L’assenza del signor Cricket provocò scompiglio nel Gruppo, soprattutto in Red. Provò a rincuorare tutti dicendo che non cambiava nulla, le indicazioni c’erano e si andava avanti.
Daisy riconobbe il paesaggio, stavano attraversando il tratto che più le piaceva, ampie distese di campi ricamati da file di alberi. Quei campi, la prima volta che era venuta, le erano sembrati finestre pronte ad aprirsi su altri mondi. Aveva dovuto recarsi a controllare se la villa… Perché le pubblicità ingannano sempre. Quasi sempre. La villa le era sembrata il più bel posto del mondo.
Il pullman si fermò nel piazzale del traghetto per le isole.
Un camion sbuffava mentre scaricavano casse di pesce da un’imbarcazione appena attraccata. Alcuni motociclisti sostavano in paziente attesa della prossima partenza. La biglietteria, bianca e scrostata, con le vetrate ricoperte da stemmi, orari e pubblicità, pareva ondeggiare ai limiti dell’imbarcadero.
“Il prossimo traghetto partirà tra un’ora,” aveva detto Daisy che era andata a comperare i biglietti, “e poi ci vorrà un’altra ora per raggiungere l’isola.”
“Qualcuno soffre il mal di mare?”
Nessuno lo sapeva, nessuno era mai stato sopra un’imbarcazione e tutto quello che conoscevano del mare erano le scene nei film, le onde, i transatlantici, ma sdraiati sul divano davanti alla televisione.
Imre si era seduto sul bordo della banchina e prese a fissare l’acqua profonda e cupa, pesci neri e gonfi abbandonavano i fondali e venivano a spiare appena sotto la superficie. Imre aveva raccolto una manciata di frammenti di roccia e li lasciava cadere, come mangime, con la speranza di attrarre quelle creature che apparivano e subito si annidavano lungo le pareti della banchina.
Alcuni lampi accesero il cielo, e subito arrivò il boato dei tuoni.
“Sarà una traversata ballerina?” sentirono dire da altri passeggeri in attesa come loro.
I sei ragazzi erano gli unici a mostrare una qualche preoccupazione sottocoperta, gli altri viaggiatori erano abituati alle burrasche e c’era chi leggeva, chi dormicchiava o chiacchierava tranquillamente. Due giovanotti bevevano birra in continuazione.
Imre era sgattaiolato sino alla porta che conduceva in coperta, spiava dal vetro e vedeva una certa agitazione nella cabina del comandante, c’erano anche due marinai ed erano tutti impegnati in una vivace discussione.
Fuori, potenti scrosci lavavano la tolda e, per un istante, la porta si era spalancata mostrando l’affanno del comandante e un piccolo gatto spaventato era schizzato dalla cabina, correndo a balzi sulle assi di legno. Un marinaio, colando acqua dalla testa ai piedi, aveva rassicurato i passeggeri che la situazione era sotto controllo.
A Imre il marinaio sembrò uno spettro liquido che veniva a reclamare le loro vite.
“Torniamo a casa?” sembrò supplicare rivolgendosi a Daisy.
Erano tesi, un poco spaventati. Le cose si complicavano e, forse, le difficoltà erano appena iniziate. Red lo intuì e anche Daisy.
“Perché sei venuto, Imre? Il motivo vero,” chiese Daisy.
“Perché io non tradisco il Gruppo,” rispose.
“E tu Ebony?” chiese Red.
“Perché nonno Pesce Gatto sarebbe felice di questa avventura.”
“Io sto con te, perché sei il capo,” disse Saul.
“E tu Peter?”
“Dillo prima tu, Red. Dillo tu perché siamo qui.”
“Perché succede che bisogna rischiare.”
“Ma riusciremo a combinare qualcosa?”
“Peter, se rimaniamo uniti sì,” Red lo disse alzandosi in piedi, resistendo al rollio dello scafo, e sembrava davvero un capo.
Erano giunti sull’isola nel pomeriggio e all’imbarcadero Daisy comperò i biglietti del pullman.
“Per dove?” le chiesero.
“Senior Hotel,” bisbigliò con un po’ di imbarazzo.
