Melchiorre aveva ricevuto l’incarico di alloggiare i ragazzi. Greenway, notando la sua perplessità, lo aveva rassicurato. “Domattina valuteremo le loro condizioni e se staranno bene li accompagneremo al traghetto.”
Melchiorre aveva trasportato quattro materassi, lenzuola e coperte in una stanza vuota, alla fine del corridoio al secondo piano. Non c’erano camere singole per altri sei ospiti. Pensò che, delle uniche due stanze ancora disponibili, una spettasse alla ragazza e l’altra al ragazzino dall’aspetto emaciato. Gli altri quattro gli erano sembrati non solo più robusti, ma in condizioni discrete e a quell’età dormire su un materasso è più che sufficiente.
Prima di tornare ai suoi consueti impegni volle sincerarsi delle condizioni della ragazza. Trovò la porta della camera lievemente socchiusa. Melchiorre ebbe un attimo di esitazione. Sbirciò attraverso la fessura. Gli sembrò che la ragazza, pur di spalle, lo vedesse. Provò un certo turbamento e balzò all’indietro, spaventato.
Greenway era dovuto correre al farfallario, era quasi il momento di spostare una nidiata di crisalidi di Graellsia isabellae nelle apposite gabbie. Molte crisalidi erano oramai pronte per lo sfarfallamento e di lì a qualche giorno avrebbe potuto liberare una grande quantità di lepidotteri. Il conteggio di quelle trasformazioni, che annotava scrupolosamente, lo inebriava. Non era un’aritmetica stringente, ma mutevole. Talvolta, da ogni singolo uovo nasceva un bruco e da ogni singola crisalide un lepidottero che spiccava, esitante, il volo. Accadeva anche che nefasti influssi guastassero quell’alchimia di vita e le crisalidi rimanessero silenziose e immobili finendo, tra lo sconforto, nel cumulo dei rifiuti.
Greenway doveva anche irrorare di acqua tiepida i grossi bozzoli delle farfalle cometa, che teneva religiosamente in una sorta di incubatrice. Era uno dei suoi acquisti più costosi, e aspettava con trepidazione il momento in cui le lunghe code del lepidottero avrebbero fluttuato sotto le volte del farfallario. Si fermò un istante e pensò che, di tutte le cose realizzate durante la sua esistenza, questa era la più preziosa.
Terminati i controlli e le operazioni necessarie, andò negli orti, dove si unì al signor Boyle, al signor Darwin, al signor Flood e al signor Stones, informandoli dell’arrivo dei giovani e inaspettati ospiti, auspicando che tutto si sarebbe risolto al più presto e li avvisò che finalmente era giunto il signor Syd, una persona speciale.
“Per la verità siete tutti speciali,” aggiunse.
I ragazzi, entrando nel salone dove si cenava e dove era stato preparato un tavolo per loro non lontano da quello degli ospiti, rimasero a fissare la scritta sulla bacheca della sala da pranzo: “Incerto il tempo, incerto il luogo.”
Emily li fece accomodare annunciando che aveva preparato del brodo di coniglio e vi aveva cotto un poco di riso che aveva poi tolto.
“Solo brodo?” chiese Saul.
“Una pietanza leggera per pance sottosopra,” annuì Emily.
Saul sentì una stretta allo stomaco, l’incubo della carestia che lo ghermiva senza pietà.
Lo sguardo gli fuggì verso il tavolo degli ospiti e vide Melchiorre che stava servendo tortini di miglio e avena, patate al forno e dorate mele cotte. A Saul sembrò, mentre si specchiava tristemente nel piatto, che gli anziani ingoiassero tonnellate di pietanze e, a un certo punto, il rumore della masticazione fu per lui così assordante che non seppe trattenere un urlo. Tutti si voltarono a guardarlo.
“Una fitta fortissima…” si scusò.
“Dove, caro?” chiese madame Lamarr, con un cucchiaio colmo di miglio soavemente sospeso nell’aria.
“Alla pancia, signora…”
“Guarirai, caro.”
Mangiando, pensò Saul, ma non ebbe il coraggio di pronunciarlo ad alta voce.
Peter, che aveva terminato il pasto prima di tutti, s’era alzato e aveva iniziato a camminare traballando.
Era una delle sue imitazioni preferite e, attirata l’attenzione degli ospiti, aveva fatto partire, come fuochi d’artificio, sberleffi e rotazioni degli occhi, movimenti delle orecchie e spasmi del corpo che parevano gli effetti di una vigorosa scarica elettrica.
“Peter!” lo redarguì Red.
Invece al tavolo degli ospiti s’era acceso qualche sorriso, madame Lamarr e il signor Stones parevano apprezzare, e il signor Flood si alzò, attratto dallo spettacolo, avanzò in punta di piedi e si piantò di fronte a Peter che aveva i capelli spettinati e i bei brufoli in ottima salute.
“Ti chiamo io o mi chiami tu?” chiese il signor Flood.
“Se lei chiama, io rispondo,” disse Peter.
Anche Imre si avvicinò ridendo.
“E tu, come ti chiami?” gli chiese Flood.
“Io preferisco rispondere, signore,” disse Imre.
“Rispondo è un nome bellissimo!” urlò Flood.
“Sono d’accordo, signore. E lei, come si chiama?” chiese Imre, davvero divertito.
“Mi sono dato un nome piuttosto lungo: Non tutti quelli che partono per l’India sbarcano in America.”
“E dentro a questa confusione, signore, qual è davvero il suo nome?” chiese ancora Imre.
