In una conversazione privata del 28 gennaio 1942, otto giorni dopo la conferenza di Wannsee, Hitler confida ai suoi intimi: «Spesso rifletto sulle cause che determinarono la catastrofe del mondo antico»2. La storia antica si presta a una meditazione sulle cause della grandezza e della decadenza. Di fatto, a partire dal 1933, si sviluppa un’eziologia della morte delle grandi civiltà del mondo antico, una ricerca delle cause che deve servire da monito e da lezione per il presente.
Questa riflessione si basa sulla paura avvertita davanti a un evento effettivamente terribile: la morte di due civiltà che sembravano destinate all’eternità. Il ricorrere degli esempi antichi, che illustrano le diverse cause del Volkstod, della morte del popolo, attesta l’importanza attribuita a quel fondamentale evento storico che fu la scomparsa di grandi e potenti civiltà indogermaniche: lo spettacolo di rovine sbiancate, scheletri di un corpo razziale defunto, costituiscono un monito assordante per il presente, una messa in guardia solenne.
La denatalità: il malthusianesimo tra i greci e i romani.
I nazisti, pur lamentando l’esiguità di un territorio nazionale troppo ridotto per la possente massa del popolo tedesco, sono animati da ferme convinzioni nataliste. Essi affermano, allineandosi a Jean Bodin e contro Malthus, che l’unica ricchezza è quella degli uomini: uno Stato potente, che voglia possedere i mezzi economici e militari della propria potenza, deve disporre di un numero adeguato di braccia. Inoltre, se la razza nordica è il principio che istituisce la civiltà umana, è necessario che questa razza possa incarnarsi nella realtà di una carne numerosa e feconda. Infine, nella concezione socialdarwiniana che li caratterizza, i nazisti pensano che un popolo numericamente inferiore sia destinato, prima o poi, a essere sommerso da una razza estranea al suo sangue, o a essere da questa investito, infestato. In entrambi i casi, la denatalità avrà segnato la sua condanna a morte.
Un popolo che non faccia piú figli è dunque un popolo che muore, e la storia abbonda di esempi che convalidano questa tesi. Per lo piú, inoltre, sono proprio popoli e civiltà superiori, usciti da un sangue nordico diventato troppo parsimonioso, a scomparire. Cosí è stato per le civiltà nordiche del mondo antico, la cui scomparsa, evento storico dall’ampiezza e dalle conseguenze inedite, è dovuta in buona parte al regresso delle nascite. Uno statistico SS è diventato uno specialista del tema della denatalità antica, dedicando al fenomeno cinque articoli e un piccolo libro, scritti tra il 1935 e il 1939. Richard Korherr, che piú tardi verrà incaricato di elaborare i bilanci statistici dello sterminio, nel 1935 pubblica un ampio opuscolo intitolato Denatalità. Monito al popolo tedesco3, in cui sviluppa a lungo il caso dell’antica Grecia e di Roma, sui quali ritornerà in una comunicazione al Congresso internazionale sulla popolazione, a Parigi, nel 1937. In questa relazione, egli sostiene che i greci e i romani, limitando il numero delle nascite, hanno commesso un «suicidio razziale»4 che le politiche nataliste attuate dalla Repubblica, e in seguito da Augusto e Tiberio, non sono riuscite a frenare. Gli sgravi fiscali concessi alle coppie fertili, uniti alla penalizzazione del celibato e della sterilità della coppia, non sono infatti stati efficaci rispetto a questo malthusianesimo precoce. Segue, nel 1938 e 1939, una serie di quattro articoli dal titolo «La morte delle civiltà del mondo antico. Una statistica commentata»5, che sviluppa e approfondisce questi esempi.
Richard Korherr viene letto con grande attenzione da Heinrich Himmler, che nel 1935 compone personalmente la prefazione al primo dei suoi opuscoli. Lo statistico – scrive il Reichsführer SS – presenta «la storia e il canto funebre di quei grandi popoli che sono morti»6. Poiché la denatalità è Volkstod, è indispensabile che la vittoria del nazionalsocialismo sia anche la vittoria dei figli tedeschi. L’opuscolo, del quale Himmler raccomanda la lettura, è, come suggerisce il suo titolo, un monito rivolto al presente: la storia ci mostra come, nel passato, civiltà sicure di se stesse e dominatrici siano crollate poiché non hanno prestato sufficiente attenzione alla perpetuazione della razza.
All’interno di alcuni dei suoi discorsi, quando si tratta di affrontare la questione della natalità tedesca, Himmler fa riferimento ai testi di Korherr. Ad esempio in un discorso del 1942, in cui predica una politica natalista piú decisa rispetto a tutto quello che si è già tentato in passato e che reca il marchio del fallimento:
Non basta dire: creeremo degli aiuti, degli sgravi fiscali, dei buoni alloggi, eccetera. Signori, queste misure sono vecchie come il mondo! Le troviamo già a Babilonia e a Roma, prima che l’Impero romano scompaia, in Grecia e a Sparta, e ad Atene7.
Non solamente i discorsi di Himmler, ma anche gli opuscoli di formazione ideologica delle SS riecheggiano le tesi di Korherr. Ad esempio l’opuscolo intitolato Rassenpolitik, edito nel 1943, spiega in due pagine che la morte di Sparta e quella di Roma sono dovute in gran parte alla denatalità che le ha colpite8.
Hitler stesso, in una delle sue conversazioni a tavola, fa osservare ai suoi commensali che l’Impero romano è morto per un deficit di nascite imputabile ai progressi di una deleteria ideologia individualista e materialista, i cui effetti antinatalisti hanno avuto conseguenze politiche gravissime:
Spesso rifletto sulle cause che determinarono la catastrofe del mondo antico. La classe dominante, assicuratasi la ricchezza, si preoccupò soprattutto di garantire ai propri eredi una vita senza pensieri. Ma poiché, aumentando il numero dei figli, diminuisce la parte di eredità spettante a ciascuno, i ricchi finirono col limitare le nascite9.
Lo spopolamento: Selbstzerfleischung ed emorragia.
Oltre alla denatalità, a rendere inquieti i nazisti è il fenomeno dello spopolamento.
I fondatori di un eugenismo scientifico tedesco, i tre biologi e antropologi Fritz Lenz, Eugen Fischer ed Erwin Baur, sembrano ossessionati dalla questione della morte delle civiltà antiche. Come spiegare quell’evento storico inaudito che è la morte di città e di Stati potenti, con popolazione numerosa, con arte fiorente? Come spiegare il silenzio delle rovine? La morte delle civiltà risuona come un avvertimento apocalittico, venuto dal fondo delle età, per dettare la reazione adatta ai contemporanei: le rovine creano la necessità di un eugenismo di Stato che eviterà alla Germania la sorte delle civiltà morte. La litania funebre, la memoria della Grecia e di Roma, ritornano ossessivamente nei loro scritti: Fischer si è soffermato sulla questione ebraica, Baur ha meditato sui fattori biologici della rovina dei popoli, Lenz infarcisce la sua opera di riferimenti alla storia greca e latina.
In un articolo del 1932, Erwin Baur s’interroga su «La morte dei popoli civilizzati alla luce della biologia»10: come spiegare che civiltà che sembravano dialogare con l’eternità si siano rivelate mortali? E se accadesse la stessa cosa per un presente troppo certo della sua perennità? Il punto di partenza della riflessione, l’evento che motiva la domanda è quel «crollo di una rapidità drammatica»11 a cui sono andati incontro i grandi popoli indogermanici dell’Antichità, «l’Assiria, l’Egitto, la Grecia, Roma»12. Le cause della morte di questi popoli hanno «natura biologica»13. Nella sua summa sull’eugenismo, Fritz Lenz espone dettagliatamente queste cause, e cita ampiamente gli esempi greco e romano. Le guerre, in particolare le innumerevoli guerre civili romane o le guerre fratricide tra citta-Stato della Grecia hanno dissanguato le élite nordiche di queste due regioni mediterranee:
«Nella Grecia antica, l’élite culturale e politica ha pagato un prezzo molto alto alle guerre civili, fatto che ha contribuito in modo rilevante alla scomparsa della cultura ellenica»14, e «la stessa cosa vale per l’Impero romano»15.
«Guerre suicide» di questo genere hanno infatti colpito anche Roma16, che vi ha perduto «una gran parte del suo sangue migliore»17:
La popolazione dell’Italia centrale è stata notevolmente ridotta, per risollevarsi in seguito con discendenti di schiavi e di liberti, provenienti soprattutto dall’Asia Minore o dall’Egitto18.
L’imputazione della perdita di forza vitale alla guerra, in primo luogo alla guerra civile greca tra fratelli di razza, è presente nell’insieme della letteratura dell’epoca dedicata al mondo antico. Fritz Geyer dice ad esempio della guerra del Peloponneso: «Questa guerra fratricida è stata fatale alla Grecia. Essa è stata condotta con una tale crudeltà e un tale disprezzo della vita del compatriota che i suoi effetti sulle élite nordiche sono stati totalmente distruttivi»19, un parere condiviso da Hans Günther20, mentre un manuale per l’insegnamento secondario presenta questa «guerra dei Trent’anni del Peloponneso» come il «massacro suicida»21 della razza nordica, paragonabile in questo alla guerra dei Trent’anni che nel 1648 aveva lasciato la Germania esangue. A proposito delle guerre sociali, e successivamente delle guerre civili romane, Schemann parla a sua volta di «auto-sterminio»22. Queste guerre civili sono sempre dovute allo «stesso demone che s’insinua tra i ranghi degli ariani», il demone della divisione, che ha assunto le «dimensioni inaudite di una guerra civile nordica durante la guerra mondiale»23. Fa eccezione solo Darré che, in modo prevedibile, attribuisce lo spopolamento antico innanzitutto all’abbandono del principio agricolo: uno Stato nordico si risolleva sempre dalle sue guerre, grazie alla fertilità del suo sangue, ma cade in rovina quando il suo popolo abbandona i campi24.
Per la maggior parte degli autori, la guerra, soprattutto la guerra civile o fratricida, è distruttrice della razza. È sempre il sangue migliore a scorrere e a perdersi nelle sabbie, poiché solo gli uomini liberi, i piú valorosi e i piú capaci, sono inviati in battaglia. La guerra, che apre nel corpo del popolo «voragini abissali»25, ha dunque un effetto contro-selettivo: «Mentre le élite si distruggono nella guerra, gli schiavi o gli inferiori […] possono svilupparsi»26. Ritroveremo un’eco impressionante di queste concezioni nelle istruzioni dettate da Hitler a Speer, incaricato di mettere in atto la tattica della terra bruciata sul territorio del Reich. Speer, interdetto da un tale nichilismo, si sente obiettare dal Führer: «Del resto, quelli che sopravviveranno a questa lotta non saranno che degli infimi, perché i migliori sono caduti!»27.