“Come mai vai al Senior Hotel, ragazzina?” chiese il bigliettaio e tutti quelli del Gruppo, che si erano avvicinati, strabuzzarono gli occhi.
“Vado a trovare il nonno,” rispose prontamente Daisy, poi fissò Red, sfidandolo.
“C’è un unico pullman che parte fra mezz’ora e va e viene, senza sosta, perché noi dell’isola amiamo andare dal porto all’altra parte, dall’altra parte al porto, tutto il santo giorno.”
“Non sono molto gentili,” disse Daisy, mentre veniva circondata dagli altri che chiedevano spiegazioni.
“Che significa Senior Hotel?” chiese per primo Peter.
“Qui chiamano così la villa,” tergiversò Daisy.
“Ma che stupidaggine è? Red, che succede?”
Daisy si parò di fronte a Peter, a un soffio dal suo viso.
“È il posto giusto,” disse.
Lo provocava e Peter arretrò. Poi Daisy si voltò verso Red.
“Ho vinto la scommessa! Te lo dicevo che sono la stessa cosa!”
Red abbassò la testa.
“Chi ci abita?” chiese Saul.
“Ci vivono dei vecchi.”
“E come fai a saperlo?”
“Saul! Hai dimenticato gli afidi e il bruco? Li ho presi io, non è stato Imre. Sono stata proprio qui, in questa villa!”
“Bugiarda! Vuoi scassare il Gruppo!” le urlarono Ebony, Peter e Saul, avvicinandosi a lei con fare aggressivo.
Red li fronteggiò.
“Fermi! Se anche la villa che ci ha indicato il signor Cricket fosse davvero questo Senior Hotel che dice Daisy, adesso siamo qui, e dobbiamo entrare.”
“E come facciamo a entrare in un posto già abitato da altri?” Saul scuoteva la testa.
“Forse basterà chiedere, essere cortesi e sorridere…” suggerì Imre.
“Ma che stronzate!” urlò Peter.
“Red, ma dove ci hai portati?” rincarò Saul.
“Distruggiamo davvero il Gruppo così!” Imre ci mise tutta la forza di convincimento che possedeva.
Le parole di Imre non caddero nel vuoto, tutti sapevano perfettamente cosa li avesse uniti, quante volte qualcuno aveva chiesto l’aiuto del Gruppo e l’aveva ottenuto. Come con il padre di Saul, che tornava a casa ubriaco e sfasciava tutto ciò che trovava, il Gruppo se n’era fatto carico e tutti assieme, una sera, l’avevano acciuffato in un vicolo, immobilizzato e poi riempito di colla per carta da parati procurata loro dallo stesso Saul. L’uomo era tornato a casa trascinando una scia di rifiuti, sacchetti e scatole, sassi e fili che s’erano appiccicati agli indumenti. Da allora era cambiato, vomitava quando si nominava un alcolico e non aveva più avuto la forza di rompere nemmeno una tazza da tè.
“Calma, facciamo il punto della situazione,” disse Daisy.
Li guardò tutti, uno a uno, anche Red, e trovò nei suoi occhi l’approvazione.
Si rintanarono in una bettola poco distante, entrando in fila indiana e occupando il tavolo più appartato. Un tuffo di delfini dipinto alle loro spalle. Ordinarono dell’acqua gassata.
La cameriera non sopportava i ragazzini, ma questi stavano composti e confabulavano sottovoce, anche se scrutavano famelicamente le ciotole con le arachidi e il mais tostato.
“Ne volete?” chiese.
“Se fosse possibile…” rispose Red a nome di tutti. Pensavano di dover risparmiare le riserve di cibo ma una fame bieca li attanagliava.
“C’è un piano?” chiese Peter, con una manciata di mais nella mano.
“Quello che dobbiamo metterci nella zucca è: non c’è niente d’impossibile.”
Rimasero per qualche istante a riflettere sulla frase di Daisy, così rassicurante.
Red inspirò e si soffermò a osservare i voluminosi zaini appoggiati a terra.
“Se la villa è abitata e ci vedono con zaini stracolmi, penseranno che li stiamo invadendo!”
“Che vuoi dire?” chiese Saul che non aveva capito.
