, colonne sormontate dall’aquila nazista. Le due colonne segnano il passaggio di frontiera tra un’Austria non ancora annessa dall’Anschluss e l’Altreich.

Imperialismo e architettura imperiale: l’architettura di Stato come monumento culturale e attributo della potenza.

La diffusione del modello architettonico romano sotto il Terzo Reich non si è limitata a qualche schizzo e alla realizzazione di ponti e monumenti autostradali. Conosciamo, grazie a conversazioni private e alla testimonianza di Albert Speer, il gusto di Hitler per l’arte in generale e per l’architettura in particolare. Lui che, nel 1925, aveva cominciato a tracciare degli schizzi per un futuro arco di trionfo e molti altri monumenti in un album oggi conservato al Kunstgeschichtliches Seminar dell’Università di Gottinga50, aveva confidato al suo primo architetto quanto la sua vera vocazione artistica fosse stata ostacolata:

Speer, lei è il mio architetto. E lei sa che è sempre stato il mio sogno quello di diventare a mia volta architetto […]. Me l’hanno impedito la Grande Guerra e la criminale Rivoluzione di novembre, altrimenti oggi forse sarei, come invece è lei, il primo architetto di Germania. Tutta colpa degli ebrei! […] Sono stati gli ebrei a spingermi alla politica!51.

L’importanza assegnata all’arte, e soprattutto all’architettura, arte rappresentativa per eccellenza, arte di iscrizione del potere nello spazio, procede dunque da un’indubbia inclinazione personale, ma anche da una concezione della politica in termini di persuasione, appello alla passione attraverso l’espediente del sentimento estetico52. Hitler ritiene che uno Stato che si rispetti debba dotarsi degli attributi architettonici corrispondenti alla sua potenza. La sovranità deve parlare nella pietra e per mezzo di essa, e uno Stato forte deve segnare lo spazio con la sua impronta, non lasciando proliferare gli edifici privati.

In un lungo passo del Mein Kampf, come in molti dei suoi discorsi, Hitler si mostra turbato dalla sproporzione contemporanea tra edifici privati ed edifici pubblici, questi ultimi ridotti dallo spirito mercantile ormai trionfante e dalla rinuncia dello Stato alla parte che gli spetta. Hitler deplora che «ciò che i tempi moderni hanno creduto di aggiungere al contenuto culturale delle nostre metropoli è davvero insufficiente»53. Alcune delle grandi città «non posseggono monumenti che dominano il quadro cittadino o che comunque possano essere considerati come il simbolo del tempo. Ciò invece accadeva nelle città antiche, dove ognuna andava orgogliosa di un suo speciale monumento»54. Rispetto al deficit culturale dell’epoca contemporanea, e in contrasto con questo, l’Antichità appare come un paradigma di decisionismo politico e di fertilità architettonica.

I monumenti pubblici delle città antiche erano il prodotto del volontarismo urbanistico e architettonico dello Stato, erano l’espressione coerente della comunità, e non degli interessi privati:

L’elemento caratteristico della città antica non era l’edificio privato, ma un monumento collettivo, che non era stato costruito per bisogni occasionali, ma per l’eternità, dato che in esso non si rispecchiava la ricchezza del proprietario privato, ma la grandezza e l’importanza della collettività55.

La forza dello Stato era tale da ridurre al rispetto e al silenzio ogni manifestazione di individualismo intempestivo e ostentatorio con una sorta di implicito compromesso suntuario che attribuiva la preminenza agli edifici pubblici:

Ciò che noi oggi possiamo ammirare nelle rovine del mondo antico, cioè quei pochi colossi che ancora rimangono in piedi, non sono palazzi d’affari, ma templi o edifici pubblici; costruzioni di cui era proprietaria la collettività. Perfino nel fasto della Roma imperiale il primo posto non era preso dalle ville e dai palazzi dei singoli cittadini, ma dalle terme, dagli stadi, dai circhi, dagli acquedotti e dalle basiliche dello Stato, cioè di tutto il popolo56.

La stessa cosa avveniva durante il Medioevo germanico: «Ciò che nell’Antichità trovava la sua espressione nell’Acropoli o nel Pantheon, si raffigurava ora secondo le forme del nuovo stile gotico», i cui edifici «si alzavano come giganti sopra il mediocre caos delle costruzioni di mattoni o di legno delle città medievali», secondo «una concezione che in ultima analisi ripeteva quella antica»57. Allo Stato dell’epoca contemporanea mancano i segni della sua cultura e della sua potenza: dato che «le somme stanziate per gli edifici statali sono ridicolmente insufficienti»58, lo spazio è conquistato, corrotto e occupato da costruzioni private, segni di una decadenza culturale contrassegnata dall’individualismo trionfante e dal culto del denaro. È significativo il fatto che Hitler ricorra alle categorie antitetiche privato/pubblico, mercantile/statuale per svalutare la Cancelleria del Reich, dove si insedia il 30 gennaio 1933. Speer, che verrà incaricato di costruire il nuovo palazzo del cancelliere, riferisce che Hitler sosteneva che la Cancelleria del Reich «era buona per gli uffici di una fabbrica di sapone», per nulla adatta come «centrale di un Reich diventato potente». Pertanto, affidandogli l’incarico di un nuovo edificio, disse di aver «bisogno di un fondale architettonico d’imperiale grandiosità»59, scegliendo l’aggettivo «imperiale» che in bocca a Hitler non era né fortuito né neutro.

Una volta arrivato al potere, il Führer non avrebbe dunque esitato a riservare ingenti somme di denaro alla edificazione di monumenti giganteschi, liquidando ogni esitazione dei grandi tesorieri del Reich con la considerazione delle dimensioni e della perennità degli edifici costruiti. Il costo del Grande Stadio di Norimberga, valutato da Speer 250 milioni di Reichsmark, era, secondo Hitler, «meno di due navi da battaglia del tipo Bismarck. E una corazzata può essere distrutta in un attimo, e se non è distrutta diventa un rottame in dieci anni. Ma questa costruzione resterà in piedi per secoli!»60.

Le preoccupazioni contabili sono dunque spazzate via da un desiderio di eternità, un duro desiderio di durata proprio della mentalità romana, un ethos antico di cui Hitler si era intriso con le sue letture storiche e la sua valorizzazione della dimensione eroica. Hitler è preoccupato per il modo in cui la posterità guarderà al suo tempo, se la situazione resterà immutata61.

La preminenza assegnata a un’architettura di rappresentanza che sia difesa e celebrazione dello Stato, «rafforzamento della sua autorità»62 e della sua maestà, è un tratto antico, cosa che i classicisti non mancano di rilevare, come fa Joseph Vogt, professore di storia romana all’Università di Lipsia, che si rallegra per il fatto che il rapporto del nazismo con il mondo antico non sia piú quello spento di eruditi disincarnati, ma un autentico rapporto di ripresa e di rinascita, come attesta a suo parere l’architettura del nuovo regime. Vogt si congratula che «l’architettura compresa come un’autorappresentazione monumentale della comunità»63 sia stata risuscitata. Come nell’Antichità, l’architettura ridiventa l’«espressione di una concezione della comunità orientata dallo Stato». Il Terzo Reich procede nella direzione del Primo Reich, l’Impero romano, i cui edifici sono «realizzazioni imparentate»64 con quelle della nuova Germania:

Il complesso olimpico assomiglia ad esempio piú a un foro romano che non a un santuario greco: il palazzo reale di Monaco, con i templi in onore degli eroi del Movimento richiama il tempio degli eroi di una capitale greca o romana65.

L’architettura come espressione dell’esistenza della comunità olistica è, in tal modo, manifestazione della potenza dello Stato. Antica nella sua ispirazione, essa è dunque piú specificamente romana. Joseph Vogt cita il suo collega Gerhart Rodenwaldt, storico dell’arte e dell’architettura che, alcuni anni dopo, dedica il suo contributo nella grande opera collettiva La nuova immagine dell’Antichità a L’architettura di Stato a Roma. Rodenwaldt vi paragona Hitler ad Augusto il quale, secondo la Vita Augusti di Svetonio e le Res gestae divi Augusti, aveva ricevuto una città di mattoni e lasciato una capitale di marmo: «Come tutti i grandi uomini di Stato, egli ha considerato l’architettura […] il mezzo di espressione del potere»66. Si è preoccupato di rendere tangibile la maiestas imperii67 attraverso la «autorità degli edifici pubblici»68, dando cosí origine a una «architettura pro maiestate imperii»69. Hitler, secondo Rodenwaldt, si rivela il degno continuatore dell’opera augustea per il fatto che

gli edifici del tempo presente evocano nella loro composizione, nella loro pianificazione e nei loro volumi l’architettura di Stato romana. Nei grandi progetti che devono ridisegnare la capitale del Reich pro maiestate imperii, ritroviamo l’incrocio tra i due assi, la rilevanza dell’orientamento, la coordinazione tra le strade, le piazze e gli spazi interni monumentali […]. Assomigliamo dunque ai romani nella misura in cui ci confrontiamo nuovamente con i principî e i fondamenti dell’architettura monumentale europea che i greci hanno posto con i templi che dedicavano ai loro dèi70.

Il tratto dominante di questa architettura di Stato è il suo classicismo esibito, anche se lo stile adottato resta poco definito, incerto tra la romanità imperiale cara all’austriaco Hitler e il severo modello dorico a cui Troost e Speer si richiamano.

Paul Ludwig Troost è stato il primo architetto di Hitler. Scomparso prematuramente nel 1934, ha tuttavia avuto il tempo di donare al Führer le sue prime gioie di costruttore, realizzando i progetti monacensi del capo della Bewegung. Troost edifica dunque per il partito la Braunes Haus di Monaco e in seguito, dopo la presa del potere, una Ehrenhalle in memoria delle vittime naziste del putsch del 1923. Trova infine il tempo, prima di morire, di disegnare la Casa dell’arte tedesca cara ai progetti artistici di Hitler. Speer qualifica lo stile del suo predecessore come «tradizionalismo spartano»71. Il rapporto di Hitler con Troost era tale che, all’improvvisa morte del maestro, Hitler parlò della possibilità di prendere lui il suo posto, idea che, dopo tutto – nota Speer con ironia –, non era «piú peregrina di quella che ebbe poi, quando volle attribuirsi il comando supremo dell’esercito»72.

Speer professa un’ammirazione rispettosa per Troost. Confessando di aver nutrito l’ambizione di essere «il legittimo erede dei classicisti berlinesi»73, addirittura di essere «un secondo Schinkel»74, prova per l’architettura greca e classica un amore che non si smentirà mai, come testimoniano le incisioni che ornano, dopo la guerra, la sua cella di Spandau. I suoi vent’anni di carcere saranno rallegrati solo da «riproduzioni di una testa in bronzo di Policleto, di un progetto di Schinkel per un palazzo reale sull’Acropoli di Atene, di un capitello ionico, di un fregio antico classico. E cosí, la mattina, quando mi sveglio, la prima cosa che vedo è l’Eretteo»75. Speer definisce il proprio stile come «neoclassico», vedendo in esso «una derivazione dallo stile dorico»76, e dedica dei viaggi allo studio di edifici dorici: «L’amore per il mondo dorico fece sí che il mio primo viaggio all’estero, nel maggio 1935, non avesse per meta l’Italia», paese che costituiva, dopo tutto, la meta obbligata di ogni intellettuale tedesco da Winckelmann in poi, ma «la Grecia»77. Speer racconta che «ricercammo soprattutto, mia moglie e io, le testimonianze del mondo dorico», obiettivo che verrà perseguito anche in un secondo viaggio svolto nel marzo 1939, in Sicilia e in Italia del Sud, sulle terre delle colonie della Magna Grecia, dove Speer ammira in particolare «le rovine dei suoi templi dorici di Segesta, Siracusa, Selinunte e Agrigento», un «prezioso completamento di quanto avevamo visto e sentito nel nostro precedente viaggio in Grecia»78.

Hitler assegna dunque al suo primo architetto l’incarico di progettare monumenti classici. Il suo gusto per l’Antichità lo portava a questo, cosí come le sue aspirazioni a una lunga posterità memoriale: «Hitler apprezzava il classicismo perché era “fuori dal tempo”»79. La posterità degli edifici antichi, in particolare quelli tramandati dall’Impero romano, li rende quasi metafore dell’eternità. Un uomo cosí ossessionato dal tempo e dalla preoccupazione della durata80 com’era Hitler non poteva che esserne profondamente commosso e sedotto. Lo stile classico è uno stile greco e, piú precisamente, dorico, poiché Hitler, nota Speer, «credeva di aver trovato nel popolo dorico alcuni agganci con il mondo germanico»81, e poiché «la cultura greca rappresentava, per Hitler, la massima perfezione in tutti i campi»82.

Speer tempera il suo apprezzamento dell’estetica hitleriana precisando che il gusto del Führer restava gravato da quello che aveva visto nella Vienna imperiale della sua giovinezza, «il mondo tra il 1880 e il 1910», caratterizzato da un «ampolloso neobarocco»83, quello del Ring viennese e del palazzo Garnier parigino, che Hitler amava tanto, e al quale tende a tornare nuovamente a partire dal 1937. Secondo il suo architetto preferito, il Führer si allontana allora dallo stile dorico per abbracciare uno stile neo-Impero molto pesante, che evoca ormai meno la rigorosa severità dei templi dorici che non «le sfarzose architetture dei despoti orientali»84. Speer vede in questo, a posteriori, una regressione verso «un’arte decadente»85 che, pensandoci bene, annunciava la caduta di un Reich gonfiato tanto quanto i suoi edifici, come lo stile Impero francese, subentrato alla gravità spartana della rivoluzione, aveva accompagnato l’ascesa e le sconfitte di Napoleone86. Per qualche pagina, Speer sviluppa una filosofia critica dell’arte che rende la sua evoluzione coerente con un contesto politico di cui essa è l’espressione e il sintomo. L’ex architetto dell’Impero nazista diffida ormai dello stile imperiale e di ciò che presagisce: dopo gli eccessi del tardo rococò, la Rivoluzione francese aveva fatto ritorno a uno stile sobrio e rigoroso, leggibile nei progetti «dei Boullée, dei Ledoux, dei Lequeu»87, le architetture utopiste a cui Speer si richiama. Il direttorio ha arricchito l’antica severità degli anni 1789-1794 con maggiori ornamenti, prima che l’Impero arrivi a eccedere nella ricchezza e negli elementi decorativi. Il periodo 1789-1815 offre dunque la possibilità di seguire «nel breve ciclo di un ventennio circa, un processo per il quale sarebbero occorsi, in condizioni normali, dei secoli. Processo che andava dalle costruzioni doriche della prima età classica alle strutture complesse e involute delle facciate barocche del tardo ellenismo»88, un’evoluzione ulteriormente ridotta dal nazismo a quattro anni di severità e otto anni di esagerazione imperiale, tanto nell’ornamentazione quanto nelle proporzioni assegnate agli edifici, cosa che, all’epoca, Speer «ancora non intuiva»89. Speer constata infatti, con il ritorno alle aspirazioni di potenza tedesca e l’affermarsi di ambizioni imperialiste sempre piú evidenti, una tendenza alla sovrabbondanza ornamentale, ma, soprattutto, a un gigantismo che egli assimila al dispotismo orientale, prima di constatare che anche i greci, a loro volta, «non era[no] immuni da eccessi di megalomania»90.