Non contente di farsi la guerra e in questo modo di indebolirsi, le élite nordiche della Grecia e di Roma adottano anche misure contraccettive che riducono ulteriormente la loro consistenza e la loro presenza. Lenz pronuncia la sua requisitoria contro questo comportamento: «Il vero colpo di grazia al popolo greco è stato portato dalla contraccezione volontaria, una contraccezione che, come da noi, riguarda innanzitutto le classi superiori»28. Questa contraccezione, frutto dell’individualismo e dell’inclinazione per il lusso, non ha risparmiato Roma, malgrado la politica natalista di Augusto29: «Le cause della morte dell’Impero romano sono del tutto simili»30 a quelle che sono risultate fatali per il popolo greco. Le guerre civili e la contraccezione hanno creato un vortice, un vuoto che, secondo Lenz, è stato colmato da elementi razziali allogeni e inferiori: «Al posto degli antichi romani, si sono visti apparire schiavi affrancati e la loro discendenza, provenienti soprattutto dall’Asia Minore»31. I romani hanno dunque fatto scorrere il loro sangue migliore, conquistato il mondo conosciuto «non per il loro popolo, che hanno lasciato morire, ma per degli immigrati stranieri e per i figli dei loro schiavi. Che tragicommedia razziale!»32: la tragedia dell’estinzione del sangue migliore rimpiazzato, con uno sviluppo atrocemente burlesco, da un sangue inferiore.
Le guerre, in particolare le assurde guerre civili, comportano dunque una mutazione dell’identità razziale romana. Al posto dell’elemento nordico originario, decimato, s’impone – per importazione, poi per semplice traslazione sociale – un altro principio razziale, servile e inferiore. Un articolo della rivista «Volk und Rasse» descrive nel 1943 il fenomeno: «Si pensò di poter compensare le perdite di sangue romano con un’importazione massiccia di schiavi, per lo piú orientali. All’inizio, venne limitata la loro discendenza, successivamente venne tollerata la loro procreazione come fonte di manodopera a buon mercato»33, prima di affrancarli generosamente. Hanno cosí accesso alla libertà, poi alla cittadinanza, schiavi «dell’Asia Minore, siriani, punici»34, una «massiccia importazione di schiavi»35, secondo la denuncia di Fritz Geyer, che lascia una Roma «fortemente orientalizzata»36. Allo stesso modo, la cittadinanza ateniese era stata, a suo tempo, venduta all’asta delle guerre del Peloponneso, cosí che la città attica accoglieva chiunque si prestasse al servizio delle armi, per mancanza di uomini37.
Se, a causa delle guerre e dell’indebolimento del principio nordico, si può far risalire l’inizio di una decadenza romana alla seconda guerra punica, l’elemento nordico ha dovuto ben presto affrontare, a Roma, una razza inferiore. Bisogna pensare, infatti, che la penisola italiana non ha mai «albergato una razza omogenea»38 e che gli italici nordici immigrati hanno incontrato una popolazione indigena preesistente. Queste due razze hanno coabitato nella primitiva città romana, strutturata da caste sociali che erano di fatto, secondo il razziologo Ludwig Schemann, caste razziali. «Nonostante alcune mescolanze, i patrizi appartenevano in prevalenza alla razza nordica, mentre i plebei, discendenti degli indigeni, erano soprattutto germanici occidentali. L’opposizione tra patrizi e plebei era dunque di natura razziale»39, come conferma Fritz Lenz quando, citando Vacher de Lapouge, scrive che «la lotta di classe è una lotta di razze»40. La vera guerra è dunque quella tra le razze, mentre troppo spesso nel corso della storia le élite nordiche hanno investito la loro pulsione bellicosa in una lotta intrarazziale fratricida, introiezione di una sana bellicosità che avrebbe dovuto essere rivolta all’esterno della razza, verso il nemico biologico costituito dall’allogeno.
In Tiberim defluxit Orontes: la decadenza romana.
Le conseguenze di questo dissanguamento a causa delle guerre sono numerose. La perdita di uomini e di sangue, la mutazione dei costumi romani con l’introduzione di uno stile di vita orientale conducono i rudi romani delle origini a distogliersi dal lavoro della terra per godere della ricchezza delle conquiste.
Si assiste dunque a un abbandono della piccola proprietà agricola e alla formazione di latifondi capitalistici, che segnano la morte dell’identità contadina romana. La casa editrice di Richard Walther Darré, Blut und Boden, pubblica un’opera che tratta della questione41. L’autore vi espone le conseguenze catastrofiche dell’arretramento del principio agricolo a Roma, fedele in questo all’ortodossia Blut und Boden di Darré che, nel suo Il mondo contadino, attribuisce la denordificazione all’abbandono dell’agricoltura, piú che a un’emorragia del buon sangue nordico a causa della guerra42. L’opera in questione, composta da Ferdinand Fried e intitolata I latifondi hanno distrutto Roma, espone le drammatiche conseguenze della concentrazione delle terre all’epoca delle grandi conquiste romane.
Secondo il testo, le guerre condotte da Roma per conquistare l’Italia e l’oikoumene mediterranea hanno dissanguato l’antico popolo contadino degli Altrömer indogermanici. Lo spopolamento romano ha comportato l’incuria di terre tradizionalmente coltivate e abbandonate da contadini-soldati mandati in giro per il mondo all’interno delle loro legioni. Quando i legionari avevano la fortuna di ritornare vivi, rientravano in patria profondamente cambiati, addirittura corrotti, dalla ricchezza acquisita in guerra: la rapina militare, la conseguente conquista di un bottino, e il contatto delle legioni con un Oriente mercantile danno ai virtuosi romani delle origini un gusto del guadagno e del denaro che li porta a considerare le loro terre come uno spazio di rendita capitalistica, e non piú come la sede del focolare, del lavoro della terra, dei morti e della memoria, come il luogo del lucro e non piú del rapporto sacro con la razza. Questa mutazione dello sguardo implicava al contempo la concentrazione delle terre vuote all’interno di grandi proprietà che consentivano la realizzazione di economie di scala, e una modificazione nella natura delle produzioni.
L’autore constata che le colture alimentari sono abbandonate a vantaggio di coltivazioni speculative, il grano e i cereali arretrano di fronte al vino e all’olio, che con un lavoro equivalente o minore hanno una redditività molto superiore:
La conseguenza di questa politica di affari senza scrupoli è stata una massiccia sovrapproduzione di vino e di olio, mentre, nello stesso tempo, una penuria di cereali portava alla carestia nelle città43.
Queste grandi proprietà, i latifundia44, sono abbandonate allo sfruttamento di un esercito di schiavi riportati in Italia nei carri delle legioni poiché i romani, corrotti dal lusso e dal lucro, hanno perduto il gusto del lavoro a favore di quello del guadagno facile e di una vita a buon mercato. Le virtú degli antichi romani nordici capitolano davanti a un Oriente apparentemente vinto, ma alla fine vincitore di Roma: come scrive Giovenale nelle sue Satire, l’Oronte fluisce nel Tevere, efficace metafora fluviale dell’infezione sanguigna, rivincita di un sangue sconfitto che si vendica del suo vincitore. Un sangue straniero scorre nelle vene di Roma, e questo comporta una corruzione dei costumi, visibile nell’orientalizzazione della letteratura romana e nella netta inflessione dello stile da un atticismo austero a un asiatismo ampolloso, come nell’evoluzione dalla chiara Lebensbejahung nordica verso una Jenseitigkeit e un pessimismo del tutto orientali, che sono la culla del cristianesimo, crimine spirituale contro il corpo di una razza sana e ormai votata alla mortificazione45. Tutta una serie di articoli dei «Neue Jahrbücher», la rivista dei professori di lettere classiche, tratta di questa decadenza morale, conseguenza inevitabile della degenerazione razziale.
Uno di questi articoli, intitolato «L’inizio della decadenza morale romana»46, incrimina le conquiste realizzate dai romani all’est e al sud, e il pervertimento del vincitore da parte dei vinti: il mos maiorum di Ennio (Moribus antiquis res stat romana virisque) che ha permesso a Roma di edificarsi e di conquistare il mondo, gli antichi valori romani di disciplina, di patriottismo, di dedizione al bene comune, di gravitas, sono stati scossi, pervertiti, svalutati dall’incontro con l’Oriente e con una Grecia orientalizzata da secoli, e piegati al godimento immediato e all’individualismo. Solo il principato di Augusto inaugura un breve periodo di risanamento, spazzato via in seguito dall’inesorabile mescolanza razziale di Roma e dall’avvento di imperatori semitici, orientali e africani. Catone il Vecchio, con la sua ostinata difesa dei valori della romanitas tradizionale, incarna la resistenza a questa decadenza47, e come tale diventa oggetto di un altro articolo della stessa rivista. Lo storico Fritz Geyer non è da meno, e si unisce al concerto delle deplorazioni scrivendo:
L’antica concezione dello Stato vacilla. Fino a quel momento, agli occhi del romano, nobile o contadino che fosse, non esisteva nulla di piú importante della res publica; lo Stato era al di sopra degli interessi privati, l’interesse generale passava in primo piano rispetto all’interesse particolare […]. Ma ecco che dall’Oriente arrivava lo spirito materialista48.
Per Ferdinand Fried, la desertificazione delle campagne, l’abbandono delle colture alimentari e della mentalità rurale e vigorosa delle origini, la rinuncia dei romani a una vita sana e rude, l’abbandono del modo di vita originario, quello del contadino-soldato, sfocia nientemeno che nella «distruzione del sangue»49 nordico a Roma. Lo spirito di godimento compromette lo spirito di sacrificio, il parassitismo ha la meglio sul volontarismo proprio della razza nordica edificatrice di cultura e di Stati. Infettato dalla mescolanza, l’antico sangue del Nord è colpito da una paralisi mortale: «Ben presto si perse ogni gusto per il lavoro della terra»50, e «troppo presto ci si abituò alla vita oziosa del parassita, che colmava tutti i bisogni dell’uomo del Sud»51. L’insegnamento scolastico della storia segue pedissequamente la scia degli storici e dei razziologi denunciando a sua volta le conseguenze fatali del contatto con l’Oriente. Il manuale di storia di Hohmann deplora dunque «il crollo dei costumi»52 romani conseguente alle vittorie dell’Urbs. Docilmente, un opuscolo di formazione ideologica delle SS spiega che, se il carattere superiore della civiltà greca e romana è dovuto alla loro purezza di sangue nordico, la mescolanza ha comportato la loro decadenza e la loro caduta53.
Notiamo che, in tutti questi scritti, è sviluppata una fisica degli spazi e dei ceppi di sangue: un semplice fenomeno di equilibrio della pressione demografica e di quella sanguigna fa sí che ogni spazio lasciato dai rappresentanti della razza indogermanica sia occupato, secondo il principio dei vasi comunicanti, da una popolazione e da un sangue allogeni. Lo spopolamento greco e romano reca dunque con sé, per un fenomeno fisico di pressione relativa dei fluidi, l’infiltrazione, l’infezione, la mescolanza.