“Che dobbiamo alleggerire gli zaini, altrimenti sembrerà che ci eravamo preparati per questa avventura. Che arriviamo con qualche progetto.”
Lo guardarono perplessi.
“Fidatevi! Se vogliamo avere qualche possibilità di non essere cacciati subito dovrà sembrare che siamo arrivati lì per caso.”
“Ma tu non puoi dire a quel tal signor Greenway che ci manda il signor Cricket?” chiese Saul.
“A fare che?” rispose Red.
“Già, quel tal signor Greenway troverebbe strano che un vecchio balordo mandi noi ragazzi a fare chissà che. No, Cricket è meglio non nominarlo,” disse Peter.
Red annuì. Una volta fuori, li guidò sino a un angolo appartato, dietro a una grossa quercia, ai lati della strada. Ordinò che alleggerissero lo zaino e tenessero solo le cose essenziali. Ciabatte, pigiami, shampoo, creme antibrufoli, purghe, cinture ninja, lampade per leggere a letto, tutto venne lasciato a lato del tronco di quercia.
“Ebony, cosa hai tenuto?” chiese Red.
Ebony sussultò, stringendo al petto lo zaino.
“Tranquillo Red, io non avevo quasi niente. Solo un pigiama e i fazzoletti.”
“E tu Saul?”
“Mutande, biscotti, maglietta con le stelle…”
Peter vide il pullman che stava arrivando e il Gruppo si precipitò. L’autista li scaricò davanti alla villa. Scesero in fila indiana, silenziosi.
Eccola. Si trovarono di fronte un cancello imponente di ferro brunito, la tessitura metallica con fiori e aironi immobili in un eterno volo e, dietro, la sagoma dell’edificio, un veliero per oceani di terra. Ciascuno di loro l’aveva immaginata, eppure non corrispondeva ad alcuna delle loro fantasie e un’onda di emozioni li colpì.
“Esiste! Eccome se esiste…” esclamò alla fine Red, puntando il dito, quasi potesse toccarla.
Imre infilò il capo tra le inferriate del cancello e Daisy ne afferrò una saldamente, quasi a temere che una raffica di vento la potesse sollevare e disperdere lontano.
“Un bel problema…” sussurrò Peter indicando la consistenza metallica del cancello e anche l’altezza del muro di cinta che appariva invalicabile.
Saul dondolava ipnotizzato:
“Io non ci passo…”
“Invece entreremo subito,” e così dicendo Red pigiò il campanello.
“Stendetevi a terra – abbiamo tutti un gran mal di pancia – e lasciate parlare me…” aggiunse.
Adesso era tornato a sentirsi il Red di sempre.
Di lì a pochi minuti giunse un giovane che rimase visibilmente sorpreso nel vedere, falcidiati, dei ragazzini che si tenevano la pancia.
“Abbiamo mangiato qualcosa… alla taverna, giù al porto… ci aiuti, la prego…”
Il giovane esitò un poco, poi fece scorrere il catenaccio, dopo aver aperto il lucchetto che lo imbrigliava, e afferrò per le braccia quello che, steso a terra, gli sembrò il più sofferente.
“Seguitemi,” disse e, sostenendo Peter, s’incamminò lungo il viale. Cavallette brune e verdi, saltellando, tagliarono la strada al gruppo.
Un clacson suonò ripetutamente dalla strada. Melchiorre si voltò e vide, presso il cancello, un taxi. Una donna scese dall’automobile e lui pensò, lì per lì, che potesse essere una parente dei ragazzi, magari avvisata del malanno.
Depose con delicatezza il ragazzo e corse sino all’entrata dove la donna lo informò che nell’automobile c’era un ospite.
“Il signor Syd?” chiese Melchiorre emozionato.
“Non è il caso che ci faccia entrare?” rispose la donna, infastidita.
Melchiorre spalancò il cancello e il taxi, dondolando lentamente, s’inoltrò per il viale, superò il gruppo di ragazzini e andò a fermarsi nel piazzale, ai piedi della scalinata dell’edificio.