Hybris, la megalomania fatta pietra.

Speer definisce l’architettura imperiale di Hitler gebaute Megalomanie91 e racconta che suo padre, stupefatto davanti alla dismisura degli edifici progettati, gli avrebbe detto: «Siete diventati completamente pazzi!»92. È la reazione spontanea dell’osservatore esterno. I progetti di Speer per la riconfigurazione di Berlino sono di un gigantismo davvero demenziale. La cupola della Grosse Halle doveva raggiungere i 250 metri di altezza, cioè l’altezza dell’attuale torre dell’Alexanderplatz a Berlino, alla base del palo dell’antenna. L’aquila che doveva sormontarla si sarebbe elevata fino a 290 metri, ossia un po’ meno della tour Eiffel: «Del classicismo, – nota Speer, – amava, a rigor di termini, null’altro che la possibilità del monumentale. Era infatuato del gigantesco»93.

Lo storico Jochen Thies, in un’opera dal titolo L’architetto dell’egemonia mondiale 94, legge in questa dismisura architettonica l’affermarsi di un’ambizione imperiale su scala mondiale, un’ambizione talmente inaudita che le proporzioni degli edifici progettati risultano inedite: la loro dimensione è calibrata sulla dismisura delle ambizioni strategiche del Führer. Thies ritiene che una logica interna colleghi questa architettura grandiosa ai progetti militari di costruzione di bombardieri a lungo raggio d’azione in grado di colpire gli Stati Uniti. Edifici imperiali e fortezze volanti sono l’espressione di una stessa tensione verso l’egemonia mondiale95: non c’è alcun dubbio, dunque, che l’espansionismo di Hitler non potesse accontentarsi semplicemente della conquista di uno spazio vitale a est.

La sua guerra è condotta su scala planetaria contro una cospirazione ebraica di ampiezza mondiale. Hitler, come nota Thies, è obnubilato dall’esempio dell’Impero britannico, modello contemporaneo riuscito di egemonia su scala mondiale, e della Roma antica, che resta, in architettura come in politica, modello e sfida per il Führer96, il campione storico assoluto in base al quale ogni grandezza si deve misurare.

Un impero che si rispetti deve ricondurre a sé le costruzioni politiche presenti ma anche passate. Allo stesso modo, l’architettura di rappresentanza di questo Impero deve superare tutto ciò che potrebbe essergli contrapposto. Hitler formula i suoi giudizi estetici all’interno di categorie piú quantitative che non qualitative: Wucht, Gewalt, Monumentalität, Riesenhaftigkeit sono le coordinate del suo sistema di riferimento personale e gli attributi attraverso i quali egli esprime la sua ammirazione per gli edifici che spesso vengono valutati in base alla loro dimensione, in quanto il loro gigantismo nella scala di valori del Führer equivale a consacrazione.

L’indubbio gusto di Hitler per il monumentale non è l’espressione di una patologia personale, di una elefantiasi estetica, ma è al contrario caratterizzato da un esplicito e preciso significato politico. Il gigantismo dei monumenti del Terzo Reich deve restituire ai tedeschi la consapevolezza perduta della loro dignità e della loro eminenza, un sentimento violato e rubato dall’umiliante Diktat di Versailles e dagli interminabili anni di crisi della Systemzeit di Weimar. Secondo il Führer, infatti, «solo attraverso opere di questo tipo si restituisce a un popolo la sua fiducia in se stesso»97. Durante la solenne inaugurazione della nuova Cancelleria del Reich, il 9 gennaio 1939, dichiara:

Il mio scopo è sempre stato quello di restituire al popolo tedesco la sua stima di sé in tutti gli ambiti. Alcuni forse si chiedono perché il Führer proclami che questa è la cosa piú grande, perché le nostre strade sono le piú grandi, perché vuole che siano le piú grandi […]. Perché mirare sempre al piú grande? Miei camerati tedeschi, io faccio questo per ridare al popolo tedesco la sua fiducia in se stesso98.

Hitler moltiplica gli interventi in cui dichiara senza esitazioni la sua volontà di superare tutti i piú grandi monumenti che esistono nel mondo intero. L’inno del vecchio Reich, che resta, insieme all’Horst-Wessel-Lied, quello della nuova Germania, proclamava un «Deutschland über alles in der Welt», che Hitler prende alla lettera per dargli un significato architettonico molto concreto, espressione anticipata e prefigurazione di una realizzazione politica che sarebbe seguita molto presto.

Il riferimento contemporaneo, sincronico, di Hitler è l’America: tutto, nella nuova Germania, deve superare le realizzazioni americane. Hitler vuole cosí costruire ad Amburgo «il ponte piú grande del mondo», al posto di un tunnel, piú comodo dal punto di vista tecnico, ma qui non si tratta tanto di utilità tecnica quanto di

dare ai tedeschi coscienza di questo […]: cos’è l’America con i suoi ponti? Noi possiamo fare esattamente la stessa cosa. Ecco perché faccio costruire dei grattacieli che hanno la stessa potenza dei piú grandi grattacieli degli Stati Uniti. Ecco perché faccio costruire a Berlino una capitale potente. Ecco perché faccio costruire a Norimberga o a Monaco impianti giganteschi, e immense autostrade in tutto il Reich tedesco, non per ragioni di circolazione, ma perché sono convinto che sia necessario dare al popolo tedesco la fiducia in se stesso che, già molto grande in passato, è stata spezzata99.

Il Führer-architetto orchestra la pesante sinfonia dei superlativi: Berlino deve essere dotata, col suo asse nord-sud, del viale piú lungo e piú largo del mondo, del piú grande aeroporto del mondo, della emittente piú potente del mondo100, Norimberga dovrà accogliere lo stadio piú grande del mondo101: «Perché sempre il grandissimo? Perché voglio restituire a ogni tedesco la coscienza di sé»102. Tuttavia, se l’America, i suoi ponti sospesi e i suoi grattacieli sono certamente il riferimento contemporaneo, lo sguardo di Hitler è rivolto soprattutto a Roma, «la nostra sola rivale nel mondo»103, l’unica potenza storica con la quale Hitler, sub specie aeternitatis, accetta di misurarsi: «la megalomania di Hitler riguardava il tempo come lo spazio»104, nota Speer.

Roma, modello e sfida.

Dobbiamo ora chiarire fino a che punto Roma sia innalzata da Hitler a modello e a sfida della sua opera politica di edificazione di un impero. A tutti i conquistatori della posterità, l’Impero romano, con la sua rete di strade, di città costruite come altrettante Roma in piccolo, con il suo Stato, il suo diritto e il suo esercito che dominavano un territorio grande quanto il mondo conosciuto fino ad allora, l’Impero al quale erano riusciti a resistere solamente i lontani parti orientali, è apparso come il modello per eccellenza dell’egemonia universale. Esso univa le armi della forza militare alle parole della lingua e della civiltà romana diffuse da legioni e proconsoli dall’Africa alla Britannia. Non è affatto sorprendente, dunque, che Carlomagno, Ottone, e in seguito Napoleone, abbiano voluto mettere in scena il loro potere sotto insegne antiche e recitare di nuovo la storia in abiti da romani. Roma è per Hitler, come per tutti questi conquistatori, segno e modello del potere egemonico, del dominio universale. In una lingua simbolica in cui i significanti sono ridotti a tratti salienti minimali, il nome di Roma funziona come il simbolo del potere, cosí come Atene significa filosofia e la Prussia è sinonimo di disciplina e di organizzazione. Per altro, Hitler stesso si dedica espressamente a un’analisi di tipo linguistico, facendo osservare la posterità del nome di Cesare: «È folle quel che un nome può diventare! Per duemila anni, Cesare è stato un concetto che designava il comandante supremo»105. Come la parola «Roma» è diventata il significante di una realtà imperiale, il nome di Cesare è quello del comando militare supremo e del potere. L’eccezionale esemplarità del modello romano si legge dunque anche solo dalla lingua, e Cesare, come Roma, divenuti immortali grazie ad alte imprese inaudite, sopravvivono nella memoria comune come segni di realtà gloriose che essi soli possono designare adeguatamente, tanto grande è il loro ruolo di archetipi, di modelli e di simboli compiuti. I nomi stessi sono diventati monumenti106.

Roma è al contempo simbolo e archetipo di una conquista militare e dell’instaurazione di un potere mondiale, ma un potere che trasforma in profondità, imponendo la sua cultura e la sua lingua, in breve, un potere che modella e che plasma lo spazio e i suoi popoli. Si tratta di un modello superlativo, che non è mai stato eguagliato, nemmeno, e non ancora, dal Reich grande-tedesco:

Ancor oggi, l’Impero universale di Roma non ha eguali. Con quale infaticabile energia ha dominato tutti i popoli circostanti: e non c’è altro Impero che abbia diffuso nello stesso modo una cultura cosí uniforme107.

Hitler, con tono ammirato e insoddisfatto, considera dunque, in questo colloquio privato del novembre 1941 – mentre la Wehrmacht sta perlustrando i quartieri di Mosca – che Roma non ha ancora un suo pari, nicht seinesgleichen. L’ambizione di Hitler è creare un impero sul modello romano: l’Imperium romanum, das römische Weltreich, deve avere ben presto il suo degno compagno nel Reich, che è sul punto di sottomettere l’intero continente europeo, e di espandere, di diffondere la propria razza e la propria cultura. Nel 1941, la guerra contro l’Urss è esplicitamente definita come una guerra razziale di sterminio degli slavi e degli ebrei, che devono sparire per lasciare il posto a coloni tedeschi. L’uniformazione, l’omogeneizzazione razziale dello spazio imperiale deve essere il corrispettivo della diffusione, da parte di Roma, del latino, della sua cultura e del suo diritto.

Se Roma è cosí presente nella mente e nei discorsi di Hitler, questo accade senza dubbio anche perché la storia romana iscrive nell’ordine del possibile il progetto a priori irrealizzabile, davvero megalomane, di un impero universale. Riferire un progetto politico, per quanto folle possa sembrare, a eventi e periodi del passato effettivamente verificatisi, equivale a iscrivere questa idea nel concreto del possibile, di un passato reale, dunque di un potenziale sempre attualizzabile. Richiamandosi a Roma, Hitler trova dei precursori e dei precettori per quello che, altrimenti, non sarebbe altro che follia vuota e vana. Mediante il riferimento all’Antichità romana, la follia imperialista di Hitler trova quel minimo di ancoraggio nel reale che rende il mito, anche se solo in piccola parte, credibile e vitale. Agli occhi di Hitler, Roma prefigura, di fatto, il Reich.

Per Nietzsche, l’iscrizione nel reale è una delle funzioni della storia, uno dei modi attraverso cui essa serve la vita. Nella seconda delle sue Considerazioni inattuali (1874), Nietzsche nota infatti che «la storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente»108. La storia avrà allora la funzione di fargli scoprire grandezze passate che potranno ispirarlo, incoraggiarlo nel suo compito, mostrandogli che una tale grandezza, benché eccedente rispetto al presente, resta possibile, dato che si è avverata, di fatto, in epoche chi ci hanno preceduto. Nietzsche chiama questo tipo di storia «monumentale». La storia diviene pellegrinaggio verso le fonti della grandezza storica, grazie alla scoperta dei monumenti del tempo trascorso, delle alte imprese e delle grandi opere del passato che annunciano quelle del presente, o per lo meno testimoniano la loro possibilità. L’uomo d’azione, il grande uomo del presente trae da questa contemplazione dei monumenti che la storia gli propone coraggio, determinazione e consolazione di fronte all’incomprensione dei suoi contemporanei:

Egli ne deduce che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta; egli percorre piú coraggiosamente la sua strada, poiché ora il dubbio che lo assale nelle ore di debolezza, di voler fare l’impossibile, è spazzato via109.

Piú grande del Colosseo.

Il monumento di Roma è un esempio, un modello da imitare, una sfida da raccogliere, il solo che sia degno del Reich per la sua estensione territoriale, per la sua potenza militare e per la sua posterità memoriale. Le imagines degli antenati, conservate sull’altare della famiglia, svolgono sempre questa doppia funzione di consiglio e di ingiunzione, di esemplarità e di sfida110. Durante una conversazione del 21 ottobre 1941 al quartier generale, Hitler confida ai membri della sua cerchia piú intima il senso che conferisce alla riconfigurazione urbana di Berlino: «Solo cosí saremo in grado di fare ombra all’unico concorrente che valga per noi, cioè Roma»111. Il Führer pronuncia questi discorsi in un contesto di euforia geostrategica e militare, nel momento in cui il Blitzkrieg a est sembra un successo e in cui il Reich grande-germanico sembrava a portata di realizzazione.

Se infatti Hitler vuole superare tutto con i suoi edifici, Speer precisa che si trattava soprattutto di surclassare i maestri dell’Antichità: Hitler era entusiasta quando, come suo architetto preferito, «potevo dimostrargli che avremmo “battuto”, se non altro in grandezza, le maggiori opere architettoniche della storia»112: il paragone nello spazio è meno importante di quello nel tempo, gli Stati Uniti lo sono meno rispetto a Roma. Speer costella dunque le sue memorie di una valanga di misure e di dismisura, precisando che la tribuna dello Zeppelinfeld di Norimberga, «infatti, misurava 390 metri in lunghezza (quasi il doppio delle Terme di Caracalla a Roma) e 24 in altezza»113. Per evitare un eccesso di spese, essa doveva essere eretta non in granito, ma in travertino, materiale meno nobile, ma che era lo stesso utilizzato nel Colosseo di Roma. La tribuna doveva essere sormontata da una statua allegorica di 60 metri di altezza, fatto che richiede immediatamente le seguenti precisazioni, in cui sono chiamati in causa il riferimento americano e quello romano, geografico e storico:

Nerone aveva fatto erigere in Campidoglio una statua colossale di 36 metri114; la Statua della Libertà, a New York, è alta 46 metri; la nostra statua doveva superare quest’ultima di 14 metri115.

Sempre a Norimberga, il Grande Stadio voluto da Hitler doveva avere una capienza di «400 000 spettatori. La piú grande opera del genere che l’Antichità possa vantare è il Circo Massimo di Roma, capace di 150 - 200 000 persone, mentre gli stadi moderni non superavano, in quegli anni, i 100 000 posti»116, come lo stadio olimpico di Berlino, opera del suo collega Werner March. Tali misure sono in proporzione all’espansione geografica e demografica della Germania, ampliata in grande Reich, la cui popolazione, secondo il Mein Kampf, doveva raggiungere, in cinquant’anni, 250 milioni di individui. L’inflazione dimensionale non riguarda solamente Norimberga, ma anche la capitale del Reich. A Berlino, il progetto imperiale rende indispensabile rimpiazzare la Cancelleria del 1939 con un nuovo Führerpalais sulla Adolf-Hitler-Platz. Questo «avrebbe avuto dimensioni centocinquanta volte maggiori, tali da superare addirittura il leggendario complesso della Domus Aurea neroniana, la cui superficie oltrepassava il milione di metri quadrati»: con i suoi due milioni di metri quadrati, il palazzo di Hitler reggeva il paragone117.

