11.

DUE BRETELLE ROSSE

A Imre era stato assegnato un ruolo fondamentale: dal marciapiedi dell’ospizio doveva avvisare con un fischio se fosse apparsa qualche macchina della polizia. Ebony se ne stava all’entrata, pronto a mandare un segnale visivo a Peter che, assieme a Saul, piantonava l’accettazione dove Red aveva appena salutato con la consueta cortesia e annunciato la visita al signor Cricket. Peter e Saul lo videro rimpicciolire velocemente lungo il corridoio.

Erano pronti da due giorni. Avevano preparato con cura gli zaini per quello che si annunciava come un viaggio, corto o lungo nessuno lo sapeva.

Daisy aveva lasciato a sua madre un bel mazzo di fiori sul tavolo, in un piccolo vaso di ceramica. E la torta al cioccolato, il cui profumo riempiva l’appartamento e scivolando sotto la porta impregnava persino le scale, come un benvenuto irresistibile. Daisy aveva aperto un cassetto del comodino nella camera da letto di sua madre. La scatola nera, ricamata di piccole perline rosa a formare un fiore, forse una camelia, era chiusa con un lucchetto dorato, bloccato da un combinazione numerica. L’aveva dettata lei a sua madre e quindi era stato facile aprire la scatola, prendere un po’ di sterline e infilarle nella tasca dello zaino, accanto al quaderno in cui avrebbe annotato ogni dettaglio della villa. Si era guardata allo specchio per trovare un cappello adatto, le corte trecce spuntavano dalle tese come due virgole.

“Perfetta,” si disse.

“Vado al Senior Hotel, a vedere se ti merita,” aveva lasciato scritto.

Imre aveva accarezzato il muro della sua camera da letto, i poster alle pareti, la spada di legno che faceva di lui un samurai e con la quale aveva reciso, per molte notti, la trama di incubi che scendevano dal soffitto.

Sul tavolo della cucina aveva lasciato un biglietto: “Ciao, gentile sorella.”

Poi la porta dell’appartamento si era richiusa senza rumore, era il comfort che apprezzava di più, e aveva accarezzato anche tutte le pareti del corridoio.

“Partenza!” si era detto e, allo stesso tempo, gli era balenata l’idea che un viaggio fosse l’occasione giusta per trovare il suo vero nome. Imre sarebbe diventato qualcos’altro.

Quando si era trovato in strada, guardando le finestre del suo appartamento aveva provato un senso di sollievo.

Peter si era lavato con cura. Aveva spazzolato i denti più e più volte, prevedeva per un po’ di tempo di non poter badare alla propria igiene come si conviene. Aveva messo nello zaino due saponi, un flacone nuovo di shampoo, un tubetto di dentifricio e un deodorante alla lavanda.

Prima di scendere, si era ricordato di portare con sé un purgante, suo padre sosteneva che un intestino pigro rende la pelle insalubre, e chissà lui cosa avrebbe mangiato nel prossimo futuro.

Non peggio di quello che avrebbe mangiato alle Azzorre, se suo padre insisteva con l’idea di andare ad aprirci un pub.

Alle Azzorre mangiano solo bacalhau, che per i brufoli non è il massimo.

La madre di Red aveva letto con cura la comunicazione del Registro delle dimore storiche e aveva annuito soddisfatta. Qualche giorno di libertà.

“Hai davvero fatto il test Oxford-Dylan? Che punteggio hai avuto?”

“Nove su dieci.”

“Vai con quegli altri mocciosi?” aveva chiesto la madre.

“Sì.”

“Come mai vi hanno selezionato tutti assieme?”

“Be’, la madre di Daisy conosce qualcuno del Registro delle dimore storiche. Ha messo una buona parola,” mentì Red.

“Quindi viene anche la rossetta?”

“Sì.”

“Stai attento.”

“Perché?”

“Perché te lo dico io.”

Ebony aveva infilato nello zaino solo un pacco di fazzoletti, un pigiama, la mappa e la pistola di nonno Pesce Gatto. L’aveva accarezzata a lungo, le aveva parlato con affetto.

