“Dove sei stato stanotte?” chiese Daisy scuotendo Red che dormiva con la bocca aperta.
Lo dovette scuotere per bene prima che spalancasse gli occhi.
“Che ore sono?” biascicò.
“Non lo so. Ma penso che se vogliamo andare negli orti, dovremmo alzarci. Dove sei stato?”
Red si stropicciò gli occhi.
“Sono andato sino alle serre che abbiamo visto oltre gli orti. Ci ho girato attorno velocemente, ma stanotte, se vieni anche tu, entriamo e le perlustriamo per bene.”
Daisy annuì, poi svegliò gli altri.
Melchiorre si avvicinò alla zona coltivata, da dietro le siepi, sino a distinguere perfettamente la piccola masnada di ragazzi che, con badili e picconi, dissodava la terra.
Si agitavano, sulla porzione di terra semilavorata, come vespe inferocite, incitati dal più grande.
Gli venne, d’istinto, di redarguirli, ma pensò che spettasse al signor Greenway tirare le redini a quel branco indisciplinato.
Incontrò l’uomo davanti al farfallario.
“I ragazzi sono negli orti di mattina presto!” gridò.
Greenway gli fece cenno di calmarsi.
“Stanno lavorando?”
“Direi che stanno producendo una gran confusione.”
Greenway esclamò “bene”, lo rafforzò con un “molto bene” che lasciò Melchiorre perplesso. L’uomo rimase imbambolato a guardare Greenway che, a passo veloce, si recava agli appezzamenti.
Greenway spiò il Gruppo da lontano.
Quando lo videro, i ragazzi si immobilizzarono, un piccone rimase a mezz’aria e un badile piantato nella terra.
“Prima di lavorare si deve mangiare,” disse e fece cenno che lo seguissero.
“Volevamo aiutarvi, per sdebitarci dell’ospitalità,” gli confidò Red che gli si era affiancato.
“Adesso fate colazione, poi torniamo negli orti e vi insegnerò cosa si può fare con la terra.”
Quando Syd si accorse dell’arrivo di Greenway con i ragazzi e li vide accomodarsi, pensò che era l’occasione per fare le presentazioni per bene. Si diresse verso la tavola dei ragazzi con passi infinitesimali, egli chiamava il suo incedere un calcolo infinitesimale; avanzava sorridendo e agitando una mano, e sembravano, entrambi, segnali di una gioventù frizzante. Si mise a sedere, scivolando lentamente e appoggiando, come due puntelli, i gomiti sul tavolo.
“La mia vita,” esordì, “la dividerei in due momenti: in attesa della pelle rattrappita e dopo la pelle rattrappita.”
Si accorse, dallo sguardo dei ragazzi, che già li stava spaventando, che rischiava di presentare la vita come un’insidiosa trappola, come se una tale trappola potesse essere dentro ciascuno.
“Però mi sono divertito un sacco! Partecipavo a gare di poesia e letteratura, avevo l’aspetto di un uomo molto maturo, eppure i miei versi e le mie novelle era giudicati freschi come quelli di un ragazzo. Battevo vecchi campioni di scacchi perché avevo più resistenza di loro e una creatività ancora potente. Nelle gare di corsa campestre dei circoli ricreativi per anziani stracciavo ogni concorrente.”
“Davvero?” esclamarono in coro.
“Avreste dovuto vedere la faccia di quei vecchi con la lingua penzoloni e le giunture dolenti che mi vedevano, tutto rugoso, sfrecciare come una lumaca ventenne. In effetti avevo sedici anni, ma non andavo certo a raccontarlo in giro!”
“Allora tutti l’ammiravano…”
“Be’, non so se dovrei dirlo…”
“Che cosa? Che cosa?”
Syd sorrise a Daisy e rimase a fissarla.
“In confidenza: ho avuto molte fidanzate, sapete? Le donne non si aspettano che un vecchietto balli e reciti poesie e sia tanto divertente. Credono, quando accade, che abbia una misteriosa forza vitale. Sì, mi sono divertito. Almeno sino al mio ventesimo compleanno…”
“E poi?”
“Poi s’invecchia, per davvero.”
Un “oooohhh” di delusione esplose da tutti i ragazzi.
“Però so suonare la chitarra e questa sera vi stupirò!” disse Syd ridendo.
Terminata la colazione, Greenway si intrattenne un istante con madame Lamarr.
“Allora d’accordo? Lei aprirà le danze.”
“Certo.”
“Funzionerà.”