Anche i morti meritano l’omaggio dell’iperbole architettonica. I Totenburgen, «gigantesche necropoli» la cui realizzazione è affidata all’architetto Wilhelm Kreis, dovevano avere l’aspetto dei «tumuli del mondo antico»118 ma, ancora una volta, portati all’ipertrofia, con altezze di 100 metri e oltre.

Questo diluvio di cifre e questo valzer di comparazioni rende tangibile, nel testo di Speer, l’esaltazione dei padroni del Reich, convinti dell’eccezionalità della loro costruzione storica: gli edifici di Roma imperiale, Terme di Diocleziano, Circo Massimo, Domus Aurea, sono il campione di riferimento principale del gigantismo nazista. Roma, riferimento e modello della vocazione imperiale, offre il precedente urbano per una capitale del Reich chiamata a imitarla e a superarla.

Germania, Nova Roma: un manifesto di pietra.

Il fatto di nominare una città, anche solo per rifondarla, è un atto di affermazione di potenza mediante l’inaugurazione di una nuova era. Era questa l’ambizione di Nerone che, come ci racconta Svetonio, voleva ridisegnare l’antica capitale dell’Imperium e ribattezzarla, affinché diventasse il suo eponimo, Neropolis.

Volendo dotare la sua capitale di nuovi edifici, espressioni di potere (ministeri, Soldatenhalle per l’Okw), ma anche luoghi per gli svaghi sociali, come le terme, che dovevano essere edificate lungo l’asse nord-sud, Hitler si iscriveva in una duplice tradizione romana: quella del princeps costruttore, che portava ogni nuovo imperatore ambizioso a corredare Roma di un nuovo foro, e quella dell’evergete, benefattore che, come principe o come privato, faceva dono alla città di attrezzature necessarie alla vita sociale119.

Hitler nutriva il progetto di dare a Berlino un volto nuovo. La seconda nascita della capitale del Reich si sarebbe accompagnata a un nuovo battesimo della città, atto semantico performativo che avrebbe segnato una rinascita, un tempo nuovo. Il nome scelto fu Germania, un vocabolo che, paradossalmente, non ha nulla di germanico120. Germania è un termine strettamente latino, reso popolare da Tacito, alla cui monografia viene associato a partire dal Rinascimento. I suoi derivati in tedesco, Germanen, germanisch, hanno equivalenti nordici, derivati dalla radice propriamente sassone teutsch, latinizzata in tuidisc, tedesco, tudesco. Il carattere latino di Germania è inoltre accentuato dalla desinenza finale in -a, caratteristica latina del genere femminile. È significativo che le SS non seguano Tacito per battezzare la loro rivista di antropologia e di archeologia nordica. Al tacitiano Germania, preferiscono un Germanien dove la finale in -en è piú specificamente nordica.

Nuova Roma attraverso il suo nome, Germania era concepita da Hitler come la capitale di un impero mondiale. La nuova capitale del Reich, come, piú in generale, tutti i nuovi edifici del regime, sono pensati per essere manifesti dell’imperialità, per iscrivere il potere nazista nello spazio, ma anche nel tempo lungo di una posterità millenaria. L’obiettivo è quello di sostenere, mediante un’architettura imponente, il potere dei Führer a venire, dei suoi successori, lasciando un testamento di pietra che lo fissi per l’eternità121.

Il nuovo Impero mondiale a cui Hitler aspirava, per reggere il paragone ed essere degno del suo modello passato, doveva parlare la lingua dell’imperialità, vale a dire quella della monumentalità romana. Di fatto, la nuova capitale doveva produrre tutti i segni della romanità imperiale, possedendo a sua volta tutti gli elementi architettonici che definivano Roma e facevano della Città, grazie alla diffusione/proiezione di questi elementi nelle città delle Provinciae, la capitale dell’Impero.

Germania doveva dunque avere il suo Arco di Trionfo, elemento centrale dell’architettura militare e urbana romana che riproduce ed eterna nella pietra la porta dell’accampamento.

L’Arco di Trionfo di Germania, disegnato da Speer in base a schizzi di Hitler, doveva essere piú alto, piú largo e piú profondo di quello di Napoleone I, altro rianimatore dell’Impero, a Parigi: l’arco hitleriano doveva misurare 117 metri di altezza, cioè piú del doppio di quella degli Champs-Élysées (50 metri), 170 metri di larghezza e 119 di profondità. Abbozzato da Hitler in persona nel suo Skizzenbuch del 1925, l’arco era «il cuore del suo progetto» ed è «il miglior esempio esistente delle idee architettoniche fissate da Hitler in quell’album degli anni Venti»122. Il monumento doveva sorgere all’estremità della doppia fila di cannoni inaugurata dalla stazione sud e all’inizio del viale monumentale che doveva terminare nella Grosse Halle.

Quest’ultima doveva essere il monumento identificatorio della nuova capitale. Concepito per essere, nell’avvenire, il teatro dei grandi discorsi del Führer del popolo tedesco, questo immenso quadrilatero aperto da una colonnata e incoronato da una cupola gigantesca, doveva poter accogliere un pubblico di 180 000 spettatori. Perfetta escrescenza della dismisura architettonica nazista, la Grosse Halle, con 315 metri di lato, doveva occupare un’area di quasi 100 000 metri quadrati, e presentare un diametro di cupola di 250 metri. Al di là di queste dimensioni inaudite, la Halle, con le sue colonne e la sua cupola, era di evidente ispirazione romana: «In un certo senso ci eravamo ispirati al Pantheon di Roma»123, nota Speer. Il Pantheon romano era ben noto a Hitler, in gioventú storico dell’arte autodidatta, che aveva potuto realizzare uno dei sogni della sua vita andando ad ammirare le antichità di Roma durante la sua visita di Stato a Mussolini nel maggio 1938. Arrivato il 3 maggio a Ostia, Hitler è trattenuto da obblighi di protocollo fino al 6. Il 7 maggio, una pioggia provvidenziale gli risparmia la lunga parata militare programmata dagli italiani, e gli permette di attraversare in lungo e in largo l’antica Roma come desidera. Dopo essere tornato, a titolo privato, alla Mostra augustea della romanità, già visitata il giorno prima, egli visita, tra il palazzo dei Conservatori e le Terme di Diocleziano, il Pantheon cosiddetto di Agrippa, nel quale chiede di entrare da solo. Vi resta a lungo, in raccoglimento, ad ammirare la cupola che i progetti di Speer riprodurranno moltiplicandone le misure per 20124. La scala di accesso all’edificio doveva essere fiancheggiata da «due statue di 15 metri d’altezza, il cui significato allegorico era stato fissato da Hitler fin da quando avevamo abbozzato i primi schizzi del progetto: l’una avrebbe raffigurato Atlante nell’atto di sostenere la volta celeste, l’altra Tellure nell’atto di reggere il globo terrestre»125. È dunque in una lingua mitologica greco-romana che Hitler voleva dare espressione allegorica al suo potere: colui che parlava in questi termini era il padrone della terra e dei cieli, di cui portava tutto il peso, e di cui era il pilastro.

Oltre questi edifici di architettura militare e politica, che riproducevano o trasponevano gli elementi classici di un’architettura imperiale romana, Germania doveva essere anche dotata di terme, manifestazione per eccellenza dell’evergetismo antico, e testimonianza di tutta l’attenzione che i nazisti riservano alla cura del corpo126. Speer nota che si era perfino arrivati a progettare «una piscina in stile romano, grande come le terme dell’epoca imperiale»127. Hitler conosceva le Terme di Diocleziano per averne osservato le rovine durante la sua esplorazione archeologica privata del 7 maggio 1938 a Roma. Le sue dovevano essere situate all’inizio dell’asse nord-sud, a est della stazione sud, davanti al ministero delle Poste.

Gli edifici di Germania dovevano essere distribuiti lungo un asse nord-sud di cui Berlino non è mai stata dotata. L’asse tradizionale di Berlino, l’asse reale prussiano, scandito dal castello reale, la statua di Federico II, la Porta di Brandeburgo e la Colonna della Vittoria è un asse est-ovest: è quello di Unter der Linden, prolungato, oltre la Porta, da un lungo viale che porta verso Charlottenburg, passando per la Vittoria. Questo asse è ancora quello che, fatti i conti con la partizione da guerra fredda, struttura lo spazio della città attuale. Hitler voleva a ogni costo creare un asse nord-sud sovrapponendo un viale monumentale a un numero imponente di linee ferroviarie di orientamento sud-ovest, nord-est, che servivano la Potsdamer Bahnhof e l’Anhalter Bahnhof e che erano destinate a scomparire per essere raggruppate e orientate a costituire reti verso la futura stazione sud. Oltre alla scomparsa di questo impianto ferroviario, il nuovo asse progettato richiedeva la distruzione di centinaia di ettari di abitazioni e di strade urbane. Non si può assolutamente comprendere questo volontarismo urbanistico e i costi che avrebbe comportato se non vedendovi la volontà del Führer di dare alla sua città un cardo, un asse nord-sud, asse principale di ogni città romana. L’urbanismo romano, di origine militare, era un calco del piano ortogonale del campo legionario: quattro porte, due assi, accampamenti rettilinei con incrocio ad angolo retto e piazza per l’appello all’intersezione dei due assi, il cardo e il decumano, secondo asse, di orientamento est-ovest. Mentre nella stessa Roma, città troppo antica e costituita da un sinecismo arcaico, la struttura ippodamea è poco leggibile, molto spesso la si può ritrovare in ogni nuova colonia o fondazione.

La capitale che Hitler ereditava era troppo poco romana per i suoi gusti: con una doppia assialità, incrociata quasi ad angolo retto a livello dell’attuale monumento sovietico del Tiergarten, la capitale del Reich, con il suo nuovo cardo e il suo decumano tradizionale, si preparava a essere pienamente imperiale.

La struttura generale e molti edifici specifici sono d’ispirazione apertamente romana. La decorazione urbana deve anch’essa evocare Roma, per un effetto di citazione architettonica: sull’asse est-ovest, piú precisamente sul viale Unter den Linden, vengono cosí eretti pilastri disegnati dall’architetto e Reichsbühnenbildner Benno von Arent in occasione della visita di Mussolini nel settembre 1937. Si tratta di sottili colonne dai capitelli dorici, sormontate dall’aquila simbolo di sovranità (Hoheitsadler). Inizialmente provvisori, questi pilastri risultano del tutto corrispondenti al gusto di Hitler, che decide di renderli perenni. Pertanto, una volta ripartito il Duce, le colonne vengono fissate nella pietra, in modo permanente. Nel Grande dittatore (1940), Charlie Chaplin si fa beffe di questa messa in scena all’antica dello spazio berlinese. Una scena del film rappresenta il tragitto del dittatore Adenoid Hynkel dal luogo del suo discorso al suo palazzo. Il viale che imbocca nella sua pesante berlina decapottabile nera è costellato di opere d’arte antiche o antichizzanti, come una Venere di Milo improvvisamente dotata di un braccio abbastanza lungo per fare il saluto nazista e un pensatore di Rodin dalla testa mollemente adagiata su una delle due braccia, mentre l’altra esegue lo stesso Hitlergruss.

L’effetto di citazione romana e mitologica nell’apparato cerimoniale e nella decorazione.

Sappiamo che Hitler ha dedicato una cura attenta e molto particolare nel disegnare le uniformi insigni e i simboli del partito, seguendo un modello fascista italiano di cui apprezzava l’aspetto neoromano. Hitler, che confessa e professa una antica e sincera ammirazione nei confronti di Mussolini, e che confida ai suoi interlocutori che «la camicia bruna non sarebbe mai nata se non vi fosse stata la camicia nera»128, ha preso in prestito dal fascismo italiano tutto ciò che ricordava la venerabile maestà dell’antica Roma, come le insignia del partito che abbracciano il corpo in uniforme del nazionalsocialista. L’aquila degli stendardi del partito, che incombe minacciosa in procinto di prendere il volo, artigli contratti e ali dispiegate, è ispirata da Roma, proprio come gli stendardi, i famosi Standarten che affollano con le loro stoffe, le loro aquile e le loro croci le adunate del partito. Li ha disegnati Hitler in persona, a imitazione di quelli delle legioni, annotando, nel suo taccuino di schizzi, Cesare via Mussolini129. Hitler si è accuratamente documentato sull’argomento, il che rende la sua imitazione degli stendardi romani molto convincente. Si può dunque osservare che essi raggruppano sincreticamente i diversi elementi della simbolica militare romana130: il vexillum, la stoffa quadrata rossa usata come drappo della legione, e che qui è contrassegnata da una croce uncinata su fondo bianco e il motto «Deutschland Erwache!», l’aquila e, infine il signum, l’asta che, a Roma, alterna falci e dischi. Gli Standarten nazisti presentano al loro posto una croce uncinata cinta da una corona civica di foglie di quercia, e un cartiglio che indica la provenienza geografica dell’unità rappresentata (città o distretto), corona e cartiglio entrambi derivati dalla simbolica militare romana. Le corone civiche rivestono un significato e un’importanza tutta particolare. Si trattava di segni distintivi attribuiti a coloro che avessero salvato la vita di un concittadino durante una battaglia. Augusto si era visto assegnare una tale corona per aver salvato lo Stato dalla guerra civile e dal caos. Senza dubbio Hitler, vero pater patriae che aveva salvato la Germania dal caos di Weimar e dal sovvertimento comunista, pensava che il partito avrebbe meritato una simile corona. Le croci uncinate, onnipresenti tanto quanto le aquile, quando vengono esposte non sono collocate su drappi (cerchio bianco su fondo rosso), ma come motivo architettonico, circondate dalla famosa corona di foglie di quercia intrecciate.

Anche altri elementi dell’apparato cerimoniale nazista sono derivati da Roma. Il potere supremo del Reich si manifesta in costumi di romani, nell’architettura, ma anche nella decorazione interna131. Il programma iconografico della Nuova Cancelleria del Reich, presentato nel gennaio 1939 da uno Speer che impressiona Hitler con la sua efficienza, cosa che tre anni dopo gli varrà una promozione ministeriale, è infarcito di citazioni antiche, tanto per la scelta dei supporti (marmo, mosaico) quanto per i temi rappresentati. Una Marmorsaal in cui prevale il color porpora presenta cosí numerosi mosaici, arte romana per eccellenza, che esibiscono aquile, corone d’alloro, rami d’olivo, fiaccole e tirsi. L’impiego del mosaico non fu limitato solo alla Cancelleria, palazzo del Führer. Le navi dell’organizzazione Kraft durch Freude (KdF-Schiffe), palazzi naviganti del popolo lavoratore e meritevole, erano dotate di piscine con una decorazione ispirata ai soggetti e ai temi antichi. Le terme della Wilhelm-Gustloff132 del KdF-Schiff (1938) erano ornate ad esempio da pannelli di mosaico che rappresentavano un Nettuno sovrano delle onde e delle acque. Nella Cancelleria, altri supporti, come le tappezzerie murali e i quadri di grande formato, si ricollegano maggiormente alla tradizione del principe assoluto dei secoli XVII e XVIII, ma i loro soggetti sono ancora tratti dall’Antichità: 21 tappezzerie del XVII secolo rappresentano cosí, in tre serie, la vita di Alessandro Magno (8), la storia del console romano Decio Mure (5) e le gesta di Didone ed Enea. La simbolica alessandrina, come allegoria dell’imperialismo, è trasparente. La figura di Decio Mure, console romano che fece voto agli dèi e cercò la morte in battaglia per far trionfare Roma sui latini (III secolo avanti Cristo), simboleggia il sacrificio del capo devoto alla propria città fino alla morte133, e quella di Enea evoca un capo che, come il Führer134, non si lascia distogliere dalla sua missione dall’amore per una donna o da un qualche altro sentimento: Enea abbandona Didone per andare a fondare la sua colonia del Lazio, da cui sarebbe nata Roma.

