Circondavano come una barriera il signor Cricket, seduto in fondo all’autobus, ed erano tutti euforici. Imre rideva, e anche Saul.
Il vecchio entomologo aveva indicato la stazione dei pullman come prossimo obiettivo, da lì si usciva dalla città.
Parevano un’allegra comitiva che s’apprestava a passare una giornata in campagna e Cricket davvero una guida esperta e capace di incantare. Come un veliero che avesse rimosso l’ormeggio, l’eloquio dell’entomologo saltellava tra i ricordi delle foreste ecuadoregne e la Magicicada septendecim, la famigerata cicala che esce dalla terra ogni diciassette anni, un miracolo, una stranezza, e dalla cicala alle supposte contro la febbre, alle quali preferiva le gocce, sino ad arrivare al signor Greenway, perché, disse fissando Red, aveva insegnato a un certo Greenway, molti anni prima, come allevare farfalle, come nutrirle e come seguirne lo sviluppo.
“Per arrivare alla villa di Greenway dobbiamo andare a prendere il traghetto a Glamorgan,” disse a un certo punto il signor Cricket.
Daisy sentì un tuffo al cuore. Glamorgan! Il suo intuito non l’aveva ingannata. Stavano andando davvero al Senior Hotel, la cassaforte delle farfalle e la reggia per sua madre, per la dolce balena.
Red appariva soddisfatto. Tutto aveva funzionato alla perfezione. Il Gruppo gli sembrava compatto, la meta favolosa, il sole decisamente brillante, persino il vecchio autobus, nonostante i sedili scalcagnati, pareva lanciato verso il futuro. E ascoltare Cricket era sempre un piacere. Ne vedeva l’effetto anche sugli altri. Bevevano le sue parole.
Si prepararono a scendere, la grande stazione dei pullman li stava accogliendo con le file dei viaggiatori e i facchini che correvano di qua e di là senza sosta.
Si misero in un angolo per fare il punto della situazione, Daisy aveva un’idea del prezzo del biglietto ed estrasse una banconota ma gli altri non avevano considerato la faccenda e avevano pochi spiccioli, mezzo biglietto in cinque.
“Nemmeno tu, Imre?! Nessuno ha immaginato che non ti fanno salire su questi accidenti di pullman se non allunghi un biglietto?” La delusione sul volto di Daisy si mescolava a una cupa rabbia.
“Rimedieremo i soldi,” disse Red con decisione.
“Ah sì? E quando?” chiese Daisy provocandolo.
“Subito!” rispose seccamente Red.
“E come?” insistette Daisy.
Vide Red lanciare uno sguardo inequivocabile alle vecchiette che si dirigevano verso la biglietteria.
“Siete impazziti?”
Daisy si allontanò di qualche passo, li colse, tutti, con lo sguardo: erano smarriti.
Infilò una mano nello zaino ed estrasse, lentamente, un rotolo di banconote. Il prestito della madre, peccato non averglielo chiesto. Daisy comperò i biglietti per tutti. Mentre li distribuiva, si ricordò di aver letto di una regina che aveva finanziato un viaggio, un’avventura per scoprire un mondo nuovo oltre l’oceano.
Una regina.
Di tanto tempo prima.
Occuparono gli ultimi posti del pullman. Il signor Cricket continuava a sembrare euforico, incespicò durante la salita, prontamente sostenuto da Saul.
L’autista si mise al posto di guida, sistemò alcune leve, osservò dallo specchietto i viaggiatori e poi accese il motore e, subito, il signor Cricket cambiò espressione. Si allontanavano dalla stazione, tutto sfrecciava, le strade s’incrociavano, si sfioravano, si separavano. I ragazzi si abbandonavano al viaggio, alcuni poggiavano il capo sul vetro del finestrino, quasi a cercare una sorta di intimità con la macchina che li conteneva.
Cricket ebbe un singhiozzo. Gli saliva il vomito. Provò vergogna, che esorcizzò pensando di lanciarsi nelle sue migliori stramberie e gli venne da parlare della sua gioventù, della sua avventura in Ecuador accanto al professor Tinto, il grande botanico, catapultato nel progetto di salvare una foresta con i grandi alberi immersi nelle nuvole, foresta nublada la chiamavano.
I ragazzi si strinsero attorno a lui.
Che magia, la foresta nublada, e ai ragazzi pareva di vedere, tra le parole del signor Cricket, alberi immensi, felci frastagliate, vapori che salivano e scendevano nascondendo percorsi di corde tirate tra tronchi maestosi, sentieri sospesi tanto insicuri quanto stordenti che conducevano dentro i segreti del mondo, tra i suoi silenziosi linguaggi: tutti esploratori, tutti pirati, tutti invisibili, tutti sognatori. I ragazzi si sentirono come l’armata di biologi, matematici e studenti, l’accozzaglia di cuori che, per quattro anni, aveva vissuto in un oceano di nuvole aggrappate ai grandi alberi.
“Se salvi le foreste salvi gli uomini, ma le foreste e gli uomini non si salvano se non si comprendono gli insetti: la loro antica esperienza…” provò a dire pomposamente Cricket.
Il pullman prese a rallentare.
“… la loro apparente semplicità,” concluse a fatica l’uomo.
L’autista segnalò l’avvicinarsi di una fermata.
Il signor Cricket balzò in piedi, avvicinandosi all’uscita.
Sentiva ancora nausea e nella mente apparivano e scomparivano il grande salone dell’ospizio, il pavimento pulito, le pareti immobili, le vetrate che si illuminavano al tramonto, la noia, ma anche la tranquillità; pensò che l’avevano tenuto così tanto prigioniero che temeva la libertà, che non ricordava più cosa fosse; pensò che si era arreso da tempo e che tutta la sua residua immaginazione l’aveva consumata con quei ragazzi, in quegli ultimi chilometri di viaggio.
I ragazzi non colsero le intenzioni del signor Cricket, solo Red lo seguì con una certa apprensione.
Si spalancò la porta dell’uscita e il signor Cricket, traballante, scese. Red provò ad afferrarlo, ma l’altro si divincolò.
“Non sono pronto! Per andare in quella villa bisogna essere disposti a volare via. Ragazzo, se tornerai all’ospizio, portami la cioccolata,” gli bisbigliò.
Red non capiva.
“Andate da Greenway! Greenway ha un farfallario!” urlò mentre il pullman ripartiva.
“Il signor Cricket è sceso…” disse Imre incredulo.
“Ci ha abbandonati” urlò Ebony.
“Che si fa?” dissero all’unisono Saul e Peter. Tutti guardavano Red e Daisy.
“Si va avanti,” disse la ragazza.
Imre, dal finestrino, prese a salutare il signor Cricket, costringendo gli altri a voltarsi e a imitarlo.
Anche Cricket alzò una mano, immobile sul bordo della strada, le due bretelle rosse, rosse come due arterie di sangue vivo.