Greenway accompagnò i ragazzi sul prato, iniziando a spiegare come fossero stati progettati la Villa e il suo giardino.
Raccontò di sir Attlee e fu sincero, menzionò anche l’incidente accaduto alla figlia e la tragica fine del vecchio proprietario. Voleva dare l’idea di una storia complicata dalla quale era scaturita una cosa molto bella.
Ebony, sentendo dell’annegamento di sir Attlee, immaginò che probabilmente la villa era quella di cui parlava nonno Pesce Gatto e avrebbe voluto chiedere se sir Attlee venisse chiamato il Re, ma Greenway già parlava di alberi, piantati in decine di anni, una grande famiglia di piante, una sorta di esperimento di amicizie e di convivenze.
“Tra piante?” chiese incredulo Red.
“Le piante hanno proprietà incredibili…”
“Magiche?” chiese Peter.
“Più che magiche. Parlano, sentono, comunicano. Certo non come noi.”
“E come?” chiesero i ragazzi sempre più increduli.
“Senza suoni, senza parole, senza bisogno di un cervello.”
Greenway vide l’aria confusa dei ragazzi, non era facile guardare alle piante con occhi diversi.
“Io conosco un gioco facile!” si intromise madame Lamarr prima che la discussione si facesse troppo complicata.
Era un gioco d’un tempo, dei secoli nei secoli, necessitava di uno straccio colorato, tenuto da una persona, e di due squadre, schierate a distanza l’una di fronte all’altra, capaci di correre, afferrare quella piccola bandiera per primi e portarla con sé evitando di essere acciuffati dai rivali.
“Semplice, vero?” poi madame Lamarr fissò i suoi compagni e immaginò che correre fosse una parola pretenziosa.
“Squadre miste,” propose Red che aveva colto lo scopo di quella proposta.
“Nemmeno per sogno!” rispose Boyle e illustrò una modifica al gioco che aveva una sua logica e consisteva nello stabilire, tra la squadra degli ospiti e quella dei ragazzi, una diversa distanza rispetto alla persona che teneva lo straccio. “Noi vecchi,” continuò Boyle, “ci metteremo a una distanza pari a metà di quella a cui vi metterete voi,” e così dicendo puntò con il dito i ragazzi, uno a uno.
“Perché?” chiese Ebony.
“Perché voi siete più giovani, avete più tempo e più spazio a disposizione rispetto a noi. È giusto che vi venga riconosciuto.”
“Ma così sarete avvantaggiati!” esclamò Peter.
“Certo, perché non siamo realmente sulla stessa linea di partenza. Noi stiamo già arrivando alla meta e dovete prenderne atto.”
I ragazzi trovavano il ragionamento di Boyle astruso, ma Red disse che andava bene e tutti lo seguirono.
Emily si posizionò con uno straccio da cucina, giallo vivo, nel bel mezzo del prato.
Melchiorre aveva segnalato, con dei bastoni, la linea lungo cui posizionare gli ospiti e, più lontana rispetto a Emily, quella per i ragazzi.
Ogni componente della squadra era indicato con un numero progressivo: al numero uno c’era Madame Lamarr che aveva di fronte Daisy, poi Boyle ed Ebony, Red e Stones, Peter e Flood, Darwin e Saul, Syd e Imre. A Imre tremavano le gambe.
All’ultimo istante, mentre Emily già sollevava lo straccio e stava per chiamare un numero, si misero in gioco anche Melchiorre con i ragazzi e Greenway con gli ospiti.
Melchiorre vinse tutti i confronti con Greenway, madame Lamarr stracciò Daisy tre volte su quattro, Red lasciò Stones afferrare lo straccio ma lo acciuffò sempre prima che tornasse alla base, Boyle pareggiò con Ebony, Darwin e Saul rimasero a studiarsi più di quanto si dovesse, Imre imparò che Syd correva piano ma aveva riflessi eccellenti, perse due confronti per paura e due li vinse perché capì che la paura fa perdere.
Quando tutto si arrestò, le due squadre rimasero distese sul prato. A riprendere fiato. Emily arrivò con due caraffe d’acqua fresca.
“E adesso agli orti,” disse poi Greenway.
Red, nel gruppo che procedeva verso gli orti, si affiancò a Ebony.
“Allora posso contarci? Il signor Boyle è tuo?” bisbigliò.
Ebony annuì. In silenzio, comparava l’aspetto del signor Boyle a nonno Pesce Gatto. Si somigliavano: ruvidi, diretti e la stessa barba bianca, il cappello, il passo lento, quasi pensato. Nonno Pesce Gatto era un poco più piccolo, le braccia più lunghe, ma lo stesso portamento ritto. “Guardano il mondo negli occhi. Ci sputano, sulla morte,” aveva pensato Ebony.