Anche l’ufficio del Führer parla una lingua allegorica ispirata all’Antichità. Il tavolo da lavoro di Hitler era ornato da tre pannelli di intarsi che si affacciano direttamente di fronte al visitatore, collocato su un piano inferiore su una sedia intenzionalmente abbassata135. Hitler desiderava che al visitatore della Nuova Cancelleria sembrasse di trovarsi davanti al padrone del mondo: davanti al suo studio, ogni invitato, giornalista, ministro o plenipotenziario straniero, capiva di parlare a un re della guerra. Gli intarsi dello studio rappresentano infatti Marte, posto al centro su un giavellotto e una spada sguainata incrociati, affiancato, alla sua destra, dalla Medusa e, alla sua sinistra, da Minerva. La Gorgone, con le zanne da belva e i capelli di serpente, aveva uno sguardo fisso che pietrificava il suo avversario. Vinta da Perseo, venne fissata sulla sua egida da Atena, poi imitata dagli opliti greci che raffiguravano la testa di Medusa sul loro scudo, rituale al contempo apotropaico e propiziatorio, in quanto l’immagine di Medusa doveva siderare di terrore l’avversario e pietrificarlo immediatamente. Minerva (Atena), dea vergine e guerriera, partecipa a sua volta allo stesso messaggio: la spada del Reich è sguainata, la violenza bruta (Marte), atroce (Medusa) e supremamente intelligente (Minerva) della macchina da guerra tedesca chiede solo di essere scatenata.

Gigantismo e ieratismo antichi, da Norimberga a Parigi: l’immagine della nuova Germania.

La capitale del Reich non era la sola città a essere oggetto di tutta la sollecitudine architettonica del Führer. La città di Monaco, promossa Capitale del movimento, e la Reichsstadt Norimberga dovevano essere a loro volta ridisegnate secondo un modello antico e monumentale. A Norimberga, la tribuna dello Zeppelinfeld, dove si svolgevano le grandi adunate di massa dei congressi del partito, «si ispirava indubbiamente al grande altare di Pergamo»136, pezzo forte, imponente e prestigioso, del Pergamonmuseum di Berlino.

Anche il Reichsparteitagsgelände di Norimberga doveva essere dotato di una vasta area di manovra per le dimostrazioni della Wehrmacht, a cui è dedicata per tradizione un’intera giornata del congresso. Significativamente, quest’area prende il nome di «Campo di Marte», in riferimento al Campus Martius romano, luogo di raduno dei cittadini in arme, in cui le classi delle legioni si presentavano all’appello e costituivano i comizi elettorali, all’esterno del pomoerium in cui era vietato entrare armati. Speer precisa tuttavia che la simbolica del nome è duplice, in quanto «era destinato a ricordare non soltanto il dio della guerra, ma anche il mese in cui Hitler aveva introdotto il servizio militare obbligatorio»137, il mese di marzo del 1935, quando una legge aveva riorganizzato la Wehrmacht e ripristinato la coscrizione138, violando il trattato di Versailles.

Il grande complesso di Norimberga doveva culminare nella costruzione del Grande Stadio, di cui Hitler assegna l’incarico a Speer. Lo stadio doveva essere in grado di accogliere 400 000 spettatori, allo scopo di essere il degno teatro dei discorsi del congresso e dei futuri Giochi olimpici che, una volta vinta la guerra, avrebbero dovuto svolgersi per sempre in Germania. Il Grande Stadio è ispirato al Colosseo romano, di cui riproduce le gallerie sovrapposte, ma anche allo stadio di Atene, lo stadio di Erode Agrippa, restaurato per i Giochi del 1896. Speer ricorda che, durante un viaggio in Grecia effettuato nel maggio 1935, era stato profondamente colpito dalla «ricostruzione dello stadio di Atene. Due anni dopo, quando toccò anche a me di progettare uno stadio, fu da quello ateniese che ricavai la pianta a ferro di cavallo»139.

Anche diversi osservatori contemporanei esperti cedettero all’effetto di questa architettura neo-antica, vedendo nel Terzo Reich quello che Hitler voleva mostrarne: una resurrezione di ciò che l’Antichità aveva avuto di piú potente, dominatore, impressionante. Robert Brasillach, autore di una celebre antologia della poesia greca, descrive in questo modo le sue impressioni del Congresso di Norimberga:

Allo Zeppelinfeld, all’esterno della città, è stato costruito uno stadio immenso, nello stile architettonico quasi miceneo che caratterizza il Terzo Reich. Sui gradini, può contenere 100 000 persone sedute, nell’arena, 200 o 300 000140.

L’effetto travolgente e imponente è tale che Brasillach ricorre qui al ricordo della Grecia arcaica, preclassica, all’architettura ciclopica propria dei re di Micene. Drieu La Rochelle vede invece in Norimberga un’immagine dell’Atene di Pericle, anche lui Führer-architetto del suo tempo: «È quanto ho visto di piú bello dopo l’Acropoli»141, dichiara dopo aver assistito alle coregie del Congresso di Norimberga, nel 1935.

I contemporanei prendono dunque atto di questo manifesto di potenza, con atteggiamenti di ammirazione, o di denigrazione, come nel caso dell’ambasciatore di Francia a Berlino, André François-Poncet, che si lascia sfuggire, con tono sprezzante, che i nazisti «hanno costruito uno stadio gigante per 100 000 spettatori. Dall’esterno, l’edificio era deludente. Non aveva l’imponente maestà del Colosseo di Roma»142.

Oltre alle città emblematiche del Reich e del partito, altre città, le capitali dei vari Gaue del Reich, erano chiamate a essere altrettante proiezioni e imitazioni della Reichshauptstadt Germania nelle province: «modelli e archetipi» ispirati a Berlino erano diventati lo schema da riprodurre143, nota Albert Speer, una riproduzione che evoca il fenomeno romano della proiezione dell’Urbe nelle diverse città dell’Impero, tutte dotate del loro forum, delle loro terme, basiliche, templi e mercati. Speer osserva con ironia l’improvvisa passione dei Gauleiter, questi Führer in scala minore, per l’architettura, e la loro fervente imitazione dei piani berlinesi144:

Una conseguenza della pianificazione di Berlino fu il pullulare di progetti analoghi in altre città. Ogni Gauleiter volle, da quel momento, eternarsi nella sua città145.

Allo stesso modo, nei territori conquistati e nei nuovi Gaue dell’Est, Hitler pensa a una ripresa del modello berlinese e di alcuni monumenti tipicamente tedeschi che materializzano l’acculturazione indogermanica del paesaggio conquistato di recente, a imitazione delle coloniae dell’Impero romano, ma anche della colonizzazione greca146.

All’estero, l’immagine del Reich è impostata alla maniera dorica, non solo dai Repräsentationsbauten di Berlino e Norimberga, ma anche dalla costruzione del padiglione della Germania all’esposizione universale di Parigi del 1937. Il padiglione precedente, quello dell’esposizione di Barcellona del 1929, era stato ideato da Mies van der Rohe come un inno al funzionalismo, un monumento di Neue Sachlichkeit nel piú puro stile del Bauhaus. Destinata alla gogna dell’arte degenerata, l’architettura modernista non può piú costituire in modo serio la vetrina internazionale della Germania. Un dorismo freddo e rigoroso presiede alla sua nuova architettura, elaborata in comune da Speer e da Hitler. Lo ieratismo imperterrito di questa alta struttura con colonna culminante in un capitello di ordine dorico e sormontata dall’aquila nazista oppone un muro di impassibilità alle curve mosse e impetuose dell’Operaio e della kolchoziana che sembrano slanciarsi verso il domani cantando147. Il fatto che il padiglione sovietico fosse stato collocato sul Trocadéro esattamente di fronte a quello della Germania costituisce una «deliberata malignità dei dirigenti francesi dell’esposizione», nota Speer, il quale precisa di essere venuto a conoscenza dell’altezza, tenuta segreta, dell’edificio russo, per poter issare l’aquila tedesca al di sopra, e permetterle di rivolgere verso il basso il suo sguardo sul proletariato in marcia verso la felicità umana.

Non c’è alcun dubbio che lo stile architettonico neo-antico sia significativo, che sia un manifesto di pietra e che faccia parlare alle città naziste la lingua dell’imperialità. Bisogna tuttavia riconoscere anche il tributo all’epoca in questo ricorso a forme architettoniche ispirate a una venerabile e ieratica tradizione occidentale: dalle costruzioni staliniane fino agli edifici federali di Washington degli anni Venti e Trenta, passando per il Trocadéro parigino del 1937, il neoclassico regna dovunque, e non sembra essere appannaggio né dei totalitarismi, né, a fortiori, del nazismo.

Albert Speer, per altro, relativizza di buon grado l’originalità della sua opera e dei suoi progetti negando che il classicismo nazista fosse specifico o inedito:

Fui vivamente sorpreso nel constatare che nelle costruzioni rappresentative anche la Francia tendeva al neoclassicismo. Piú tardi sentimmo dire spesso che questo stile era caratteristico dell’architettura ufficiale dei regimi totalitari, ma proprio non è cosí. Fu lo stile dell’epoca, e lo troviamo a Washington, Londra e Parigi esattamente come a Roma, a Mosca e nella Berlino dei nostri piani148.

Ciò che, da parte di Speer, costituisce manifestamente un’arringa o una discolpa, è confutato da Miguel Abensour, il quale respinge l’idea secondo cui l’architettura sarebbe indifferente o politicamente neutra. La tesi secondo cui «l’elemento architettonico gode di autonomia rispetto al politico» non può essere accettata dato che «l’istituzione di [un tempo e di ] uno spazio» specifici attraverso la creazione architettonica va di pari passo con «la logica che regola la costituzione totalitaria del sociale»149. L’elemento propriamente specifico dell’architettura nazista è la monumentalità travolgente che mira a costituire il popolo, erschlagen150, radunato, ipnotizzato, come nota Speer, in una massa assoggettata. Il gigantismo che caratterizza i progetti e le realizzazioni naziste mira, attraverso il contrasto e la sproporzione, a eludere l’individuo e a schiacciare le masse umane in modo tale che si coagulino, che diventino compatte, cosí che ogni interstizio, ogni spazio di presa di distanza, di differenziazione tra me e l’altro scompaia nel gran tutto totalitario di una solidarietà organica compiuta. Lo spazio politico dell’agon democratico, spazio paradossale «che allo stesso tempo lega e separa»151 viene cosí a essere distrutto152. L’architettura nazista, creando le condizioni di una costituzione fusionale della massa, è il luogo della fusione del popolo ridotto allo stato di massa compatta assoggettata. Essa è la scenografia di granito, la messa in scena pietrificata di un nuovo tipo di rapporto tra l’individuo e lo Stato, secondo la modalità della massa, che si tratti della massa compatta della pietra, o della massa umana che, raccolta in colonne, prolunga con la sua architettura i pilastri e gli assi dell’edificio.

Un tale argomento potrebbe essere applicato anche all’architettura staliniana e a quanto essa riprende dal neoclassicismo. Nel caso dell’Urss, tuttavia, le dimensioni progettate sono inferiori e l’architettura neoclassica non è affatto un vettore di diffusione del discorso genetico della razza. L’architettura di Speer usa la monumentalità per costituire la massa soggetta al potere totalitario e si ispira alla grammatica classica per significare la parentela di razza che esiste tra dorici, romani e tedeschi contemporanei. In Urss, invece, il ricorso al classicismo non ha nulla di esclusivo e si adatta alla coesistenza di altri stili153: l’Unione Sovietica ha preso atto della molteplicità dei suoi popoli e del suo carattere multietnico. A quanto sappiamo, l’arte ufficiale sovietica non si è mai posta alla ricerca di uno stile primario, originale, matriciale che potesse fungere da canone, mentre, nel caso del Terzo Reich, si ritiene che il neodorico e il neoromano esprimano l’essenza artistica fondamentale di una sostanza razziale immutata da millenni. L’adozione di questo stile neoclassico manifesta il legame con l’Antichità remota della razza e proclama la volontà di ritrovarne e di preservarne l’originaria purezza.

Figura del capo e Führerpersönlichkeit nel mondo antico.

L’architettura nazista è tutta allegoria del Führerprinzip e del suo rapporto alla Volksgemeinschaft. Chi dice impero o regime autoritario a vocazione imperialista dice princeps, o Führer. Una serie di articoli e di opere pubblicate sotto il Terzo Reich tematizzano la figura di un capo nordico ispirato dai modelli del mondo antico.

L’insuperabile Fritz Schachermeyr dedica un intero articolo a La figura del capo nordico nel mondo antico. Dopo un lungo passo sul valore e l’utilità degli studi umanistici per ogni educazione di razza nazionalsocialista, l’autore definisce il capo nordico come «quella individualità eccezionale»154 che riesce, grazie alla forza della sua volontà, a trasformare il proprio ambiente nel senso di un’idea, un idealista ispirato, dunque, che riesce a fare della sua idea una realtà, definizione che può fare a meno di ricordare le numerose tirate di Hitler sul materialismo volgare dei marxisti e degli ebrei in opposizione al nobile idealismo dei nazisti.

Il capo nordico dell’Antichità è un artista che, come se lavorasse la materia, oggettiva, reifica le proprie intuizioni e ispirazioni e che, con la forza della sua volontà e l’irradiarsi del suo carisma, unifica un corpo sociale che, senza di lui, diventerebbe «un agglomerato di individui autarchici […], una massa atomizzata»155. Tutte queste considerazioni aderiscono strettamente alla mistica del capo eletto. La figura soteriologica e redentrice del Führer, salvezza della Germania e garante della sua unità, è delineata da Hitler nel Mein Kampf. In filigrana, ma una filigrana grossolanamente districata, tanto i fili sono apparenti, qui è dunque disegnato un ritratto del Führer, sviluppato da un accostamento esplicito tra Pericle ed Hitler.

Pericle, infatti, appare in un tempo di crisi della democrazia ateniese, una crisi «esattamente simile a quella che anche noi abbiamo conosciuto prima dell’entrata in scena di Adolf Hitler»156. Ma la volontà di riformare lo Stato ateniese manifestata da Pericle inciampa sul «sostrato mediterraneo estraneo alla razza» nordica di Pericle e delle élite indogermaniche di Atene. Il parallelo tra capi greci e capi tedeschi è proseguito da Schachermeyr, che paragona Aristide, Cimone, Clistene, Temistocle, Pericle, Pisistrato157 a Federico il Grande, Bismarck, e Adolf Hitler158. Questi capi tedeschi devono essere compresi «nel loro carattere germanico» e «nella loro identità nordica», identità condivisa con capi greci che, a loro volta, non devono essere studiati per amore della sola Grecia, ma per educare ed edificare una generazione di nuovi capi nazionalsocialisti.