Hitler, che abbiamo visto preoccupato per la morte delle civiltà antiche, opera una riduzione delle cause della loro sparizione al solo principio biologico. Nel Mein Kampf scrive: «Tutte le grandi civiltà del passato sono scomparse, poiché la razza creatrice che le sosteneva è morta per un avvelenamento del suo sangue»54, principio convalidato dagli esempi greco e romano cosí come sono sviluppati nella letteratura che abbiamo considerato.
La denordificazione del popolo romano.
Sulla questione della mescolanza dei ceppi di sangue, troviamo un interessante articolo della rivista «Volk und Rasse» intitolato «La denordificazione del popolo romano».
L’autore dell’articolo rilegge e interpreta la storia romana come cronaca di una decadenza razziale ineluttabile dovuta alla lenta e inesorabile dispersione di un sangue nordico non abbastanza messo al riparo dall’infiltrazione di un principio allogeno e deleterio. Per semplificare, e operando una strana ma comoda riduzione del popolo ai principi, l’autore dell’articolo assume come solo vero oggetto la storia delle dinastie imperiali che si sono susseguite, constatando, con l’aiuto di riproduzioni di busti, l’alterazione, il riflusso e infine la scomparsa del principio nordico originario. Se Augusto e Livia sono «ancora di sangue nordico»55, la casata dei Flavi sembra spostare il centro di gravità razziale verso l’elemento falico (dalico), come si vede dal busto di Vespasiano, «che potrebbe rappresentare un antico contadino della Westfalia»56. Questa dinastia resta per altro «l’ultima dinastia romana ancora essenzialmente nordica». Adriano presenta invece tratti di «importanti mescolanze con elementi di origine non nordica», che sembrano quasi accettabili rispetto ai «tratti fortemente estranei alla razza nordica» di Settimio Severo, «un nativo africano» il cui figlio, Caracalla, grande collezionista di epiteti amichevoli, viene qui definito come «bastardo disgustoso» per aver «ufficialmente legalizzato il caos razziale nell’Impero romano». La reggente che gli succede, Giulia Mamea, viene esplicitamente descritta come un’antitesi razziale rispetto a «Livia, essenzialmente determinata dall’elemento nordico»: il paragone tra le due donne rende tangibile e visibile la profonda decadenza razziale dei romani. Sulla ripida china della degenerazione, il regno di Massimo il Trace, figlio di un contadino goto, offre una breve interruzione, prima che riprenda l’ineluttabile caduta con l’accesso alla porpora di Filippo l’Arabo, un «semita purosangue»57 (Vollblutsemit), figlio di beduino, asceso al suo ruolo grazie all’esercito.
L’autore, che cita ampiamente Rosenberg e Chamberlain riprendendo le loro osservazioni e le loro categorie, conclude che «l’attenta analisi di questi dieci ritratti e il paragone fra i tratti di Augusto e di Livia e quelli, ad esempio, di Caracalla, Giulia Mamea e Giustiniano II mostra, piú chiaramente di quanto potrebbe fare ogni descrizione precisa, cosa significhi l’espressione caos delle razze o caos dei popoli»58.
Ha avuto ben presto inizio la deprecabile degenerazione razziale del popolo romano, l’irresistibile arretramento dell’elemento nordico, compresso, rimosso, scacciato da tutte le mescolanze di un inaudito gorgo di razze. L’autore dell’articolo afferma che «il primo passo verso il caos dei popoli, come l’ha chiamato Chamberlain, era stato compiuto con la legge del 443 avanti Cristo che consentiva i matrimoni fra patrizi e plebei»59, e che viene significativamente paragonata a «la legge del 1823 che ha autorizzato l’unione tra i tedeschi e gli ebrei»60. Segue in questo Rosenberg, il quale afferma che la prima mescolanza razziale risale al matrimonio misto tra plebei e patrizi. I plebei erano una massa di schiavi razzialmente inferiori, sottomessi all’aristocrazia dei signori nordici. Le frontiere tra classi sociali celano linee di divisione razziale, in quanto lo stato di assoggettamento sociale ha origine in un’evidente inferiorità razziale:
A metà del V secolo, si è fatto un primo passo verso il caos: il matrimonio misto fra patrizi e plebei è divenuto legale. La mescolanza razziale attraverso il matrimonio segnò pertanto, a Roma come in Persia e in Grecia, la degenerazione della razza e dello Stato61.
L’irreversibile decadenza della civiltà romana e del suo Stato è dunque cominciata molto presto. Da questa triste storia emergono solo rare eccezioni di purezza razziale:
In questo tempo di caos, si distinguono poche individualità: Silla, il rude generale dagli occhi blu, il profilo nordico puro di Augusto. Ma, da soli, non sono in grado di invertire il destino62.
Roma ha conosciuto il destino proprio di ogni Stato, di ogni civiltà che violi la legge della natura. L’alterazione del sangue e la degenerazione razziale portano ineluttabilmente alla morte di un mondo. Rosenberg ripete con insistenza che Roma è perita per aver dimenticato le leggi eterne della razza e della lotta delle razze. Dopo essere stata la creazione piú prestigiosa dell’umanità nordica, Roma si è sporcata tollerando la mescolanza razziale, in poche parole dimenticando la legge bronzea della natura. Roma ha accolto, con una compiacenza colpevole, la semenza di un sangue estraneo, fino a tollerare imperatori africani, come Caracalla. Agli occhi di Rosenberg, il siriano Caracalla ha la colpa di aver conferito a tutti gli abitanti dell’Impero la cittadinanza romana, nel 212, mettendo cosí fine a una tradizione di aristocrazia razziale propria di Roma fin dalle sue origini:
Spinto dalla madre siriana, figlia di un sacerdote di Baal in Asia Minore, Caracalla, quel ripugnante bastardo che si pavoneggia sul trono dei Cesari, concede la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’Impero. È stata la fine del mondo romano63.
Dato che ogni gerarchia, ogni distinzione fondata sulla razza stava svanendo, il mondo romano, fino ad allora razzista e inegualitario, vide crollare quella potenza che aveva fondato sulla rigorosa e attenta preservazione della sua purezza razziale.
La gloria dell’Impero romano prima della sua semitizzazione e della sua negrificazione presenta un contrasto crudele con la degenerazione della razza e del pensiero romano dovuta all’imbastardimento degli imperatori del Medio e del Basso Impero64. Alla creazione di un impero modello è subentrata, in seguito, la colpevole estensione del diritto non piú esclusivamente ai soli ariani, ma a tutti gli abitanti dell’Impero. Il diritto indogermanico delle origini degenera in universalismo con Caracalla, «bastardo razziale»65, e successivamente col cristianesimo.
Gli imperatori del Basso Impero «sono rappresentanti di tutte le razze del bacino mediterraneo, in particolare la razza negroide, la razza semitica, la razza africana e la razza romano-germanica»66: è cosí ad esempio per Elagabalo, che Fritz Taeger definisce un «sordido moccioso siriano»67 e Schachermeyr un «buffone ripugnante»68. Figlio di «fellah siriani mezzi nomadi», Elagabalo si burlava di Roma e della romanità. Egli «restava un siriano»69 e voleva semplicemente imporre il culto di Baal, di cui era sacerdote, a tutto l’Impero.
Il pervertimento della tradizione giuridica romana a causa della mescolanza razziale porta a far sí che «l’inchiostro sia piú forte del sangue»70, vale a dire a consentire che un tratto di penna, ormai, decida dello statuto di una persona, e non piú il suo sangue: il semplice artificio della convenzione e della decisione libera ha ormai la meglio sulla necessità biologica. Schachermeyr precisa e inasprisce la requisitoria incriminando in particolare due giuristi romani del Basso Impero, Ulpiano71 e Papiniano72, due levantini, nordafricani, che hanno impresso il loro marchio nefasto in un diritto romano originariamente nordico, e in seguito giudaizzato73. È seguito in questo da Ferdinand Fried, che rimprovera con veemenza il «fenicio-semitico»74 Ulpiano, il «siriano» Papiniano, oltre a Salvio Giuliano, originario dell’«Africa», e Giulio Paolo, «il piú importante tra loro, che probabilmente era inoltre di origine semitica»75.
Caracalla, committente di questo grande lavorio giuridico e razziale, per Fried non è altro che uno «spregevole bastardo»76: «La razza orientale-asiatica, sangue negro e dio solo sa quale oscura mescolanza s’incrociavano nelle arterie di tale orrore»77. Qui raggiungiamo un discreto livello di ingiuria. Per una volta, Schachermeyr, secondo il quale «Caracalla assomigliava a una bestia da preda del deserto africano»78, resta indietro di un grado nell’invettiva.
In tutti gli storici del mondo antico che, all’epoca, si richiamano a una lettura razziale della storia e, in particolare, della storia romana, la dinastia dei Severi è giudicata con asprezza. Joseph Vogt, nel volume del Kriegseinsatz dedicato a Roma e Cartagine (1943), firma cosí un contributo su «Il popolo punico e la dinastia dei Severi»79, in cui interpreta l’avvento della dinastia africana di Settimio Severo come la rivincita razziale di un popolo punico sconfitto con le armi, ma ancora attivo in modo oscuro e sotterraneo, poiché i romani, che avevano raso al suolo la città, avevano omesso di sterminarne il popolo. Cosí come l’Oronte fluisce nel Tevere, allo stesso modo il sangue punico viene a macchiare la porpora e a diffondersi sul Palatino.
Queste analisi sono riprese e radicalizzate, con l’invettiva, in Ferdinand Fried che nella sua opera, intitolata L’ascesa dei giudei, denuncia in una decina di pagine la degenerazione romana sotto il regno degli imperatori semiti a partire da Settimio Severo80. Egli qualifica il periodo, che dura per altro due secoli, come «epoca di terrore»81, di «dittatura del terrore»82, un terrore razziale provocato dallo scatenarsi dell’«odio semitico»83 per troppo tempo trattenuto e rimosso dagli ebrei, desiderosi di combattere con la superiore umanità nordica.
L’insieme delle cause converge dunque verso il centro di gravità razziale. Fritz Geyer ricorda che il dibattito e le ipotesi sulla fine dell’Antichità preoccupano l’Occidente sin dal 47684, cosí che le svariate considerazioni sulle cause della grandezza e della caduta dell’Impero romano vengono tutte annoverate e ricondotte dall’autore al solo principio razziale:
Per concludere, possiamo dire che tutti i tentativi di spiegazione della fine del mondo antico presentano una parte di verità: l’esaurimento intellettuale e fisico (Burckhardt), la distruzione dei migliori (Seeck), la lotta tra la civiltà urbana e la barbarie rurale (Rostovtzeff), la lotta contro il cristianesimo (Gibbon), tutto questo ha effettivamente contribuito alla fine dell’Antichità. Ma si tratta solo di sintomi e non di cause. La causa è il deperimento delle élite razziali nordiche che avevano creato la civiltà antica85.