Red aveva distribuito i compiti: Daisy avrebbe tallonato madame Lamarr, Saul il signor Darwin, Peter il signor Stones e Imre il signor Flood. Lui avrebbe tenuto per sé il capo, Greenway.
Syd non si era unito a loro, le forze svuotate dal gioco.
Giunti agli orti i ragazzi seguirono gli ospiti lungo le aiuole coltivate, Flood corse al magazzino degli attrezzi e ne uscì con un fascio di zappe e rastrelli, giusto in tempo per vedere Greenway che impartiva ordini.
Boyle rimase immobile, ignorando la situazione. Fu Ebony ad avvicinarsi, si scambiarono qualche parola e l’uomo si allontanò verso il suo appezzamento seguito dal ragazzo.
Red rimase da solo, perché Melchiorre chiamò a gran voce Greenway per qualcosa che stava accadendo nelle serre.
“In cosa la posso aiutare?” chiese Ebony a Boyle.
“Cosa sai fare ragazzo?”
“Niente, signore. Ma so farlo bene.”
Boyle, che dava le spalle a Ebony, si voltò, incuriosito.
“Non ti credo.”
“È così, signore. Nessuno sa stare disteso sul divano come il sottoscritto e quando nonno Pesce Gatto era in vita, passavamo delle ore a non fare niente. Tranne guardare fotografie.”
“Di che tipo?”
“Pietre, signore. Nonno Pesce Gatto adorava le storie e le pietre.”
Boyle si tolse il cappello, si grattò lentamente la testa, poi guardò la sua aiuola coltivata.
“Lo sai che nelle mitologie giapponesi il pesce gatto è Namazu, colui che provoca i terremoti?”
“Non lo sapevo, signore. Ma nonno Pesce Gatto era proprio così, un terremoto.”
“Senti Ebony, vorrei capire perché siete venuti e vorrei che tu fossi sincero con me.”
Ebony esitò, si abbassò a strappare una pianta.
“Quella è una bieta! Si mangia!” gridò Boyle.
“Pensavo fosse un’erbaccia. Siamo venuti a imparare, signor Boyle…”
L’uomo si voltò sentendo uno strepito.
I ragazzi stavano inseguendo una fitta nuvola di lepidotteri azzurri e arancioni che ondeggiava sopra gli orti in direzione del prato. Il più eccitato alla vista delle farfalle era Peter, tanto da chiudere maldestramente le dita soffocando alcuni di quei piccoli corpi. Provò ad agitare le mani per allontanare la polvere e le scaglie che gli coloravano la pelle.
“Le uccidi !” gridò Ebony.
“Non è vero! È stato uno sbaglio!”
“Uccidi le farfalle!”
I lepidotteri si sollevarono defilandosi tra le piante del bosco.
Greenway li aveva liberati pochi minuti prima. La schiusa delle farfalle, il primo volo libero lo commuovevano sempre e le reazioni eccitate dei ragazzi non lo lasciavano certo indifferente.
Riprese in mano la situazione. Con i ragazzi e gli ospiti passò in rassegna le aiuole coltivate facendo rincalzare le piante, togliere le malerbe, legare certi tralci di pomodoro troppo carichi.
Lungo un lato del rettangolo stavano, in cumuli, gli ammendanti. Greenway elencò argille chiare e sottili, sabbie quarzose, calcari, humus odoroso e compatto. C’erano terre vulcaniche e depositi abbandonati nelle anse dei fiumi birmani; un cumulo rosso era formato da ossidi di ferro e accanto sottili ghiaie bianche e nere. Il terriccio estratto dalle cavità di alberi secolari, formatosi per il lento decomporsi del legno triturato dagli insetti, appariva scuro e lucente e confinava con zolle di torba e paglie per proteggere e scaldare; c’erano cortecce macinate, gusci di conchiglie, ossa di vacca calcificate col fuoco e sbriciolate sino a farne una polvere grigio-rosata.
“Potrete mescolare la vostra terra in assoluta libertà. Come alchimisti o pittori,” disse Greenway e vide i ragazzi apprezzare quelle indicazioni.
Con una certa precisione tirarono dei fili delimitando aiuole diritte e con dei bastoni ne fissarono la larghezza. Poi Greenway afferrò un badile e cominciò a dissodare, con forza e precisione.