L’alta figura di Pericle, che tanto interessava Hitler, è oggetto di un discorso di Helmut Berve, in una lezione inaugurale di inizio del rettorato di questo professore di Lipsia. Il titolo che designava ogni rettore a partire dal 1933 è quello di «Rektor und Führer der Universität»: ecco dunque un Führer contemporaneo, storico dell’Antichità, che si richiama a un Führer antico. Berve inizia col ricordare che il nome di Pericle è diventato l’eponimo del V secolo greco, che rappresenta «un vertice unico dell’umanità indogermanica»159.

La politica democratica di Pericle non è stata sinonimo di mero clientelismo demagogico: si trattava per lui di far partecipare ogni ateniese alla vita della città, in breve di fare di questa una comunità reale e consapevole di esserlo. Secondo Berve, Pericle voleva «attivare politicamente tutte le componenti del popolo ateniese e fonderle in una reale comunità di vita politica»160, un’interpretazione olistica che rende comprensibile e accettabile la sensibilità democratica di questo grande capo nordico.

La politica delle grandi opere condotta da Pericle, con l’edificazione dell’Acropoli, aveva innanzitutto il fine di dare lavoro e sussistenza a tutti, scopo che combacia stranamente con l’Arbeit und Brot dei nazisti e la loro politica di rilancio controciclico attraverso una linea di interventismo economico dello Stato. Per raccogliere i mezzi di questa politica, è stato necessario trovare un finanziamento: poiché era escluso di opprimere gli ateniesi con una eccessiva fiscalità, è stato necessario decidere l’adozione di una politica imperialistica. L’imperialismo ateniese è dunque pienamente giustificato come fondamento di un progetto politico olistico: la costituzione di una Volksgemeinschaft solidale, secondo il grande disegno pericleo161. Berve osserva che «lo spirito di coerenza con cui venne elaborato e ben presto applicato un programma di guerra non lascia alcun dubbio sul fatto che fosse in atto una volontà imperiosa e mirata»162, cosí che Pericle viene chiamato «Führer impavido», un capo senza macchia e senza paura. La guerra, come sottolinea per altro Hitler nel Mein Kampf, è dunque positiva. La potenza e la sovranità di uno Stato, conquistate con aspra lotta attraverso la guerra, consentono di edificare e di trasmettere alla posterità i segni culturali di questa potenza:

Sono state la forza brutale di Atene e la volontà senza concessioni del suo Führer a permettere di erigere le meraviglie del Partenone e dei Propilei sull’Acropoli, che rappresentano ancora oggi, benché allo stato di rovine, le testimonianze piú sublimi della forza creatrice dell’uomo.

Non è difficile trovare un equivalente contemporaneo di questo uomo coraggioso, portatore di un progetto politico di unione nazionale sotteso da un necessario imperialismo, indispensabile per finanziare un’ambiziosa e generosa politica di grandi opere, un uomo che si batte e che affascina, incorruttibile e temerario, fedele ai suoi compagni e ai suoi ideali.

L’analogia è tanto piú esplicita in quanto Berve ci presenta Pericle come Führer-artista, grande architetto della nuova Atene: «Il coinvolgimento di Pericle nella costruzione dell’Acropoli» è stato totale. Lo stratega coltivava «una relazione di fiducia con Fidia, al quale aveva affidato la supervisione dell’insieme» dei lavori che dovevano disegnare una nuova Atene a misura del suo Impero, una talassocrazia conquistatrice, sicura di se stessa e dominatrice. Il parallelo tra la relazione Pericle-Fidia e il duo Hitler-Speer è impressionante, cosí come l’assimilazione del progetto della nuova Atene a quello di Germania. Pericle, come tutti i grandi capi nordici, è stato messo alla prova dalla guerra: la guerra del Peloponneso è stata la sua «ora di verità»163, come piú tardi la guerra dei Sette anni per Federico II. Quest’uomo, «la cui vita è stata una battaglia fino all’ultimo respiro», ha affascinato i suoi contemporanei, amici o nemici politici, grazie al suo carisma164. L’edificante ritratto del capo nordico si chiude con l’inevitabile tirata sugli insegnamenti indogermanici della storia antica per il nostro tempo165.

Alcune eccezionali figure dell’Antichità greco-romana vengono dunque innalzate a paradigmi del Führer nordico dalla storiografia, dall’insegnamento e dalla propaganda sotto il Terzo Reich. Si tratta soprattutto di Pericle, ma anche di Augusto, mentre il giudizio resta con riserve o sospeso, talvolta addirittura negativo, rispetto ad Alessandro e a Cesare che soffrono entrambi di imperialità ostinata166: il problema dei grandi Imperi mondiali del mondo antico è l’essere stati artefici di mescolanza delle popolazioni e di diffusione della diaspora ebraica. Cesare, che ha dotato il giudaismo di privilegi, è per altro troppo affine agli ebrei167, cosa che indispettisce nei suoi confronti Rosenberg, il quale lo nomina una sola volta nell’indice de Il mito del XX secolo.

Le biografie di Pericle, proprio come quelle di Augusto, oltre al contesto dei secoli V e I avanti Cristo, fungono da allegorie della situazione politica della Germania di Weimar. Nel caso di Augusto, in particolare, bisogna ricordare che, per gli storici dell’Antichità, il parallelo con Hitler è troppo attraente per non essere effettivamente tentatore: una situazione di guerra civile e di disfacimento dello Stato, rappresentazione di una guerra esterna Oriente/Occidente, ha fine con l’apparizione di un salvatore inviato dalla provvidenza che redime Roma mettendola di nuovo in contatto con le sue tradizioni piú profonde168.

Mondo antico e culto del grande uomo: storia, provvidenzialismo e postulato individualista.

Hitler, come sappiamo, ama la storia, senza dubbio in virtú del narcisismo proprio dell’uomo politico che si compiace di identificarsi con le grandi figure del passato. La storiografia del suo tempo si basa su un postulato individualista. Essa consiste generalmente in una galleria di ritratti, in una successione di biografie che tendono facilmente all’agiografia del grande uomo, re, ministro o capo militare. Sono gli uomini che fanno la storia: questa frase, citata a sazietà, è tratta da Treitschke169, ma privata del suo significato originario. Treitschke intendeva dire che il mondo umano non è soggetto alla necessità delle leggi naturali e che l’uomo, essere di ragione, è libero, non che i grandi uomini fanno la storia. Tuttavia, è questa l’idea difesa dai nazisti, nel quadro della loro concezione elitista e provvidenzialista della storia:

Noi siamo stati eletti dal destino per fare la storia, nel senso piú sublime del termine. Quello che è rifiutato a milioni di uomini, a noi è stato concesso dalla provvidenza. I posteri piú lontani nel tempo si ricorderanno ancora di noi170.

Tale postulato individualista ed eroico è scarsamente suscettibile alla contestazione o alla critica, in quanto esalta quel volontarismo e quell’energia individuali che Hitler vuole incarnare e che pretende da ogni tedesco. Per altro, il postulato individualista della storia tradizionale permette di magnificare la figura del grande uomo contemporaneo, quello della storia presente: il Führer. I nazisti sviluppano, di conseguenza, un culto della personalità del Führer che va di pari passo con il culto degli eroi politici del partito, Albert Leo Schlageter, giovane nazista fucilato dai francesi durante l’occupazione della Ruhr, i morti del fallito putsch del 9 novembre 1923, celebrati ogni anno a Monaco, dove un Ehrentempel accoglie, dal 1933, il loro sarcofago di bronzo, poi Horst Wessel, o ancora Wilhelm Gustloff, tutte figure che popolano opportunamente l’indispensabile galleria dei martiri della causa.

Al vertice di questa gerarchia degli eroi si trova il Führer, il grande uomo della Germania di oggi. Hitler fa la storia, le conferisce forma e consistenza, cosí come i grandi uomini del passato hanno modellato il proprio tempo, secondo quanto annota Goebbels nel suo diario:

I grandi uomini fanno le grandi epoche, ma le grandi epoche non fanno i grandi uomini. Cosa significa grande epoca? Ci sono tempi calmi e tempi agitati. Di questi fa parte il nostro tempo. Ma un’epoca diventa grande solo grazie all’uomo, come nel caso di Alessandro, Cesare, Barbarossa, Napoleone, Federico, Bismarck…171.

L’ultimo termine dell’elenco, il sigillo dei profeti, è evidentemente Hitler, come su quei manifesti del 1933 che rappresentano Federico il Grande, Bismarck, Hindenburg e Hitler, ossia il re, il principe-cancelliere, il maresciallo e il caporale172, incarnazioni della Germania eterna e figure supreme del pantheon nazionale.

In un discorso del 1926, Hitler giustifica il culto della personalità del capo che viene spesso rimproverato ai nazisti. È legittimo celebrare il grande uomo nella persona del capo, perché è appunto il grande uomo, inviato dalla provvidenza, a fare la storia:

Ci rimproverano di celebrare un culto della personalità. Non è vero. In tutte le grandi epoche della storia, una sola grande personalità emerge all’interno di un movimento, e la storia non ricorda movimenti, ma individui. Oggi, si parla ancora di Cesare, di Costantino, ma non di movimento romano. Allo stesso modo, tra duemila anni, si parlerà solo dei capi del movimento nazionalsocialista173.

Hitler tende a vedersi come il termine di una serie di grandi uomini non soltanto nazionali, ma anche universali. Speer annota che il Führer, in occasione del suo cinquantaquattresimo compleanno, il 20 aprile 1943, «si perdette in lunghe elucubrazioni sul ruolo del singolo nella storia. A suo avviso, gli eventi storici erano sempre stati frutto della volontà di un singolo, Pericle, Alessandro Magno, Cesare, Augusto, e ancora il principe Eugenio, Federico il Grande, Napoleone […] la sua visione era esclusivamente romantica, tutta imperniata sul concetto dell’eroe»174.

Contro il materialismo dialettico del marxismo che fa del presunto grande uomo una realtà sorta dalla necessità della legge storica, la schiuma di superficie sollevata dalla possente onda di fondo dei rapporti di classe, il nazismo celebra il volontarismo e il genio dell’eroe, la forza della personalità emergente, prometeica, iscrivendosi in tal modo nella tradizione ereditata dall’Antichità di una concezione della storia che celebra i grandi uomini, gli uomini illustri, come modelli, bona exempla175 da riverire e imitare. La storia è innanzitutto stesura e giustapposizione delle loro biografie, come in Plutarco, che scrive i Bioi o Vitae, le vite parallele degli uomini illustri greci e romani.

Grandi uomini ed eroi devono dunque essere riveriti secondo il loro giusto valore e la loro dignità, poiché sono modelli di virtú e d’azione, e perché si rivolgono tutti all’eroe degli eroi, il Führer. Nel Mein Kampf, Hitler raccomanda al professore di storia di accordare un’attenzione tutta particolare ai grandi uomini tedeschi, che hanno dato lustro al valore del proprio paese, e dunque sono adatti a esaltare un sentimento di fierezza nazionale:

L’ammirazione di ogni grande gesto deve rifondersi in fierezza del fatto che chi l’ha compiuto appartiene al nostro popolo. Ma dagli innumerevoli grandi nomi della storia tedesca si debbono estrarre i sommi per imprimerli talmente nello spirito della gioventú da farli diventare i pilastri di un incrollabile sentimento nazionale176.

La storia deve essere presentata come il pantheon delle glorie e della fierezza nazionali, dei grandi uomini che hanno segnato il loro tempo, come ambiscono a fare i nazisti. Hitler fissa pertanto la linea programmatica dell’insegnamento della storia, in un discorso al Reichstag del 23 marzo 1933:

L’eroismo annuncia con passione che sarà d’ora in poi il creatore e il Führer dei destini politici […]. Il sacro rispetto dei grandi uomini deve essere di nuovo affidato come eredità alla gioventú tedesca177.

La consegna viene ripetuta pedissequamente da una circolare di Wilhelm Frick, ministro dell’Interno di Prussia e del Reich, che il 20 luglio 1933 espone delle «direttive per i manuali di insegnamento della storia». La circolare inizia con un’esposizione dei principî generali, tra cui il potenziamento del corso dedicato alla preistoria, il principio della razza, cosí come «l’idea di eroe […] abbinata all’idea del Führer propria del nostro tempo», due nozioni che «sono capaci di risvegliare grazie alla forza che le contraddistingue, la potenza che mobilita i cuori, l’entusiasmo senza il quale la storia diventa facilmente, per la maggior parte degli alunni, un noioso cumulo di conoscenze»178.

La concezione individualista ed eroica della storia proviene dall’insegnamento della materia cosí come è stato a lungo praticato nelle scuole. Generazioni di allievi sono state nutrite al culto del grande uomo. Lo storico finlandese Vappu Tallgren ha dedicato la sua tesi al mito eroico in Hitler179. Mentre fa appello al mito, contemporaneamente il nazismo fa infatti appello anche all’eroe, alle figure idealtipiche prive di ambivalenza, adatte a incarnare una virtú e a esaltare chi viene a conoscenza delle loro gesta. Tallgren procede a una genealogia del mito eroico in Hitler esplorandone l’origine nell’insegnamento della storia che lo scolaro Adolf Hitler, come tutti i tedeschi della sua generazione, ha ricevuto. I manuali utilizzati dagli insegnanti sono eloquenti, come quello usato dal maestro al quale Hitler, nel Mein Kampf, rende un omaggio insistente, il dottor Pötsch180:

«Per la carriera di Hitler è stato determinante che la concezione della storia presente nei manuali di quelle generazioni di giovani tedeschi […] sia stata una concezione eroica»181 e che quei manuali siano stati redatti «secondo il principo: sono gli uomini che fanno la storia»182.

Il manuale di storia antica utilizzato da Pötsch riserva dunque un ruolo di primo piano a Pericle, al contempo rianimatore della potenza ateniese e costruttore dei monumenti piú splendidi, un uomo dall’eccezionalità quasi sovrumana, figura divina al pari di Zeus che, secondo il manuale, sprigionava nientemeno che «tuoni e fulmini»183 quando parlava184.

Se aggiungiamo che, a detta dello stesso Hitler, Pötsch presentava la storia mondiale come l’epopea eroica della razza indogermanica, comprendiamo quale sia stato il ruolo determinante delle concezioni eroiche contenute in questi manuali e nell’insegnamento scolastici: Hitler ne trae il suo culto dell’eroe, come tutti gli alunni della sua generazione sottoposti all’insegnamento di una storia dipendente da un postulato individualista e da un netto presupposto eroicizzante. Tallgren sottolinea che Hitler, nel Mein Kampf, compone la sua autobiografia seguendo, senza dubbio inconsciamente, le tappe dell’iniziazione dell’eroe: la giovinezza presenta i segni della sua elezione, la guerra segna la sua prima prova, annunciatrice della decadenza, seguita dal ritorno e dalla rivelazione di una missione, tutto sotto la straordinaria protezione di una misteriosa e benevola provvidenza.

Il gusto per l’antico di un autodidatta austriaco.