Fritz Schachermeyr, preoccupato di fare della storia antica una scienza della razza, è altrettanto categorico:
I razziologi hanno stabilito da tempo che la decadenza, la dissoluzione dei popoli greco e romano erano dovute all’influenza di un sangue non nordico, e dunque di uno spirito estraneo alla razza86.
Bisogna trarre insegnamento dalla storia e vigilare attentamente affinché il sangue nordico sia preservato da ogni mescolanza:
A nessuno verrebbe in mente di contestare che il popolo greco sia stato dissolto dal sangue non nordico, egeo, che si è mescolato al suo, e che il popolo romano sia stato fatalmente colpito dall’afflusso di sangue estraneo alla sua razza: da qui il nostro rifiuto di ciò che non è nordico, rifiuto che noi fondiamo sulla storia dei greci e dei romani87.
La tesi della decadenza a causa della mescolanza non riguarda solo una giovane generazione ambiziosa e desiderosa di compiacere i padroni del momento o di assecondare l’atmosfera del tempo. Essa è accreditata anche da universitari eminenti come il venerabile Ernst Kornemann, già emerito quando, nel 1940, pronuncia una conferenza sulla grandezza e la decadenza dell’Impero romano, predecessore e prefiguratore del grande Reich tedesco nella sua opera di ridefinizione dello spazio europeo. Per Kornemann, la decadenza dell’Impero è dovuta alla «mescolanza e alla degradazione delle razze, che ha rimpiazzato l’antica popolazione contadina romana dell’epoca imperiale con un pasticcio di popoli»88.
Il monito alla Germania.
Gli storici del mondo antico e i dottrinari del partito s’interessano della morte delle civiltà antiche, nella convinzione che essa esemplifichi la vulgata nazista sulla degenerazione della razza e della cultura quando si verifichino mescolanze. È questo il messaggio che l’insegnamento della storia rivolge ai giovani tedeschi. Le «Direttive per il manuale di storia» del 1933 precisano che la morte della civiltà greca deve essere letta come l’esempio di una decadenza razziale per difetto di protezione dell’elemento nordico. Il testo ricorda che i conquistatori nordici formavano in Grecia solo una «minoranza», e che in questo modo si trovavano di fronte a una massa di indigeni, e successivamente di schiavi, per lo piú di «origine asiatica». La frontiera tracciata tra superiori e inferiori si è aperta con la democrazia e il suo deleterio egualitarismo:
Con la soppressione delle distinzioni di caste congiunta alla democrazia e alla mescolanza delle razze, rapida e crescente, che essa ha provocato, accentuata ulteriormente dalla denatalità (vedi Polibio!), la sorte della razza nordica in Grecia è segnata, e la decadenza della civiltà greca si è diffusa cosí rapidamente che il popolo greco è stato ridotto in soli duecento anni alla piú totale insignificanza89.
Il testo del bollettino ufficiale prussiano rinvia esplicitamente, come sappiamo, all’opera di Günther sulla storia razziale dei greci e dei romani: gli insegnanti vi troveranno il triste racconto di una morte per contaminazione del sangue. Anche la storia di Roma non è altro, a sua volta, che la lunga orazione funebre di una razza che dimentica la sua eccellenza e muore:
La componente nordica del popolo romano è quasi totalmente distrutta da guerre incessanti. Sotto il regno di Tiberio, restavano solamente sei delle antiche stirpi patrizie! La maggioranza schiacciante della popolazione italica era composta da discendenti di schiavi orientali. Il carattere disperato della situazione fu il fermento dell’ideologia stoica dei romani. In questo modo, alla svolta del millennio, arrivò a compiersi quasi totalmente la denordificazione del Sud europeo90.
I programmi del 1938 insistono ulteriormente rispetto alle indicazioni del 1933. I manuali e gli insegnanti dovranno mostrare come «il disprezzo delle spietate leggi della razza abbia infine condotto questi popoli alla distruzione del loro sangue e della loro anima, dunque alla degenerazione e alla morte»91. Si dovrà mostrare, con riferimenti a fatti specifici, che «la guerra del Peloponneso è stata una guerra fratricida, che ha sterminato la razza»92 e condotto, per mancanza di rappresentanti della razza nordica, a «l’alienazione razziale di Atene». La denordificazione della città attica è stata tuttavia combattuta da «alcune voci isolate, in particolare quella di Platone», il cui messaggio, malgrado il suo insuccesso, deve essere insegnato. Dopo il V secolo durante il quale la razza nordica si è suicidata a causa di una guerra fratricida e di un’emorragia del sangue migliore, i secoli successivi si definiscono per una mescolanza sventurata, quella dell’«ellenismo [che] è una cultura meticcia marcata». Nel suo meticciato, l’epoca ellenistica annuncia il periodo imperiale romano, segnato da «influenze ellenistiche, orientali, ebraiche», dalla «potenza del capitale, lo spopolamento delle campagne, il cosmopolitismo», cioè, nel complesso, da una «civiltà imperiale sradicata, opposta alla civiltà contadina del Nord»93.
I manuali scolastici seguono alla lettera queste consegne. Un breve esame del prospetto delle materie di Gehl, già esaminato sopra, è eloquente: un lungo capitolo è cosí dedicato a «La degenerazione razziale dei greci»; vi troviamo in particolare «La contaminazione spirituale da parte di una Aufklärung insensata», «L’indebolimento della forza razziale dei greci a causa del massacro fratricida della guerra peloponnesiaca dei Trent’anni», prima che vengano trattati «La distruzione della razza, del popolo e dello Stato a causa di una democrazia sfrenata», e «Il fallimento della lotta contro la decadenza razziale». Questo, dunque, è ciò che riguarda il V secolo, prodromo e causa della distruzione finale della nordicità greca con l’ellenismo. Un capitolo tratta inoltre il «distacco totale tra il sangue e il suolo» nell’ellenismo, in particolare all’interno delle città, alle quali è riservato un trattamento speciale: «La civiltà cosmopolita e urbana dell’ellenismo come cultura del meticciato razziale». Per quanto concerne Roma, nello stesso manuale si trovano sottocapitoli intitolati «La denordificazione dell’élite romana nella lotta costante per il potere», fenomeno proprio già della Roma repubblicana, prima che l’Impero dissolva il sangue nordico in un magma di popoli: «La dissoluzione del mondo antico nel caos razziale» è cosí oggetto di un capitolo, secondo un intento che viene precisato in un altro titolo, che annuncia uno sviluppo su «L’orientalizzazione del sangue e dello spirito dell’Impero».
Anche gli opuscoli di formazione ideologica della Hitlerjugend danno risonanza a una nuova lettura del mondo antico. In uno di questi fascicoli, Walter Gross, capo dell’Ufficio della razza della Nsdap, fa della fedeltà, virtú tedesca, un duplice imperativo per i giovani: fedeltà alla persona del Führer e fedeltà all’idea della razza sono i piú sicuri garanti della sopravvivenza del popolo tedesco e della sua vittoria94. In questo testo, il cui titolo, Il tuo onore è la fedeltà al sangue del tuo popolo, riprende il motto delle SS95, Gross presenta ai suoi giovani lettori la storia greca come il tragico abbandono del principio della razza, un tradimento commesso da un popolo indogermanico contro il proprio sangue.
Se gli immigrati indogermanici hanno rifiutato a lungo ogni mescolanza con la popolazione indigena, «la loro coscienza di razza a poco a poco si è indebolita, la mescolanza con gli uomini disprezzati che avevano sottomesso a sé era diventata piú frequente, fino a costituire la regola, e, al posto dell’élite nordica di sangue puro, si vide apparire sempre di piú il bastardo. Parallelamente a questa evoluzione, si produssero l’indebolimento e la degenerazione dello spirito e dell’energia storica»96. Tragico errore storico e razziale, questa mescolanza, tollerata dai greci che all’inizio erano attenti a preservare la purezza della propria razza, ha infine portato alla scomparsa pura e semplice di un principio nordico annegato e diluito in un flusso di sangue straniero:
La fine di questa storia è anche la decadenza di un grande popolo e la perdita di una cultura superiore, di cui la Grecia attuale possiede ancora molte testimonianze di pietra, mentre i suoi abitanti non hanno piú nulla a che vedere con la fiera razza di un tempo97.
Le SS sono a loro volta addestrate a una razziologia che si basa sull’esempio antico. Il pericolo dell’infezione del sangue nordico da parte di un principio allogeno e inferiore è pertanto illustrato dal mito di Giasone e Medea in un articolo dell’«SS-Leitheft». Non è sorprendente che le SS s’interessino degli Argonauti, eroi greci partiti alla ricerca di un vello d’oro custodito nella lontana Colchide, paese favoloso e appartato, situato sulle rive orientali del Mar Nero. La spedizione argonautica diventa cosí la prefigurazione della marcia verso l’est delle truppe del Reich indogermanico, e il mito di Giasone risuona da allora come un avvertimento alle truppe SS del fronte dell’Est, i cui membri vengono dissuasi con forza da ogni commercio sessuale con le donne incontrate sul posto.
La tragedia di Medea, raccontata alle SS da parte di SS, diventa infatti la tragedia della mescolanza delle razze, del «matrimonio interrazziale», come indica il titolo dell’articolo.
L’articolo ricorda che i greci, «antico popolo civilizzato di sangue nordico»98, erano consapevoli del valore del proprio sangue. La loro mitologia condannava le mescolanze razziali tanto quanto fanno, nella Germania contemporanea, «le leggi del Führer»99. È cosí per le gesta degli Argonauti e di Giasone, eroe «fiorente e bello come un dio», dalla «chioma splendente di bionda bellezza»100, figura apollinea della purezza razziale indogermanica. Questo puro eroe nordico soccombe sciaguratamente alle seduzioni di un’allogena, la caucasica Medea, «barbara estranea alla razza»101. Dopo due anni di apparente felicità, la coppia si divide perché Giasone, sempre piú consapevole «della differenza delle loro razze», si volge verso «una donna proveniente dalla sua», Creusa. Medea rivela allora tutta la violenta perversione del suo sangue avvelenando Creusa, poi uccidendo i suoi stessi figli. Quella che in Euripide è la tragedia della forza di un amore deluso, per le SS diventa la tragedia del meticciato e delle sue atroci conseguenze, simbolicamente riassunte, nel mito, dall’assassinio dei bambini, dunque dall’estinzione della discendenza, e dall’uccisione della sposa di buona razza, ceppo di un futuro sangue puro:
Le nozze tra Giasone e Medea rappresentano dunque un’unione tra due persone di razze differenti, un peccato contro il sangue, non solo secondo i nostri criteri, ma anche secondo la concezione originaria dei greci102.
Con questa storia, «antica leggenda di un popolo di conquistatori nordici»103, i greci hanno voluto «raffigurare le conseguenze della disomogeneità razziale»104. Tuttavia, non hanno saputo ascoltare le leggi della natura e le prescrizioni del loro mito per preservarsi: sono dunque stati colpiti dalla sorte di Giasone.