A Red non sembrò difficile e Saul sorrideva, convinto che fosse un lavoro perfettamente adatto alla sua struttura fisica. Entrambi presero una vanga e si misero all’opera. Imre batteva le mani assieme al signor Flood e presto si unirono anche Peter ed Ebony, ciascuno dedicandosi a un’aiuola, in una sorta di gara a chi avanzasse con maggior velocità.
Greenway li richiamò alla calma e alla precisione.
“Dissodare non è un’azione militare, ma un concerto per violini,” disse.
Madame Lamarr, galvanizzata, si fece portare un rastrello per sé e uno per Daisy e invitò la ragazza a picchiettare la terra appena vangata, in modo che si frantumasse ulteriormente.
Saul sudava, anche Peter sudava e Red non mollava, benché le braccia gli facessero male.
Flood suonava i fili tesi come se fossero corde di chitarra e Imre cercava di imitarlo sino a quando l’uomo non lo trascinò in una discussione sulle limacce e sugli algoritmi per calcolarne la crescita tra una fase lunare e l’altra. Fu a quel punto che Imre allargò le braccia, arrendendosi.
Quando sembrò si fosse fatto un buon lavoro, Greenway invitò tutti a rientrare alla Villa.
Camminando, Boyle estrasse dalla tasca una mela.
“Il medico mi ha detto di mangiare molte mele,” disse a Ebony che lo affiancava.
“Sta male, signor Boyle?”
E cosa avrebbe dovuto rispondere Boyle? Che sentiva il sangue fluire lento tra le anse del corpo? Che si sentiva un fiume stanco, che in passato aveva eroso argini, divelto ponti, trasportato sino al mare bei sogni e incubi e ora s’impaludava tra acquitrini e canneti? Sentì l’impulso, dannato, di confidarsi. Con un moccioso!
“Morirò, fra non molto. Ma per adesso sto bene come un vecchio che sta male,” rispose.
“Anche mio nonno è stato male. Gli hanno bucato l’anima…”
“Che significa?”
“Gli hanno infilato un catetere, signore. Io ero lì. E dopo è morto.”
“E tu credi che sia stata colpa del catetere?” chiese Boyle un po’ addolcito.
“Mi viene da pensarlo. È vero che il catetere l’hanno infilato attraverso il pisello, signore, però da lì si arriva all’anima.”
Boyle sorrise.
“È stata… una faccenda, come dire, dolorosa?”
“Non saprei, signore. Nonno Pesce Gatto non ha avuto modo di raccontarmelo.”
“Hai idea di cosa sia la morte? Di dove sia andato tuo nonno?” chiese Boyle.
Ebony strinse le spalle, piegò appena il capo.
“Io me lo vedo correre nel fondo del mare, signore.”
Poi Ebony trovò il coraggio.
“E lei signor Boyle, dove andrà dopo morto?”
“Starò qui, da qualche parte.”
Si guardarono. Ecco cos’era la confidenza, pensò Boyle: quel guardarsi. Provò uno strano senso di commozione.
Daisy e madame Lamarr chiacchieravano fittamente.
“Gli adulti ci trattano quasi come se fossimo dei bruchi famelici…” aveva detto Daisy e madame Lamarr l’aveva osservata a lungo cercando di capire da quale profondità la ragazza avesse estratto quella riflessione.
“In un certo senso lo siete…”
“Se fosse così, voi sareste le farfalle…”
“Ed è un paradosso. Giungere alla forma più splendente della propria esistenza e abbandonare il mondo…”
“Lei teme la morte?”
“Per me sarà come volare sulle ali di una farfalla…”
“Che cosa intende dire?”
“Non tutte le cose si possono spiegare a una ragazzina.”
“Ho dodici anni e mezzo!”
“Ti sei mai innamorata?” chiese madame Lamarr con un improvviso tono di complicità.
Daisy spalancò gli occhi.
“Perché me lo chiede?”
“Così. Guardavo Red, è un bel ragazzino. Ha carattere. È pieno di energia. Secondo me tu gli piaci.”
Daisy ebbe un piccolo rossore.
“Non credo.”
Madame Lamarr sorrise.
“Innamorarsi è una bella cosa. Certo non è una passeggiata in discesa. Il mondo è complicato.”
“Credo sia così.”
“E non ti preoccupa?”
“Io lo migliorerò.”
Madame Lamarr provò un moto di orgoglio per quel proclama, bisogna sempre credere nelle possibilità di migliorare. Lei aveva poi imparato che si è spesso molto imprecisi nell’identificare ciò che davvero può cambiare, la vita è anche un poligono di tiro dove conviene allenarsi con costanza.