Come tanti alunni della sua generazione, Hitler trasse dall’insegnamento della storia ricevuto a scuola una visione eroica e al contempo un gusto spiccato per l’Antichità. Troviamo una reminiscenza diretta dell’insegnamento ricevuto nell’ammirazione che Hitler nutriva per Pericle, figura esaltata dalle lezioni e dal manuale del dottor Pötsch e che era, secondo Ernst Hanfstaengl, il suo eroe di gioventú, di cui si sarebbe addirittura considerato come la reincarnazione185. In seguito, stando al suo biografo, Joachim Fest, Hitler il costruttore «si considerava seguace di Pericle, e volentieri tracciava i relativi parallelismi; nelle autostrade, stando ad Albert Speer, egli vedeva, in un certo senso, il suo Partenone»186.

Il suo interesse per un’Antichità eroica fu rafforzato dalle numerose letture che il giovane viennese disoccupato degli anni che vanno dal 1907 al 1913187 divorava nei momenti di ozio.

Josef Greiner, che è stato il compagno di Hitler nel pensionato per giovani di Vienna (1910-13), gli rimprovera lo scarso interesse manifestato per l’apprendimento di un mestiere che gli avrebbe consentito di vivere meglio:

Anziché occuparsi di questo, riportava dalla biblioteca del prestito chili interi di libri da leggere. S’immergeva in traduzioni dalla letteratura greca e latina, come Sofocle, Omero e Aristofane, o ancora Orazio e Ovidio188.

Ancor piú della letteratura, è la storia antica ad appassionare il giovane Hitler: «Si dedicava preferibilmente alla storia dell’antica Roma»189, interpretandola come insieme delle gesta di un ramo della razza nordica profondamente ostile all’ebraismo190. Tutte le testimonianze dell’epoca, come quella del suo primo compagno e coinquilino viennese, August Kubizek191, confermano il gusto spiccato per la lettura di un giovane uomo che sembrava avere un legame con la realtà molto debole e che faceva di ogni conversazione con gli altri un lungo monologo esaltato e pontificante sulle sue letture del giorno. La brama di lettura dell’autodidatta appassionato e oratore d’osteria non si smentisce in seguito. Hanfstaengl scrive che negli anni Venti, a Monaco, il giovane Führer della Nsdap restava un Bücherfresser192 la cui biblioteca, nel 1923, comprendeva, oltre a libri di storia tedesca e a biografie di Wagner, una raccolta di leggende antiche, Le piú belle leggende dell’Antichità classica, di Gustav Schwab193, che resta ancora oggi un classico. Notiamo fino a che punto l’universo mentale di Hitler sia strutturato da riferimenti tratti dal mondo antico, che agiscono come coordinate culturali spontanee: Cesare, Pirro, Catone gli sono familiari, ma anche Erostrato ed Efialte che, sotto la sua penna, diventano nomi comuni. Hitler tratta ad esempio i ministri di Weimar, colpevoli di aver negoziato e ratificato il Piano Young, come «Efialti»194, e un commissario di polizia come «Erostrato»195 distruttore della Germania, in quanto troppo severo verso le SA.

Il tempo non fa che accentuare il gusto di Hitler per questa storia la cui lettura lo rende affine ai grandi uomini con cui il suo ego cosí premuroso verso se stesso s’identifica, i grandi uomini la cui opera e le cui alte imprese prefigurano, annunciano, anticipano le sue, e che sono come una promessa di eternità. La sua predilezione per la storia antica, la storia dell’Antichità occidentale, si rivolge a Roma piú che alla Grecia. Lo storico Alexander Demandt osserva come questa preferenza derivi per Hitler da una idiosincrasia personale, e non da una tendenza culturale propria della Germania. La cultura tedesca, a partire dal XVIII secolo, esalta molto piú l’ellenità che non la romanità, lasciata alla Francia che giustamente pretende di essere piú romana della Germania. Nella scelta di un modello romano, l’ammirazione per Mussolini e, malgrado tutto, l’educazione cattolica di Hitler hanno senza dubbio giocato un ruolo determinante196, oltre alla sua nazionalità austriaca. Si deve ricordare che Hitler ha lasciato l’Austria per Monaco solo a 23 anni, dopo aver vissuto a Linz e a Vienna. Ha dunque avuto tutto il tempo di impregnarsi del genius loci austriaco che, come ricorda Jacques Le Rider, è cattolico e romano: il regime di Metternich, e in seguito quello di Francesco Giuseppe, non può che provare diffidenza rispetto a un riferimento greco che il classicismo weimariano ama alla follia, ma che presenta il pericolo di esaltare il principio democratico (Atene) e nazionale (il filellenismo antiturco)197, duplice minaccia per un impero multinazionale e neo-assolutista.

La fascinazione di Hitler per Roma si è spinta fino a respingere la scrittura gotica, rimpiazzata da caratteri tipografici romani198. Un decreto del ministro dell’Economia del Reich in data 29 gennaio 1941 vieta d’ora in poi la Fraktur e ordina l’impiego della serie di caratteri latini Antiqua per tutti i documenti del partito e dello Stato. Gli archivi della Cancelleria del Reich custodiscono lettere di germanomani esasperati che esprimono il loro disappunto in termini trattenuti a malapena199: privati cittadini, ma anche il venerabile Deutscher Sprachverein, protestano vivamente presso gli uffici della Cancelleria. Lammers, prima di dare loro una risposta, si rivolge a Martin Bormann, che gli precisa in una lettera il pensiero del Führer: «la presunta scrittura tedesca»200 deve «essere considerata, secondo lo spirito del Führer, come una scrittura non tedesca (undeutsch), una scrittura ebraica»201. Solo caratteri latini possono dunque manifestare, nelle intenzioni del Führer, un pensiero indogermanico espresso nella sua purezza, un pensiero chiaro e retto non contaminato da un vettore nato nella cupa luce di un losco ghetto. Indubbiamente, è dalla cura dei minimi dettagli che si riconoscono i grandi Führer202.

Il gusto dell’antico non si smentirà mai. In data 8 aprile 1941, nel momento in cui la Wehrmacht deve soccorrere l’esercito di Mussolini, in difficoltà in Grecia e nei Balcani, Goebbels annota pertanto che il Führer si è rifiutato di bombardare Atene, per preservarne i tesori architettonici e archeologici:

Il Pireo è stato minato. Il Führer vieta di bombardare Atene. È giusto e nobile da parte sua. Roma e Atene per lui sono come La Mecca. Gli dispiace molto dover combattere i greci203.

Goebbels continua commentando: «Il Führer è un uomo interamente rivolto verso l’Antichità»204. Tale Antichità è, come per molti anticomani tedeschi, presi da amor cortese per un ritratto senza mai osare il confronto con la bella, un’Antichità fantasmatica, tanto piú bella in sogno in quanto non è mai stata messa alla prova da una qualche realtà. Speer annota:

Naturalmente, aveva il pallino dell’Antichità classica. Almeno una volta in vita sua, diceva in quel tempo, voleva vedere l’Acropoli205.

Pio desiderio, che sarà esaudito per Roma e Parigi, ma mai, tuttavia, per la Grecia.

Di fatto, gli eroi del pantheon personale di Hitler erano prevalentemente e preferibilmente eroi antichi. Speer osserva che Hitler «i suoi eroi li prendeva tutti da due epoche storiche: l’Antichità classica e il XVIII e XIX secolo. L’unica eccezione era costituita da Carlomagno206, nell’Impero del quale vedeva a volte l’antesignano dei suoi piani di dominio europeo»207, mentre nella renovatio imperii carolingia vedeva una resurrezione dell’Impero romano. Nessuna delle altre grandi figure medievali, rinascimentali o classiche viene mai evocata da Hitler. I grandi Hohenstaufen o i grandi re di Francia, come Luigi XIV, «semplicemente per lui non esistevano»208.

Come mai Hitler professa una passione cosí spiccata per l’Antichità e in particolare – cosa che nel caso tedesco, anche se in misura minore nel caso austriaco, risulta piú sorprendente – per l’Antichità romana? Dal Mein Kampf e dalle conversazioni a tavola è possibile inferire diverse serie di ragioni.

Innanzitutto, la storia antica si presenta, come abbiamo visto, sotto la forma di una galleria di busti severamente stilizzati, di rappresentazioni eroiche e paradigmatiche che, dei personaggi considerati, hanno conservato solo i tratti salienti e giudicati degni di essere proposti come modello alla posterità. La storia antica è precettrice, ma è una maestra di scuola dalla vista troppo corta, che solo di rado si preoccupa di sfumature, celebrando il nobile e civico rigore di Bruto il Vecchio, che fa sgozzare i suoi figli accusati di complotto contro lo Stato, la virtú e l’abnegazione di Cincinnato, la tenacia di Catone, le imprese strategiche e tattiche di Cesare. I profili marmorei della storia antica hanno dunque una sola sfaccettatura, una semplificazione accentuata dalla pratica pedagogica della storia o dalla versione latina e greca, che mira soprattutto all’immediata evidenza del messaggio e all’edificazione degli allievi.

Trasfigurati dalla stilizzazione eroica, i personaggi della storia antica diventano archetipi, svuotati di tutta la complessità e tutte le contraddizioni del personaggio vivente. Una tale stilizzazione, la produzione di tali archetipi, era molto adatta a Hitler, che aderiva facilmente a idee nette, e nel Mein Kampf si vantava di saper semplificare tutto, facendo di questa facoltà di semplificazione l’arte politica per eccellenza209.

Inoltre, le virtú celebrate dalla storiografia del mondo antico e dalla storia antica sono quelle che Hitler si augura di veder acquisire dal popolo tedesco: abnegazione, sacrificio alla comunità, senso del dovere, qualità fisiche e militari, rispetto della parola data e senso di cameratismo210, tutte cose che costituiscono passaggi obbligati della laus e dell’epitaphios logos studiati da Nicole Loraux211, dell’elogio di un eroe nella storiografia antica o nell’orazione funebre. Queste maschie virtú, che caratterizzano particolarmente i valorosi lacedemoni o i romani delle origini, devono essere riattualizzate, nell’epoca odierna, dai tedeschi.

Anche le predilezioni artistiche e architettoniche di Hitler, ex apprendista di pittura ad acquarello e architetto per vocazione, sembrano portarlo verso l’Antichità. La formazione al disegno avviene all’epoca seguendo il canone antico. Quanto all’architettura, Hitler, sin da giovane, ammira sopra ogni altra cosa tutti i monumenti che Roma ha trasmesso ai posteri, come il Colosseo o il Pantheon. Greiner riferisce che Hitler amava soprattutto «gli edifici dell’antica Roma»212 e che, «se avesse avuto del denaro, sarebbe partito immediatamente per Roma»213. Il giovane uomo s’indignava per altro fino alla collera per le distruzioni causate dalla furia iconoclasta dei primi cristiani contro gli idoli e le testimonianze del paganesimo214. Speer, nelle sue Memorie, conferma in qualità di esperto215 questo gusto mai smentito per l’architettura antica, precisando che i discorsi di cui Hitler subissava i suoi ospiti erano composti da «monologhi interminabili» su alcuni temi ossessivi come «la Chiesa cattolica, diete, templi greci e cani da pastore»216. Il giovane uomo squattrinato di Vienna potrà realizzare il suo sogno di viaggio romano solo una ventina d’anni piú tardi, nel corso di una visita di Stato, nel maggio 1938:

Io ho visto Roma e Parigi, e debbo dire che Parigi, prescindendo forse dall’Arco di Trionfo, non ha nulla che si possa paragonare per grandiosità al Colosseo o a Castel Sant’Angelo o anche al Vaticano […]. Se provo a confrontare il Pantheon di Roma con la sua imitazione parigina, com’è mal costruita quest’ultima! E poi le sculture! Tutto ciò che ho visto a Parigi mi ha lasciato quasi indifferente. Roma invece mi ha veramente conquistato217.

È significativo che Hitler menzioni di Parigi solamente l’Arco di Trionfo, costruito alla romana da un imperatore francese che si considerava successore di Carlomagno, e dunque di Cesare. Ciò che commuove Hitler nell’architettura romana è, oltre il suo carattere colossale, espressione di un potere esorbitante, la sua resistenza al tempo, la sua iscrizione nella durata, tema su cui torneremo. Come Roma, infatti, Hitler è ossessionato dalla preoccupazione di durare, di consegnare testimonianze e monumenti alla posterità218: l’architettura di Roma, per il carattere atemporale che sembra sfidare, vale a dire trascendere o negare, il tempo, gli appare come il modello perfetto da imitare.

Il gusto spiccato di Hitler per il kitsch antichizzante è tipico inoltre di una piccola borghesia tedesca o austriaca in ascesa che vuole darsi l’apparenza della grande cultura. Ora, i nazisti – compreso Ribbentrop, che si dava delle arie e che aveva l’abitudine di frequentare il gran mondo – sono fondamentalmente dei parvenu intimiditi dalle usanze del mondo, e che vogliono a tutti i costi adottarne le convenzioni, primo fra tutti l’Handküsser Hitler, con la sua civiltà viennese un po’ eccessiva e impacciata219. Hitler, ad esempio, si fece confezionare da Gerdy Troost, la moglie di Paul Ludwig Troost, suo primo architetto, morto nel 1934, un servizio di piatti in argento con fregio del Partenone e varie decorazioni greche sui cucchiai, le forchette e i coltelli. Condividendo con ciascuno dei suoi invitati la devota memoria della Grecia antica, Hitler voleva esprimere la sua affinità con il mondo antico, la sua vicinanza a un periodo storico che definiva «luce dell’umanità»220. Nel salone della sua dimora dell’Obersalzberg vengono collocati due bassorilievi levigati realizzati dallo scultore Josef Wackerle su ordine di Hitler, nello stesso stile dei cucchiai: vi sono rappresentati, in atteggiamenti convenzionali e dotati di tutti i loro attributi, Pan con il suo capro e il suo flauto e Artemide, la Diana cacciatrice, con a fianco una cerva e una faretra221. La natura selvaggia e la caccia, due allegorie prevedibili per una casa di campagna.

Infine, si può pensare che questo gusto per l’Antichità, che lo porta a ricorrere ad Annibale per leggere gli sviluppi della campagna di Russia222, sia la manifestazione di una spiccata tendenza di Hitler a fare astrazione dalla realtà per rifugiarsi nelle fantasie, per trincerarsi, in ultima analisi, nello spazio del mito223. Viversi e leggersi secondo la forma dell’allegoria è un modo di sublimare una realtà inevitabilmente triviale e deludente proprio in ciò che essa ha di reale. Sappiamo che Hitler era un grande appassionato di film, che si faceva proiettare in forma privata nella Cancelleria, ma anche di Karl May. Il Führer cita a volte il suo autore preferito davanti ad ascoltatori generalmente sbalorditi, che devono darsi pizzicotti e sfregarsi gli occhi quando, nel bel mezzo di una riunione di stato maggiore, vedono sorgere all’improvviso le tigri e gli indiani del prolisso autore di romanzi esotici, o alcuni monologhi sulle guerre puniche. La presenza e la pregnanza del modello antico non sono tuttavia attestate nel solo Hitler, come mostra il tema della colonizzazione.

L’edificazione di un impero attraverso la colonizzazione: Landshungrige Bauern nordici e ricerca del Lebensraum nel mondo antico.