Melchiorre avrebbe voluto dedicarsi all’ospite nell’automobile ma i ragazzi esigevano delle cure, pensò che poteva momentaneamente sistemarli sulle panchine del prato e mentre li accompagnava vide la donna fare vistosi cenni come se stesse succedendo qualcosa e, travolto dall’agitazione, rimase impalato a osservare la Villa, sperando che qualcuno uscisse ad aiutarlo.
Greenway, dall’abbaino della sua camera, vide l’automobile ferma davanti alla scalinata e sul prato una sorta di nuvola colorata. Si stropicciò gli occhi. Parevano dei ragazzi. Ebbe un moto di smarrimento, una visione inaspettata. Scese le scale a perdifiato.
“Che succede? Chi vi ha fatti entrare?”
“Stiamo male…” risposero in coro.
Melchiorre allargò le braccia, come a dire che non aveva potuto farne a meno.
Greenway scosse il capo contrariato, ma l’istinto del medico lo spinse a prestare aiuto.
“Forza, forza! Alzate le braccia al cielo e respirate lentamente,” disse.
“Sissignore!” dissero in coro Ebony, Saul e Peter.
I cinque muovevano a fatica le braccia, inspirando come delle fisarmoniche scassate.
Greenway non vide né pallori né sudori, la respirazione non era ostacolata e gli occhi erano brillanti, pertanto li invitò ad accomodarsi nella veranda.
“La signora Emily vi porterà una bevanda calda che vi rimetterà in sesto. Nel frattempo, ditemi cos’è successo,” e fece un cenno a Melchiorre che si dirigesse in cucina.
Red provò a raccontare come all’osteria avessero mangiato del cibo avariato e si fossero sentiti male sul pullman, per tal motivo erano dovuti scendere e avevano chiesto aiuto.
“Quell’osteria non la raccomanderei nemmeno al primo ministro! Il cuoco è un soggetto distratto. E, ditemi, dove eravate diretti?”
“Volevamo visitare l’isola…”
“Davvero? Non è poi così interessante. S’arresta poche miglia più avanti, qualche fattoria e poi terre incolte. Comunque, non è un po’ tardi per una gita?”
“C’è stata una tempesta e il traghetto ha tardato.”
Emily giunse con un bollitore fumante e Melchiorre con un servizio di tazze. Prepararono una bevanda calda che Melchiorre offrì ai ragazzi.
“Chi vi accompagna?” chiese Emily.
“Nessuno, signora. Siamo venuti da soli.”
“E tu come ti chiami?”
“Red Wolf, signora…”
“Sei il capo?” chiese Greenway.
“Nossignore. Non c’è bisogno di un capo per una semplice gita, signore.”
“Giusto. Io direi, Emily, che questi giovanotti possano riposare per un po’ qui sulla veranda o nello studio. Andiamo ad accogliere il signor Syd,” disse infine.
Dall’automobile era scesa un’altra donna, l’aria severa e preoccupata. Si capiva che doveva essere un’infermiera, aveva con sé un voluminoso faldone che consegnò al signor Greenway. Poi aprì la portiera e offrì la mano al passeggero. Un guanto nero la afferrò e subito comparve un piede che tastò il terreno e poi un volto decrepito e dolente.
“Il signor Syd?” chiese Greenway.
“In tutto il suo splendore,” disse una voce sorprendentemente giovane.
Greenway si offrì di accompagnarlo sino all’alloggio e l’uomo, quasi scusandosi, si accomiatò dalle infermiere, mentre Melchiorre scaricava i voluminosi bagagli.
“Più tardi la presenterò agli altri ospiti.”
“Ci proverò, signor Greenway. Il viaggio è stato impegnativo.”
“Qui starà meglio, vedrà.”
“Ne sono certo.”
L’uomo volle affrontare la scalinata da solo. Alle sue spalle, Melchiorre temeva che a ogni passo si rompesse e, incapace di trattenersi, chiese a Greenway quali malanni affliggessero il nuovo ospite.
“Una forma d’invecchiamento precoce,” sospirò Greenway, e il termine sibilò minaccioso.
“Signor Greenway,” chiese Syd giunto sul pianerottolo, “s’è ricordato di procurarmi la carta di riso?”
“D’ogni colore.”
“Avete visto le cavallette? Meglio delle molle a rimbalzo,” disse Saul, “accidenti, cavallette, appena entrati.”
