Lo sfondo ondeggiava: foglie, uccelli, un po’ di farfalle.
“Farfalle, che traballante bellezza,” pensò madame Lamarr. Pochi minuti prima aveva appeso, sulla bacheca nella sala da pranzo, l’immagine di un polmone rosa, un cuore rosso, un fegato color mattone. A ognuno dei presenti aveva chiesto quali parti di loro non funzionassero, le era sembrato simpatico esporre quell’avviso, come il triangolo sulle automobili quando appare un intoppo.
Per il signor Flood aveva appeso il disegno di un cervello grigio e lui, alle prime luci dell’alba, ne aveva incollato un altro, tutto azzurro. Per sé aveva riservato l’intero catalogo degli organi, le piaceva esagerare.
A madame Lamarr venne spontaneo posare le mani in grembo e mostrarsi dolcemente rassegnata. Un gesto che un tempo non le apparteneva. Le sue erano mani da gioielli, da sigari, nei momenti più duri anche da lettere feroci.
“Le mani non sanno trattenere il tempo, lo sguardo sì,” pensò.
Per quanto riguardava il tempo, assomigliava alla nonna più che alla madre. C’era un’usanza nella sua famiglia per cui una generazione viveva poco e la successiva molto: la nonna era stata un fuoco d’artificio e la mamma un lento fiume di pianura.
Emily si guardò le mani, bianche di farina.
Le sollevò, rivolgendole verso la luce della finestra. Avrebbe potuto staccarle, lasciarle tra le pentole e uscire nel prato, le mani avrebbero preparato il pane, rosolato la carne, brasato le verdure. E liberato il topo. Ecco cosa dovevano fare le sue mani, se la sua testa se ne fosse ricordata!
Corse alla dispensa, accese la luce e lanciò un’occhiata alla gabbia con il topo prigioniero. Lei non si era espressa né a favore né contro, ma lasciarlo in vita e recluderlo per chissà quanto tempo entro quell’universo di odori le sembrò un castigo eccessivo.
Si avvicinò alla gabbia, scrutando a lungo il suo ospite. Aprì la porticina. Poi liberò il topo. Che andasse.
Si sedette sulla panca e chiuse gli occhi. Si rivide nella sua merceria, specializzata in calzini e reggiseni. Poi nastri, stoffe, elastici e bottoni, ogni giorno la fila di donne che venivano a parlar bene e male dei parenti, dei propri vicini e a mostrare imperfezioni, sudori e irritazioni. Le era piaciuto vendere mutande e, ancor più, tutti quei reggiseni che teneva in grandi scatole, l’uno sopra l’altro, come calchi dentro altri calchi e le era sembrato di aver donato, con la sua mercanzia, qualche utile soluzione.
Purtroppo il grossista che le forniva gran parte della merce voleva lei e il suo negozio. Intendeva sposarla e dividere la sua vita con lei ad annusare ogni giorno dell’anno, anche negli anni bisestili e a Natale, il cotone, la lana e la seta. Voleva spiare le giovani mamme, le donne stagionate e le morbide adolescenti. Era un uomo violento, l’imponenza indicava già la sua protervia e poi le labbra secche, tagliate, il naso sgradevole. Si presentava al negozio in camicia, le maniche arrotolate, estate e inverno, le bretelle rosse o gialle, l’ordine già compilato, poiché si vantava di conoscerei bisogni dei clienti di lei.
Glielo aveva confessato: “Non mi lascerò scappare una bella donna come te e un posto così succoso come il tuo negozio.”
A nulla erano valsi i rifiuti espliciti e aveva anche cambiato fornitore, tanto che lo spasimante era giunto a menar le mani per riconquistare la sua posizione. Emily, dopo aver subito un invito a cena, aveva capito che non ci sarebbe stato scampo. L’uomo aveva mangiato e parlato, progetti futuri, e ancor più carne, pesce e formaggio, senza sosta. E vino. Le sembrò che avesse già in tasca il contratto per la sua tomba, la parcella del funerale, l’orazione da recitare alla messa funebre.