A casa aveva salutato il padre, immerso nei suoi calcoli fatti di ferro e cemento, gli occhiali sulla testa, lo sguardo lontano che seguiva i profili di ponti arditi e tunnel ferroviari.

“Allora vado in vacanza,” disse Ebony.

“Ah, sì? E dove? “aveva chiesto il padre.

“Stava scritto nella lettera che vi ho fatto vedere.”

“Torni per cena?”

“Credo di sì,” rispose Ebony e davvero non sapeva cosa l’aspettava.

Saul aveva infilato nello zaino biscotti, barrette di cioccolato e una manciata di cerotti, quelli grandi e spessi, ottimi per i piedi. Immaginava di dover camminare molto, “non sarà una passeggiata,” si disse, “sarà un massacro”, e le sue scarpe da ginnastica erano ancora nuove. Prevedeva delle belle vesciche. Prevedeva anche di divertirsi, con Red ci si divertiva sempre.

Come Imre si sentiva sollevato. Nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, pensava.

I suoi non avevano nemmeno letto la lettera che aveva mostrato loro:

Gentile famiglia,

vostro figlio è stato selezionato, assieme ad altri ragazzi, per un percorso di visita a una famosa villa, nella contea di Cumber.

La selezione, operata mediante il test Oxford-Dylan, ha evidenziato in vostro figlio spiccate capacità di osservazione, una decisa sensibilità artistica unita a doti di elaborazione non comuni.

Si tratta di un’ottima opportunità, completamente gratuita, per poter conoscere un importante edificio monumentale, un rilevante patrimonio arboreo e floreale, il tutto usufruendo di una guida di adeguata competenza e professionalità. La visita è stata progettata per la data del 30 giugno e prevede la permanenza in villa anche per i due giorni successivi.

Certi della vostra disponibilità vi porgiamo, a nome del Registro delle dimore storiche, distinti saluti.

Mrs Mary Peabody

Il signor Cricket se ne stava al centro della sala di lettura, visibilmente agitato. Indossava un maglione blu, dal quale sbucava il colletto di una camicia bianca, e sopra il maglione due vistose bretelle rosse.

Oscillava, come spinto dal vento, e quando intravvide Red levò in alto un braccio, guardandosi poi attorno con circospezione.

“Sono passate dozzine di tibetani. Dobbiamo sbrigarci,” disse a Red.

“D’accordo, signor Cricket. Però, davanti all’accettazione dovremo separarci. Non possono vederci assieme. Io passo per primo e poi lei. D’accordo?”

Il signor Cricket annuì.

I due si guardarono negli occhi.

“Andiamo,” disse Red.

Saul e Peter videro la coppia avanzare nel corridoio. Peter lanciò uno sguardo a Ebony che fece un cenno di assenso. Tutto tranquillo. Anche Peter, con un dito, indicò a Red il cielo.

“Perfetto,” pensò Red accelerando quel che bastava per guadagnare qualche metro sul signor Cricket.

I ragazzi uscirono, fermandosi davanti all’entrata. Imre vigilava su eventuali transiti della polizia.

Il signor Cricket, superata l’accettazione, sentì un’inaspettata rigidità agli arti. I suoi passi non si staccavano da quel dannato linoleum, vecchie molecole sintetiche allungavano le loro dita crudeli per tenerlo lì, in quel dannato posto, lì a fare i conti con i passati di verdura, con le pasticche e notti più buie della morte. Una sorta di urlo sembrò salirgli dal cuore, dalle stanze più remote della sua dissolta giovinezza.

Fu Saul ad accorgersi che qualcosa non stava funzionando.

“Il signor Cricket non ce la fa!” bisbigliò a Peter e lanciandosi attraverso l’entrata caricò il signor Cricket sulle spalle scappando poi a gambe levate.

Sulla sua scia s’erano lanciati Peter, Red e poi Ebony. Imre si stropicciò gli occhi: impossibile! Saul che correva con qualcosa sulle spalle, qualcosa che urlava come un ossesso “Dannati tibetani!” e alzava le braccia al cielo, qualcosa con addosso due bretelle più rosse di un incendio.

“Sbrigatevi, che sta arrivando l’autobus!” urlò dall’altro lato della strada Daisy.