La stessa fatalità razziale ha avuto ragione di Roma. Un opuscolo illustrato delle SS, praticando un’attiva pedagogia dell’immagine, in particolare l’immagine del corpo, rappresenta uno di fronte all’altro un busto di Augusto e il busto di un anonimo «borghese romano della decadenza». Il testo che accompagna la riproduzione commenta:
La nostra immagine mostra due romani dell’Antichità. Il primo è ancora portatore di un sangue nordico puro, come i fondatori dell’Impero romano. Il secondo presenta, senza possibilità di errore, i sintomi della mescolanza dei ceppi di sangue, della penetrazione del sangue dell’Asia Minore nel corpo un tempo nordico del popolo105.
Un riassunto di queste considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei greci e dei romani è proposto negli opuscoli di formazione ideologica del partito. Uno di questi quaderni ricorda che fino a che hanno «applicato le leggi razziali piú rigorose e la legge radicale della selezione»106, i greci sono riusciti a mantenere la qualità del loro sangue e la fecondità della loro cultura, ma che la loro sorte è stata segnata dal momento in cui hanno abbassato la guardia della loro vigilanza razziale.
«Assoluti estranei diventano ateniesi, s’insedia la democrazia»107, con la conseguenza de «la morte del prezioso sangue nordico in una mescolanza di popoli che ancora per un po’ è in grado di mantenere un certo livello culturale, benché pietrificato, ma anche di consumare le ultime riserve di sangue».
L’autore prosegue applicando lo stesso schema di lettura alla storia romana: «Si è svolto questo processo, a Roma come in Grecia»108, prima di riassumere in una pagina la triste ed edificante storia razziale del popolo romano.
Sulla democrazia come imbastardimento razziale.
Per la storiografia razzista, tutto è segno di salute biologica o di degenerazione. In questa prospettiva ermeneutica, la democrazia è interpretata al contempo come il sintomo e il catalizzatore dell’imbastardimento razziale ateniese.
Esiste una vera e sana democrazia, quella – di essenza nordica – descritta da Tacito nella sua monografia dedicata ai germani, quella dell’assemblea dello Stamm, il Thing. Oligarchia dei migliori, dunque, in senso stretto, aristocrazia, questa democrazia germanica è vantata da Hitler nel Mein Kampf109 e da Joseph Goebbels in un’edizione speciale del «Völkischer Beobachter» dedicata alla Grecia e ai Giochi olimpici. In queste pagine, in cui si trova una proclamazione di «benvenuto» ai popoli di tutto il mondo in occasione dei giochi, Goebbels sostiene che la Germania nazista è una vera democrazia, dato che possiamo chiederci cos’altro è il principio di una democrazia se non il fatto che «ciò che è bene per il popolo deve essere realizzato […]? I migliori tra il popolo sono chiamati a compiere questa missione. Essi sono i promotori di una democrazia aristocratica che, in un processo di continua selezione, innalza gli eletti alla funzione di comando, in quanto posseggono la volontà e l’arte di dirigere»110. Una volta compiuto questo gioco delle tre carte semantico, i nazisti sono assolutamente liberi di ripudiare la democrazia ateniese come falsa democrazia: il governo di un popolo autonomo che, attraverso il voto, si dà le proprie leggi è infatti molto lontano dal modello censitario e fortemente esclusivista della democrazia germanica.
Nello stesso spirito, e in un saggio dedicato allo splendore e alla decadenza della democrazia greca111, l’ellenista e storico Hans Bogner descrive il modo in cui la democrazia ateniese, intesa come una vera aristocrazia, la Adelsherrschaft a cui è consacrato il primo capitolo, sia degenerata in una demagogia alla fine fatale alla potenza attica, dopo gli ampliamenti successivi del corpo elettorale e l’attuazione di un clientelismo politico in cui dei demagoghi adulano la plebaglia con la pratica, per quest’ultima remunerativa ma rovinosa per la città, della guerra a oltranza, con il risultato che conosciamo. Bogner cita e commenta a lungo le commedie di Aristofane, in particolare Le vespe e I cavalieri112, in cui il comico ateniese fustiga a lungo la politica classista di Cleone, il quale basa la sua popolarità su una guerra che procura ai miserabili del quarto stato ateniese, i teti, paga e bottino, prolungando un conflitto in cui la flotta e la massa dei rematori proletari svolge il ruolo principale. Bogner non fa che riprendere e sviluppare la critica quasi sociologica dei detrattori ateniesi della democrazia, che prendevano di mira la fondamentale ambiguità del termine demos, al contempo popolo sovrano nella sua maestà rousseauiana e plebaglia nell’accezione socialmente piú miserabile, masse vili che il demagogo lusinga con la parola e con il ventre. Il manuale di storia di Hohmann descrive per altro la democrazia ateniese come una semplice «questione di ventre e di godimento»113, mentre quello di Gehl dedica lunghe pagine ai vizi della democrazia attica114.
In un altro dei suoi saggi, dedicato alla formazione dell’élite politica, Bogner assimila democrazia e misocrazia: la democrazia è odio del potere nella misura in cui il suo egualitarismo maniacale elimina ogni figura di capo e non tollera alcun ruolo di superiorità115:
L’opposizione sempre presente a Sparta tra il nobile e l’ordinario fu semplicemente cancellata per decreto, si fece come se ognuno fosse uguale a tutti. L’ordinario lo credette volentieri, per eccitazione e per pretesa116.
Bogner nota che, in un tempo di decadenza e di disintegrazione della potenza ateniese, un solo uomo, Alcibiade, degno rappresentante dell’antica nobiltà, avrebbe potuto salvare l’ordine del passato, ma la democrazia non lo ha voluto, poiché l’eccellenza del personaggio era un insulto per la mediocrità ordinaria: Alcibiade, «secondo il parere di tutti, avrebbe potuto salvare lo Stato», ma «non ne ebbe il tempo, poiché gli uomini ordinari si adombrarono per la sua grandezza»117. Invidiosa, «la massa non poteva che diffidare di lui»118, e Alcibiade vide coalizzarsi contro di sé l’universalità dei mediocri, un vulgus pecus astioso che ebbe ragione di lui per una grottesca accusa di sacrilegio, quella vicenda del sacrilegio delle erme che allontanò il grande ateniese dalla sua città. Il vizio essenziale di questo regime è dunque il fatto di eliminare il Führer naturale, poiché quest’ultimo non assomiglia alla massa che, in definitiva, impone la sua voce col suffragio:
Il potere della massa non sopportava piú nessun capo, non tollerava l’uomo che si distingueva immancabilmente dalla massa e che contraddiceva palesemente la finzione dell’uguaglianza119.
L’unione dei deboli costituisce una forza che allontana ed elimina il forte: la democrazia intesa come Massenherrschaft e non piú come giusta e sana aristocrazia (Adelsherrschaft), si rivela dunque controselettiva. Nemica dei capi naturali e amica della mediocrità, la democrazia, secondo Fritz Geyer, ha una tendenza al «livellamento, che esclude ogni personalità dominante, che promuove l’ideale dell’uguaglianza assoluta davanti alla legge e nella pratica del governo (isonomia e isegoria)»120. L’istituzione dell’ostracismo che, originariamente, doveva prevenire ogni tentativo di instaurare la tirannide, «si è rivelata un’arma nella lotta fra le classi, attraverso la quale si riusciva a eliminare ogni uomo che si elevasse al di sopra del plebeo»121. Quella che avrebbe potuto essere, inizialmente, una democrazia nel senso nordico-germanico di oligarchia dei migliori è degenerata, anche a suo parere, in «tirannia della massa»122, la «oclocrazia» descritta e deplorata da Aristotele nel VI libro della sua Politica123.
Il vizio democratico, l’incoercibile tendenza al livellamento verso il basso, può essere giudicato, ovviamente, da una lettura razziologica124. Questo punto di vista sulla democrazia, emerso dai pensatori francesi del razzismo, Gobineau e Vacher de Lapouge, viene ripreso e volgarizzato da Rosenberg. Rosenberg sostiene che il sintomo accertato della decadenza razziale greca è la vittoria della democrazia sulle forme di regime monarchico e aristocratico che avevano dominato nella Grecia arcaica. L’avvento della democrazia è il trionfo della massa degli schiavi e dei falliti sull’élite razziale dei capi:
La democrazia non era il governo del popolo, ma il dominio dell’Asia Minore su quei popoli greci che sperperavano forze e uomini125.
Per Rosenberg, la democrazia, piú che un semplice regime politico, è il sintomo di una patologia razziale, di una mescolanza e una degenerazione. Promuovendo l’uguaglianza davanti alla legge e l’uguale accesso alla parola, la democrazia è l’antinomia di una sana aristocrazia fondata sull’eccellenza razziale di un piccolo numero. Questa tesi proviene da un autore a cui Rosenberg è molto affezionato, e al quale renderà omaggio durante un discorso pronunciato a Parigi nel 1940126, Joseph Arthur de Gobineau. Per Gobineau, la Francia è il teatro di una mescolanza razziale senza pari. Certamente, le razze pure (bianca, gialla, nera) non esistono piú da tempo. Ma la Francia soffre di una mescolanza razziale inaudita. Il sintomo di questa mescolanza è, dall’epoca della rivoluzione, il suo regime democratico.
La tesi di Gobineau è determinista: ceppi di sangue che si mescolano aboliscono l’eccellenza e la gerarchia. Ciò che è nobile e puro scompare: le mescolanze «degradano, snervano, umiliano, decapitano nei suoi elementi piú nobili»127 l’umanità. Tutto ciò che è razzialmente eminente scompare dunque, dissolto in una deleteria mescolanza razziale.
La scomparsa della nobiltà e dell’eccellenza si riverbera dal sangue alle idee politiche, giuridiche e sociali. Un sangue mescolato, che non contiene piú niente di nobile, non può concepire l’ineguaglianza.
Quando la maggior parte dei cittadini dello Stato sente scorrere nelle sue vene un sangue mescolato, questa maggioranza, trasformando in verità universale e assoluta ciò che è reale soltanto per essa, si sente chiamata ad affermare che tutti gli uomini sono uguali128.
La democrazia egualitaria è dunque l’ideologia politica dei popoli meticci, che eleva e sublima il suo carattere impuro e mescolato a norma politica universale. L’egualitarismo e la democrazia sono le idee necessarie di un’umanità mescolata e degenerata. Ad aver elaborato nel suo cervello malato le dottrine della Repubblica e dell’uguaglianza degli uomini non è stato un tipo razziale puro, ma appunto quello che Goebbels chiama il «meticcio raziocinante».
Gobineau opera dunque una riduzione sintomale della democrazia per farne il segno certo e terrificante dell’ineluttabile marcia verso il niente dell’umanità.