“Ci sono molte rose nel giardino e stanno sfiorendo. Con i petali si possono comporre delle figure o dei ritratti di volti. È un peccato che i petali vadano perduti. Mi aiuteresti? Vorrei provare a ritrarre il signor Flood.”
“È una cosa da donne?” chiese Daisy.
“Sì, una cosa da donne con un animo artistico. Da farfalle. Ti piacciono le farfalle?”
“Abbastanza,” rispose prudentemente la ragazza.
“Qui è pieno, le avrai viste di sicuro. Io le adoro tutte.”
“Anche a me non dispiacciono,” disse con maggior convinzione Daisy.
“La conosci la Idea malabarica? È una farfalla che potrebbe assomigliarti, mia cara.”
“Perché?”
“È una farfalla indiana. Grande come la mano di un uomo. Le ali sono bianche con dei disegni scuri, come tracciati con la china da un artista, le attribuiscono una grande eleganza, si muove come gli alianti, sorretta dolcemente dall’aria. Ma, attenzione, se un predatore la ingerisse sarebbe una sventura: la Idea sa difendersi con le tossine del suo corpo.”
“Mi ritiene velenosa?” reagì Daisy.
“No, solo una ragazza che sa difendersi. Ma anche una che sa prendersi cura degli altri.”
La cena fu deliziosa, come sempre. Emily era davvero la regina del cibo. Le tavole erano prati coloriti e profumati.
Syd, come aveva promesso, era sceso dalla stanza portando una chitarra sottobraccio. L’aveva appoggiata alla sedia e i ragazzi, per tutta la cena, non avevano smesso di guardarla. Quando ogni posata venne riposta, Syd trascinò una sedia in mezzo alla stanza, si accomodò e impugnò lo strumento. Guardò Imre.
“Sai tenere il tempo?” gli chiese.
Imre scosse le spalle, non sapeva cosa significasse quella richiesta.
“Signora Emily, in cucina ci sono uno scatolone e due mestoli?” chiese Syd.
La donna annuì.
Syd mostrò a Imre come battere sullo scatolone, seguendo una sequenza, lieve ma continua. Agli altri ragazzi insegnò a battere le mani, sempre secondo un ritmo. Erano tutti galvanizzati.
Boyle arricciava il naso, ma tutti gli ospiti erano visibilmente coinvolti. Il signor Darwin si era affiancato a Emily e le cingeva le spalle.
Syd suonò una ballata e aveva anche una bella voce, una ballata di stelle marine e isole, di vele e vento, di donne e pistole, di vita e amore, di eroi come fantasmi e di velieri come domande. Quando il giovane vecchio ebbe terminato, mentre gli ospiti applaudivano imitati dai ragazzi, Imre continuò a battere con tocco leggero sullo scatolone, come se la sua mente seguisse quei colpi, come se quei colpi fossero dei passi che lo stavano portando lontano.
Madame Lamarr si stese sul letto e provò a chiudere gli occhi, poi allungò la mano e accese l’abat-jour; poco dopo, il calore della lampadina iniziò a far ruotare delle figure che si proiettavano sulle pareti del muro. Un cavallo alato, una farfalla, la luna. Si trovò a pensare che non sarebbe finita, si sentiva bene e, allo stesso tempo, immaginò che le sarebbe piaciuto avere qualcuno che l’accompagnasse, una persona che la facesse traghettare chissà dove.
La ragazzina, Daisy, le sembrava perfetta come accompagnatrice. Non solo le era simpatica, pareva un tipetto straordinario, era una ragazza fiore, profumava di vita e di idee. Madame Lamarr sapeva riconoscere gli umani fuori scala, anche lei lo era stata. In cambio, poiché non si deve chiedere senza poter dare, avrebbe potuto raccontare a Daisy molte cose, persino cose utili, immaginò che ai giovani potessero piacere le cose utili, le pagliuzze d’oro scovate con il setaccio dell’esperienza.
Sentì bussare alla porta.
Greenway infilò la testa.
“Che ne pensa?” chiese.
“È stata una giornata meravigliosa,” disse la donna e sembrò un proclama di serenità.
Tornato nella sua stanza, Greenway estrasse lo stetoscopio dalla scrivania. Si avvicinò alla finestra e lo appoggiò al vetro. Il cuore immenso della notte.
Un battito lentissimo. Poteva sentire gli universi lontani, i vagiti stellari, lo stiracchiarsi del tronco delle querce, le lamine d’aria abbracciate.
Non si vive se non per sentire la vita?