La razza indogermanica è moralmente riservata, pudica e discreta, e al contempo, da un punto di vista pratico, abbastanza estroversa: si proietta fuori di sé grazie alla creazione artistica che oggettiva il suo spirito, tende verso l’espansione del suo Lebensraum. La sua essenza si confonde con la volontà di potenza che la anima e che, nel registro geografico e spaziale, riveste la modalità della conquista coloniale. Già i greci erano convinti colonizzatori, come ci ricorda lo storico e grecista Hans Bogner:

Gli uomini appartenenti alla razza dei signori che incontriamo in Omero erano conquistatori liberi all’interno di terre da colonizzare224.

Richard Walther Darré (1895-1953)225 è, nell’ambito della Nsdap, il sostenitore di un’utopia colonizzatrice agraria, da lui concepita come un modello di società alternativo alla modernità industriale e urbana mirante a restaurare l’armonia prestabilita che lega il sangue e il suolo della razza. Agronomo di formazione, con le sue molte pubblicazioni è la figura intellettuale principale dell’ideologia antimodernista cosiddetta Blut und Boden, e insieme un protagonista importante della politica razzista del Reich grazie alle sue funzioni di capo del RuSHA delle SS226 (1931-38), e successivamente di ministro dell’Agricoltura del Reich (1933-42). Nel 1929, Darré pubblica la summa fondatrice del suo razzismo agrario, dal titolo georgico Il mondo contadino come fonte di vita della razza nordica227. Quest’opera prolissa e sovrabbondante, dallo stile pesante e dall’erudizione massiccia, vuole essere una biografia storica della razza nordica e insieme un trattato prospettico delle misure da adottare per preservare la sua esistenza futura. La tesi difesa dall’opera è che gli indogermani non sono, come si è creduto per troppo tempo, una semplice razza di grandi guerrieri, meno ancora di nomadi conquistatori, ma costituiscono essenzialmente una razza sedentaria e contadina, radicata nella gleba del suo focolare originario, e in seguito nella terra delle province conquistate dalle migrazioni e dalle guerre. Il numero e il successo di queste guerre hanno falsato la prospettiva rispetto a una razza nordica nella quale troppo spesso si è visto un semplice «popolo di eroi guerrieri»228. Dato che le figure dell’eroe e del contadino erano difficilmente conciliabili nell’immaginario collettivo, ci si è limitati a fissare solo le imprese conquistatrici della razza nordica, a scapito della sua opera pacifica e creatrice di sedentarizzazione e di valorizzazione delle terre conquistate. Se, secondo la definizione di Hitler, la razza nordica è la sola creatrice di cultura229, non ci si può accontentare di una concezione guerriera e nomadica dei popoli ariani: guerrieri nomadi non creano nulla di duraturo. Gli indogermani sono certamente conquistatori. Sono emersi da un nucleo originario situato nel Nord dell’Europa occidentale, «un nucleo di irradiazione che riteniamo si trovi a sud della Svezia»230, oppure, «ipotesi altrettanto plausibile, nel Nord della Germania»231, e sono venuti a conquistare le contrade mediterranee dove hanno fondato le civiltà greca e romana.

Gli indogermani si sono stabiliti in maniera duratura su una terra in cui si sono radicati. L’immagine tradizionale del cavaliere mercenario bellicoso e malandrino, volto unicamente alla guerra e alla spedizione conquistarice, è dunque falsa: il nomadismo predatore e parassitario dell’orda guerriera sempre in movimento è proprio della razza semitica e delle razze asiatiche. Il nomade semita o asiatico arriva, prende, distrugge e si getta come un virus su un’altra preda dopo l’esaurimento del primo territorio razziato:

«Lo spirito semitico non ha mai avuto, in nessun momento della storia del mondo, il minimo interesse per il lavoro contadino. Molto semplicemente, un nomade non è affatto capace di svolgerlo»232, dato che si crogiola in «un’esistenza parassitaria»233.

Darré auspica dunque di riconciliare le due facce del Giano nordico, conquistatore e al contempo contadino. La spada e l’aratro sono strettamente legati nell’ethos nordico, nella misura in cui «contadino» fa rima con «libertà»: visto che un contadino asservito non è piú un contadino ma un «domestico» o un «fattore»234 al soldo di altri, è importante sapersi difendere. L’intento di Darré è mostrare che la migrazione e la conquista non sono, per la razza nordica, un fine in sé, come tra i nomadi semiti, ma un mezzo a servizio di un progetto di società sedentaria e agraria. Se gli indogermani hanno lanciato armi e carri sulle vie della conquista, non è per gusto della battaglia o sotto l’effetto di una spontanea pulsione bellicosa. Le spedizioni di conquista indogermanica delle origini sono state «spedizioni di contadini»235 in cerca di terre. Gli indogermani delle origini erano «contadini affamati di terre»236, esposti alla penuria di un suolo insufficiente per nutrire un popolo dinamico e fertile, in piena espansione demografica.

Come prova, Darré dedica considerazioni erudite al rituale romano di origine sabina del Ver sacrum237. Tra i Sabini, questo rituale consiste nell’offrire in voto al dio Marte, in un contesto di grave minaccia, gli animali, i vegetali e i bambini nati durante la primavera successiva. I bambini cosí consacrati, sacer, proprietà assoluta del dio, sono inviati piú tardi a colonizzare una terra e a fondare un’altra città. Darré fa del Ver sacrum un rito di migrazione primaverile durante il quale i romani delle origini, quelli della Roma arcaica nordica, inviano la loro popolazione eccedente a fondare colonie. Questa migrazione primaverile è per Darré a un tempo eredità e reiterazione commemorativa della migrazione originaria che condusse le prime popolazioni nordiche «sulle rive del Tevere»238, secondo una conclusione che egli ricava da un complicato ragionamento sul calendario: «Se si considera il periodo che doveva apparire come il piú favorevole alla migrazione agli occhi di un popolo di contadini dell’Europa del Nord, in particolare in Svezia, si osserva che la stagione dell’inverno, che si estende da settembre a marzo, è esclusa». È inoltre escluso il periodo che va da giugno (tempo della semina) ad agosto (tempo della raccolta), necessariamente sedentario per un popolo contadino che vive dei prodotti della sua agricoltura: «Disponibili per la migrazione restano dunque solo i mesi che vanno da marzo a maggio. Si ottiene cosí, all’incirca, il periodo migratorio del Ver sacrum239 romano». Queste pagine dedicate al Ver sacrum confermano ancora una volta il carattere nordico dei romani facendo risalire alle origini piú remote della razza indogermanica il rito di migrazione colonizzatrice di primavera, che trasferisce un’eccedenza demografica verso una nuova terra da conquistare e da colonizzare:

«Ecco approssimativamente l’immagine che possiamo farcene: uno spazio colonizzato si riempie a poco a poco e, di tanto in tanto, una parte delle famiglie è mandata via»240 quando «la situazione si fa critica»241.

Dato che ogni forma di malthusianesimo è visceralmente estranea allo spirito lebensbejahend e alla fertilità della razza nordica, l’unica soluzione all’incremento della popolazione era, e resta, l’emigrazione colonizzatrice242.

Dal fondo della storia, Darré fa dunque sorgere l’eterno problema del Lebensraum, fattore esplicativo cardinale di una geopolitica nordica a un tempo retrospettiva (la ricerca di terre da parte di una popolazione nordica sovrabbondante spiega la totalità della storia indogermanica) e programmatica: se «l’esistenza di un popolo senza spazio sufficiente è il problema originario di tutta la storia da quando esiste una popolazione contadina indogermanica nell’Europa del Nord»243 e se, per altro, questa penuria di terre «continua fino ai giorni nostri»244, si può prevedere che i tedeschi contemporanei, degni e puri eredi degli indogermani delle origini, prima o poi riprenderanno la strada della conquista guerriera e della colonizzazione. Attraverso la storia della razza, Darré arriva dunque a sostenere le pretese naziste all’espansione dello spazio vitale tedesco, espressione di un profondo fastidio per l’esser stati estromessi dalla colonizzazione e per l’esser stati amputati, col trattato di Versailles, di una parte importante del territorio dell’antico Reich. La rivendicazione di uno spazio vitale sufficiente per permettere la sopravvivenza del popolo tedesco è uno dei leitmotiv strutturanti del discorso nazista sin dalla creazione della Nsdap: essa implica al contempo la revisione del trattato di Versailles e l’acquisizione, pacifica o meno, negoziata o estorta, di territori supplementari per la Germania.

L’eterna fertilità demografica della razza nordica rende perenne, lungo il corso della storia, il problema della penuria di terre. Esponendo le ragioni per cui gli indogermani delle origini hanno conquistato la Grecia e l’Italia, e quelle per le quali i romani si dedicavano al Ver sacrum, Darré giustifica col ricorso alla storia e abbozza in modo prospettico la politica di colonizzazione militare e agraria che predicherà quando, nominato capo del RuSHA delle SS, parteciperà, per un certo periodo, alla elaborazione e ai piani di conquista e di colonizzazione dell’Est russo.

L’inchiesta condotta da Darré sull’essenza della razza nordica, la biografia storica che ne propone, si fonda esclusivamente su un’esposizione lunga e noiosa degli esempi greco e romano, popoli nordici per eccellenza. Per provare il carattere profondamente sedentario della razza nordica, Darré presenta un lungo studio topografico e simbolico della casa greca e romana. Imperniata sul focolare centrale, la casa antica rivela una «sorprendente parentela» con la «casa germanica»245 medievale e moderna. L’importanza attribuita al fuoco come centro di gravità topografica e simbolica della dimora è l’espressione di una concezione del mondo insieme gerarchica e radicata, che si fonda sul culto dei morti sepolti nella terra e sul dominio di un pater familias consacrato da un diritto rigorosamente patrimoniale: «Queste brevi considerazioni sulla casa romana e greca sono sicuramente bastate a provare» la prossimità con la «casa germanica» e a mostrare che «malgrado l’intervallo di almeno millecinquecento anni, il cuore essenziale della famiglia indogermanica e germanica è rimasto immutato»246. Darré moltiplica inoltre tutte le considerazioni di antropologia storica che servono a sostenere la tesi dell’indogermanità dei greci e dei romani, rinviando in nota anche all’opera del suo collega nordicista Hans Günther per un’informazione piú ampia247.

I conquistatori nordici della Grecia e dell’Italia aspiravano a una colonizzazione sedentaria e agricola durevole dei territori conquistati militarmente. I guerrieri-contadini venuti dal Nord si sono insediati in aperta campagna, su terreni vasti e adatti all’agricoltura, anziché trincerarsi all’interno delle fortezze urbane da cui avrebbero sferrato raid alimentari, attuando razzie o prelevando una quota sul prodotto di una terra destinata al solo sfruttamento di popolazioni autoctone asservite:

Mentre le popolazioni che si trovavano là [prima della conquista] restavano nelle loro città, i dori e gli elei si stabilirono all’interno di villaggi aperti, nei komi e nei demi248.

Infatti, se gli indogermani «si fossero preoccupati solo della conquista, non avrebbero dovuto fare altro che annientare i principi che vi trovavano e stabilirsi a loro volta nelle fortezze conquistate»249. Al contrario, e come avvenne, piú tardi, con i germani delle invasioni barbariche che «lasciarono da parte le città romane per stabilirsi all’interno di fattorie e di villaggi», i conquistatori nordici della Grecia «non hanno prestato alcuna attenzione alle città che vi trovavano e si sono insediati in campagna»250 per sfruttare la terra e riuscire a realizzare una colonizzazione agricola duratura.

Contro tutti i pregiudizi sul presunto nomadismo guerriero degli indogermani, «la conquista della Grecia si rivela essere, quando la si studi piú attentamente, un affare puramente agrario»251.

Ver sacrum, ilotizzazione e Wehrbauerntum: il riferimento antico nell’immaginario di colonizzazione all’est.

Richard Darré non ha partecipato come diretto protagonista alla conquista e alla colonizzazione dei territori dell’Est. Nel 1936 egli appare isolato, all’interno dell’apparato di Stato nazista, per il suo atteggiamento antimodernista e il suo agrarismo intransigente, mentre il piano quadriennale lancia la Germania nella corsa agli armamenti. Dopo che Himmler, nel 1938, lo ha fatto decadere dalle sue funzioni a capo del RuSHA, nel 1942 è licenziato dal ministero dell’Agricoltura. Malgrado questo fallimento personale, la sua influenza intellettuale attecchisce e il suo mito agrario, che si appoggia alla storia antica, contribuisce a dar forma all’immaginario di colonizzazione dei nazisti all’est: nel discorso della colonizzazione all’est si nota infatti una presenza di temi, tesi e concetti usciti dalla riflessione di Darré sulla colonizzazione indogermanica nel mondo antico.

La colonizzazione dei territori dell’Est è concepita in termini principalmente agrari. Quello che l’Ostkolonisation deve permettere è una «rifondazione sociobiologica»252 della razza nordica, attraverso l’edificazione di una società agraria liberata dai flagelli della modernità industriale e urbana. La rappresentazione dell’Est conquistato, pacificato e colonizzato è in gran parte debitrice della concezione agraria sostenuta da Darré. I piani delle SS, resi pubblici nel corso di un’esposizione organizzata a Berlino alla fine del 1941, presentano una società contadina regolata che ha ritrovato l’armonia. Christian Ingrao nota come i piani di ridefinizione delle circoscrizioni e di costruzione dei villaggi non facciano alcun cenno alla presenza di una qualche istituzione repressiva, polizia o organi di giustizia, nella misura in cui «la comunità è immaginata come priva di ogni conflitto»253. L’utopia agraria qui funziona in pieno, anche se liberata da ogni passatismo retrogrado grazie a un esplicito riferimento alla modernità scientifica e tecnica, che deve dotare le nuove campagne colonizzate di macchine e di automobili254.

L’edificazione di questa utopia implica che i nazisti si muovano nella scia dei loro antichi predecessori, anche se il riferimento all’Antichità non è esclusivo. L’immaginario colonizzatore dei nazisti all’est è stato infatti formato e costruito da diverse reminiscenze e riferimenti storici sovrapposti. Il primo, il piú evidente e al contempo piú pregnante, è medievale: è quello del Drang nach Osten255 dei cavalieri teutonici, conquistatori della Prussia pagana (1230), e il cui slancio verso i vasti spazi russi era stato spezzato sulle rive del lago Peipus dal principe Aleksandr Nevskij (1242), che il regista Ėjzenštejn aveva opportunamente celebrato in un film eponimo del 1938256. Sappiamo che il Reichsführer SS amava vedersi come erede o reincarnazione del re Enrico I (re di Germania dal 919 al 936), al quale l’Ordine nero è tenuto a rendere un culto ufficiale intriso del pathos medievalizzante di cui il suo capo era infatuato. Le SS spesso confondono in una stessa reverenza la figura di Enrico I con quella del duca di Sassonia Enrico il Leone (1129-95) che, oltre ad avere lo stesso nome proprio di Himmler, è ammirato come responsabile di una politica di colonizzazione intensiva a est, mentre suo cugino, l’imperatore Federico Barbarossa, cedeva alle sirene dell’Italia. Anche il culto enriciano del Reichsheini257 è oggetto dell’ironia, che cela disapprovazione, di Hitler, le cui predilezioni storiche sono molto diverse da quelle del suo capo della polizia.