Questa tesi sarà ripresa da Georges Vacher de Lapouge, altra lettura decisiva per Rosenberg. Vacher scrive che «la democrazia attuale corrisponde all’avvento di elementi etnici nuovi, delle masse brachicefale che s’insediano al potere […]. La tendenza all’uniformità è un infallibile fattore di regressione»129. L’egualitarismo umanista della democrazia segna la morte delle élite razziali, la loro fusione nella confusione della mescolanza: «La politica delle masse è l’appiattimento di tutto ciò che è superiore e l’asservimento di tutto ciò che è indipendente»130.
Questa tesi è efficacemente riassunta da Karl Kynast, che la condivide e la espone nel suo Apollo e Dioniso:
Comprendiamo bene che l’uomo di razza inferiore, proprio come il bastardo, nega la differenza delle razze tra gli uomini e, nello stesso tempo, quelle differenze di caste che si fondano sulle differenze di natura. Quando comincia la mescolanza delle razze e il rafforzamento delle razze inferiori, nessun principio è predicato e diffuso cosí ampiamente come il principio democratico secondo il quale tutti gli uomini sarebbero uguali131.
In questo sfacelo razziale e politico, che colpisce tanto la Francia repubblicana quanto l’antica Grecia, Rosenberg ci dipinge Platone come un rappresentante nobile e puro dell’ellenicità nordica, che tenta di opporsi con i suoi scritti e la sua feroce critica politica al trionfo della democrazia sull’aristocrazia. Rosenberg non si sbaglia sulle intenzioni generali di Platone, effettivamente contrario, durante la sua vita, a una democrazia ateniese che aveva ucciso Socrate. Gli scritti politici di Platone si iscrivono, come quelli di Senofonte, in una corrente di filospartanismo aristocratico, di reazione e di decisa opposizione alla democrazia ateniese, che era culminata durante la tirannide dei Trenta, alla fine della guerra del Peloponneso. Rosenberg arriva fino a far schierare Platone sulle posizioni di Callicle, oppositore di Socrate nel Gorgia:
Platone, nel Gorgia, fa proclamare da Callicle, ma invano, il piú saggio dei Vangeli: la legge della natura esige che il piú forte domini il piú debole132.
Il racconto della fine della Grecia classica fatto da Alfred Rosenberg propone una lettura razziale unilaterale del fenomeno. I greci, secondo Rosenberg, hanno dimenticato troppo in fretta di avere una razza da preservare, nella sua purezza e nella sua bellezza, un sangue superiore da proteggere da ogni mescolanza con il sangue asiatico. Non sono dunque sfuggiti alla vendetta di questo sangue, personificato ed eretto a divinità vendicativa da Rosenberg all’inizio della sua opera:
Nessuno di coloro che disprezzano la religione del sangue è mai sfuggito a questa vendetta del sangue: né gli indiani, né i persiani, né i greci, né i romani133.
Il sangue si è vendicato: i greci, che avevano accettato la mescolanza, si sono irrimediabilmente imbastarditi, e hanno ceduto a un’inesorabile decadenza. Misti e mescolati, i greci sono diventati levantini che non sono piú greci se non per uno strano abuso semantico. Il nome di greco è snaturato, e ciò che un tempo designava il germoglio piú bello della razza nordica assume oggi un significato peggiorativo: l’infiltrazione dell’«asiatismo mercantile e mentitore» fa sí che «menzogna e falsità designino ormai ciò che è “greco”, ciò che ha portato Lisandro a dire che si ingannano i bambini con dei dadi, gli uomini con dei giuramenti»134.
La loro lenta scomparsa non sarà tuttavia stata vana. Prima di mescolarsi, i greci hanno valorosamente combattuto l’Asia, come attestano le guerre persiane. Solo a partire dal momento in cui i rinforzi provenienti dal Nord, le ondate migratorie di popolazioni nordiche, si sono esauriti, i greci hanno capitolato. Grazie alla loro lotta, tuttavia, hanno tenuto a bada e, almeno per un certo tempo, in scacco, la sotto-umanità asiatica che, senza di loro, sarebbe dilagata sul suolo dell’Europa molto prima. Nella grande lotta dell’umanità nordica contro i suoi nemici, in questo caso l’Asia, l’episodio greco avrà dunque avuto un effetto dilatorio:
Malgrado tutto, l’uomo greco aveva, anche nel momento della sua decadenza, ostacolato l’avanzata dell’Asia, aveva dispensato i suoi brillanti talenti a tutta la terra, doni che permisero ai romani nordici di creare una nuova civiltà, e che conobbero il loro apogeo piú tardi, nell’Occidente germanico135.
I greci, anche nel loro arretramento, ritardano l’avanzata dell’Asia, e trasmettono la fiaccola della civiltà ai romani. Rosenberg riprende qui a sua volta la tesi antica e medievale della translatio studiorum et imperii, della trasmissione del potere e del sapere, dalla Grecia a Roma, e successivamente da Roma all’Occidente germanico. Roma, nota Fritz Schachermeyr, subentra alla Grecia come incarnazione storica dell’umanità ariana nordica, e come protettrice della purezza del suo sangue: «Con il suo gladio, Roma ha tenuto a lungo sotto controllo il flagello proveniente dall’Asia Minore, che si era rinforzato»136.
La denordificazione (Entnordung) è dunque il concetto centrale che permette di comprendere e di accettare come una giusta sorte lo scandalo costituito dalla morte di brillanti civiltà antiche. Vera Götterdämmerung razziale, la morte della Grecia e di Roma annuncia una sensibilità tutta germanica al tragico storico. Secondo Schachermeyr, la storia greca è impregnata «dello stesso tragico nordico che, successivamente, il germano ha espresso nel mito della fine dei mondi, e al quale, piú tardi, Richard Wagner ha dato forma nel Ring des Nibelungen. Qui dunque troviamo tutto un materiale che ci invita alla riflessione e ci mette in guardia contro il destino mortale della denordificazione»137. Il regno di Alessandro Magno e il periodo ellenistico, che vengono dopo il V secolo dell’Atene democratica, permettono senza dubbio di comprenderne nel modo migliore le conseguenze.
Alessandro e il periodo ellenistico: il grande gorgo delle razze.
Il periodo ellenistico è denunciato e condannato per essere stato una sorta di contro-Antichità, antitesi al miracolo nordico dell’eccellenza culturale e razziale. Presentato come un primo periodo di mondializzazione delle migrazioni, degli scambi e delle culture, esso apre le barriere e le vene alla mescolanza dei ceppi di sangue. Ora, non ci sarebbe stata ellenizzazione senza Alessandro, senza l’integrazione dei territori all’interno di un Impero alessandrino, suddiviso in seguito tra i diadochi, che lasciarono agli epigoni un mondo dotato di una stessa cultura greca, o quasi. La figura di Alessandro, oltre alla sua gloriosa epopea, è dunque caratterizzata da una fondamentale ambiguità: come presentare Alessandro? Si deve celebrare il conquistatore nordico, o condannare l’uomo che ha consentito la mescolanza razziale fatale al mondo ellenico, l’ellenismo decadente e deleterio? Da un lato, infatti, Alessandro il Macedone è un nordico dai capelli d’oro e dagli occhi azzurri, ma, dall’altro, sappiamo che sognava una monarchia universale e che ingiungeva ai suoi luogotenenti di sposarsi con giovani donne provenienti dalla Persia da poco conquistata, per fondere e saldare le élite delle due culture. Inoltre, egli ha trasmesso alla posterità una mondializzazione culturale e razziale tra le piú dannose.
L’ambiguità alessandrina è stata cosí oggetto di una tematizzazione da parte degli storici del mondo antico. Per Fritz Schachermeyr, «non c’è alcun dubbio che Alessandro fosse un indogermano dotato prevalentemente di sangue nordico»138. L’eccellenza della sua razza, la qualità del suo sangue di uomo nordico, permette di spiegare l’aspetto grandioso della sua lotta a lungo vittoriosa, di una spedizione ancora ineguagliata, e di rivendicarla all’attivo della razza indogermanica: la sua guerra è stata, secondo Fritz Taeger, una «esaltante vittoria dell’Ovest»139, e risuona «ancora oggi»140 l’eco delle sue vittorie.
Ma il suo progetto di impero mondiale grazie alla fusione delle razze si è rivelato «pericoloso per la razza»141: ha innalzato a fine ultimo la sua idea di impero universale, che invece avrebbe dovuto essere solo un mezzo per la difesa e il rafforzamento della razza: «L’impero mondiale rappresenta ai suoi occhi il valore cardinale: tutto gli è subordinato»142. È questo l’errore del conquistatore nordico, dominato dalla sua hybris, e dall’idea di unificare l’oikoumene sotto un solo potere. Si dimentica cosí la dignità e l’eccellenza del sangue nordico, degradato, come tutti gli altri ceppi di sangue, al rango di materiale per l’edificazione dell’Impero: «Tutto si riduce per lui a materiale plastico»143, e questo eguaglia le condizioni, il rango e il valore dei greci, dei persiani e di ogni altro popolo. Dal momento che «l’idea di razza» ha «cessato di rappresentare un valore»144 ai suoi occhi, Alessandro ricorre alla «fusione dei popoli»: «A dettargli l’idea di questa mescolanza è stata la ragion di Stato di un impero universale»145. Taeger sottolinea che l’hybris, strappandolo alla sua terra per lanciarlo sulle strade della conquista mondiale, ha fatto dimenticare ad Alessandro i doveri che aveva verso il suo sangue:
Il conquistatore si è staccato dal suolo che lo aveva nutrito e le cui forze migliori gli avevano offerto le sue vittorie. È diventato il successore degli Achemenidi, si è trasformato in un Gran Re asiatico, un signore del mondo che amava vestire il costume reale medo-persiano e che cercò persino di introdurre la proskynesis, contro la quale si erano rivoltati i due spartani che erano stati sottoposti a penitenza146.
Al di là del mero caso alessandrino, è deleteria l’idea stessa di un impero universale che, inducendo mescolanze, dimentica la gerarchia delle razze: Schachermeyr rivolge a Cesare lo stesso rimprovero che ha mosso ad Alessandro. Il romano, nordico tanto quanto lo era il macedone, aveva un progetto imperiale livellante, ma fortunatamente è stato fermato in tempo, come Alessandro, da una morte precoce147. Augusto, invece, si preoccuperà maggiormente di preservare il nucleo razziale romano148.
La riprovazione è tale che il Brockhaus del 1937 arriva a contrapporre un padre nordico, Filippo, nobile e bella figura di re greco indogermanico, a un figlio degenere, Alessandro:
Suo figlio Alessandro Magno ha unito tutta l’ellenicità contro la Persia e ha fondato un immenso impero. Ma questo ha significato al contempo l’inizio della dissoluzione del nucleo razziale dei greci. La fusione culturale e razziale dei greci e degli asiatici ha portato a un’alterazione dell’ellenicità149.
Troviamo la stessa opposizione tra Filippo e Alessandro in un articolo di Schachermeyr dedicato alla figura del capo nell’Antichità greca150. Filippo il Macedone risuscita l’ideale del Führer nordico dopo un periodo di egualitarismo democratico dovuto alla decadenza razziale di Atene. Il re di Macedonia è riabilitato ed esaltato contro Demostene: Filippo è stato «un re-soldato della specie piú pura, sotto ogni aspetto l’autentico germoglio del popolo nordico dei macedoni»151.