“Non è male…” sorrise Daisy.
“Bisognerà stare attenti,” bisbigliò Red, continuando a massaggiarsi la pancia, convinto che li spiassero.
“Dovremo guarire, prima o poi…” pensò a voce alta Ebony.
“Lentamente,” aggiunse Daisy, che fingendo di barcollare attraversò la veranda, appoggiandosi al ballatoio.
Emily era tornata alle cucine, impensierita. Aveva somministrato un infuso di finocchio e anice stellato, un poco addolcito, e si chiedeva se sarebbe bastato nel caso di un’intossicazione seria. Mescolava dei sughi quando si sentì osservata e, voltatasi, vide la ragazzina sulla porta.
“Vuoi ancora dell’infuso? A proposito, come ti chiami, piccola?”
“Daisy, signora. La ringrazio, per la bevanda, credo abbia fatto effetto. Anche se…”
“Se…?”
“Mi gira la testa. Sento il pavimento che…” e Daisy piombò a terra di botto.
“San Giacomo! Aiuto!”
Emily cercò di sollevare la ragazzina e poi la trascinò verso le sedie, accanto al tavolo. Sperava di metterla a sedere ma quel corpicino sembrava di piombo e allora le bagnò le labbra e la fronte, inutilmente.
“Una ragazza? Che succede?” chiese madame Lamarr affacciatasi alla porta, di ritorno dagli orti.
“Dopo le spiego! È caduta come un chicco di grandine.”
“Emily, avrà dell’ammoniaca, vero?”
“Quella per pulire la griglia!”
Madame Lamarr si fece dare la bottiglietta e la passò sotto il naso della ragazzina. Daisy aprì gli occhi, attraversata da una scossa elettrica.
“Odio l’ammoniaca!” urlò.
“Ma funziona. Come ti chiami carina?”
“Si chiama Daisy,” disse Emily raccontando rapidamente quello che stava accadendo.
“Giovani e intrepidi esploratori, dunque…”
Daisy provò ad alzarsi, scivolando nuovamente a terra.
“Giovani ma fragili…” si corresse madame Lamarr, pizzicando il braccio della ragazzina.
“Su, su, mia cara! Non può essere qualche boccone di cibo avariato a piegare una signorina come te! Le donne sono delle esperte in faccende di bocconi avariati. Lasciamo agli uomini la prerogativa di un sistema digerente delicato.”
“Signora, non mi sento bene per davvero…” disse a fatica Daisy, tenendosi il volto con le mani e sbirciando, fra le dita, la donna che aveva di fronte. Le piacque subito l’aspetto curato, il colore dei capelli raccolti in una minuscola coda e, anche se non riusciva a fissarli bene, gli occhi.
“Anche i tuoi compagni sono in queste condizioni?”
“Sì, signora.”
“Mi chiamo Hedy Lamarr, mia cara, e immaginando che Hedy per te sarebbe troppo confidenziale, puoi chiamarmi madame Lamarr…”
“Va bene, madame Lamarr…”
“Senti, chiederò di ospitarvi sino a quando non vi sarete rimessi in buono stato. Non mancano certo i letti, qui.”
Madame Lamarr fece accompagnare Daisy in una stanza e andò a far visita agli altri ammalati, trovandoli comodamente distesi sulle poltrone della veranda.
“State tranquilli giovanotti, ci stiamo occupando di Daisy. Voi, però, mi sembrate meno malati di lei. Di solito i maschi mangiano assai più delle ragazze. Come lo spiegate?”
“Io sto malissimo, signora…” disse rantolando Peter.
“Stiamo tutti male,” aggiunse Red e si massaggiò la pancia.
“E noi vi cureremo.”
Madame Lamarr li osservò uno a uno.
“A proposito… bisognerà avvisare le vostre famiglie. Volete che mi occupi della faccenda?”
“Se posso telefonare, lo farò io. Chiamerò i miei e loro si occuperanno di avvertire gli altri genitori,” disse Red.
“Va bene. Nello studio c’è il telefono. Sembri il più grande. Come ti chiami?”
“Red Wolf, signora…”
“Un nome che si ricorda facilmente, caro.”