Al signor Greenway non era sfuggito come, durante la cena, tra i due tavoli fosse passata della corrente elettrica.
Certo, gli era sembrato di sentire i bisbigli del signor Boyle che provava a esorcizzare la stessa parola “ragazzini” o quelli del signor Darwin che sicuramente aveva trovato dozzinali le loro felpe e i giubbotti. Ma, nel complesso, gli sembrava di poter affermare che si erano piaciuti. Non sapeva dire se potesse essere una faccenda positiva o negativa. Se turbasse o se rasserenasse. Non aveva mai avuto quel tipo di esperienza, né gli era mai passata per la mente l’idea di mescolare i primi mesi dell’anno e le ultime righe del calendario.
Si affacciò dall’abbaino, respirando l’aria, una miscela che mutava nei giorni, vortici di pollini, fioriture, battiti d’ala, tempeste marine, foglie decomposte.
“Miscugli, come le vite di tutti noi,” pensò.
I ragazzi aspettarono che il silenzio avvolgesse la Villa. Un silenzio ricamato di ticchettii, piccoli scrocchi e grida di uccelli che filtravano dal bosco sino all’edificio.
Con molta circospezione si radunarono tutti nella stanza con i quattro materassi, scivolando come fantasmi lungo i corridoi. Le due stanze singole erano state occupate da Daisy e da Ebony che aveva fatto sloggiare Imre con la scusa che nel sonno urlava, invece era preoccupato che qualcuno potesse frugare nello zaino, dove teneva la pistola di nonno Pesce Gatto. Quando erano al molo, prima di imbarcarsi sul traghetto, aveva avuto l’impulso di lanciarla nell’acqua scura, così che finisse in fondo al mare, le correnti l’avrebbero poi consegnata al grande Baffi Bianchi che sapeva cosa farsene di quella pistola magica.
Erano riusciti a entrare, il trucco di Red aveva funzionato, ma Ebony e Peter erano convinti che i vecchi non l’avessero bevuta.
“Ci studiano!” dissero.
“Sciocchi non sono…” convenne Daisy.
“Avete visto che musi,” disse Saul. “Sembrano tutti degli avvocati.”
“Uno è vestito da matrimonio,” commentò Peter. “Mi preoccupa solamente quel Melchiorre,” aggiunse.
“Chissà che ci faranno qui,” borbottava Imre.
“Saranno in vacanza,” disse Red.
“Beati loro. Però, Red, come facciamo a rimanere? Hai un piano?” chiese Saul.
Rimasero in silenzio.
Poi Peter sbottò: “Li costringiamo a tenerci!”
“E come?” chiese Imre.
“Li obblighiamo, diciamo che se non ci tengono qui, noi…” disse Ebony.
“Noi cosa?” fece Red.
“Bruciamo la villa.”
“Mmm… che paura Ebony! Si spaventeranno di sicuro.”
Red scuoteva la testa, incredulo che uscissero tali balordaggini.
“Dobbiamo cercare di mostrarci gentili, facciamo loro compagnia. Divertiamoli,” disse Daisy come parlando tra sé e sé.
“Sì, ma per quanto?”
“Saul, un giorno o due. Il tempo di capire come rubare le farfalle. È per questo che siamo venuti qui. È questo l’obiettivo. D’accordo gente?” disse Red.
Tutti annuirono.
“Però la togliamo quella scritta?” chiese Peter.
“Quale?” chiese Red.
“Quella che c’è sulla bacheca in sala da pranzo: ‘Incerto il tempo, incerto il luogo.’ È bruttissima. Che significa?”
“Secondo te?” gli chiese Daisy.
“Che non si sa niente di niente.”
Daisy si stese su uno dei letti, guardava il soffitto e tutti guardarono Daisy e tutti annuirono quando lei pronunciò: “È un paradiso.”
Poi disse: “Andiamo a vedere com’è la notte qui.”
Sfilarono in punta di piedi, Saul si sforzò di non fare troppo rumore.
In fila indiana uscirono dalla porta, si fermarono alcuni istanti nella veranda a osservare il buio. La notte vera, non i neon, i lampioni sdentati, i fari delle macchine, le mille minutissime frazioni di notte di ogni casa, ogni locale, ogni strada, ogni piazza, non gli ultimi autobus, gli ubriachi, i solitari, i gatti randagi, l’insonnia e poi la sveglia. Lì era un’unica, immensa notte.