Suo figlio, invece, per quanto dotato di un «potenziale personale al di là dell’umano», ha tradito il «Führerprinzip nordico», poiché si è «staccato dal suo popolo». Alessandro è diventato «il rappresentante del principio del dominio mondiale», che «è estraneo alla razza nordica e proviene innanzitutto dall’oriente asiatico»152. Alessandro ha tradito la sua razza che pure aveva combattuto l’Asia durante le guerre persiane. Le nozze di Susa, con le quali, nel 324, egli pretese di fondere le élite greche e persiane, vengono unanimemente condannate. La mescolanza dei ceppi di sangue è avvenuta, come sempre, a scapito della melior pars biologica. Un manuale di storia per la scuola secondaria nota con rammarico che «questa fusione è stata meno una ellenizzazione dei persiani che non una orientalizzazione dei greci»153.
Rosenberg, ne Il mito del XX secolo, propone una lettura piú sfumata dell’avventura alessandrina, e tenta di salvare questo eroe della razza. Egli sottolinea che il Macedone aspirava a far congiungere le élite persiana e greca, molto piú che i rispettivi popoli. Ora, la nobiltà dell’Impero persiano è di razza nordica. Il progetto alessandrino non è dunque tanto una ripugnante commistione quanto un mezzo per far ritornare le élite persiane alla loro origine:
Con Alessandro, un ideale razziale si è nuovamente imposto in una cultura tardo-greca che era diventata essenzialmente estetizzante […]. Alessandro non ha avuto necessariamente come progetto quello di creare una monarchia universale che mescolasse i popoli, ma voleva semplicemente riunire i greci e i persiani, di cui conosceva la parentela razziale, voleva radunarli in un solo impero, per prevenire guerre future154.
Come prova della sua buona fede razziale, Rosenberg sottolinea il fatto che «ha collocato nei posti-chiave dei capi macedoni o persiani, mentre i semiti, i babilonesi o i siriani erano intenzionalmente scartati»155. Alessandro fa inoltre inginocchiare gli asiatici del suo Impero, mentre, secondo una giusta e sana discriminazione, «si comporta con i suoi macedoni come se fossero ex camerati»156, e rinuncia ben presto, dopo alcune velleità orientaleggianti, a introdurre la proskynesis per i greci. Rosenberg aderisce tuttavia al bilancio globalmente negativo sulle condotte di Alessandro: non c’è stata posterità per il Reich alessandrino e il suo progetto mondiale di dominio di un’élite nordico-macedone, poiché gli «innesti culturali nordici non sono stati durevoli […]. Il sangue straniero che era stato piegato sotto il giogo alla fine ha preso il sopravvento, e l’epoca dell’ellenismo vano, spirituale e scialbo, poteva cominciare»157. Per il razziologo Ludwig Schemann, l’epoca alessandrina, che apre l’era ellenistica, è quella della «distruzione razziale»158, un’«epoca di epigoni e di bastardi meticci – bastardi di sangue come di cultura»159. Schachermeyr, in Gli indogermani e l’Oriente, descrive l’ellenismo come un’epoca di «fusione, di mescolanza della grecità e dell’Oriente»160, un «matrimonio (si dovrebbe dire un incrocio) tra Occidente e Oriente»161. A prima vista, si potrebbe credere che l’opera di conquista alessandrina abbia consentito l’iscrizione duratura della cultura greca in una oikoumene mondializzata, unita sotto la sferza dei diadochi e degli epigoni. Ma in realtà questa vittoria apparente della nordicità greca è stata soltanto un’illusione. Se, infatti, con l’ellenismo, il sangue nordico, greco e macedone, sembra governare il mondo, Taeger obietta che «il ceppo nordico era molto, troppo, esiguo»162: questa «ellenizzazione superficiale»163 era solo una «sottile pellicola»164 che serviva a mascherare la realtà dei nuovi rapporti di forza razziali. Sotto la superficie di un’ellenizzazione apparente, di un presunto dominio universale del sangue nordico, «sono all’opera le forze contrarie dei popoli e delle razze oppressi»165: i greci sono infatti entrati in contatto con i «focolai del sovvertimento semitico»166 di popolazioni orientali scaltre e maligne, che cominciano a infiltrarsi tra i ranghi greci in modo surrettizio: «Questi hanno disimparato la loro lingua materna e, se si fa eccezione per quello che non può essere acquisito, sono a malapena distinguibili dai greci»167. Questa mescolanza riunisce nello stesso guazzabuglio residui «di cultura nordica»168, ma anche, «dall’altro lato, segni di cultura germanico-occidentale-mediterranea, poi, piú tardi, di sovvertimento armenoide». Tutto quello che di buono è esistito in questa sventurata epoca di mescolanza razziale si deve alla forza creatrice del sangue nordico: «Forze nordiche si esprimono ancora nella scienza e nell’arte ellenistiche». Nella cultura ellenistica, tuttavia, è il sangue «germanico-occidentale-mediterraneo» ad avere la meglio, generando una «sofistica»169 e una «retorica» che partecipa piú dell’esprit, designato nel testo col termine francese, polemico e, in ultima istanza, peggiorativo, che non del pensiero, di essenza indogermanica, greca e tedesca170: «Resta a disposizione solo l’esprit, mentre il pensiero greco diventa sempre piú raro»171. Il giudizio razzial-culturale di Hans Günther, anch’esso inappellabile, si allinea a quello di Schachermeyr. L’ellenismo, colpevole snaturamento della Grecia nordica, non è di fatto che un’opera di epigoni: «La civiltà ellenistica imita sterilmente l’antica cultura greca, la distrugge o la rinnega»172.
In termini ancora piú severi, non c’è dubbio, per il razziologo, che «la cultura ellenistica e quella alessandrina siano le realizzazioni intellettuali di un’epoca denordificata e degenerata»173. Espressione di un meticciato colpevole di una nordicità esangue, questa cultura è solo l’espressione sublimata di una mutazione fisica molto concreta. La mescolanza dei ceppi di sangue ha comportato una deturpazione del bel tipo greco, i cui capelli diventano scuri174. La mutazione del fenotipo genera necessariamente un’alterazione dell’intelligenza greca, che perde la misura propria dello spirito apollineo nordico. L’influenza asiatica e semitica distoglie il greco degenerato dal mondo per volgerlo verso un aldilà fantasticato175, e verso un amore smodato per la cosa intellettuale e astratta:
L’elleno era diventato il graeculus dei romani, uno schiavo dello studio […], per il romano di essenza tradizionale, vale a dire nordica, una cosa ridicola, un’umiliazione dolorosa176.
La profezia dell’Apocalisse: le lezioni della morte delle civiltà antiche.
Il discorso escatologico nazista annuncia una lotta decisiva, e prevede, profeticamente, conseguenze abominevoli di una disfatta. L’escatologia diventa allora apocalittica: i nazisti profetizzano il caos in caso di disfatta della razza ariana.
Il monito di Rosenberg ne Il mito del XX secolo è chiaro, la disfatta dell’idea ariana farà sprofondare il mondo nel caos:
Se questa idea non trionfa in questa grande lotta, l’Occidente e il suo sangue spariranno cosí come, un tempo, l’India e la Grecia sono state inghiottite per sempre177.
La scomparsa di Atene e quella di Roma sono avvertimenti terrificanti:
Una vittoria di questa sotto-umanità avrebbe le stesse conseguenze che hanno avuto, in passato, le vittorie dell’Asia Minore su Atene e su Roma. Roma, fino ad allora nemico giurato della sirianità imbastardita di etruschi e pelasgi, è diventata il rappresentante di quelle forze, dopo che i valori tradizionali dell’antica Roma erano scomparsi178.
Nelle sue conversazioni private, Hitler sostiene questa idea con esempi tratti dalla storia antica:
Il destino di tutte le civiltà e di tutti gli Stati è stato quello di cedere all’assalto asiatico quando la loro forza biologica ha mostrato segni di debolezza. All’inizio, è stato cosí per i greci contro i persiani, poi è arrivata la guerra di Cartagine contro Roma […]. Oggi, assistiamo al piú terribile di questi assalti: la mobilitazione dell’Asia a opera del bolscevismo179.
Una sorte identica a quella di Roma minaccia il Reich e l’umanità nordico-germanica se non reagisce con lo stesso vigore contro la minaccia ebraica e la sua materializzazione immediata: lo scatenamento delle orde asiatiche sotto la sferza di Stalin.
Il discorso razzista del nazismo è apocalittico. È la rivelazione di una fine dei tempi, dell’imminenza della lotta finale, e profezia terribile di una devastazione e di un caos in caso di disfatta dell’ariano180. I nazisti ripetono che è suonata l’ora della lotta finale, che porterà alla decisione definitiva, annichilendo uno dei due combattenti, e lasciando che il vincitore trionfi in maniera assoluta. Incombe l’ultima battaglia, e questa lotta finale non può avere che un risultato: l’annientamento di uno dei due contendenti. L’ora dell’epilogo della gigantomachia razziale che oppone ariani ed ebrei è arrivata. Ne Il mito del XX secolo, Alfred Rosenberg avverte che «la scomparsa totale del sangue germanico in Europa […] significherebbe la fine dell’intera civiltà occidentale». Vi aggiunge la «terrificante convinzione che il momento della decisione finale è arrivato»181. In un discorso pronunciato nel 1935 davanti ai membri della Nordische Gesellschaft, egli contrappone frontalmente il principio razziale nordico e il giudeo-bolscevismo distruttore che minaccia di sovvertire il mondo. Questi due giganti affilano e preparano le loro armi per il combattimento decisivo, quella Schicksalskampf che Rosenberg vaticina:
Siamo oggi, nelle circostanze attuali, perfettamente consapevoli che è stata dichiarata una lotta decisiva, che impegna il nostro destino, la nostra sostanza e la nostra essenza, una lotta di ampiezza inaudita182.
Si tratterà di una lotta spietata:
L’idea nordica come rinascita di tutte le forze creatrici e il comunismo internazionale si fronteggiano ormai spiritualmente, in una lotta terribile e spietata183.
L’esortazione alla mobilitazione totale delle energie in vista della distruzione dei nemici della razza raggiunge il suo culmine nella proclamazione della guerra totale da parte di Goebbels, nel suo discorso del 18 febbraio 1943, allo Sportpalast di Berlino. Pronunciato in un contesto di crisi, sedici giorni dopo la resa del maresciallo Von Paulus a Stalingrado, questo discorso proclama la mobilitazione totale del popolo tedesco per sferrare l’ultima battaglia, quella che deciderà della sua vita o della sua morte. Questa lotta non comporterà né un vincitore né un vinto, come le altre guerre, ma lascerà solo «sterminati e sopravvissuti»184. Goebbels ripete che «Stalingrado è il grande segnale d’allarme del destino»185, che «l’ora incalza»186, che «è suonata l’ora»187 della gigantomachia finale.