La ben nota sensibilità di Himmler per il Medioevo germanico, rilanciata dalla formazione ideologica delle sue truppe e dei suoi quadri, porta le SS a rappresentarsi la guerra a est come la prosecuzione o la ripetizione di un’epopea medievale interrotta precocemente. Se il riferimento medievale è prevalente, l’immaginario di guerra e di colonizzazione delle SS all’est è plasmato dalla memoria della colonizzazione guerriera agraria dei tempi antichi, quella del Ver sacrum romano e della città spartana, riferimento antico trasmesso alle SS da Darré e Günther. Secondo senza essere secondario, tale riferimento è presente. Dori e teutoni si confondono per altro in un’identica volontà di potenza territoriale. Abbozzando un parallelo tra le migrazioni dei contadini-soldati nordici delle origini e la colonizzazione germanica medievale all’est, Vacano, autore di un celebre manuale di storia lacedemone, precisa che «dobbiamo rappresentarci queste migrazioni come simili alle spedizioni colonizzatrici contadine del Medioevo verso l’est»258: la medesima razza esprime in questi due movimenti un’identica tensione verso l’espansione dello spazio vitale, regolarmente troppo ridotto per una razza fertile e in costante crescita demografica.

Contadini-soldati e schiavi: il modello della colonizzazione spartana.

Nonostante la caduta in disgrazia di Darré sul piano istituzionale, si può notare una persistenza del modello antico nel vocabolario utilizzato dai protagonisti della colonizzazione SS e nel discorso di promozione interna: Wehrbauern, Ver sacrum, Kolonien, Sklaven, Versklavung, Heloten. Il riferimento all’Antichità affiora dunque in modo latente nella nozione e nell’ideale del contadino-soldato (Wehrbauerntum). I cavalieri teutonici sono stati monaci-soldati, aristocratici che pregavano e combattevano, e non contadini soldati intenti a maneggiare il vomere dell’aratro per lavorare la terra.

Il Ver sacrum non è stato per altro congedato con Darré. In un discorso del 1942, Himmler definisce la colonizzazione dei territori dell’Est neuer Frühling259, sia per la terra stessa che per la razza indogermanica, mentre opuscoli SS riprendono il tema della primavera sacra caro a Darré260.

La riduzione in schiavitú delle popolazioni assoggettate all’est è inoltre un’idea centrale e ricorrente. La sproporzione numerica tra i conquistatori e i vinti rende lo sfruttamento di territori cosí vasti impossibile senza un uso massiccio di manodopera ausiliaria. Al termine Zwangsarbeiter, piú proprio del lessico tecnico nazista, viene preferito quello di Sklaven, che evoca il mondo antico e che, impiegato senza esitazioni e senza scrupoli dai dirigenti del Terzo Reich, esprime tutta la brutalità con cui essi guardavano al loro Impero in divenire. Himmler dichiara pertanto:

Se non riempiamo i nostri campi con degli schiavi – dico le cose in modo molto chiaro – con schiavi che costringiamo al lavoro e che, senza considerare le perdite, costruiscano le nostre città, i nostri villaggi e le nostre fattorie261,

la colonizzazione all’est si rivelerà difficile, poiché la razza conquistatrice – si tratta di un’ossessione – vi è minoritaria.

I termini schiavo (Sklave) e riduzione in schiavitú (Versklavung) cedono a loro volta ad altre due nozioni ancora piú esplicitamente greche, e piú precisamente spartane, quelle di iloti (Heloten) e di ilotizzazione (Helotisierung), in particolare nelle parole di Reinhardt Heydrich. Questi, in un discorso del 2 ottobre 1941 dedicato alle modalità dell’occupazione dei vasti territori conquistati all’est, dichiara che la popolazione slava deve essere utilizzata

come una materia prima grezza, come operai che debbano lavorare ai grandi progetti della nostra civiltà, come degli iloti, se devo dirlo in maniera assolutamente drastica262.

Nell’autunno 1941, il Blitzkrieg in Russia riesce, e il successo dell’operazione Barbarossa pone con particolare urgenza la questione della colonizzazione e dello sfruttamento duraturo dell’Est: la Wehrmacht ha conquistato immensi territori in cui potrà insediarsi, per generazioni, solamente un esiguo «strato tedesco superficiale»263, debole élite razziale, che avrà sotto la sua giurisdizione vaste terre e una popolazione numerosa.

L’immaginario dell’ilota è ben radicato tra le SS che, fedeli al proprio elitismo razziale, non ne limitano l’esempio ai soli slavi, secondo quanto testimonia la conversazione, già citata, di Eugen Kogon con un alto ufficiale SS a Vienna nel 1937. Come un tempo nelle «città-Stato elleniche», un’aristocrazia razziale regnerà su «una larga base economica di iloti» non nordici, i cui elementi razziali inferiori verranno reclutati sia all’esterno che all’interno della Germania. La gerarchia razziale determina infatti un’organizzazione sociale e politica piramidale, il cui vertice è occupato da un’élite nordica ristretta, che fa ricadere i suoi ordini su una prima base ilotica tedesca, composta da elementi dinarici, alpini, germanico-occidentali del popolo tedesco. Una seconda base, piú ampia, è costituita dalla massa dei sotto-uomini, in particolare slavi, destinata esclusivamente alla schiavitú; essere al servizio di una cultura superiore è un onore per questa sub-umanità animalesca e bruta264. Di conseguenza, il Piano generale Est prevede, dal giugno 1941, l’asservimento di 14 milioni di persone all’est, schiavi addetti all’edificazione del Reich nei territori conquistati265. Queste idee coincidono con quelle di Hitler, per il quale non c’è alcun dubbio che la conquista dei territori dell’Est debba dar luogo non a una colonizzazione di sfruttamento, ma a una colonizzazione di popolamento: «al contrario degli inglesi, noi non ci limiteremo a sfruttare, ma ci stanzieremo. Noi non siamo un popolo di mercanti, bensí un popolo di agricoltori»266, simili dunque ai dori conquistatori del Peloponneso.

Tuttò avverrà imitando loro, rinnovando il modello spartano di una colonizzazione, da parte di un’élite nordica, di vasti territori occupati da una popolazione numericamente superiore. Come sappiamo, Hitler si mostra affascinato dal miracolo spartano della dominazione duratura di una ristretta aristocrazia razziale su una massa di inferiori, dall’Impero di «6000 spartani» su «350 000 iloti»267.

La colonizzazione nazista all’est, nuovo Bauerntreck di contadini-soldati verso l’est, procede dunque sulla scia dei teutonici, oltre che dei greci. Il modello della colonizzazione greca, pregnante rispetto al principio stesso della colonizzazione all’est, è inoltre presente nelle modalità pratiche della sua realizzazione. L’assetto dato ai territori colonizzati imiterà, per assicurare una presenza durevole, la pratica delle metropoli antiche che, greche o romane che fossero, riproducevano le loro forme architettoniche per appropriarsi degli spazi conquistati con la proiezione del loro patrimonio simbolico. Speer riferisce dunque che Hitler, a tale proposito, ha pronunciato i discorsi seguenti:

Non avremmo dovuto farci scrupolo di ricalcare edifici noti, in modo che anche in Russia potesse svilupparsi una coscienza nazionale. Durante l’Antichità classica, non si era certo tentato di sviluppare, per le colonie greche della Sicilia, templi di forma nuova268.

Simili sistemazioni urbane sono destinate a una popolazione di contadini-soldati che costituiranno una marca dell’Est, frontiera e Ostwall al contempo. Questo fronte e questa protezione, marca avanzata del Reich ai confini dell’Est, sarà popolata e coltivata da veterani SS e da truppe SS in costante rinnovamento.

Per Reinhardt Heydrich, la stabilizzazione della frontiera passa per una messa in sicurezza del confine, avamposto e interfaccia della colonizzazione ariana all’est: le legioni di veterani SS devono essere fissate sui luoghi del loro combattimento e costituire «un muro di protezione composto da contadini-soldati (Wehrbauern) […] contro l’ondata asiatica»269. Quel che la spada e il sangue hanno conquistato, il vomere e il sudore renderanno una terra fertile per nutrire la razza nordica: il gladio e l’aratro si trovano cosí a illustrare la copertina di un opuscolo SS intitolato Rendere sicura l’Europa, Die Sicherung Europas270.

I veterani SS sono dunque al contempo la punta di lancia della conquista, la base della colonizzazione ariana all’est, e lo scudo dell’Impero. Dopo essersi ricoperti di meriti verso il Reich, si vedranno attribuire lotti di terra, al pari dei legionari romani, insediati nelle coloniae che dovevano proiettare la città eterna su tutto lo spazio dell’Impero e contare come altrettanti avamposti, teste di ponte di una difesa contro i barbari.

Le SS fondano il loro messaggio di promozione su questa promessa di terre all’est. Un opuscolo di reclutamento delle Waffen-SS afferma dunque con fierezza: «Ecco in che modo le SS assicurano un avvenire ai loro uomini!»271: chi entra si vede promettere lo statuto di «libero agricoltore all’est». Al termine del fascicolo, la Ostsiedlung offre un confortevole avvenire alle SS provate dai duri combattimenti e ritiratesi dal servizio delle armi, dopo aver svolto il loro compito, ma cela a fatica la funzione militare e razziale di questo massiccio insediamento di contadini-soldati alla frontiera dell’Impero:

I camerati SS del fronte impiantano cosí una nuova popolazione contadina tedesca, un muro vivente dell’Est, la cui forza e la cui sicurezza sono garantite dai contadini-soldati delle SS272.

La ritirata contadina e colonizzatrice è dunque un servizio di riserva che assomiglia molto a un servizio attivo. Davanti a un uditorio piú ristretto, e in un discorso dell’aprile 1943 in cui si avverte tutto il peso del contesto del dopo-Stalingrado, Himmler non nasconde che la vita dei contadini-soldati insediati negli avamposti del Reich sarà tutt’altro che una sinecura: si dovrà sapere che essere SS in tempo di pace non si riduce a pavoneggiarsi in elegante uniforme nera273.

Conclusione.

Tutti gli imperi della storia occidentale sono stati concepiti e pensati come ripetizioni del modello imperiale romano originario. Carlomagno, che inaugurava la restauratio imperii, Ottone, Carlo Quinto, Napoleone hanno tutti desiderato ciò che Hitler, a sua volta, ha progettato: eguagliare l’estensione, la potenza e il prestigio dell’Impero dei Cesari. Tale ambizione, nel caso nazista, può fondarsi su un’argomentazione razziologica che stabilisce approssimativamente un’identità di essenza razziale tra i romani delle origini e i tedeschi contemporanei: Roma è stata, per lo meno ai suoi inizi, un’oligarchia razzista di cui il Terzo Reich imita lo spirito e le leggi. Vedremo che la resurrezione dell’Impero romano è celebrata da analogie storiografiche: per gli storici del mondo antico, sempre disperatamente preoccupati, anche in questo caso, di perorare l’utilità della loro disciplina, Berlino in lotta con Londra ricorda Roma durante le guerre puniche, in quanto Cartagine e l’Inghilterra sono due potenze marittime, mercantili ed ebraicizzate.

Per costruire un impero, bisogna distruggere Cartagine, e disporre per questo di un apparato militare adatto. La potenza e il successo delle legioni ne fanno un modello logistico e strategico da imitare. Le lezioni della storia vanno cercate nel modo di alimentazione essenzialmente vegetariano dei legionari e nel carisma dei loro capi visionari: Hitler, Gröfaz improvvisato, si sogna come Cesare e fa condividere ai suoi ospiti i suoi Commentarii in forma di glossa dell’arte della guerra romana. Gli storici, invece, preferiscono esaltare la figura di Augusto, il cui regno è stato piú lungo e piú fecondo di quello, finito male, di suo zio. L’epoca vi si presta: l’Italia celebra il secondo millennio della nascita di Augusto nel 1938, in particolare attraverso una mostra che Hitler visita in due riprese. Rianimatore della Roma delle origini, dei valori, di uno Stato forte, Augusto è l’analogia antica migliore di un Führer che deve, a sua volta, restaurare lo Stato dopo le discordie civili e una crisi senza eguali.

L’imitazione di Roma non è solamente militare o politica: è anche di natura monumentale. Per costruire un impero, si deve dotare la sua capitale e le sue città principali di monumenti che manifestino a sufficienza la sua pretesa di espansione e di potenza. Questi edifici di rappresentanza dovranno dunque segnalarsi per il loro gigantismo e per lo stile neoromano: i progetti di Speer e gli schizzi di Hitler per Germania abbondano di monumenti che sono, grazie all’effetto di citazione stilistica, segni immediati dell’imperialità.

Tuttavia, nell’architettura nazionalsocialista di rappresentanza, non troviamo né purismo, né precisione: è importante innanzitutto che gli edifici costruiti procurino un sentimento di romanità, che «facciano» romano, o, piú generalmente, antico. Vediamo dunque il neoromano giustapporsi al neodorico, stili entrambi eretti a pilastri dell’architettura di Stato. Vi si potrebbe vedere il sintomo di una confusione grossolana. Hitler, dopo tutto, è un autodidatta la cui conoscenza del mondo antico, appassionata ma approssimativa, può suscitare nel lettore delle sue conversazioni private qualche perplessità. Ma non è cosí per Speer e per Troost, architetti esperti e formati alla storia dell’arte piú classica. La coesistenza del dorico e del romano è dunque senza dubbio piú un’asserzione che una confusione: il greco e il romano si mescolano, come nei nudi di Breker e nei mosaici della Cancelleria, in quanto esistono identità razziale e derivazione dal nordico al greco-romano, e dal greco-romano al germanico. Un’architettura romana esprime una volontà di potenza e un imperialismo fedeli alla tradizione nordico-romana, mentre lo stile dorico ricorda che lo spirito della razza nordica, oggettivato nei templi di Segesta o di Siracusa, è stato, fin dall’alba dei tempi, creatore di ogni cultura. I piú fedeli e i piú puri rappresentanti attuali di questa razza sono pertanto ovunque a casa propria là dove il loro spirito è stato all’opera, legittimazione supplementare di un imperialismo iscritto nella pietra degli edifici di rappresentanza.

Esiste dunque un legame organico tra i monumenti della Germania contemporanea, la storia piú remota della razza e il suo avvenire imperiale. Bisogna risalire alle migrazioni delle origini, quelle del lungo cammino agricolo e conquistatore, per vedere all’opera una razza nordica avida di terre, di vittorie e di campi da rendere fertili. Richard Walther Darré ci familiarizza con questa storia e descrive una razza che, dopo le migrazioni e la conquista, ha donato popoli al contempo guerrieri e contadini, conquistatori in quanto agricoli, che hanno unito l’aratro alla spada. Darré non si limita tuttavia all’elogio o al panegirico. Scrive per promuovere una civilizzazione nordica agricola che, se abbandona il suo legame millenario con la terra e se non preserva la purezza del suo sangue, è votata alla scomparsa.

L’Antichità greco-romana è infatti, certamente, l’inesauribile fonte di exempla, di virtú, di modelli da imitare, ma è anche il cimitero delle civiltà scomparse, le cui vestigia, divenute bianche come ossa, si ergono come monito malinconico e premonitore per un presente talvolta troppo incline a dimenticare che le civiltà sono mortali.