Emily aveva venduto sottocosto il negozio. Trattative notturne, alla luce di una debole lampadina, cartamoneta contata e ricontata, strappando qualcosa in più dopo aver mostrato il contenuto delle scatole di reggiseni. Poi era scappata lontano, cuoca in un albergo sulla cima di una collina, così se fosse apparso quel dannato camioncino straripante di maglie e canottiere con alla guida quel pazzo del grossista, avrebbe avuto il tempo per fuggirsene via.
Dell’uomo, invece, non seppe più nulla.
Aveva imparato a cucinare per davvero, e anzi si era appassionata a quel lento e meticoloso combinare la materia organica. Era diventata così brava da permettersi il lusso di cambiare luogo, paese, nazione.
Sino a tornarsene vicino a casa, perché, prima o poi, si torna, come il topo.
Emily vide, in lontananza, Greenway e il signor White discutere animatamente. Il signor White stava infilzando una foglia di menta e con le dita la spingeva lungo il filo, affiancandola alle altre.
“Non troppo vicine…” gli disse Greenway che stava compiendo la stessa operazione.
“Signor Greenway… ha mai pensato di uccidere un uomo?”
“Perché questa domanda?”
“Infilzando foglie vengono strani pensieri per la testa.”
“Cosa intende dire?”
“Ho fatto di tutto per conservarmi al meglio. Negli ultimi anni ho mangiato ogni santa mattina pane e marmellata fatta in casa. Non ho bevuto liquori oltre il lecito. Ho fatto ginnastica per ogni legamento e articolazione. Ho ingoiato, persino, acque magiche e benedette. E ho quasi perso la vista, lo stesso. E anche tutto il resto…”
“La vita non è mai comoda, signor White.”
“Quando me ne sono reso conto ho pensato che non sarei rimasto ai margini del mondo, non io, non Francis White dopo la vita che aveva vissuto. Non sarei finito in un ospizio ad annusare l’odore della mia merda, a pisciarmi nei pantaloni e a dormire impasticcato. Senza sogni, circondato dagli incubi. Mi sarei fatto esplodere qualche organo vitale piuttosto. Ma poi ho saputo di lei, di questa villa…”
“Già…”
“Lo conosce il mito di Icaro?”
Greenway annuì.
“Icaro non era certo un genio dal punto di vista dell’aerodinamica. Ma concediamogli che fosse davvero riuscito a volare. Se lo vede Icaro sfrecciare nel cielo?”
“Come un falco?”
“Esatto, come un falco! Tuttavia gli dei non gli perdonano di aver sfidato e vinto le leggi dell’aria e lo condannano a volare per tutta la sua esistenza, senza mai potersi posare a terra. Hai voluto le ali? Adesso le usi!”
“E che succede?”
“Succede che anche Icaro invecchia. I muscoli sono sempre meno efficienti, lo sforzo sempre maggiore. Deve passare gran parte del suo tempo appollaiato su un albero, come una vecchia e grassa cornacchia.”
“E come va a finire con questo Icaro?”
“Rimarrà appollaiato sempre più a lungo. Sino a quando deciderà di lanciarsi per un ultimo battito d’ali, per poi schiantarsi.”
Greenway rimase in silenzio.
White scoppiò a ridere.
“Però ci siamo divertiti a volare. Molto divertiti.”
Greenway osservò i fili con le foglie di menta messe a essiccare e pensò agli occhi del signor White. Quell’uomo era stato un abile pilota d’aerei, aveva collaudato prototipi avveniristici e nel più remoto passato aveva venduto la sua abilità a qualche esercito, nelle vicende in Medio Oriente era stato uno dei migliori. La vista non dovrebbe certo difettare, a un uomo simile.
Per quanto, e lo sapeva bene il signor Greenway, agli uomini vengano meno proprio gli organi che più hanno utilizzato o, parimenti, che più hanno amato. Anche l’amore è un modo per consumare il corpo.