Scesero con prudenza la scalinata, a ogni passo gli occhi si abituavano e già scorgevano gli alberi, la superficie del prato e, in alto, le stelle.
“Le stelle!” esclamò Ebony, girando su se stesso sino a cadere sull’erba.
Esploravano, ciascuno aveva una sua bussola, una sua confidenza con l’oscurità. Red si spinse sino al limitare del bosco, avrebbe voluto esplorare più a fondo ma il luogo gli appariva troppo complicato rispetto alle piazze e alle strade cui era abituato.
Peter rimase seduto su una delle panchine. Osservava gli altri, ricamava storie di fantasmi, agguati, si sentiva elettrizzato.
Saul vide che i salici nel prato non svettavano come le querce al limitare del bosco. Anzi, uno appariva piegato quasi che le fronde pesassero più delle sue radici e il ragazzo, contento, si appoggiò al tronco e si mise a spingere. Sentì che il tronco, elastico, rispondeva, si erano capiti al volo. Saul spinse con tutte le sue forze facendolo ondeggiare.
Daisy si inoltrò assieme a Imre lungo il viottolo e gli altri, quando si accorsero che i due si allontanavano, li seguirono.
Le siepi erano barriere odorose e come le pareti di un labirinto spingevano i ragazzi in una specifica direzione. Imre scorse sulla sinistra un altro viottolo, e vi si addentrarono, scoprendo che conduceva a un’abitazione molto più piccola della villa.
“Fermi. Prudenza,” disse Red e fece cenno di tornare indietro.
Da un angolo del prato individuarono una luminescenza, pareva una candela sospesa in un volume d’aria e la videro innalzarsi, lentamente, ondeggiando, salire e salire, una stella di terra che tornava nel cielo.
“Via! Via! Si torna!” intimò Red, non volendo rischiare che qualcuno si accorgesse della loro uscita.
I movimenti dei ragazzi non erano però sfuggiti agli insonni della Villa.
Madame Lamarr li aveva intravisti sbirciando attraverso la porta della sua camera. “Stanno assieme, come tutti i mammiferi giovani,” aveva pensato. “Si scaldano, comunicano, si rasserenano l’un l’altro. Bella cosa,” e s’era stesa sul letto ascoltando ancora, immaginando le parole dei ragazzi e ricordando le sue parole da ragazza, a scuola, in famiglia, nelle strade.
Il signor Darwin aveva percepito scricchiolii provenire dai corridoi, aveva spento il lume, s’era infilato la vestaglia e, socchiusa la porta, aveva visto sfilare i ragazzi. Doveva trattarsi di una riunione clandestina! Ma la cosa non lo preoccupava. Quei marmocchi non lo infastidivano, non avrebbero assistito alla sua morte perché sentiva da giorni una certa vigoria e contava di rimanere sulla circonferenza del pianeta per qualche mese ancora e a quel punto loro se ne sarebbero già andati, tornando alle loro famiglie, ai giochi, alla densa illusione del tempo.
Greenway bussò con tocco lieve alla porta di madame Lamarr, sapeva che l’avrebbe trovata ancora sveglia. La donna era seduta allo scrittoio, debolmente illuminato. Fece cenno all’uomo di accomodarsi sul letto.
“Cosa ne pensa?” bisbigliò Greenway.
“Bene, penso bene,” disse.
“Non crede possano essere una fonte di disturbo?”
“E se anche fosse?”
Greenway comprese che non c’era nulla da aggiungere. Conosceva l’idea che madame Lamarr aveva della vita, la rappresentava come un volo e non come una strada. L’immagine della strada è illusoria, tende a suggerire che vi siano sentieri noti, mete precise, che ci si possa fermare a proprio piacimento al riparo di un albero o che si possa, a un tratto, salire sulle spalle di qualcuno. Il volo è una miscela di forza e leggerezza, è lo sguardo abbandonato nell’azzurro del cielo, è uno stato di grazia.
Madame Lamarr andò a sedersi accanto a Greenway. Sorrise debolmente.
“Proviamo a tenerli qui, per qualche giorno,” disse.
Greenway annuì.