Nel Mein Kampf, Hitler evoca l’immagine terrificante di un pianeta deserto, svuotato degli uomini, colpevoli di aver dimenticato le leggi della natura:
A questo punto qualcuno potrà anche sorridere, ma in verità il nostro pianeta ha percorso gli spazi eterei, deserto di uomini, per milioni di anni; e potrà rifarlo ancora, se gli uomini dimenticano che essi non devono la loro elevata esistenza all’idea di qualche pazzo ideologo, ma piuttosto alla conoscenza e all’applicazione spietata di ferree leggi naturali188.
Ispirato da una provvidenza naturale, il Führer vede e predice l’avvenire, e si compiace di adottare il registro profetico. Secondo J.-P. Stern, egli «si nasconde dietro la figura del profeta, trasformando cosí la finzione in un mito politico efficace»189. Ciò che non è altro che finzione acquista, grazie alla postura e al linguaggio profetici, statuto di mito, un mito che, ancor piú della sola finzione, diventa produttore di reale. La profezia piú celebre di Hitler si trova nel famoso discorso del 30 gennaio 1939, pronunciato per il sesto anniversario della Machtergreifung, in un contesto di tensioni internazionali crescenti:
Nel corso della mia vita, sono stato molto spesso profeta, e in generale sono stato deriso […]. Ma io suppongo che, dopo, gli schiamazzi di riso si siano soffocati nella gola della feccia ebraica tedesca. Ed ecco che, ancora oggi, profetizzerò: se la cricca ebraica della finanza internazionale dovesse ancora riuscire a trascinare le nazioni, in Europa come al di fuori, in una guerra, il risultato sarebbe non la bolscevizzazione del mondo e la vittoria della massa ebraica, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa190.
Il discorso razzista del nazismo abbonda di queste promesse di caos, di queste immagini di distruzione e di devastazione, che hanno la funzione di designare quello che, senza dubbio, attende l’umanità in caso di disfatta dell’ariano. Secondo l’esempio della caduta di Roma, che fece precipitare sull’Occidente la notte del Medioevo, la caduta del Reich lascerebbe solo caos e desolazione, come Hitler afferma in un discorso del 1942:
Il crollo del mondo antico ha generato un caos di mille anni sul nostro pianeta. Il crollo dell’Europa attuale comporterebbe forse da due a tremila anni di caos. Coloro che hanno visto a cosa assomiglia l’Est sanno cosa prenderà il posto dell’Europa attuale, per non parlare della nostra patria191.
Ancora peggio del caos, Hitler profetizza il niente: «Il crollo dell’Impero romano ha avuto come conseguenza un niente di svariati secoli»192. Questo niente è quello della notte medievale, una regressione culturale senza precedenti, che ha sprofondato l’Occidente nell’oscurità dell’ignoranza, del fanatismo e del terrore per dieci secoli. La chiara luminosità antica è stata spazzata via dal cristianesimo giudaico, vandalico e terrorista.
Il crollo del Reich avrebbe conseguenze ancora peggiori di quelle della caduta di Roma. Hitler le evoca nel contesto angosciante dell’arretramento della Wehrmacht a est, nell’inverno 1942:
Il cristianesimo è la piú grande regressione che l’umanità abbia conosciuto: il giudeo ha ricacciato indietro l’umanità di oltre millecinquecento anni. La vittoria del giudeo con il bolscevismo sarebbe ancora peggio. Se il bolscevismo s’imponesse, l’umanità disimparerebbe a ridere: si cadrebbe in una infelicità inaudita, una notte nera si abbatterebbe sul mondo193.
Per Hitler, la distruzione di Roma e il naufragio del mondo antico a causa del cristianesimo giudaico non è ancora nient’altro che una pallida e imperfetta prefigurazione di ciò che attende l’umanità in caso di vittoria del giudeo-bolscevismo. Il terrore bolscevico supera infatti per atrocità e violenza tutto quello che hanno fatto i giudeo-cristiani, quando hanno devastato il mondo dell’Antichità. Questa angoscia storica, questo insistente riferimento alla morte di Roma, è esattamente contemporaneo, nell’inverno 1942, all’allestimento della Soluzione finale, delle modalità amministrative e pratiche dello sterminio degli ebrei.
I messaggi di speranza sono, tutto sommato, poco numerosi. Spesso Hitler intravede la lotta razziale finale solamente sotto la luce molto cupa della disfatta e della devastazione. In definitiva, evoca solo molto di rado il caso contrario, quello della vittoria194, tranne che in un’occasione. In una conversazione a tavola del novembre 1941, nel momento in cui le avanguardie della Wehrmacht hanno invaso i quartieri di Mosca, Hitler, rassicurato, immagina una dilatazione territoriale rispetto all’Europa antica, un tempo ridotta alla sola Grecia, e che, in caso di vittoria, ormai plausibile, del Reich in Russia, coprirebbe un territorio gigantesco, anche superiore alla superficie dell’Impero romano:
Nell’Antichità, l’Europa era ridotta alla punta meridionale della penisola greca. In seguito era arrivata a includere l’insieme dell’Impero romano. Se in questa guerra la Russia soccombe, l’Europa si estenderà fino al limite della colonizzazione nordico-germanica all’est195.
Hitler si abbandona compiaciuto a queste evocazioni allucinate di una prossima fine del mondo. Vaticina la morte e la devastazione, immaginando una imminente distruzione della razza e del pianeta in caso di disfatta del Reich, accumulando oscure minacce e immagini crepuscolari. L’escatologia nazista evolve, nel corso del tempo, verso la promessa di un’apocalisse sterminatrice. L’Impero romano è stato travolto da una catastrofe razziale, suscitata dal complotto ebraico, che ha usato il cristianesimo per sollevare la feccia dell’umanità contro la razza dei signori romani. Il Reich sembra ineluttabilmente destinato a una sorte identica, e Hitler sembra sempre meno capace di immaginare un altro destino per il suo Impero che non sia la morte catastrofica di Roma. In una conversazione privata del 1942, Hitler accenna per celia alla sua mancanza di eredi: «Dopo tutto, per chi non ha eredi, è certamente meglio lasciarsi bruciare nell’incendio della propria casa, con tutti i propri beni, come su uno splendido rogo funebre»196, rogo di cremazione che mira a imitare quelli dei patrizi romani.
Conclusione.
Se ogni morte è uno scandalo inaccettabile e inaccessibile alla comprensione, quanto piú scandalosa è la morte delle civiltà scomparse. La morte lascia i sopravvissuti disorientati di fronte all’assurdo, la scomparsa delle culture antiche lascia la posterità nella derelizione stupefacente dell’assenza e della privazione di senso, appena attenuata dalla meditazione malinconica dell’aedo che cammina in mezzo alle rovine. Per una nuova Germania desiderosa di edificare un impero politico e di creare un canone razziale e culturale, la meditazione sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani e dei greci si impone pertanto con una necessità tanto piú pressante. Hitler afferma di pensare spesso «alle cause della scomparsa del mondo antico». Razziologi e storici sono anch’essi alle prese con questo interrogativo angoscioso, che dà luogo all’elaborazione di risposte, sotto la forma di una eziologia razziale della fine e della morte di un popolo. Se l’unica ricchezza è quella costituita dagli uomini, la prima causa della fine del mondo antico va cercata nella denatalità: i misfatti della contraccezione colpiscono già sia i greci che i romani. Al di là di questo malthusianesimo malato, che va combattuto con una vigorosa politica natalista dello Stato, lo spopolamento greco e romano è dovuto alle guerre incessanti condotte tra loro dalle élite nordiche del Mediterraneo: il dissanguamento provocato da queste guerre fratricide che hanno contrapposto spartani e ateniesi, greci e romani, ha creato una carenza di fluidi, un vuoto di uomini colmato purtroppo dall’arrivo di prigionieri e di schiavi orientali e semitici, venuti a infettare il miglior sangue nordico, o ciò che ne restava.
L’esempio romano offre un racconto magistrale e terrificante di denordificazione: l’emorragia di sangue nordico, ma anche l’abbandono delle terre coltivate a vantaggio della conquista, il distacco dalla terra di un antico popolo contadino, l’abbandono della piccola proprietà terriera coltivata dall’agricoltore-soldato a profitto di grandi latifondi capitalistici affollati di schiavi importati, tutto questo ha alterato il sangue romano e la sua espressione culturale, la tradizionale mentalità romana del mos maiorum e delle maschie virtú, soppiantata da un’ideologia individualista del lucro e del godimento immediato. La decadenza dei costumi e la degenerazione della razza possono essere lette nella successione delle dinastie imperiali: cosa c’è di comune tra Augusto, imperatore nordico, biondo con gli occhi blu, e l’oriental-semita Caracalla, affossatore dell’aristocrazia razziale nordica con il suo editto di cittadinanza del 212? In Tiberim defluxit Orontes, dice Giovenale: l’Oronte è arrivato a sfociare nel Tevere, l’Oriente vinto è vincitore dell’Occidente venuto a conquistarlo, per esservi in realtà sconfitto.
In Grecia, la contaminazione del sangue nordico a causa della mescolanza ha dato luogo all’avvento della democrazia, resa biologicamente e mentalmente possibile dalla commistione delle razze, dalla mescolanza tra l’inferiore e il superiore, che ha livellato ogni eccellenza e permesso di pensare l’eguaglianza in ciò che non era altro che indifferenziazione. Al V secolo democratico, denunciato da Platone, è subentrato il IV secolo alessandrino, primo impero mondiale che, in assenza di una mentalità segregazionista e razzialmente elitaria, ha favorito gli scambi e le mescolanze.
Si deve stare in guardia perché nulla di tutto ciò sia dimenticato nella Germania contemporanea. Le lezioni del passato costituiscono un avvertimento, che ha già dei costi: la negligenza, la mescolanza, le guerre fratricide, l’oblio dell’eccellenza del sangue nordico sono costati caro alla razza indogermanica, che ha visto morire la Grecia e Roma, le sue due piú belle realizzazioni prima della Germania nazionalsocialista. Si tratta allora di non ripetere gli stessi errori perché è evidente che, questa volta, alla razza non sarà offerta nessuna opportunità ulteriore. Il discorso nazionalsocialista blocca le vie d’uscita e nasconde i punti di fuga, profetizzando che, con il giudeo-bolscevismo, la guerra delle razze è entrata in una fase di affrontamento terminale e decisiva, il cui esito non può essere che l’annientamento o la vittoria totale. Con l’avvicinarsi della disfatta in seguito alla sconfitta di Stalingrado, si dovranno trarre tutte le conseguenze da questo discorso. Quando, il 1° settembre 1939, Hitler dichiara che non ci sarà mai piú un novembre 1918 nella storia tedesca, non vuole necessariamente dire che non ci sarà piú una sconfitta, ma che non si avrà piú una disfatta vergognosa, una disfatta incompiuta.