Flood si rizzò, si scosse, come se vedesse all’improvviso cose inaspettate.
“Bravo,” disse in tutta sincerità e andò a stringergli la mano.
Greenway colse l’occasione per fare le presentazioni formali: nominò ciascuno degli ospiti e alla fine presentò anche se stesso, definendosi un apprendista ortolano.
Nel sentire che si trattava del dottor William Greenway in persona, un brivido corse tra i ragazzi e soprattutto Red ricordò le parole del signor Cricket: aveva di fronte l’uomo che allevava farfalle, il proprietario di quella zecca magica che liberava nell’aria colori e antenne a suo piacimento, un re, un imperatore addirittura. Provò una certa soggezione.
I ragazzi, al termine della cena, si trovarono circondati dagli ospiti e sottoposti a una serrata sequela di domande, non solo sul luogo di provenienza e sui loro rapporti di amicizia ma soprattutto sulla famiglia.
Red rassicurò i presenti che era riuscito ad avvisare i genitori e attraverso questi le altre famiglie.
“I vostri genitori non staranno in pensiero?”
“No, non credo.”
“Come mai? I genitori stanno sempre in pensiero per i loro figli.”
“I nostri…” Red si zittì.
“I vostri?” insistette il signor Boyle.
“Be’, ci lasciano molta libertà,” provò a correggere Peter.
“Di cosa si occupano i vostri genitori?” chiese Greenway.
Vi fu un rapido sguardo d’intesa tra i ragazzi.
“Mio padre è un chirurgo,” disse Red e pareva davvero orgoglioso della cosa.
“Mia madre è una scrittrice,” aggiunse Daisy e madame Lamarr fece un sorriso di approvazione.
“Be’, mio padre ha aperto un pub alle Azzorre e parla il portoghese,” disse Peter.
“Mio padre è un ingegnere e anche mia madre, ma mio nonno ha fatto la guerra in Indocina e raccontava un sacco di bugie.” Ebony si mise la mano sulla bocca, quell’ultima cosa non avrebbe dovuto dirla davanti a delle persone anziane.
Saul si sentiva in imbarazzo, suo padre si occupava di traslochi e sua madre gestiva una piccola agenzia di pulizie che poi era lo stesso lavoro, suo padre portava via i mobili e sua madre dopo puliva i locali.
“La mia famiglia è nell’edilizia. Ristrutturazioni,” disse Saul con convinzione.
Solo Imre era rimasto in silenzio. Non aveva voglia di raccontare che sua sorella girava hamburger da un lato e poi dall’altro, affettava cipolle e metteva insalata nei piatti, anche se lo faceva con una certa grazia.
“Comunque, domani mattina ce ne andremo…” disse Daisy.
“Cara, solo se ti sentirai bene!” E madame Lamarr si alzò per andarle incontro.
“Mi rimetterò di sicuro, madame.”
“Volete fare due passi prima di andare a letto?” chiese Greenway.
Gli ospiti li seguirono sino alla veranda. Videro i ragazzi uscire e li osservarono camminare sul prato e fermarsi di fronte alla schiera di grandi alberi che segnava la direzione del bosco. Li videro parlare, avvicinarsi, separarsi e sentirono frammenti di parole. Il piccolo grido di qualcuno che era finito su una ragnatela.
Li videro guardare il cielo che imbruniva, bucato dalla luna e mescolato da voli di uccelli silenziosi.
Melchiorre, a un cenno di Greenway, accompagnò i ragazzi nelle camere da letto. Gli ospiti rimasero, muti, a osservare il piccolo manipolo che si ritirava.
Sulla porta della sala da pranzo apparve il signor Syd.
Indossava abiti sportivi, pantaloni stretti, scarpe da ginnastica e un pullover blu, gonfio, da marinaio. I presenti compresero, senza bisogno di una parola, quale malattia corrodesse il suo corpo.
“Potrei anche ballare…” disse. “Naturalmente non è vero,” aggiunse subito, “ma cosa non farebbe un bruco per suscitare benevolenza in una farfalla,” e così dicendo si avvicinò a madame Lamarr e le baciò la mano.
Lei colse l’occhio lucido e vivo, i colori dell’iride brillanti.
“Be’, non sono giovane come sembro. Conto oramai ventitré anni. Pensate che volevo diventare un giocatore di rugby. Invece mi sono ritrovato a soffrire di progeria, così si vuole chiamare quest’avventura. Semplificando, per non annoiarvi, si tratta di un orologio che sovverte tutti i fusi orari del mio corpo. Ho cercato di vivere allegramente e, tuttavia, sono ingrigito, incartapecorito, il respiro non mi sostiene, il cuore mi abbandona, i ricordi mi tradiscono. Sento già di bussare alle porte dell’aldilà…”
“Anche noi proviamo questa sensazione!” esclamò il signor Boyle.
Syd si girò attorno, scrutando il tavolo lasciato vuoto dai ragazzi.
“Mi sono perso la festa?” chiese.
“I ragazzi?” chiese prudente madame Lamarr.
“Mocciosi in transito,” disse Boyle.
“Ho pensato che fossero vostri parenti in visita.”
“Signor Syd, le sembriamo tipi da mocciosi?” Boyle pareva inorridito.
Syd sorrise.
“Magari sono simpatici…” e alzò il bicchiere decorato dove, ogni sera, gli ospiti sorseggiavano i distillati che Greenway scovava nell’isola.
“Alla simpatia!” disse Syd.